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Autore: sakura_hikaru    31/07/2018    1 recensioni
ost Hades.
Fanfic ambientata circa un anno dopo la battaglia al Santuario.
Aiolos non ha mai dimenticato cosa lo legava a Saga e ora che le paure del santo dei Gemelli sono cancellate il ragazzo crede di poter riprendere le fila di un sentimento che mai era stato dichiarato. Eppure, qualcosa, in Saga, rimane. Qualcosa che potrebbe tenerli lontani per sempre.
NOTE:*Clio è un personaggio di mia invenzione; allieva di Saga, vive al terzo tempio. Con tutto quello che consegue, in questa fiction :P
** Aiolos è tornato in vita, ma come 15enne.
*** La bolla che viene citata, a un certo punto della storia, è una questione che viene affrontata nella storia multichapter di Clio che posterò qui... basti solo sapere che dopo l'episodio della bolla, i rapporti tra Saga e Aiolos, ma anche con e tra gli stessi Shura e Aiolia (per quanto riguarda la questione Arles e i 15 anni di tirannia al Santuario), tornano a essere quelli di quando erano ragazzi.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Cancer DeathMask, Gemini Saga, Nuovo Personaggio, Pisces Aphrodite, Sagittarius Aiolos
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Scegliete amici, amanti e amori 
che siano ali forti con cui spiccare il volo, 
che vi aiutino a nascere, pure quando 
nascere fa male, per scoprire chi siete 
davvero, per rendervi persone migliori.
(dal web)

Erano occhi che sfuggivano, occhi che cercavano, che attendevano. Grandi, morbidi, disegnati con la china e immersi nel mare più limpido. Viso pallido e pensieroso, sorridente, accarezzato dalla luce e bello da impazzire, almeno.
Lo amava e lo desiderava. Ne bramava le forme, sotto abiti leggeri, complici di un vento malizioso. Lo vedeva crescere, alto e flessuoso come una betulla, ma spalle ampie da acacia, capelli rubati a un salice piangente. Ma, invece di accarezzare l'acqua, si posavano addosso a lui, solleticandolo, richiamandolo a lui... coi suoi profumi di erbe selvatiche e sole.
Lo amava e lo sognava nelle proprie mani, a disegnarne le forme, a scoprirne i misteri, a fondersi con la sua pelle, col suo respiro, col suo essere stesso.
Si nascose il volto tra le mani, riscuotendosi da pensieri azzardati, infuocati, appassionati. Poi, tanto per essere sicuro, si schiacciò il cuscino addosso, soffocando un sospiro che era anche un lamento tra le piume e le lenzuola.
“Che vado a pensare...? Perché penso queste cose?!”.
Ma Aiolos lo sapeva bene. Era certamente comodo credere che fossero pensieri senza capo né coda, ma il senso, nella sua testa, era così semplice da trovare.
Desiderare Saga. Desiderare anche solo un tocco, una carezza, un bacio, un...
Il cuscino si strinse ancora di più al viso.
Ma poi trattenere il respiro fu troppo e dovette levarselo di dosso e aprire gli occhi sulla realtà, sulla sua camera, sulla luce che entrava decisa e dritta sopra la sua testa.
Si alzò a sedere con uno scatto nervoso, si passò una mano tra i capelli e decise di uscire, di godere di quella giornata tiepida di inizio autunno: le giornate stavano già accorciandosi, l'aria profumava di pioggia, il mare si caricava con più facilità di tempeste e le notti erano più fresche, più difficili da trascorrere da solo.
Il viso del ragazzo si colorò con violenza, la testa venne scossa, era necessario che non perdesse alcun equilibrio. O freno.
Da quando non scendeva da lui?
Era una settimana. 
Perché aveva smesso?
Perché... beh, perché... gli era difficile essergli vicino e non...
“Un contegno! Devo darmi un contegno” mormorò tra sé, irritato, agitato, confuso. “Non sono un ragazzino”.
Ma certo che lo era... almeno biologicamente.
La scienza... quella che lui afferrava a fatica, era davvero una seccatura!
“Accidenti...”.
Non fece tempo a giungere nella sala principale del tempio che una voce lo apostrofò con energia:
“Perché quell'espressione? Non è una bella giornata?”.
Il sorriso di Dhoko era monello, quasi pestifero: il Vecchio Maestro che, là fuori, anziano non era più, sembrava fin troppo a suo agio in quei panni agili e giovani. Forse, molto più di lui.
“Maestro...”.
Un gesto veloce, leggero, parve voler cancellare quella formalità.
“Hai un viso che parla di pensieri pesanti... intensi...”.
Gli occhi del santo della Bilancia parevano solo curiosi, forse preoccupati. Non certo maliziosi come, spesso, il Sacerdote lamentava. 
“Sono solo pensieri...” le sentì, le sue guance, arrossire e fargli perdere un po' di faccia. Bel bugiardo che era.
“Uhm...” lo sguardo che gli riservò l'uomo fu lungo, intenso e decisamente fastidioso per Aiolos. “Pensieri su Saga?”.
Le striature rossicce degli occhi del Maestro parvero brillare come piccole micce, per un istante almeno, prima che l'uomo alzasse il naso al cielo e sospirasse.
“Sento già nella mia testa la voce di Sion che dice che sono un ficcanaso...”. 
Il naso ridiscese verso terra, un sorriso un po' divertito, un po' intenerito, si aprì sulle guance appena squadrate. Calò una mano su una spalla del ragazzo, ben oltre la propria testa, e sbuffò:
“Beh, non farò il ficcanaso, ma ti darò un consiglio: il fuoco non può sempre attendere che l'aria cominci a muoversi. Se inizia a scaldarla, quella si muoverà di conseguenza. E non lo dico io. Lo dice la scienza”.
Aiolos comprese le implicazioni delle parole dell'uomo solo dopo che se ne fu andato: fuoco... aria... non erano cose su cui mai aveva riflettuto . Ma, di certo, se pensava a Saga non era l'immagine del fuoco a presentarsi alla sua mente. L'aria, invece... quella tra i suoi capelli, quelli che lo accarezzavano...
Scosse il capo, stavolta il mugolo fu ben più marcato: era solo una settimana che non lo vedeva, ma lui era sempre nei suoi pensieri. Come l'aria, aveva saturato ogni angolo della sua mente, del suo cuore. Senza Saga, senza l'aria... il fuoco non aveva scampo.
Si coprì gli occhi e arrossì, un'ultima volta: una settimana era abbastanza, anzi troppo.
Sarebbe sceso e non ci sarebbe stato bisogno di una ragione.
Anzi, Saga era la ragione.

***
Sapeva dove trovarlo, era sempre lì nel mezzo della giornata: alla spiaggia, in allenamento, non certo solo, ma almeno privo di occhi e orecchie maliziose. O curiose. O fastidiose. Mentalmente, Aiolos si scusò con Kanon, ma, davvero, la sua presenza era ingombrante... e sotto i suoi occhi lui proprio non riusciva ad avvicinarsi al fratello. Lo teneva a distanza con lo sguardo – truce – ma era anche capace di metterlo a disagio, visti i segreti che lui conosceva – o che pareva conoscere fin troppo.
La spiaggia era semi nascosta da cespugli di oleandri, ma il rumore delle onde che si scioglievano sulla sabbia in una dolce risacca giungeva a guidare i passi di chi era nei paraggi. 
Sbucò dalla radura mentre erano nel pieno degli allenamenti; gli occhi di Aiolos si allargarono in una piacevole sorpresa quando videro la schiena dell'uomo stagliarsi perfettamente alla luce che riverberava dal mare. A dire il vero, rimase a osservare incantato i muscoli tendersi e allungarsi, i capelli scivolare nella brezza e rilucere come stelle in pieno giorno: tanta poesia l'avrebbe fatto vergognare se si fosse azzardato a recitarla ad alta voce... ma nella sua testa tutto era possibile, spazio per il pudore non ve ne era.
La poesia parve infrangersi quando, in un impeto di energia, la bambina, al di là del suo punto focale, si lanciò contro di esso, trovando un muro di mani che la fecero ruzzolare, scompostamente, sulla sabbia, a pochi passi dal ragazzo.
La vide alzarsi, con un gran fiatone e una discreta stanchezza, ma concentrata. Almeno finché lui non entrò nel suo campo visivo.
“Signor Aiolos!”.
Fu un attimo e gli occhi severi e appena stupiti di Saga raccolsero i suoi, immobilizzandosi e facendosi inquieti tutto d'un tratto: aveva forse fatto male...?
“Attendi”.
Il tono, insolitamente monocorde, giunse un po' a stonare l'atteggiamento ottimista del ragazzo che, però, lanciata un'occhiata alla bambina, non poté far altro che annuire. D'un tratto l'idea di scendere da lui non gli sembrò poi così geniale: lo stava mettendo in difficoltà, era chiaro come avesse scelto quel rifugio e non altri per isolarsi da presenze moleste.
E lui era una presenza molesta.
Allora, decise che si sarebbe fatto piccolo, silenzioso, discreto, immobile. Poteva farlo, dopo tutto, non era più un bambino. L'attesa sarebbe valsa quello che lui si aspettava.
Sempre che sapesse cosa attendersi realmente.
Così si sedette sulla sabbia, a gambe incrociate, puntando lo sguardo su di lui, facendo vagare i pensieri – e solo quelli – e accogliendo il proprio ruolo di spettatore non invitato.
Ma se la bocca non parlava e il corpo se ne stava fermo, gli occhi non abbandonavano il compagno, mentre bloccava pugni, usava consigli severi e incitava, sempre e comunque, come se il non farlo potesse ferirlo molto più di un colpo non intercettato.
Il tempo era passato per Aiolos, nonostante tutto, ma comprendere Saga sembrava essere diventato ancora più semplice, diretto, come se ai suoi occhi fosse mutato in un essere cristallino. Forse, la prova cui li aveva sottoposti Poseidon aveva intensificato la percezione che lui aveva del compagno, trovando il suo cuore aperto nei ricordi e nelle emozioni: una comunione di anime e, anche, di sensi.
Il capo crollò sulle mani che, chiudendosi sulle guance, cercavano di lavare via il languore che giaceva in fondo al cuore e nel bel mezzo dello stomaco: non erano soli... ed era solo lui a fare pensieri simili... Saga era così serio... e composto. 
Forse...
Forse, si ritrovò a pensare il ragazzo, era ormai al di sopra di pensieri che lui concupiva. 
Il viso scivolò di nuovo su una mano, gli occhi tornarono alla sabbia, posandosi sui movimenti, sulla lotta, sui segni lasciati nel morbido terreno e poi subito cancellati da altri: era tutto veloce, caduco, inafferrabile.
Così la vita, così l'amore. Così... lui.
“Come mai tanti pensieri?”.
Sorpreso dalla sua voce, si accorse di essersi immerso in se stesso a tal punto da perdere il senso del tempo. I colori del tramonto guidavano le stelle da un orizzonte all'altro, lo sciacquio del mare era appena interrotto da piccoli passi che, come d'abitudine, portavano la bambina a concludere la giornata di allenamenti.
Rialzò gli occhi verso Saga, scorgendone appena le fattezze essendo il sole alle sue spalle, ma l'atteggiamento del suo corpo pareva inequivocabilmente impensierito.
Si irrigidì, mentre il viso si imporporava e gli occhi crollavano a terra.
“Sarei un gran bugiardo se dicessi che non pensavo a nulla...” mormorò, alzando appena lo sguardo e scrutandolo di sottecchi. Era così grande, così bello e... preoccupato.
Vide una sua mano allungarsi per poggiarsi su una sua guancia e rabbrividì: era calda ed era fresca, in un binomio bizzarro e piacevole che gli portò un nodo in gola di emozione.
Le sue rare carezze, gli sguardi, i sospiri vicini...
“Vorrei che mi toccassi di più...”.
Gli occhi che si spalancarono su di lui, assieme al violento rossore del viso – anche in controluce come si poteva non vedere? – fecero capire ad Aiolos che, no, non l'aveva solo pensato.
“SCUSA!”.
La voce tonante fece sobbalzare addirittura la bambina a metri di distanza che, coccolata dal silenzio di quell'esatto istante del giorno, si volse sorpresa a guardare i due uomini immobili. Non aveva mai sentito la voce di quel ragazzo tanto alta... aveva perso quella nota così bassa, avvicinandosi, come sensazione, a quella di Seiya e, un po'... a quella del signor Milo. Ma solo perché erano le uniche che aveva sentito così alte.
Le gambe della bambina, che stavano tornando a riva, si bloccarono, quasi sul bagnasciuga: mosse appena di lato il capo, soprappensiero, mentre il signor Saga scivolava a terra, di fronte al ragazzo, con un movimento bizzarro e totalmente agli antipodi con quello del maestro. 
Di fronte ad Aiolos, il viso di Saga era più visibile, più morbido, più cedevole.
“Mi confondi...” sfuggì alle labbra dell'uomo che, con un gesto, sembrò volersi ripiegare su se stesso per il pudore.
Ma Saga non aveva idea di quanto confuso fosse lo stesso Aiolos: cosa significava quel crollare ai suoi piedi? Quel viso... quegli occhi... quel languore spaventato...?
Si arruffò i capelli con energia e con rabbia, il ragazzo, prima di mordersi le labbra e alzarsi con impaccio. La bocca si aprì a fatica, la voce risuonò più roca del solito:
“Mi manca tutto di te”.
Aveva gli occhi talmente lontani e ciechi per ciò che era importante che non colse il mutamento nell'uomo, l'imbarazzo, il nervosismo, il lampo di un desiderio seppellito da troppo tempo e l'irrazionale terrore che, subito, lo ricoprì sotto strati di nulla.
“Aiolos...”.
“Lo so!” uscì con un singulto nervoso, la mano stavolta andò alla fronte; poi, i passi del ragazzo si volsero verso la radura, meccanici e faticosi. “Dimentica quello che ho detto. Rimaniamo amici”.
Era stato un errore non guardare i suoi occhi, altrimenti Aiolos avrebbe visto quel mare, in cui amava perdersi, farsi talmente chiaro da divenire simile al ghiaccio pronto a infrangersi.
Invece imbastì un sorriso falso, che vide solo il verde, e batté in ritirata.
“Torno al Santuario. Sei impegnato e non voglio distrarti”.
Ricadde a terra, una mano praticamente artigliata alla sua.
“Non cominciare a scappare tu, ora...”.
La bocca di Saga, sfiorandogli una guancia, aveva sussurrato solo a lui. Un calderone di emozioni contrastanti si agitò nel cuore del ragazzo, togliendogli anche la parola.
Alle sue spalle percepì il frusciare della veste dell'uomo, il suo profumo... e la sua voce, dal tono bizzarro:
“Abbiamo finito. Vieni con noi”.
Fu faticoso volgere lo sguardo alle proprie spalle, ma, almeno, non avrebbe incrociato quegli occhi e non avrebbe dovuto giustificare quello che ora orbitava, là, in quel verde un po' acquoso, un po' inquieto.
Nemmeno lui lo sapeva.
Cosa sapeva, in fondo, di quello che c'era tra loro? O in lui? O in se stesso?
L'acqua di Poseidon aveva operato miracoli... ma ora non era un miracolo ciò di cui aveva bisogno.
Qui si parlava di equilibrio, di chiarezza.
Non di parole che suonavano distorte agli occhi di un orecchio esperto.

***

Avevano riportato i passi al terzo tempio, preparato il pasto assieme, mangiato. Le parole viaggiavano sopra le loro teste, lasciando che fosse la bambina unica interlocutrice, se non tramite tra loro. Se lei avesse trovato la cosa strana e un po' fastidiosa, non gli era dato sapere – e, comunque, certi discorsi erano difficili da fare, soprattutto agli adulti. Di certo, il suo raggiungere la propria camera fu piuttosto veloce e non privo di sguardi pensierosi e un po' irritati.
La tavola cadde, così, in un silenzio irreale; senza stoviglie di mezzo, o altre bocche da interpellare, l'atmosfera si fece tesa e imbarazzata.
La gamba di Aiolos cominciò il movimento nervoso, mentre la bocca, irritata per il continuo mordicchiare dei denti, si aprì in discorsi inutili.
“La luce è cambiata, vero? Non mi sono quasi accorto che l'estate è quasi finita. Sento che ho oziato tutto il tempo e ora-”.
“Aiolos”.
La voce di Saga giunse come un richiamo e una richiesta d'attenzione; la bocca del ragazzo si richiuse, gli occhi raggiunsero quelli del compagno con grande fatica e un singulto riecheggiò chiaro nella cucina.
“Perdonami. Parlo a vanvera” sfuggì ancora all'arciere, prima che l'intensità dello sguardo dell'uomo gli togliesse qualsiasi altra parola.
“Aiolos...” riprese Saga con una gran dose di coraggio e ostinazione, mentre si obbligava a non sfuggire lo sguardo né l'argomento. “Non so cosa tu abbia in mente... ma...” in quel segmento di pausa, colse le iridi verdi tremare e vacillare. E la sua stessa volontà vacillò. “... io... non so cosa desideri”. Davvero non lo sapeva? “Ma non so cosa posso offrirti...”.
Aiolos si sarebbe accontentato anche solo di una minima parte di lui, se il tutto era impossibile. Ma l'amore poteva davvero permettere un simile affronto?
“Quello che... puoi?”.
Lo sguardo dell'uomo discese sulle proprie mani, un groppo alla gola gli disse che stava sbagliando. 
Ma la testa?
“E a te andrebbe bene?”.
Una smorfia sul viso del ragazzo fu più sincera delle parole.
“Non posso chiedere cose che non posso avere”.
Le mani che si strinsero, l'una all'altra, mascherarono abilmente i sentimenti dell'uomo.
“E cosa sai di quello che puoi avere... davvero?”.
Gli occhi verdi si dilatarono, confusi, quelli blu si scostarono, gravi.
“Saga... io...”.
“Aiolos... so cosa pensi, ma io non posso darti altro che amicizia e...”.
Il ragazzo si alzò di scattò, poggiando le mani sul tavolo, di fronte a sé. Teso verso il compagno, lo fissava con l'aria sperduta e arrabbiata di un bambino il cui cuore era appena sprofondato troppo in basso per non fare male.
“Io... io so cosa ho visto in quella bolla. E... ho sempre avuto la sensazione che tu abbia visto quella medesima cosa”.
Finalmente, la maschera controllata di Saga si incrinò sotto il rossore che quelle parole avevano scatenato: guardò Aiolos con uno sguardo che, il ragazzo era certo, fosse il medesimo di quel giorno lontano...
Lo vide aggirare il tavolo, sicuro eppure nervoso, e lui non riuscì ad abbandonare la propria sedia, incollato da quegli occhi che non lo abbandonavano un istante.
“Mi ricordo... il buio... il calore... quanto quella stanza fosse piccola e tu... così vicino a me” si morse le labbra, Aiolos, ma non arretrò di un passo quando giunse accanto a lui. Con un moto di coraggio, si chinò su di lui e riaprì bocca, il cuore che rischiava di saltargli fuori dal petto, dritto nelle mani del compagno: “... e tu eri vicino a me... e desideravi quel bacio... quanto io lo desideravo...”.
Si perse a scrutare le iridi, carezzò le ciglia che tremavano appena, scivolò sul taglio perfetto degli occhi e poi scese lungo il naso sinuoso, ove le narici erano tese appena a inspirare tutta l'aria che potevano, visto che la bocca non sembrava riuscire a socchiudersi.
Labbra piene, innocenti e rosse.
“Me lo ricordo”.
Caldo, umido, intenso e innocente. E, forse, non così tanto.
Dovette fare un mezzo passo indietro, Aiolos, per non perdere l'equilibrio.
La foga improvvisa, inattesa, energica di Saga si era impossessata delle sue labbra ed esse avevano risposto al richiamo dell'istinto e del ricordo, annichilendo ogni reazione di una mente troppo recalcitrante.
Erano solo le loro labbra, ma le mani di Saga, seppur titubanti, sembravano le prime ad aver colto l'istante e l'occasione aggrappandosi alle braccia del ragazzo. Il quale, ripresosi dallo shock e dalla confusione che tutte quelle parole avevano causato, aveva impiegato poco a rispondere al bacio, avanzando verso il compagno, aggrappandosi alla sedia e al tavolo per evitare di rovinare a terra mandando in frantumi un momento così delicato e in bilico tra il potere e il divieto.
Fu quando la bocca di Aiolos si spinse appena di più contro la sua, schiudendosi e accarezzandola con la punta della lingua, che gli occhi di Saga si spalancarono, increduli e attoniti, spezzando l'incantesimo e il bacio: quando si era lasciato andare? Quando, chiudendo gli occhi al mondo intero, aveva fatto parlare solo l'istinto?
Si portò una mano alla bocca e sfuggì lo sguardo del compagno che, similmente, cercava di far quadrare qualcosa che, in realtà, non avrebbe avuto bisogno di spiegazioni. Ma...
“Te lo ricordi...” bisbigliò Aiolos passandosi un dito sulle labbra, con innocenza... ma non agli occhi di Saga che, a quelle parole, era tornato a guardarlo con aria quasi... scandalizzata.
Eppure, non aveva parole da donargli. O spiegazioni.
Non ne aveva per se stesso... figuriamoci per lui!
Fu improvviso il movimento, ma destabilizzò Aiolos che dovette tenersi al tavolo per non ritrovarsi seduto a terra. Gli occhi di Saga, ora in piedi, di fronte a lui, lo fissarono, pieni e confusi, non era nemmeno certo che non vi fossero lacrime là dentro. Ma cosa si celasse, davvero, nel cuore dell'uomo, non riusciva ad essergli chiaro.
Ma se quel rosso imbarazzo non poteva mentire, allora...
“Quello che provavo per te... non è cambiato”.
Due abissi blu si spalancarono su Aiolos, facendolo deglutire rumorosamente e rabbrividire fino al midollo: anche le sue reazioni erano rimaste le medesime.
“Aiolos...” e la sua voce? Così morbida, cedevole, piena di ritrosia e timidezza... “Io... io non so... io...”.
Il ragazzo cancellò le distanze, andando a sfiorare con il proprio il corpo dell'uomo: come un tempo, potevano guardarsi negli occhi, senza doversi abbassare. Erano cresciuti assieme, le loro altezze si erano rincorse, fino a incontrarsi, definitivamente, nei loro sguardi.
“Se mi hai baciato... lo sai. Non mentirmi, te ne prego...”.
La bocca di Saga si socchiuse appena, per richiudersi, tremante. 
Non mentire. Né a lui, né a se stesso. 
E cosa fare della paura?
Cristallino. Il suo Saga lo era.
Ad Aiolos si strinse il cuore, l'espressione che aveva davanti agli occhi avrebbe voluto cancellarla da quel volto amato: se fosse bastato un abbraccio, un bacio... mille promesse... un'intera vita assieme. Cosa promettere?
“Affrontiamo la paura assieme... ma non lasciarmi da solo a pensare le peggiori cose”.
Una mano tremante andò a carezzare una guancia di Saga: il callo del pollice passò delicato sotto lo zigomo, scivolando lentamente sulla pelle e trovandola morbida e tremante. 
Come non tremare a un tocco famigliare come la stessa aria?
Un sospiro sommesso che terminò in un singhiozzo solitario fece alzare il petto di Saga, mentre il viso, pallido e intenso, si abbandonava a quella mano gentile come se fosse l'unico scoglio in un mare di tempeste.
“Non lasciarmi mai...”.
L'aria... teneva in vita il fuoco. Il fuoco, ringraziandola, la scaldava e, di conseguenza, alimentava il suo movimento. 
Una non poteva vivere senza l'altra.
Lui doveva alimentare... amare... Saga... e Saga avrebbe restituito quella vita a lui.
L'abbraccio in cui l'arciere strinse l'uomo soffocò il tremito del suo cuore e i pensieri confusi e bizzarri che il vecchio maestro l'aveva istigato a pensare: che amore, per loro, significasse proprio quello?
“Ora che ti ho ritrovato... come posso lasciarti andare?”.
E non lo lasciò, non quella sera.
Stretti l'uno all'altro, incapaci di dirsi un semplice 'buonanotte', scelsero di condividere il letto, senza altro pensiero che non fosse quello di sentire, semplicemente, la presenza dell'altro, come una medicina capace di curare qualunque malattia o dolore.
E la notte passò, serena.

***
Il mattino seguente, nell'altra camera, tutto iniziò come sempre: un risveglio d'abitudine nella posizione più impensabile, il prepararsi, lo sbadigliare, l'uscire dalla camera e...
Clio fece qualche passo nel corridoio immerso nella penombra, ascoltando intenta i rumori attorno a sé e si fece perplessa al silenzio insolito che rimandavano le pareti di marmo: il signor Saga era silenzioso, ma non così tanto... ma non era nemmeno capace di svegliarsi in ritardo. Il suo... come l'aveva chiamato? orologio biologico... gli permetteva di aprire gli occhi sempre nello stesso momento. 
Il che fece pensare a Clio un'unica cosa.
Con un'angoscia che mandò a cento i battiti del suo cuore, spalancò la porta della camera del signor Saga e vide.
Il coordinamento occhi-bocca fu straordinariamente veloce, così come quello mente-corpo.
Chiusa la porta alle spalle, decise che poteva tranquillamente uscire di casa senza fare colazione. E senza aspettare il signor Saga. 
Non aveva impiegato molto, quella mattina, per cancellare gli sbadigli e, anzi, pensò che sarebbe potuta rimanere sveglia per parecchio tempo e fare altrettante, parecchie cose. Quel giorno, forse ne avrebbe fatte tantissime, molte più del solito.
Si sarebbe dovuta tenere occupata, visto che il signor Saga...
Trasalì e scappò letteralmente fuori dal tempio, affrontando le scale con spericolatezza, pur di allontanarsi molto velocemente da tutto il suo imbarazzo.
Però, l'immagine era lì, stampata a fuoco nella sua mente – e anche sul suo viso, dato che era in fiamme.
E il racconto di Achille e Patroclo, vivido, continuava a ripresentarsi alla memoria. E a sovrapporsi con un altro, ben più vicino.
Troppo vicino.
Si sarebbe liquefatta di vergogna, quello era certo.

***
Di sicuro, a non liquefarsi di vergogna erano parecchi al Santuario. Giunsero, però, i commenti, i primi di Aphrodite – quasi ovvio – nervoso oltremodo, dalla lingua lunga e, in quel caso, parecchio maldestra. Fu zittito una volta da Angelo – che ne pagò care conseguenze – da Shura – che ebbe in risposta un'espressione al limite tra irritazione e frustrazione – e da Dhoko – che, comunque, avrebbe ignorato qualsiasi rispostaccia con la divertita noncuranza che solo una vita molto lunga poteva darti.
Kanon non si pronunciò nemmeno una volta e la cosa mise un certo nervosismo ad Aiolos che da lui si aspettava, comunque, la peggiore delle reazioni.
E invece...
Naturali, in maniera imbarazzante, furono invece le risposte degli altri: tra sospiri di sollievo, un 'immaginavo' di Shaka e sorrisi che li accarezzavano gentilmente, furono solo le parole e le azioni di Aiolia a scombussolare i due. Tra il sollievo e un forte senso di protezione per Aiolos, diviso tra un'infantile e appena accennata gelosia per il fratello e la presenza silenziosa – fin troppo – di Shura al suo fianco, finì per augurare, nel mezzo di quello che era uno sproloquio imbarazzato, qualcosa che solo una coppia di sposi si sarebbe potuta sentir dire.
Certo era che, in quei primi, timidi giorni, si rubavano occhiate, si sfioravano mani, si nascondevano baci nelle ombre più inusitate. C'era una tale delicatezza in tutto quello che, agli occhi di chiunque, essi parevano semplicemente una coppia di ragazzi che si conoscevano, piano piano, in una totale innocenza.
“Non facevo Aiolos così innocente” disse Milo, una sera, al tavolo di Mu.
La mano di Camus, castigatrice, strizzò una guancia dell'uomo con ben poca grazia.
“Modera le parole”.
“Non ho detto nulla di male!”.
“È quello che non hai detto a preoccupare Camus...” il sorriso da schiaffi di Mu provocò una risata in Aldebaran, un tossicchiare in Shaka.
“E sappiamo bene cosa non hai detto” rincarò quest'ultimo con espressione talmente compassata che rese le sue parole ancora più spassose.
“Beh...” cominciò Milo guardando di sottecchi il francese, sicuramente pronto a castigarlo di nuovo.
“Tratta Saga come se fosse una pietra preziosa... e cancella, pian piano, ogni sua ritrosia” la voce di Camus lasciò senza parole il compagno, mentre gli altri commensali annuivano, con espressioni più o meno disinvolte.
“Il modo migliore per arrivare al cuore di una persona che si ama...” mormorò il gentile Aldebaran, zittendosi, poi, e nascondendo un imbarazzo non voluto dietro un bicchiere d'acqua.
“Senza alcun dubbio...” commentò Mu, con un sorriso che parlava da sé.

Senza alcun dubbio, Aiolos trattava il compagno con la delicatezza che il suo amore per lui ispirava, ma, a dispetto di quello di cui era così convinto Milo, i suoi pensieri non erano sempre così innocenti. 
Si muoveva con discrezione, delicatamente, ma con passione sfrenata. 
Muri di ritrosie erano crollati, anche molto facilmente, le carezze non erano più anticipate da sobbalzi e, spesso, era Saga a iniziare le cose. 
Ma quando la natura di fuoco veniva alimentata da quella dell'aria, la scienza – e non solo – voleva che il fuoco bruciasse, senza freni, confini... e la presenza dell'aria, ovviamente, non attenuava. Al contrario.
Tra due fuochi. 
Il che era un bel gioco di parole, ma con una pessima ironia.
Ma come... dire? Come parlare di un desiderio che andava al di là del limite che lui si era imposto? Che premeva e, a volte, opprimeva i suoi sogni, rendendogli i risvegli fastidiosi e impossibili le notti di fianco a Saga?
Che lui non se ne rendesse conto? Davvero? Era così bravo a mascherare?
O forse... 
Era proprio vero che lui pensava cose che la mente di Saga non aveva mai formulato. Innocenza? Purezza? 
Non erano aggettivi che Aiolos avrebbe mai pronunciato, parlando di Saga con lui stesso. Conosceva le sue cicatrici, ne accettava la sensibilità. Forse Saga non avrebbe mai concepito fossero accomunati a lui, forse, nel profondo del suo cuore, avevano perso quella connotazione positiva per se stesso.
Eppure...
Un tocco fresco su una guancia lo fece sobbalzare, lo sguardo si alzò sorpreso sul sorriso di Leo.
“Sei molto pensieroso in questi giorni, fratello...”.
Il ragazzo fece appena un cenno positivo, muovendo lo sguardo al proprio fianco, sugli scalini dove Aiolia si era seduto. Era divenuto solare, come un tempo, sorridente, con la parlata spedita, ma attenuata dalla maturità, una presenza piacevole e alla pari che per tanto tempo Aiolos aveva desiderato.
“Un po'...”.
Gli occhi azzurri del fratello lo sfiorarono appena, prima di fissarsi su alcune pigre nuvole nel cielo.
“Saga?”.
Le guance di Aiolos si imporporarono senza pietà: era così chiaro?
“Fratello... in tempo di pace, non mi pare così strano. Pensavi molto a lui anche quando noi piccoli ti davamo più da fare”.
“Aiolia!”.
Le spalle dell'uomo si scossero appena, una risatina, un vago rossore era sfuggito anche a lui.
“È colpa di Milo, se te lo stai chiedendo”.
Aiolos sospirò e si passò una mano nervosa tra i capelli.
“Sono solo pensieri...”.
“Quello lo vedo”.
Occhi verdi si puntarono con nervoso impaccio su quelli azzurri.
“Sento anche Mu nelle tue parole...”.
L'ombra di un sorriso passò sulle labbra dell'uomo.
“Ho imparato molto anche da lui”.
“Non sarai diventato così impudente solo per mettere in difficoltà il tuo fratellone?”.
La serietà di Aiolos si sciolse sotto il totale imbarazzo dell'uomo, ridacchiando divertito.
“Ecco che ritrovo il mio fratellino e la sua innocenza” mormorò con una dolcezza tale che, invece di replicare piccato, Aiolia si ritrovò ad annegare un imbarazzo ancora più forte nelle proprie braccia.
Un silenzio rilassato e pensieroso si stese sui due, mentre rincorrevano con lo sguardo nuvoloni carichi di pioggia diretti a sud.
“Allora, perché sei così pensieroso?” riprese, poi, Aiolia, evitando lo sguardo del fratello e fastidiose reazioni del proprio viso. “Avete... siete... insomma, è tutto a posto, no?”.
“Uhm, sì...”.
Non si sarebbe mai sognato di andare a raccontare cosa, davvero, girasse nella sua mente... dissoluta. Ahhh... ma davvero la riteneva tale?!
“E sei pensieroso perché...?”.
Aiolos alzò gli occhi al cielo e sospirò mentalmente: che sciocco, non vi erano assolutamente influenze di alcuno nelle parole del fratello. Era lui, solo più grande. Ma le domande, quelle del 'cosa', 'come' e 'perché' erano le medesime di quel bambino di cinque anni che voleva sapere tutto, di ogni cosa e di ognuno. Un'adorabile piccola fucina di domande. Non più piccola.
Quindi... cosa rispondere quando ti era impossibile farlo?
Con la coda dell'occhio guardò l'uomo attendere, pazientemente, la risposta; un pollice, appena poggiato sul suo labbro, mimò un atteggiamento perduto tanti anni prima.
E la mente di Aiolos si illuminò. 
“Shura saprebbe spiegartela molto bene se solo glielo chiedessi”.
Che colpo basso. Proprio infimo.
Ma avrebbe fatto qualunque cosa per evitare quella risposta. Chissà con che occhi l'avrebbe guardato il suo fratellino, chissà cosa pensava, anche lui?
Sicuramente non l'avrebbero guardato così, con un viso pronto a squagliarsi, delle labbra che cercavano di atteggiarsi a indignazione, ma che riuscivano solo a rimanere prive di parole.
Forse Shura l'avrebbe rimproverato. O, forse, ringraziato.
Adulto, lo spagnolo riusciva ad essere ancora più indecifrabile nei suoi sentimenti. La sua luce si era fatta più calda, la dolcezza non era più capace di nascondersi, ma gli occhi, quelli rimanevano pozze in cui solo chi lo scrutava da vicino poteva leggere.
Chissà se Aiolia vi era già riuscito.
Il santo del Leone marciò, deciso, verso l'ottavo tempio, fermandosi solo dopo una ventina di scalini e rivolgendo al fratello l'indignazione libera, infine, di parlare:
“Non ricordavo una lingua così lunga, fratello!”.
La bocca di Aiolos dovette nascondersi dietro una mano per non scoppiare a ridere con così tanta sfrontatezza: per un attimo, brillante e velocissimo, aveva visto davanti a sé un indignatissimo piccolo Aiolia, rosso e con quella linguaccia impudente che un pestifero Mu gli aveva insegnato.
Quando le spalle del fratello furono scomparse alla vista, nella casa dello Scorpione, una voce inattesa e non propriamente gioiosa lo apostrofò alle spalle:
“E cosa dovrei spiegargli, di grazia?”.
I passi scesero lenti sui gradini, dando ad Aiolos tutto il tempo di cui necessitava per trovare una scusa, una qualunque. Quando giunse al suo fianco, gli occhi neri dell'uomo si fissarono intensi nei suoi, l'imbarazzo che si celava nel suo cuore venne fuori con una serietà non necessaria che mise alle strette il ragazzo.
“Ah... ecco...”.
Aveva una lingua lunga, suo fratello aveva ragione.
Lo sguardo di Shura si alleggerì quasi subito, sostituito da uno sbuffo e dall'ombra di un broncio sulle labbra.
“Non complicarmi le cose con Aiolia”.
“Lungi da me l'ide-”.
“E parla di quello che devi con Saga. Senza sotterfugi”.
Privato di parole che non fossero tinte di impaccio, Aiolos vide appena il cenno di saluto dell'uomo, prima che seguisse i passi di Aiolia verso i templi più bassi.
Il capo del ragazzo crollò, miseramente, sulle ginocchia, un lamento che era uno sbuffo aleggiò sulla sua testa.
“Sono un codardo...” si ritrovò a borbottare tra sé, prima di infilare le dita tra i capelli e scompigliarli con furia. Poi, così come aveva iniziato, smise e si alzò in piedi, come se avesse una molla nelle gambe. “Niente sotterfugi... ha ragione Shura”.
Sarebbe sceso, avrebbe invaso il terzo tempio, avrebbe preso la sua mano e gli avrebbe confessato, chiaro e tondo, cosa gli girava in testa. Quanto i suoi sentimenti fossero saldi, i suoi desideri molteplici, i suoi istinti... bassi. 
Ma perché mai bassi?! 
Come se fosse l'unico lì, al Santuario, a non pensare a certe cose... anzi, forse era l'unico a pensarli e basta.
E se Saga si fosse rifiutato, lui... avrebbe atteso. 
Anche per sempre.
Poteva attendere. Era bravo ad attendere, si era quasi convinto di essere il lampante esempio di attesa del Santuario. Anche se qualcuno avrebbe avuto a che dire per quell'affermazione...
Ma almeno per scendere, quel giorno, non attese oltre.

***
Passata velocemente – molto – la quinta casa e due particolarmente silenziosi compagni, Aiolos parve rallentare la corsa dei propri passi. Stava provando, dentro di sé, frasi, parole, atteggiamenti e, nella sua testa, giungevano rifiuti, reazioni, irritazione. Nemmeno ci provava a immaginare una risposta positiva, come se sapesse, dentro di sé, che non ve ne sarebbe stata altra.
Certo, se dava ascolto ai baci che ricambiava, alle delicate carezze delle sue mani addosso, agli sguardi... che gli provocavano quel rimestio fastidioso e assieme piacevole nello stomaco... allora era propenso a credere. 
Ma lui pensava troppo.
Faceva girare quella testa fin quasi a ubriacarla di troppi pensieri. E non ne ricavava poi molto.
“Scendi da Saga?” la voce di Angelo lo raggiunse da un angolo del tempio, prima che spuntasse a un suo fianco con in mano bottiglie non ben identificate di qualche intruglio.
Aiolos fece passare lo sguardo dai recipienti all'uomo con aria curiosa e, assieme, perplessa.
“Il Sacerdote lo permette?”.
“Di tanto in tanto” rispose l'altro, pronto. Poi, riprese la sua domanda curiosa: “Allora, scendi da Saga?”.
Impunemente curioso. Angelo, meno sfacciato di un tempo, ma solo per diversa età.
“Sì”.
Il protettore della quarta casa alzò le spalle, sospirando appena.
“Faccio bene a portarli su, allora”.
All'espressione perplessa di Aiolos, l'uomo aggiunse:
“Sai, Aphro... si innervosisce. E con queste lo tengo buono”.
Confuso e con un insensato senso di colpa, Aiolos esclamò:
“Mi spiace...”.
Il ghigno di Angelo disse molto, più delle stesse parole:
“Prima o poi il cordone ombelicale doveva tagliarlo”.
“Il... cordone?”.
La confusione del ragazzo provocò una certa ilarità nell'altro che, però, si affrettò a dire:
“Non dire ad Aphro che te l'ho detto, altrimenti finisce per cacciarmi dalla dodicesima a vita”.
Detto questo, l'uomo si avviò verso l'uscita, in direzione dei piani alti e salutò il ragazzo con un sospiro esasperato:
“Se quel testone di Shura è dove penso, Aphro avrà molto da annegare nell'alcool...”.
Senza altri commenti, scomparve dalla vista di Aiolos, ammutolito e perplesso da una giravolta di eventi di cui lui, con fare innocente, era rimasto relativamente all'oscuro. Non immaginava che Aphro, fino a quel punto, nutrisse una simile possessività... o gelosia? 
Forse erano entrambi.
Si volse verso l'uscita, verso il terzo tempio, con un sospiro: forse era anche amore, quello di Aphro... diverso dal suo, ma sempre amore. D'altronde, come poteva dimenticare gli occhi del piccolo Aphrodite che idolatravano, in un silenzio nascosto, Saga? Una volta aveva scherzato con Saga per quei sentimenti che sentiva, covati ardentemente, dal piccolo svedese. Scherzato, ma non troppo... forse, un po', aveva colto. 
Per Saga, invece, innocentemente innamorato di ogni bambino, era solo stato l'amore totalizzante di un cucciolo per una figura... fraterna? O paterna?
Angelo aveva parlato di cordone ombelicale da tagliare... non è che...? 
Non poteva certo, nella più assoluta maniera, pensare a lui come figura materna. Era solo una figura retorica, solo quella!
Scendendo più nervoso di prima, irretito da parole che non avevano senso, ma lo scombussolavano, entrò nel terzo tempio senza fermarsi, fino a ritrovarsi nel bel mezzo della sala principale, al cospetto della cloth dei Gemelli e nessun altro nei paraggi.
Era ancora troppo presto, anche se le giornate si stavano accorciando. 
Sospirò, quando un pizzicore sulla nuca gli fece raccogliere lo sguardo sull'armatura dorata, in particolare sull'elmo dove i due visi, tesi verso est ed ovest, parevano essere in attesa.
“Anche voi lo attendete?” si ritrovò a mormorare il ragazzo, prima di mordersi la lingua e imporsi un po' di tranquillità: la particolare natura delle cloth non dava certo loro il potere di rispondere a domande. Allora perché gli era sembrato, per un attimo, che Gemini avesse richiamato la sua attenzione? 
Mosse qualche passo lontano da lei e, con la coda dell'occhio, spiò il viso più prossimo: era una maschera dorata – e le maschere un po' lo mettevano in soggezione – ma dava l'impressione, molto forte, di avere lo sguardo d'oro puntato su di lui. 
E... sorrideva o... era ironico?
“Non mi starai prendendo in giro?”.
Un improvviso tocco sulla mano lo fece sobbalzare indietro, lo sguardo che rivolse in quella direzione fu serio e inquieto, ma si sciolse in un sollievo nervoso.
“Sei tu”.
Nella penombra, lo scrutare di quegli occhi era molto intenso.
“Anche lei parla con le cloth?”.
“Che?! No, no...”.
Ma quello sguardo incerto e perplesso non fece che accrescere la sua concitazione.
“Anche se non risponde a parole, io le ho parlato qualche volta”. A quel punto, Aiolos non seppe più che dire. “Mi ha fatto sentire al sicuro... e poi è molto calda, lo sa?”.
Molto calda... la cosa non lo stupiva. Il cosmo stesso di Saga era caldo come un tenero sole. La cloth era uno specchio della sua natura.
La bambina lo guardò, innervosita dal suo silenzio e dalla mancanza del suo maestro a riempirlo.
“Il signor Saga è dal signor Mu” buttò lì, per smuovere qualcosa nell'interlocutore – se non i piedi, almeno la bocca.
“Oh. Capisco”.
Aveva aperto bocca, ma nulla era migliorato.
“Tornerà presto”.
“C-capisco”.
Ma quando era nervoso non parlava a ruota libera?
Clio si trattenne dal sospirare, ma mosse i piedi e si avviò verso le stanze private del tempio. Poi, da lontano, prima di imboccare il corridoio laterale, richiamò la sua attenzione:
“Può aspettarlo in camera”.
Di colpo, un silenzio tesissimo si alzò dalla bambina che, però, sfuggì l'imbarazzo di una frase pericolosamente casuale rinchiudendosi nella propria stanza. Tanto, si disse, il tempo di lavarsi, sistemarsi e medicarsi era lungo. E c'era tutto il tempo perché il signor Saga tornasse e risolvesse tutto con la sua sola presenza..

***
Presenza che si fece attendere e che Aiolos attese nella cucina, non certo nella camera! 
Non poteva essere un caso quella frase sfuggita alla bambina, ne era sicuro: era vero che i momenti suoi e di Saga erano rubati solo nell'intimità e che, conoscendo la riservatezza di Saga – e, anche, per evitare discorsi forse... troppo difficili? – Aiolos aveva preferito tacere ogni cosa. Che poi il resto del Santuario sapesse, quello quasi non lo stupiva: certe cose, soprattutto le più intime, avevano il magico potere di muoversi molto velocemente tra gli scalini di ogni tempio. 
Ma non per i bambini. 
Una sorta di prudenza... forse sciocca. Forse... 
Nemmeno lui capiva il perché. Ma Saga glielo aveva chiesto, con un viso imporporato e un'aria nervosa e combattuta e lui non aveva potuto che dire di sì.
Erano forse stati imprudenti? Forse lui lo era stato. 
Osservava tanto, troppo... 
No, troppo, no. Come poteva essere troppo quando si era così innamorati? 
E allora? 
Che avesse sentito i discorsi degli altri grandi? Qualcosa gli disse che, no, almeno in quello non c'entravano.
Però...
“Sei qui” la voce e poi la presenza di Saga fecero il loro ingresso nella stanza, facendo scattare letteralmente in piedi Aiolos, assiso su una sedia e immerso nei pensieri. La luce del tramonto, per un attimo, trafisse la stanza, attraverso la finestra giunse sul viso e tra i capelli dell'uomo appena entrato, illuminando un viso abbronzato e sereno che gli sorrise con la pace sulle labbra.
Il cuore di Aiolos fece un salto nello stomaco, poi decise di raggiungere la gola, per scombinarlo un po'. Dovette inghiottire un po' di saliva per rimetterlo al proprio posto.
“Volevo vederti”.
Di nuovo vide negli occhi di Saga le proprie parole, in quella bocca socchiusa, nel rossore, negli occhi che fuggivano a terra, pudici.
E di nuovo Aiolos si chiese se stesse facendo la cosa più giusta. O appropriata.
Giusto e appropriato? O inappropriato e totalmente stupido?
Si chiese perché non ci fosse una via di mezzo tra le due cose... perché non era certo di entrambe le soluzioni.
“E io sono felice di vederti...” la voce di Saga, come i suoi occhi, si rialzarono, sempre pieni di imbarazzo, ma non certo di menzogna: la presenza del compagno era per lui cara come l'aria, dissetante come acqua e sicura e solida come la terra. 
Come il fuoco era... un desiderio proibito. E pericoloso.
Gli occhi di Aiolos, più nervosi del solito, lo scrutarono con aria grave – o almeno così sembrava – e poi si abbassarono, mentre le labbra venivano morse con una smorfia.
“Ti devo...” si fermò, riprese: “ti volevo chiedere...” e si fermò ancora, irretendosi del proprio nervosismo, mentre la mano andava a scompigliare capelli più ingestibili che mai. “Desideravo chiederti...”.
Ma poi, come si poteva chiedere una cosa simile?!
Non si chiedeva, veniva spontanea.
Vero?
Una mano di Saga andò a poggiarsi sulla sua, abbandonata sul tavolo e si strinse, quasi incerta, su di essa.
“Qualcosa... non va, Aiolos?”.
La mano interruppe la propria corsa tra i capelli, permettendo allo sguardo verde di rincorrere il blu mare che si stava abbassando, come la voce, come il sorriso.
Cosa gli stava facendo pensare?
“Va tutto bene!”. Abbandonati i capelli, le sue dita andarono a poggiarsi, sicure, su una guancia di Saga, carezzandola e ridandole il calore che andava perdendo. “Non... non devi preoccuparti. È solo una cosa che devo dirti... ma non è triste, non è...” si interruppe, per l'ennesima volta. Che cosa era quella... cosa? Che significato darle? 
Alzò lo sguardo verso l'uomo e fece un passo in avanti, cancellando quasi ogni spazio tra loro.
Significato?
Cosa c'era di più bello che guardare quegli occhi luminosi e appena turbati? Sentire il suo tocco che, dalla sua mano, riusciva a pervadere interamente la sua anima, il suo cosmo... sentire il cuore pompare nella testa, come se fosse l'unico rumore sulla Terra. 
E infine baciarlo, annullando ogni spazio, ogni parola, ogni stupido pensiero. 
Perché non era mai stato bravo a parlare, ma le sue azioni avevano sempre detto ogni cosa di lui, anche la più recondita.
E vera.
“Aspetta!”.
Era stato un attimo e le mani di Saga l'avevano respinto, la bocca si era allontanata da lui, il suo stesso corpo si era spostato lontano: solo i palmi delle mani, premute sul suo petto, li tenevano in contatto. Ed era tutto un tremolio che avvinceva il cuore di Aiolos, mentre quello di Saga faticava a trovare il giusto posto nel petto.
Era terrorizzato.
“Saga-”.
Quale sguardo ammantava i suoi occhi, ora?
Nel verde, Saga ora vedeva le fiamme. Il fuoco. Il proibito.
Nel blu acceso, Aiolos trovava paura, repulsione. Il gelo. La fine di ogni sussurrato desiderio.
“Non chiedermelo”.
Gelo negli occhi, freddo nelle ossa.
La bocca di Aiolos si aprì, in una domanda spontanea, naturale:
“Perché...?”.
“Non sai cosa desideri”.
Fu come una secchiata gelida.
Aiolos non era mai stato quello dalle reazioni eccessive, non con l'equilibrio che Saga gli aveva sempre invidiato. Ma, quel giorno, l'uscita di scena del ragazzo fu come un trambusto inaspettato.

***
Ma come avrebbe potuto, Saga, permettergli di andare... oltre? Come avrebbe potuto permettere a se stesso di valicare quel limite che si era dato da quando...
Seduto al tavolo della cucina si passò una mano sul viso e chiuse gli occhi, mentre un veloce ricordo affiorava violento alla mente: la sua stanza... i suoi occhi... la bocca... il corpo sotto di lui, teso e pieno di dolore... e sangue.
E Ares, attraverso le sue mani, che infieriva e godeva di quel dolore... e anche il suo corpo godeva, ma era un piacere pieno di sofferenza e disperazione.
Amava quel corpo che il Dio maledetto uccideva, lo amava e non poteva impedirsi, nemmeno in un sogno... in un incubo... di fargli del male. 
Non poteva impedirgli di toccarlo e di far percepire il suo calore, le forme del suo corpo... 
Non poteva impedirgli di infierire su ferite mortali e sentire il gorgogliare del suo sangue, il respiro che era ormai rantolo.
Non poteva.
Così, quando la silenziosa richiesta di Aiolos era giunta, improvvisa e inarrestabile, i ricordi erano tornati a lui con una violenza tale che, nell'abbraccio del ragazzo, gli era parso di sentire l'eco delle parole di Ares.
Non c'era più. Non sarebbe più tornato.
Ma i ricordi non si cancellavano. I ricordi, quelli che avevano angosciato notti lunghe e oscure, quelli che avevano provocato urla alte e solitarie che solo le sue orecchie ricordavano, assieme ai muri spogli e freddi del tredicesimo tempio...
Erano lì, ancora, a ricordargli che non tutto era permesso.
Che il suo corpo aveva peccato, istigato da Ares che conosceva ogni suo più angolo recondito, tutti i pensieri che non avrebbe mai sussurrato, nemmeno a se stesso.
“Signor... Saga?”.
L'uomo si riscosse, trasalendo al comparire di una presenza che aveva del tutto dimenticato. Pallido in volto, si rialzò, dando le spalle alla bambina e mettendosi a preparare il pasto serale, facendo parlare le mani sulle stoviglie, i passi sul pavimento freddo, gli occhi concentrati su tutto, fuorché sulle cose importanti.
Clio, leggendo l'aria pesante e il silenzio cupo dell'uomo, si mosse verso la tavola in punta di piedi, sistemandovi ciò che le mani dell'uomo le porgevano, senza rivolgere uno sguardo a lui, tenendo la bocca stretta in un grande mutismo mentre la mente navigava selvaggia tra tanti pensieri.
Dov'era il signor Aiolos? Come mai non cenava con loro? Il signor Saga era così triste perché quel ragazzo non era rimasto?
E cosa aveva detto il signor Aiolos di tanto triste?
O, forse, era arrabbiato...?
Si sedettero a tavola e gli occhi del maestro parvero incapaci di risalire da dove si erano prepotentemente incollati; inquieti, gli occhi della bambina non riuscivano a non rubare sguardi all'uomo, non senza il timore di incrociarli con il proprio e non sapere cosa dire. O cosa fare.
Alla fine fu penoso dare la buonanotte, sentire la sua debole risposta e lasciare indietro le sue spalle rigide e solitarie: le aveva dimenticate quelle, come aveva cercato di cacciare dalla memoria i ricordi tristi del signor Saga di prima, per far posto a quelli più luminosi e dolci del presente.
Nel letto, prima di addormentarsi, Clio guardò le proprie mani: iniziavano a raccogliere su di sé ricordi di ferite e, sì, erano più forti. Le strinse e non percepì dolore sui tagli più freschi, ma, nemmeno, sentì scorrere in loro la forza che desiderava avere: non erano ancora adatte alla battaglia, ma, nemmeno, erano pronte a confortare qualcuno.
Nascose la testa sotto le lenzuola per occultare al piccolo mondo che le stava attorno quanto fosse difficile sorreggere la propria debolezza.

***
Stavano fiorendo le rose, l'ultima fioritura prima dell'inverno: belle come quell'anno non erano mai state, a memoria di Aphrodite. Era dunque vero che i fiori sentivano i sentimenti di chi si prendeva cura di loro? 
Lui, le rose, le aveva sempre amate. Ma il suo cuore rimaneva diverso da prima. Forse di quel qualcosa di nuovo si erano nutrite, per la prima volta, ringraziando con tale bellezza e ricchezza di colori: non solo rosse e bianche, ma le gialle della varietà Meilland, quelle galliche, del colore rosa dai pochi petali, ma dai pistilli giallo intensi, infine quelle rosa carne che variavano verso il verde e poi il bianco latte, raccolte in grappoli pieni, un vero spettacolo per gli occhi. Il roseto del dodicesimo tempio era capolavoro di bellezza che aveva prodotto un quasi costante mare di colore sul lato ovest del tempio, quello che dava sul mare.
Diversamente dal solito, le cesoie erano rimaste nel loro cassetto per tutta la stagione, lasciando che i fiori morissero al loro posto, perdendo i petali uno a uno, creando un tappeto multicolore di insolita bellezza e allegria. 
Shura gli aveva chiesto un paio di volte perché non adornasse anche la propria camera con qualcuno dei magnifici fiori, ma la risposta si era ritorta su di lui in un commento duro e alquanto inusuale per le labbra dello svedese:
“Muoiono dove sono nate. Che problema c'è?”.
Ad Angelo le rose piacevano, in egual misura al piacere che gli provocava la vista di Aphrodite. Non amava le spine, ma erano necessarie, tanto quanto le sfuriate o le parole velenose; il profumo che emanavano riusciva a stenderlo, certe sere estive, quasi a renderlo ubriaco, ma mantenendo la lucidità necessaria per godere del nettare più dolce, stretto tra le sue braccia, avvinghiato al suo bacino dove, come un petalo setoso, il corpo dello svedese si inarcava contro il suo, pronto a schiudersi al piacere che lui, trasformato da granchio in ape, avrebbe elargito.
Ma settembre era giunto e se le rose erano fiorite per l'ultima volta, la rosa più bella sembrava incapace di aprirsi verso gli ultimi tepori, le ultime calde giornate di un'estate gloriosa. 
Aphrodite dei Pesci era, per usare un eufemismo, di pessimo umore: intrattabile, velenoso, pericoloso e insopportabile – più del solito, per lo meno. E, quel che era peggio – che, a certe cose, Angelo aveva fatto il callo – si era fatto fin troppo prezioso, chiudendosi al mondo, al calore, al cielo e alla sua ape.
“Aphro”.
Languido e silenzioso, il santo della dodicesima casa trascorreva quelle sere con gli occhi puntati fuori, in basso; il Santo del Cancro sapeva dove guardava e non era certo la sua di casa, ultimamente parecchio negletta. 
“Vuoi andarci o cosa?” si azzardò a dire una sera l'italiano, stirandosi languidamente sul suo letto – negletto anch'esso – dopo una lauta cena e qualche bicchiere di vino. “Non ti caccerebbe, se è quello che temi”.
“Cacciarmi?” la voce di Aphrodite arrivò, nervosa e incerta. “Non mi caccerebbe mai, Saga”.
“Allora hai paura che ti inviti”.
Uno sguardo lungo e carico di veleno passò sul capo di Angelo, spalmandosi, però, sul muro dominante il letto.
“Non vaneggiare”.
“Non ho bevuto così tanto, per quello te lo chiedo”.
“Immagino ti piacerebbe che io mi stabilissi da lui”.
Gli occhi blu notte dell'italiano sfiorarono appena la figura dello svedese, ignorando completamente l'aria di sfida che aveva ovviamente accompagnato quella frase.
“Vuoi farmi incazzare perché sei nervoso? Perché, in caso, sappi che non ne ho particolarmente voglia”.
“Ti sei rammollito”.
“Se dovessi reagire a ogni tua provocazione ti avrei fatto pentire di far coppia con me già da molto tempo”.
“Non mi dire”.
“Aphro, piantala! Vuoi andar giù? E vai giù!”.
“Ti piacerebbe?”.
“A te sicuramente, ora”.
La bocca di Aphrodite si contrasse, rabbiosa, il pallore delle gote venne cancellato da un diffuso rossore sintomo di furia ancora inesplosa che vorticava, caotica, nei suoi occhi così chiari.
“Sai essere un dannato bastardo!”.
Uno sbuffo rispose per Angelo: glielo diceva ogni volta, che gli rispondesse piccato, o che lo guardasse con quell'aria che l'aveva già spogliato. O quando, tra le sue braccia, Aphrodite chiedeva di più e lui, sadicamente, temporeggiava, godendosi la frustrazione della sua voglia insoddisfatta.
“Sì, sì... l'ho già sentita. Vai?”.
Un ringhio, invece, rispose per Aphrodite: il dubbio, l'esitazione lo prendevano al collo, rendendolo così insicuro e adorabile agli occhi di Angelo che il desiderio di prenderlo in quel momento fu forte. Ma con quella testa completamente devota a qualcun altro, a pensieri che si mangiavano e rigurgitavano l'un l'altro, senza fine, non avrebbe ottenuto nulla se non insoddisfazione e un lungo amaro tra i denti.
Era meglio lasciarlo andare, lasciare che svuotasse la mente e stendesse i nervi e... no, non sarebbe successo nulla di troppo. 
L'uomo sospirò, guardando le spalle del biondissimo pesciolino allontanarsi verso l'uscita: aveva preso una decisione o il toro per le corna – anche se Aldebaran non avrebbe gradito – e andava da lui. 
Non sarebbe successo nulla, nulla di quello che, in fondo allo stomaco, lui immaginava. Non perché credesse alla fedeltà del proprio amante, ma perché la propria fiducia nella rettitudine di Saga era incrollabile.

***
Aveva fatto a tempo a calare del tutto la luce del sole, mentre qualche grillo, incerto, sospirava per una giornata un po' più afosa del solito per la stagione. I passi di Aphrodite erano conosciuti per essere simili a quelli di una marcia, a salire come a scendere, con l'afa o col freddo mediterraneo di quei pochi giorni all'anno.
I gemelli speculari, sbalzati sui pannelli di marmo, davano il benvenuto a ogni visitatore con sguardo fermo e risoluto, quasi indagassero l'animo di chi desiderava varcare quella porta. Aphrodite strinse i pugni e ingollò, ma riprese il proprio passo senza altra esitazione che non fossero i battiti del proprio cuore e penetrò nella dolce oscurità che ammantava ora il terzo tempio: con la coda dell'occhio, colse la luce della cloth di Gemini, fluttuante come quella di uno sciame di lucciole e la accarezzò con una famigliarità che non ricordava di usare da molto tempo.
Avanzò di qualche passo, verso le stanze private, quando spuntò dal corridoio proprio la persona che cercava, richiamata dalla sua presenza, percepita dal cosmo e da quella fragranza di dolce che gli era proprio.
“Aphrodite...?”.
Sorpresa in quella voce morbida, la curiosità di occhi gentili in un viso troppo stanco per una semplice sessione di esercizi.
Lo svedese sentì l'odore del dolore sordo e coperto e lo riconobbe immediatamente. 
La marcia si trasformò nel passo felpato di un gattino, l'uomo si avvicinò a Saga con la grazia che la natura gli aveva donato, fermandosi appena prima di rendere il proprio corpo troppo prossimo e intimo: Aphrodite sentiva su di sé un muro, conosceva i limiti e li rispettava. 
Era giunto per parlare con l'angelo della sua infanzia e si era ritrovato ad affrontare un uomo ferito, della cui disperazione si era lui stesso nutrito.
“Mi fai compagnia?”.
Non aveva parlato, ma era stato lo stesso Saga a iniziare il discorso, come se sapesse perfettamente come lui non ne fosse capace, in quel momento.
“Grazie...” la sua voce non era solitamente così roca, non in momenti simili. Era, almeno, un poco equilibrata?
Lo seguì, lungo quel corridoio immerso nella penombra, passando le stanze più private e giungendo alla cucina dove un solo lume, alimentato da un olio denso e profumato, ballava lento al centro del tavolo, spoglio di tutto tranne che di un libro. 
Stupito? Felice? Confuso?
Aphrodite non sapeva davvero come sentirsi. Non vi erano presenze moleste, ma vedere quel posto così silenzioso gli provocò peggiori cose che se avesse trovato il ragazzo o quella bambina.
“Vuoi del tè?”.
“Grazie” ripeté ancora come un automa lo svedese, affondando lo sguardo sulla schiena larga e solitaria di Saga che si muoveva appena, sotto movimenti scolpiti nella memoria ormai da molto tempo. Le onde dei capelli, simili ai covoni di paglia in piena estate, scivolavano appena sulla veste di cotone bianca, raccogliendosi poco oltre la sua schiena con una grazia che Aphrodite non avrebbe mai osato immaginare.
Si irrigidì appena quando, invece della schiena, davanti ai suoi occhi comparve il petto ampio e accogliente, il viso chinato appena da un lato, negli occhi timore misto a curiosità.
“Volevi parlarmi?”.
Lo svedese si ritrovò con la bocca troppo secca per riuscire a rispondere e dovette ingollare un po' di saliva per non rendersi ridicolo con una voce debole e non propria.
“Volevo vederti”.
Il fuoco sotto la teiera di ghisa sfrigolò appena, dalla finestra che dava sul mare giunse il canto stanco di un grillo, Aphrodite sentì il proprio cuore aumentare i battiti.
“Hai avuto più coraggio di me” un sorriso mesto e latteo adornò appena le labbra di Saga, mentre gli occhi si facevano più chiari e socchiusi, anche in quella penombra. “Non ne ho molto di questi tempi...” si interruppe, scrollò il capo e tornò a guardare la teiera come se niente fosse. “Non ne ho mai avuto molto...”.
Quando Aphrodite si ritrovò al fianco di Saga, con le mani strette alla sua casacca e i loro volti molto vicini, era troppo tardi per tirarsi indietro e darsi un contegno.
“Quella bocca non è fatta per dire sciocchezze”. La voce di Pisces uscì armoniosa, amabile, a dispetto del tremore che si era impossessato del suo corpo e del suo cuore. Aveva agito senza pensare, con la persona che più, nella sua mente, meritava gesti e parole scelti con doverosa attenzione.
Le parole di Saga giunsero, con le mani che, delicate, si strinsero su quelle del compagno e le sciolsero da una presa inutile, riportandole più in basso, in un intreccio di dita fredde e vibranti.
“Hai sempre avuto parole e gesti troppo gentili nei miei confronti, Aphrodite... immeritati”.
Gli occhi del giovane Pisces erano chiari, freddi, taglienti e con una bellezza nascosta alle percezioni di molti; per Saga erano sempre stati risoluti, maliziosi, ma deliziosi, come le rose che gli erano proprie. 
Come amare una rosa dimenticandosi delle sue spine?
Sapeva che, oltre quella maschera di arroganza e algidità, c'era una generosità singolare, una dolcezza, un'amabilità che avevano reso quel bellissimo ragazzo fulcro delle attenzioni di molti, dell'amore di pochi. Un amore tuttavia chiaro, sincero, tenace.
Quando il Santo dei Gemelli si ritrovò con una mano tra i suoi capelli, era troppo tardi per chiedere scusa o dare una spiegazione: il viso di Aphrodite era così simile, ora, a quello del bambino che lo seguiva come un'ombra, negli anni più luminosi.
“Sarò tuo, ogni volta che desideri...”.
Gli occhi blu dell'uomo si spalancarono, arretrò di un passo, perplesso e quasi atterrito da quella proposta. Ma, forse, non troppo stupito in cuor suo che gliela avesse fatta.
Davvero era stato così stupido da non vedere quel desiderio, quella richiesta negli occhi della sua rosa del nord?
“Ti amerò, sempre... anche se tu non riuscirai a farlo. Io non ti lascerò mai...”.
E sapeva, sapeva quanta sincerità recavano quelle parole. Non parlava a vanvera, la sua rosa, non l'aveva mai fatto. Non aveva mai avuto bisogno di troppe chiacchiere quando sapeva giungere al cuore delle cose – o sulle ferite fresche – con una manciata di parole.
“Aphrodite...”.
Doveva fermarlo. Non poteva permettersi di mandare in frantumi un'altra persona, non un'altra a lui così cara, non quando si conosceva la fragilità dell'essenza stessa di quei sentimenti. No, Aphrodite andava custodito gelosamente, prima che potesse appassire nelle mani sbagliate.
“Io posso amarti davvero”.
Ecco, diretto sulla ferita ancora sanguinante.
“Aphrodite, no...”.
La sua voce era stata appena dura, risoluta. I suoi occhi esprimevano altrettanta sicurezza?
Un lucore improvviso comparve e, con la stessa velocità, fu cancellato da quegli occhi chiari e determinati, come la rugiada asciugata dal sole: la sua rosa del nord era forte, ma era anche delicata... e si piegava solo davanti a pochi e rari occhi.
Non con Saga si sarebbe piegato.
Il cuore dei Gemelli si strinse di languore a quella reazione: l'amore della rosa era grande, anche per un uomo come lui, ma non sarebbe mai stato amore vero se la rosa non riusciva nemmeno a mostrargli una sola lacrima. Non era lui il suo amore... un amore, forse. Ma non quello che avrebbe reso davvero felice il giovane Aphrodite.
Lo sapeva, Saga. L'aveva sempre saputo.
La mano, quella che era affondata tra i biondissimi capelli della rosa del nord, non si scostò da lui, ma scivolò, con una struggente tenerezza, sul suo viso, posandosi sulla guancia, poco al di sotto di quel piccolo neo così peculiare che gli era sempre parsa una piccola lacrima mai pianta. 
Si imporporò, la sua piccola rosa, ma aveva una tale tristezza ripiegata, tra il cuore e la bocca, che la mano ancora inerme di Saga non riuscì a non stringerlo a sé, in un abbraccio solo accorato, privo di sensi che non fossero quello dell'affetto e della gratitudine.
“Saga-”.
Ah, la voce, quella dolce, quella frammentata dal pianto, quella che ricordava una particolare notte di temporale. Amava quella voce, quel frammento di Aphrodite reale, genuino. Quello privo di paure, barriere, freni. La sua rosa del nord.
“Grazie, Aphrodite... grazie”.
La mano di Pisces salì appena sulla sua schiena, accarezzandola solo una volta, prima di stringersi appena, come ad aggrapparvisi, prima di sfuggirgli.
Ingollò, il guerriero del Nord, e chinò il capo, a recuperare il sangue freddo e l'equilibrio di cui aveva bisogno. Quando il suo viso, asciutto e pallido, risalì a posarsi su quello di Saga, non vi era più alcun tremore, forse solo il fantasma della sconfitta.
Abbozzò un sorriso e Saga sapeva quanto gli era costato quel piccolo segno.
“Credo che farò a meno di quel tè”.
“Certo...”.
Il suo profumo gli frusciò addosso, mentre Pisces raggiungeva la porta della cucina. Lì, però, percepì i suoi passi fermarsi, creando un vuoto silenzioso tutto attorno. Saga si voltò verso di lui, percependo l'eco di parole ancora non pronunciate.
“Se Angelo si allontanasse da me per una sua paura, lo picchierei, ma lo perdonerei. Se invece se ne andasse tenendomi all'oscuro di tutto, lo odierei fino alla fine dei miei giorni. E non avrei più un cuore per amare, per colpa sua”.
Stavolta fu il viso di Saga a perdere completamente colore, il suo cuore parve fermarsi – o saltò solo un battito.
“A...phro...?”.
“Aiolos è un idiota. E io non l'ho mai sopportato” rabbia, quella impossibile da cancellare. “Ma è un idiota che ti ama e ha diritto di sapere. E poi è un idiota coraggioso. E ha abbastanza coraggio anche per te”.
Fu fuori dalla stanza che, ancora, il suo profumo perdurava tutto attorno a Saga: spiazzato, sgomento e privo di parole, scivolò a sedere su un angolo del tavolo, la mente silenziosa, almeno finché il fischio inevitabile del bollitore non interruppe quell'immobilità. Levò la pentola dal fuoco, furiosamente bollente, e si perse a guardare la nuvoletta bianca che si innalzava verso il soffitto.
Un idiota coraggioso...? 
Se la tristezza non fosse stata insopportabile, Saga avrebbe anche sorriso, per nulla stupito dall'epiteto che solo la sua bella rosa del nord avrebbe potuto usare.
Aveva capito qualcosa, forse ogni cosa. 
Aphrodite conosceva cose di Ares che lui non desiderava ricordare... e forse lui sapeva cosa lo terrorizzava. 
Ares aveva concupito Aphrodite attraverso il suo corpo e solo perché era lui, ne era certo, il bel Pisces si era lasciato guidare verso l'oscurità più profonda. Era stata una sua scelta, eppure lui si sentiva in colpa... ma come pensare...?
Saga si lasciò cadere di nuovo a sedere, stavolta su una sedia, affondò il viso tra le mani e socchiuse gli occhi, trapassando il muro di fronte a lui e raggiungendo con gli occhi della mente la schiena di Aiolos, l'ultima cosa che aveva veduto di lui quando era fuggito, qualche sera prima: accarezzò con la mente quella figura e risentì nelle orecchie ogni singola parola che era uscita dalla sua bocca. Erano state così poche... non gli aveva dato tempo di replicare, era stato brutalmente fermo, come se fosse una sentenza la sua o, peggio... un ordine.
Gli aveva detto che non sapeva cosa desiderava. 
Ma non era vero... i suoi occhi gli avevano detto ogni cosa. Sapeva cosa desiderava... non aveva idea di cosa esisteva nei ricordi di Saga, delle sue paure, di quello che avrebbe potuto fare... o no?
Nemmeno lui lo sapeva. Forse Ares, lui...
“Accidenti!”.
Si morse un labbro, scompigliandosi malamente i capelli, come se solo quello potesse aiutare la sua mente a liberarsi da ciò di cui non aveva bisogno.
E di cosa aveva bisogno se non di Aiolos?
Così come aveva fatto con Aphrodite, Ares aveva operato la medesima maledizione su Aiolos... no, sul suo ricordo. E aveva trasformato i suoi desideri più intimi, silenziosi e sensuali in un sadico incubo di sangue e dolore.
Non aveva mai sfiorato Aiolos, né ricevuto da lui carezze cariche di passione. Non ce ne era stato il tempo.
Ma nella testa era come se ogni tocco irreale fosse diventato così vivo e tangibile che fare l'amore con lui si era trasformato in un incubo ancora prima di diventare realtà.
E se anche Ares non c'era più... come poteva sapere, lui, cosa avrebbe potuto fare... nell'impeto della passione? Quando non vi erano freni, quando si veniva travolti solo dai sensi e ogni controllo sul proprio corpo veniva meno?
Fargli del male... davvero temeva ancora quello?
Si lasciò andare contro lo schienale della sedia, chiuse gli occhi, mentre la stanchezza scivolava dalle spalle fin sul capo e sulle palpebre.
In un flash, poco prima che il sonno calasse su di lui, rivide le spalle di Aiolos allontanarsi, sempre più lontane, abbattute e solitarie: una lacrima cadde a terra, mentre il sonno si impossessava del suo corpo.

***
Quanta debolezza c'era in una fuga? 
Quanta in una recriminazione non detta?
Sicuramente vi era abbastanza di tutto quello per scombinare le notti di una persona e renderla intrattabile e cupa per il resto del tempo. La giornata di quel tardo Settembre era talmente luminosa e tersa da risaltare ancora di più in contrasto coi pensieri di Aiolos che, terremotatosi fuori casa fin dalle prime luci del mattino, aveva preso posto in uno spiazzo vicino all'arena, libero da presenze, rumori, pensieri molesti. Questi ultimi, cacciati malamente dalla mente del ragazzo, stavano buoni buoni ad attendere, su un lato, lontani dalle traiettorie precise e letali delle sue frecce, scagliate a ripetizione contro alcuni pezzi di legno che aveva trovato nei paraggi. 
Passare le dita sul legno, stringerle attorno al crine di cavallo mentre si sfioravano le alette e i muscoli si tendevano: e il braccio destro scivolava all'indietro, in un gioco-forza con il sinistro teso verso il bersaglio, la punta della freccia che sfiorava appena la pelle, prima di scattare in avanti, veloce come un battito di ciglia, preciso come il cadere di un fulmine sulla terra.
A ogni scoccare un rilasciare di respiro, i pensieri si confondevano con l'aria, la cupezza lasciava penetrare i potenti raggi di sole, la memoria si cristallizzava e non permetteva che ciclici pensieri di rabbia e tristezza giungessero a confondere la mente del ragazzo.
Così, Aiolos dimenticava ogni cosa, così cancellava, per un istante, ciò che non voleva accettare. E non esistevano ostacoli, non esistevano freni, non esisteva il vicino passato e nulla, nulla di quello che aveva detto o sentito era mai accaduto.
“Ma guarda... e io che ti pensavo da un'altra parte”.
La voce che risuonò, improvvisa, dietro di lui mosse appena le sue spalle e la freccia partì, maldestra, infilando la propria misera testa nel terreno, ben distante dal bersaglio cui era stata puntata. Il viso che accolse Aphrodite non avrebbe potuto, comunque, essere portatore di sorriso: la sua venuta aveva cancellato quella momentanea pace che era riuscito a trovare, immerso com'era in quell'esercizio ripetitivo di puro sfogo.
“Non avrei mai pensato di vederti con un broncio... proprio come tuo fratello”.
Le mani dell'uomo si mossero in un gesto di noncuranza, a coronare la smorfia ironica che si apriva sul suo bel viso arrogante. Occhi chiari si puntarono come spilli su quelli del ragazzo, scendendo poi sul corpo, coperto di polvere, bruciato dal sole, maltrattato come solo certi elementi riuscivano a conciare la pelle. Anche quella di Angelo.
Un naso arricciato e la cupezza dello sguardo di Aiolos smossero ancora la bocca di Aphrodite, troppo contenuta, almeno fino a quel momento.
“Beh, che ti aspettavi? Una spalla su cui piangere? Nessuno di noi è più un bambino... e tu sei stato sempre troppo forte per lasciarti andare, no?” i passi dello svedese lo portarono a compiere un ampio arco attorno al ragazzo, fino a giungere a una pietra piuttosto grande su cui, con una mossa elegante, si sedette. Incrociò le gambe e parve più un maestoso monarca assiso su un trono, che un disturbatore della tranquillità.
“Cosa vuoi, Aphrodite?”.
Aiolos si morse le labbra quando percepì nella propria voce quell'ombra di broncio di cui era appena stato accusato e appena vide il sorrisetto che quella domanda aveva provocato.
“Dovresti ringraziarmi, visto che mi sono preso la briga di venirtelo a chiedere. E io non sono abituato ad abbassarmi a tanto. Ma Saga è speciale... e per lui posso fare anche questo”.
L'interesse che quel nome provocò nello sguardo dell'arciere fu improvviso e plateale.
“Cosa?”.
Denti bianchissimi si torturarono appena il labbro inferiore, prima di rispondere con insolito piacere.
“Se mi lasci Saga”.
Il rumore schioccante del legno tra le mani di Aiolos attrasse lo sguardo di Aphrodite che, ignorando bellamente gli occhi del ragazzo, si godeva lo spettacolo come uno spettatore non pagante: si chiese, a un certo punto, quanto l'arco avrebbe resistito a quella presa dolorosa e piena di furia. 
Le mani di Aiolos erano sempre state forti, quante volte Shura glielo aveva ripetuto, fino alla nausea. Anzi, la nausea era sopraggiunta praticamente da subito. Ma Aphrodite non aveva mai chiesto a Shura di smettere di parlargliene e, comunque, aveva smesso lui, prima ancora che quel suo idolatrare lo mandasse del tutto fuori dai gangheri.
“Lasciarti... Saga...?”.
Eccolo l'autocontrollo del Sagittario: il fuoco freddo, la bomba inesplosa, il raschiare nervoso degli zoccoli sulla terra riarsa... prima della carica.
Tanto aveva impiegato per pronunciare quelle due sole parole.
“Hai gettato la spugna. Alla prima occasione... a dire il vero, credevo avresti resistito di più”. Le mani dell'uomo si muovevano veloci, irriverenti, insopportabili, tanto eleganti da sembrare comiche, eppure quel sorriso, la sua voce saccente, la testa che si muoveva con studiata eleganza, gli occhi che parevano accarezzare l'aria mentre si chiudevano alla luce, per riaprirsi sempre più carichi di ironia, carognate, sicurezza.
Catturavano altri, ma irritavano Aiolos, di quello era certo.
“Non parlare di cose che non sai”.
Il corpo dello svedese si immobilizzò, la bocca deliziosa si aprì e una risata cristallina e caustica tirò all'inverosimile i nervi del ragazzo: il legno tra le sue mani scricchiolò pericolosamente, la cupezza del mattino divenne vero e proprio nero di seppia sul suo capo. 
Eppure, ogni sentore di rabbia si volatilizzò quando la risata si interruppe, ingollata dalla stessa gola che l'aveva concepita. E le labbra, che si erano increspate in un sorriso sprezzante, si indurirono in una curva di rabbia.
“Oh, Aiolos, quello che non sa le cose sei tu”. La figura di Aphrodite scivolò a terra, i sandali risuonarono sordi a contatto con la terra, gli occhi di ghiaccio si fecero cupi e tempestosi, il bel viso si contrasse duro sotto le mascelle tese. La voce risuonò tenebrosa come mai era stata. Istintivamente, Aiolos fece un passo indietro, scosso più che intimorito da quella visione inedita. “Forse tu sei come me... e desideri tutto e subito. Sei mosso da quel raspante desiderio di vita che ci rincorre, mordendoci le caviglie perché fermarci non ci è concesso. O perché temiamo lo scorrere del tempo così tanto da doverlo anticipare con passi troppi lunghi, che non tutti comprendono. E non tutti riescono a starci dietro”.
Dovette alzare lo sguardo, Aphrodite, non senza irritazione, perché quel ragazzo lo superava in altezza e lui era solo un moccioso ed era un idiota. Così allungò una mano, artigliò il mento di Aiolos e lo abbassò, così che comunque fosse lui, Aphrodite, in posizione di dominanza.
“Non so se mi fai più pena o rabbia”.
“Pe... na?”. 
Stretto nella morsa della mano di Pisces, Aiolos poteva guardare solo lui, addentrandosi controvoglia nella profondità dei suoi occhi, azzurri come acquamarina e freddi come il ghiaccio polare: era lì a vorticare la rabbia, ma non era sola. Mescolata ad essa, incapace di mescersi, c'era qualcosa di più che il ragazzo non ricordava di avergli mai visto addosso: preoccupazione.
“Non ti ho lasciato Saga perché tu potessi scappare con la coda tra le gambe alla prima difficoltà” sibilò Aphrodite, stringendo ancora di più la sua mascella tra le dita. “Hai sempre sfoderato quel tuo coraggio nel modo più brutale, senza battere ciglio... e ora, che ne basterebbe così poco, osi andartene da lui?!”.
Man mano che le parole dello svedese uscivano dalla sua bocca, il colorito di Aiolos svaniva dal viso, mentre gli occhi parevano crescere di verde e confusa rabbia: coraggio? E per cosa? Lui era stato respinto... e lui che ne sapeva?!
“Mi è bastato vederlo per capire cosa era successo, non servono certo squilli di trombe e proclami!”.
La bocca di Aiolos fu sul punto di aprirsi, ma Aphrodite pareva avere la capacità di leggere i suoi pensieri e formularne altri con una velocità impressionante. “Ti ha respinto. Saga che respinge... non ti è sembrato strano? Non ti sei domandato nemmeno un perché? Non sarai così idiota come penso?”.
E, davvero, ora non vi era ironia. La sua era proprio una constatazione lucida dei fatti.
L'epiteto ebbe l'effetto voluto e il ragazzo si ritrovò di nuovo libero, di nuovo svettante su Pisces, di nuovo irritato, anche se in maniera decisamente differente.
“Aphrodite” ruggì lui, l'arco fortunatamente a terra da qualche minuto, altrimenti la presa del suo pugno sarebbe stata fatale.
“Aiolos” venne la flemmatica e destabilizzante risposta dell'altro. Pareva che lo svedese si fosse acquietato, come se avesse raggiunto la fine di un lungo percorso di liberazione – e forse lo era stato. “Puoi anche non perdere altro tempo e andare da lui. Mi ringrazierai un'altra volta” e ora la boria regnava sovrana, come la Dea di cui portava il nome, pensò il ragazzo per un attimo, ancora irretito da lui.
Ma, seguendo quella specie di ordine-consiglio, raccolse il proprio arco e abbandonò quel suo rifugio con passo spedito, animo inquieto e stomaco in fondo ai piedi: certo che aveva pensato al 'perché', non era un idiota come l'aveva definito Pisces! Aveva girato attorno ad ogni possibile motivazione ed era giunto alla conclusione che un rifiuto con tale energia e disperazione non poteva essere che legato ai tredici anni che li avevano visti divisi. 
A dire il vero, era un motivo talmente semplice da renderlo ancora più inquietante, qualcosa di oscuro che annichiliva ogni sua sciocca remora o paura.
Era stato una fiamma, così stupida da bruciare come una palla infuocata e ignorare del tutto la natura dell'aria: sapeva, Aiolos, che l'aria non aveva smesso di spirare... ma per lui l'avrebbe ancora fatto?

  
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