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Autore: BlackSwan Whites    25/07/2018    2 recensioni
Anche Sherlock, per quanto sembri impossibile, si trova a dover fare i conti con i malanni stagionali. Per fortuna il suo coinquilino è un medico…
Piccola fic senza pretese nata da un sogno della mia mente malata, ambientata da qualche parte durante la seconda stagione. Possibili velati accenni di Johnlock.
Genere: Commedia, Generale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Influenza

 

«Non vedo come tutto questo possa essere colpa mia!» sbottò Sherlock, per poi cercare di trattenere l’ennesimo starnuto (con scarsi risultati). «Oh, nemmeno io» commentò sarcasticamente John, incrociando le braccia e guardandolo storto. «Forse avresti dovuto evitare quel bagno fuori programma nel lago». «Mi serviva un punto di vista diverso della situazione» ribatté l’altro, strofinandosi il naso che ancora gli pizzicava, «e poi se non mi fossi lanciato la polizia starebbe ancora cercando la borsa con la refurtiva. Come al solito, da bravi idioti, non hanno ragionato». «Ma Sherlock, siamo a metà febbraio! Doveva esserci un altro modo di raggiungere quel punto, anziché buttarsi in acqua!».

 La voce esasperata del medico venne seguita da un sonoro sbuffo da parte del malato di turno e da un risolino divertito di Mrs. Hudson, che arrivava in quella nella stanza con una fumante tazza di tè tra le mani. Non c’erano giri di parole possibili per descrivere quel folle ragazzo, pensò la donna. Le sue idee, per quanto geniali e corrette, un giorno o l’altro l’avrebbero messo nei guai; e guai seri, qualcosa di molto peggio di una semplice perquisizione per droga o di un arresto casuale. O, appunto, di un’influenza. «John ha perfettamente ragione, Sherlock, se proprio ci teneva a fare una nuotata poteva andare in piscina. Se non altro, sarebbe rimasto più al caldo!» commentò, sempre ridacchiando, mentre appoggiava il tè sul tavolino di fianco alla poltrona, ora adibita a “letto ospedaliero” a seguito del rifiuto categorico del diretto interessato di muoversi da lì (“spostarsi sarebbe faticoso” era stata la scusa).

«Anche lei, signora Hudson! Ma non avete proprio nulla di meglio da fare che continuare a farmi la predica?». Stavolta era stato proprio il detective a scaldarsi nei toni, solo per terminare in un accesso di tosse particolarmente intenso. A dirla tutta, la sua caduta nel lago non era stata intenzionale. La piattaforma dove i ladri avevano nascosto il cospicuo ricavato di una rapina in banca era ben celata agli occhi di tutti, certo, ma non era affatto difficile intuire la sua esistenza, né il modo in cui arrivarci: alcuni mattoni della parete a picco sullo specchio d’acqua erano particolarmente sporgenti e molto consunti, come se qualcuno ci avesse camminato sopra spesso (e infatti, stando alle informazioni in loro possesso, la banda che avevano incastrato era in attività da anni) usandoli come scala; da lì, un pannello mobile copriva l’accesso al vano che cercavano. Abbastanza ovvio, insomma. Quello che non aveva messo in conto, però, probabilmente a causa del nervoso causatogli dall’incapacità di Lestrade e compagnia di vedere l’evidente, era che l’umidità invernale aveva reso quegli stessi mattoni anche decisamente scivolosi, così quando era sceso in prima persona per dimostrare la veridicità delle sue parole era precipitato sotto gli occhi di tutti direttamente nel lago. Non era una grande altezza, ma l’impatto con l’acqua gelida non era stato per nulla piacevole. E ora che per una volta si trovava relegato in Baker Street non per sua scelta, ma per imposizione medica (e con Mrs. Hudson che pattugliava costantemente l’ingresso per controllare che non uscisse), l’unica domanda su cui la sua mente riusciva a focalizzarsi, dato che la febbre a più di trentanove gradi non aiutava la concentrazione, era perché si fosse sprecato ad aiutare la polizia per una stupidaggine del genere: non era stato un caso difficile, anzi, a dirla tutta non era neanche considerabile un caso, talmente si era rivelato banale.

«Allora è proprio vero che nulla è impossibile!». Una voce familiare gli rimbombò nelle orecchie tappate dal raffreddore, urtandogli i timpani, mentre una figura fin troppo conosciuta, che fino a pochi istanti prima era stata quasi il fulcro dei suoi pensieri, spuntò dalla porta dell’appartamento. «Tu che ci fai qui? Niente lavoro oggi, anche i criminali hanno rinunciato a darvi problemi che tanto non sapreste risolvere senza aiuto?» domandò acidamente, mentre l’ispettore entrava. «Ti piacerebbe» rispose quello, squadrandolo da capo a piedi. «No, mi sono preso un attimo per verificare se le voci che girano sono vere. L’infallibile Sherlock Holmes, miseramente sconfitto dall’influenza! Dev’essere dura ammalarsi per uno come te!».

«Io non sono malato! È solo un po’ di allergia che mi ha fatto otturare le vie respiratorie!» provò a sviare l’attenzione. Per qualche motivo, le parole di Lestrade gli giungevano come una velata presa in giro; oppure, peggio ancora, come un tentativo di compatirlo per la sua condizione avversa. «Oh, certo, allergia, come ho fatto a non arrivarci… Del resto siamo a metà febbraio, l’aria è satura di pollini» commentò sarcasticamente l’altro, sistemandosi la giacca. «Dottore, lei cosa ne pensa di questa diagnosi? È d’accordo?» domandò poi a John, che aveva seguito lo scambio di battute precedente senza aprire bocca. Il medico si limitò a scuotere la testa, rivolgendogli uno sguardo che sembrava dire “lasciamo perdere”. «Va’ al diavolo, Greg, non è divertente!».

Un sussulto sincronizzato colse tutti i presenti, a parte l’uomo che aveva proferito quella frase. L’espressione di Lestrade, in particolare, era completamente scioccata, ad occhi spalancati come se avesse visto un fantasma. Sherlock non aveva mai, mai, ricordato quale fosse il suo nome di battesimo corretto. Gavin, Gary, George… Gli aveva attribuito ogni singolo nome che iniziasse per G, ma non una singola volta aveva azzeccato quello giusto. E che ci fosse riuscito ora, mentre era malato e magari sotto effetto di farmaci, non era affatto un buon segno. «Ok, adesso sono seriamente preoccupato. Meglio che ti lasci riposare, non vorrei che la febbre ti causasse qualche danno cerebrale irreparabile» farfugliò, congedandosi in fretta e furia; prima di uscire, tuttavia, prese in disparte il suo coinquilino, sorpreso quasi quanto lui da quell’uscita improvvisa. «Davvero, tienilo d’occhio» gli intimò, «non possiamo permetterci di perderlo. Oddio, forse la maggior parte della squadra sarebbe felice di levarselo dai piedi una volta per tutte, ma sai com’è…» «Tranquillo, Greg, nel giro di qualche giorno tornerà il solito, è solo un malanno stagionale» lo rassicurò John. «E poi, se gli succedesse qualcosa mentre è sotto le mie cure, penso che Mycroft mi ucciderebbe» aggiunse, ridacchiando. Anche l’ispettore sfoggiò un sorriso tirato, poi gli fece un cenno e si avviò giù per le scale.

 


«Ho sempre detestato gli ipocondriaci». «Prego?» domandò John, non appena tornato al suo paziente, che nel frattempo si stava dedicando alla tazza di tè lasciatagli dalla padrona di casa. «Lestrade. In cinque anni, non mi ero mai accorto che, oltre a non brillare per intelligenza, fosse anche ipocondriaco». Inarcò un sopracciglio, non sapendo cosa rispondergli. «E cosa te lo fa pensare, se posso chiedere?». «Da quando è entrato non ha fatto che tenersi a debita distanza da me, sicuramente temendo un contagio se si fosse avvicinato anche solo un passo di più» cominciò a spiegare, prendendo un sorso di infuso. L’ex soldato si lasciò andare ad un sospiro sconsolato. Anche con quasi quaranta di febbre, Sherlock rimaneva sempre Sherlock: per usare il termine che aveva scelto fin dal loro primo incontro, incredibile. «Il suo essere nervoso traspariva da come continuasse a sistemarsi l’orlo della giacca, che tra l’altro non si è nemmeno tolto, anche se tu ti sei offerto di prenderla per andare ad appenderla: segno evidente che non aveva intenzione di trattenersi a lungo. Non ha portato niente per me, abbastanza strano per uno che vada a trovare un malato, sintomo ulteriore che la sua permanenza non era destinata a durare a lungo». A questo punto John gli avrebbe volentieri fatto notare che in genere si portano regali a chi ha qualcosa di grave, o ha subito un’operazione, non certo per una dannata influenza, ma si trattenne. «Comunque, ha cercato di sopperire a questa mancanza con delle patetiche scuse sull’onda del “dev’essere dura ammalarsi per uno come te”, anche se il tentativo è suonato più come un banale volermi compatire. In sintesi, si è sentito obbligato a venire qui, ma non ne aveva alcuna voglia».

«Sull’ultimo punto non sono d’accordo» argomentò John. «D’accordo, suonava un po’ come una frase di circostanza… Braccio, per favore, è ora» aggiunse, tendendogli un termometro per provarsi la temperatura, «ma fidati, nessuno della polizia verrebbe a trovarti neanche sotto tortura, a meno che fosse per arrestarti, nel qual caso farebbero a botte per essere i primi. Greg l’ha fatto solo perché si preoccupa per te, da buon amico». «Io non ho amici» ribatté il detective, scostandosi la maglia del pigiama ed infilandosi il termometro sotto l’ascella. «Non è quello che hai detto a Dartmoor*» disse l’altro, forse più a sé stesso che a lui, ma parlando abbastanza forte da farsi sentire. «Oh, andiamo, John, lo sai che non dicevo sul serio». Il dottore si voltò lentamente a guardarlo, con gli occhi socchiusi in maniera vagamente minacciosa. «Cosa dovrebbe significare, scusa? Che non dicevi sul serio un attimo fa o che non dicevi sul serio allora?». Sherlock lo fissò per qualche istante, portandosi una mano alle tempie. «Io…» iniziò, massaggiandosi la fronte e maledicendo il mal di testa che lo aveva istantaneamente assalito. «Sinceramente non ricordo neanche qual era la questione di partenza, al momento… Mi sento il cervello gonfio. Cerco di ragionare, ma perdo continuamente il filo, come se mi avessero drogato». «Sherlock» la voce del suo coinquilino gli giungeva distante, ovattata. «Sei malato, è una cosa fisiologica, ti passerà». «Non ho tempo per ammalarmi, distrae la mia mente. Faccio fatica a pensare, John, mi viene quasi sonno…» «E allora dormi, maledizione!» gli sbraitò contro; non vedeva dove fosse il problema. «Ascolta, Sherlock, è normale ogni tanto non essere al massimo della propria forma. Sì, è vero, tu non sei normale, non lo sei mai stato, ma si tratta solo di un’influenza, raffreddore, un po’ di febbre. Devi riposarti, è l’unico modo che hai di tornare a stare bene!». Tacque, incerto se avesse forse esagerato nello sfogarsi. Nell’impeto, si era addirittura girato a dargli le spalle.

«Sei arrabbiato con me?». Si lasciò andare ad una risatina nervosa, sempre senza voltarsi. «Quando mai sono arrabbiato con te? Non me ne dai il motivo in nessuna occasione, nossignore». Udì il suono di una coperta che si muoveva, seguita da un sospiro rassegnato. «Quaranta e due… Direi che stiamo facendo progressi». Anche dopo questa frase, John non guardò nella direzione dell’altro: si precipitò direttamente verso la poltrona dove si trovava. Gli intimò con un gesto secco di passargli il termometro e trattenne un’imprecazione nel constatare che effettivamente la temperatura non accennava a scendere, anzi era salita notevolmente nell’ultima ora. Decisamente, non andava bene.

«Sai, non è vero che non riesco a fare pensieri coerenti. Stavo giusto chiedendomi cosa potrebbe accadere se io morissi. Probabilmente nulla di rilevante; anzi, immagino che molti si toglierebbero un peso. Perfino tu». John lo fissò interdetto, come se fosse impazzito. «Non dirlo nemmeno per scherzo, non morirai» gli sibilò contro. Il discorso che stava iniziando non aveva alcun senso. «Ma è un’eventualità che dobbiamo prendere in considerazione» continuò imperterrito, come se non l’avesse nemmeno sentito. «E il tuo tono di voce suggerisce che anche tu stavi pensando la stessa cosa. Però, alla luce della tua reazione di poco fa, non credo te ne importerebbe granché, se lasciassi questa vita». «Non sei in condizioni di dedurre nulla, Sherlock, la febbre ti fa straparlare» lo stroncò sul nascere, pentendosi tuttavia immediatamente del modo in cui gli si era rivolto. In effetti, il detective se ne stava sprofondato nel suo giaciglio, avvolto in una coperta, con gli occhi lucidi, ma non avrebbe saputo dire se quell’umidità fosse dovuta solo alla malattia o a qualche altro motivo. Un po’ si sentiva in colpa per avergli urlato contro così prima; per quanto insopportabile potesse risultare alle volte quell’uomo, bisognava pur sempre mettere in conto che adesso la sua salute precaria lo rendeva ancora meno capace di controllarsi. Istintivamente, allungò una mano a toccargli la fronte. Bruciava talmente tanto che avrebbe potuto usarla come piastra da cottura. «Scotti come una fornace» commentò, ritraendosi subito; la voce dell’altro, però, lo bloccò.

«John» disse, con gli occhi vagamente spenti, «potresti toccarmi di nuovo con la mano? Il contatto con la tua pelle fresca è piacevole». Per quanto sorpreso da quella insolita richiesta, John non esitò a soddisfarla, anche se nuovamente non sarebbe stato in grado di spiegare perché avesse reagito così prontamente. Forse era per farsi perdonare la sfuriata di prima con un gesto di gentilezza, o forse perché voleva aiutare quello che, pur essendo in grado di indurgli spesso e volentieri pensieri omicidi, era anche il suo migliore amico. O ancora perché, tutto sommato, quel contatto spontaneo e addirittura vagamente affettuoso non dispiaceva neanche a lui. «Grazie» gli sussurrò Sherlock, abbandonando la testa contro il suo palmo e chiudendo gli occhi. Fu quella reazione disarmante a dare al medico la forza di, per così dire, scusarsi per le sue reazioni impulsive.

«Se ti può far stare meglio, Sherlock, sappi che farò tutto quanto in mio potere per curarti. Checché ne pensi, non ti lascerei mai morire. Non potrei. Tu sei l’unico amico che abbia avuto nel corso di anni, e probabilmente uno dei migliori uomini che io abbia mai conosciuto. Senza contare che, se non fossi in grado di guarire una banale influenza, la mia carriera ne risentirebbe notevolmente» ridacchiò alla sua stessa battuta.

Non ricevendo risposta guardò meglio l’altro, notando con piacere e un po’ di stupore che si era addormentato; aveva un leggero sorriso stampato sul volto, un’espressione serena e rilassata. Forse, da quando si erano trasferiti sotto lo stesso tetto, era la prima volta che lo vedeva dormire sul serio. Era sempre così composto e freddo, eppure adesso aveva un aspetto così esposto, così vulnerabile… E lui sarebbe stato lì, a difenderlo. Dopo tutto, si disse, si erano salvati a vicenda in più occasioni, e probabilmente Sherlock non l’aveva salvato solo sul piano fisico, ma anche su quello psicologico. Grazie a lui era tornato a camminare normalmente, ma soprattutto, dopo quelli che gli parevano secoli, era riuscito a dare sinceramente fiducia a una persona. Perciò, quello che stava facendo ora gli sembrava un metodo più che equo per ricambiare il favore.

L’unico suo timore era che Mrs. Hudson o qualcun altro entrasse all’improvviso dalla porta e li trovasse così, uno accanto all’altro; la situazione sarebbe potuta apparire ambigua, in effetti, e l’incantesimo di quel momento si sarebbe spezzato in un singolo, misero, maledetto istante. Ma non gli importava delle chiacchiere che si sarebbero potute scatenare su di loro. Finalmente, dopo tanto tempo, si sentiva bene.

 


*riferimento all’episodio “I mastini di Baskerville”

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Swan's corner

Mi sembra inutile tirarla per le lunghe: potete chiamarmi Swan e, pur essendo utente di lunga data di EFP, sono completamente neofita su questo fandom. Il punto è che ho scoperto la serie "Sherlock" da meno di due mesi, a causa di una persona che mi ha amichevolmente convinto a darci un'occhiata. Sinceramente non so se dovrei ucciderla o farle una statua, ma siccome non sono per gli omicidi singoli (sono più il genere serial u.u) e non ho abbastanza soldi, per il momento mi limito a dedicarle questa storia. Alla persona in questione: se stai leggendo, sai che sto parlando di te ;)

Ma perché dovrei volerla uccidere, direte voi? Beh, perché già dopo i primi episodi ero caduta in un pozzo senza fondo con la scritta "Benvenuti nella Johnlock!" stampata a caratteri cubitali all'imboccatura. E se ero messa così dopo un paio di puntate, potete immaginarvi la mia condizione mentale verso la fine. Complice una notte insonne per il caldo afoso di inizio luglio (ad allora risale infatti la storia), ecco infatti che in un raro momento di sonno il mio cervello ha partorito questa abominazione fic. In realtà, nel sogno, Sherlock fingeva solo di essere ammalato per ottenere alcune informazioni da unapersona incaricata di curarlo, ma la preoccupazione di John (e soprattutto la quantità di insulti che gli ha tirato non appena scoperto che fingeva XD) mi ha portato a rimaneggiarla e a presentarla così.

Chiudo, altrimenti corro il rischio di scrivere un angolo autore più lungo del capitolo stesso; invito però chiunque voglia lasciarmi un parere a farsi avanti, positivo o negativo non importa, anzi, essendo nuova in questo campo, se ho sbagliato qualcosa ci terrei a saperlo, dato che non vorrei mai rovinare con i miei rimaneggiamenti una serie che mi ha conquistato in così poco tempo. Buona vita a tutti (?)

Swan

  
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