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Autore: _Alexis J Frost_    01/08/2018    0 recensioni
{Spoiler!; ElliLeo.}
Di Leo...oh, di lui non v'era più traccia.
Perlomeno, così era fino a quando il ricordo del sole non riemergeva, lasciandolo con la sensazione dei pallidi raggi sul corpo ed il volto. E com'erano calde, quell'ormai fioche luci. Com'erano benevole, com'erano amiche ed amate. Anche se irreali, possedevano la giusta dolcezza per trasportarlo laddove avrebbe voluto stare, lì, dove era rimasto il suo cuore, quel cuore meschino che lo ricondusse dove tutto ebbe inizio, tra mura bianche e un piccolo bosco intorno.
Fianna.
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Elliot Nightray, Leo Baskerville
Note: What if? | Avvertimenti: Spoiler!
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Illusion
 
I raggi del sole penetravano deliziosamente all'interno della vasta magione dei Baskerville, donando dei riflessi dorati alle pareti ed i pregiati arricchimenti (quali cornici d'oro o statuette di argento) che sembravano brillare grazie al loro effetto. L'aria era calda, fastidiosamente pesante per gli amanti della delicata frescura eppure tipica per quel periodo dell'anno. L'estate stava ormai raggiungendo il suo culmine e tutto all'infuori della magione portava il nome di quella gioiosa, vivace stagione che donava a molti il buon umore.
Leo non riusciva proprio a sopportarla, l'estate. Il sole brillante sembrava eclissargli il cuore con furba malizia ben mascherata dal tepore; il cielo, così azzurro e limpido, portava con sé il ricordo di un tesoro perduto acciuffabile solo nei sogni. Il numero otto, talvolta considerato perfetto per la sua simmetrica forma, feriva come ripetuti tagli di un coltello che non sfiorava la carne, bensì apriva sanguinanti ferite nel cuore, ferite impossibili da cicatrizzare.
No, Leo non aveva mai amato quella stagione, preferendo sempre l'inverno e l'autunno.
Non avrebbe mai amato il Sole e il ciel sereno. Non più.
Solo una volta, una singola volta quei colori erano riusciti ad ammaliarlo, incantandolo con estrema abilità fino a divenire quanto di più importante avesse, quel che più amava in quella sua buia esistenza.
Ma anche quel sole era sparito. Probabilmente la luce non doveva far parte di lui, un'esistenza troppo cupa e triste, portatrice di sventure ed essa stessa pura sciagura racchiusa nel corpo di un piccolo ragazzo.
«Che fastidio.» Borbottò Leo, con gli occhi socchiusi che provavano difficoltà a leggere i documenti che teneva tra le mani. Il ragazzo si alzò di scatto per richiudere i rossi tendaggi alle sue spalle e si lasciò andare ad un profondo, sconsolato sospiro.
Lo sguardo si poggiò allora sul piccolo calendario posto sulla sua scrivania, cercando di ricordare che giorno fosse quell'ennesimo che era costretto a vivere con profondo disappunto e taciuta agonia. Da tempo ormai tendeva a perdere la cognizione del tempo, non gli importava più nulla dei giorni o delle ore. Si limitava a vivere meccanicamente, senza alcuno scopo se non portare a compimento i compiti della famiglia, in passiva attesa della sua fine. Perché doveva pur finire, la sua vita, nevvero? Anche lui prima o poi avrebbe raggiunto l'ormai attesa pace eterna. Credeva di meritare almeno quella, dopotutto.
Otto Agosto. Quello era il giorno.
Otto Agosto.
Il giorno in cui il suo Sole, la sua metà, avrebbe dovuto compiere gli anni.
Leo si alzò nuovamente, non curandosi della sedia che sbatteva contro il pavimento, la stessa che non aveva né udito, né visto cadere poiché preda di pensieri e ricordi.
«L'avevo dimenticato, che stupido. Avevo persino dimenticato il suo compleanno.»
Mormorò, in disappunto con se stesso. Diceva di voler dimenticare tutto, di non provare più nulla se non che fioche vibrazioni che gli giravano intorno da quando tutto era finito, ma vi era una cosa che non voleva dimenticare e che mai avrebbe dimenticato, la più bella eppure la più dolorosa tra tutte: Elliot. Il suo caro Elliot.
 Il ragazzo dagli occhi puntellati d'oro raggiunse l'ingresso e prese la sua giacca -si era ormai abituato a quel caldo vestiario data la sua posizione sociale che lo costringeva a mostrarsi in abiti formali in qualsiasi stagione- indossandola ed uscendo dalla sua dimora. A gran voce chiamò il cocchiere, il quale presto si presentò all'ingresso, togliendosi il cappello dal capo e chinandosi appena in segno di rispettoso saluto.
«Dove vuole che la porti, mio signore?»
«A Sablier.»
L'uomo sembrò sorpreso da tale inusuale richiesta e strabuzzò i piccoli occhi.
«Ma...»
«Nessuna domanda. Mi conduca lì.»
«Come desidera, mio signore.»
Il cocchiere non poté che chinare il capo ed obbedire, rindossando il proprio cappello ed attendendo che il suo padrone salisse sulla carrozza, la quale prontamente partì non appena lo sportello venne richiuso.
Leo sapeva che il viaggio sarebbe durato almeno un paio d'ore data la distanza dalla sua magione a Sablier ma... non gli importava. Tutto aveva smesso di avere importanza da quel fatidico giorno di non molti anni prima, quando perdette tutto, persino parte della sua vita e della sua stessa anima. Il mondo non era diventato altro che una selva di fiochi stimoli che non riuscivano a sfiorarlo, giacché il muro che egli stesso aveva eretto intorno al suo essere risultava essere ben più resistente, inespugnabile.
Tuttavia, il ricordo di lui era sempre in grado di mandare in frantumi la barriera e Leo trovava quasi ironico il pensiero di Elliot che sia in vita, sia in morte, potesse davvero essere l'unico a risvegliare quel suo animo silente ed esonero dal tanto detestato mondo.
Socchiuse gli occhi, il giovane Baskerville, mordendosi l'interno di una guancia per cacciar via le lacrime, quelle ormai fedele compagne che riapparivano sempre quando i ricordi bussavano alla sua porta. Quei ricordi che presto andarono al primo compleanno trascorso insieme ad Elliot, quando gli regalò quel volume di Holy Knight che l'amico attendeva trepidante. Quando Vanessa gli intimò di andare via senza che lui l'ascoltasse, poiché il suo caro amico e padrone aveva detto lui di volerlo al suo fianco.1
Perché così presto, Elliot? Perché abbandonarmi così presto?Avevo ancora bisogno di te, ne ho bisogno anche adesso.
Non aveva mai smesso di ripeterselo. Ogni giorno, almeno una volta, si ritrovava a formulare quel pensiero con lo stomaco stretto in una morsa ed il respiro che improvvisamente diveniva pesante.
Poi tutto spariva ed il vuoto lo abbracciava, concedendogli il sollievo della passività.
Fingendo di non provare emozioni, Leo continuava a vivere quella sua inutile vita, protetto da una gabbia mentale che ormai gli era tanto amica. Così i giorni si susseguivano, come cibi insipidi o una torta priva di zucchero.
«Siamo arrivati, mio signore.»
La voce del cocchiere lo destò da quei suoi intricati pensieri, facendogli con sorpresa notare che la carrozza fosse ormai ferma e lo sportello fosse stato aperto dallo stesso uomo che giusto poco prima stava guidando i cavalli.
 «La ringrazio», disse Leo, scendendo dalla vettura e liquidando l'uomo solo con le parole «Non penso impiegherò più di un'ora. Può fare ciò che vuole in questo lasso di tempo.»
L'uomo non poté far altro che acconsentire con un cenno, mentre osservava il padrone incamminarsi per quelle grigie strade desolate fino a quando non divenne che una macchia distante presto dissoltasi tra le macerie e il vuoto.
Una macchia dalle vesti scure che inspirava a pieni polmoni quell'aria dall'odore così familiare, con gli occhi che di tanto in tanto si socchiudevano nel figurare antiche forme ormai divenute ombre di una vita finita, oppure un sogno ad occhi aperti durato talmente poco da lasciargli il dubbio della veridicità che si confondeva con la meschina illusione.
Lui la seguiva, quell'illusione. Assecondava i suoi ricordi, lasciando che i piedi percossero il sentiero da esse dettato senza opporre resistenza alcuna.
D'altronde aveva con il tempo perduto anche la forza di opporsi, di resistere. Aveva perduto l'ostinazione, la caparbietà. Di lui era rimasto solo Glen; Glen che avrebbe dovuto portare a termine i compiti della famiglia, Glen, che doveva mantenere l'equilibrio dell'Abisso.
Glen.
Di Leo...oh, di lui non v'era più traccia.
Perlomeno, così era fino a quando il ricordo del sole non riemergeva, lasciandolo con la sensazione dei pallidi raggi sul corpo ed il volto. E com'erano calde, quell'ormai fioche luci. Com'erano benevole, com'erano amiche ed amate. Anche se irreali, possedevano la giusta dolcezza per trasportarlo laddove avrebbe voluto stare, lì, dove era rimasto il suo cuore, quel cuore meschino che lo ricondusse dove tutto ebbe inizio, tra mura bianche e un piccolo bosco intorno.
Fianna.
«Da quanto tempo...» Sussurrò il ragazzo, con gli occhi che guizzavano su quella struttura sporca corrosa dal tempo, avvolta da rovi e foglie, imbruttita da crepe e finestre rotte.
Come credere che quella, anni orsono, fosse stata la sua casa, l'unico tetto sopra il capo che lo avrebbe protetto? Come credere che nelle sue memorie quella struttura abbandonata pullulasse di voci e fosse dipinta da candido bianco, ergendosi forte nonostante intorno gravasse l'oscurità della tragedia?
Eppure quello scheletro era davvero la Fianna tanto amata ed odiata, la stessa che infine decise di raggiungere a passi svelti, agguantandone la maniglia della porta di legno che cigolò sinistra non appena fu spinta da quelle affusolate e fini mani.
Dei topi sguazzarono fuori al rimbombo dei suoi passi e, alzando lo sguardo, Leo scorgeva intricate e grandi ragnatele che si confondevano con la muffa e lo spesso strato di polvere che tutto avvolgeva. Vi era puzzo di chiuso e di marcio, nessuna luce ad illuminare le stanze ed i corridoi se non quella opaca del sole, così debole in quel luogo.
Se nei pressi della magione Baskerville i raggi splendevano, lì le nuvole parevano essere le signore incontrastate che solo per occasionale pietà si erano lasciate convincere a consentire un minimo spazio alla luce della Grande Stella, giusto il necessario per illuminargli la nostalgica via.
Leo ogni tanto si voltava indietro, sentendosi chiamare nel buio da simpatiche e vivaci voci in cerca dell'attenzione del fratello maggiore che tanto aveva sbagliato con loro.
Li vedeva, con gli occhi della memoria, mentre gli correvano incontro con il sorriso sulle labbra e la parlantina svelta. Provava l'istinto di allargare le braccia, stringerli affettuosamente a sé e promettergli che avrebbero giocato insieme e lo avrebbero fatto a lungo, fino a quando non fossero diventati adulti.
Ma, proprio quando lo avevano quasi raggiunto, quei fantasmi sparirono d'un tratto e le sue braccia protese si ritrovarono accolte da un vuoto incolmabile, freddo senza il calore di quei bambini che avrebbero dovuto riscaldarlo ed allietarlo.
Mi dispiace, bambini. So che è tutta colpa mia ma vi giuro, vi giuro che non avrei voluto. Vi volevo bene, dopotutto. Vi ho sempre voluto bene.
Questo avrebbe voluto dire. Parole che da sempre gli erano morte in gola e che neanche allora riusciva a pronunciare; parole che forse non sarebbe riuscito a dire mai, poiché inutili dopo così tanto tempo, inutili per redimere le sue colpe e allietare i suoi dolori.
Leo si alzò da terra, ricacciando indietro le lacrime, asciugando la sua guancia dall'unica troppo disobbediente che riuscì a solcargli il volto, infrangendosi con il pavimento ammuffito e crepato. Contemplò il nulla per svariati secondi prima di voltarsi indietro e lasciarsi nuovamente guidare dai ricordi, dai tendaggi rosati ora spariti, dalle donne dagli occhi bonari e lo sguardo gentile, dalla musica che si propagava dall'unica stanza attrezzata di un singolo pianoforte che solo un ragazzo dagli occhiali tondi e la chioma scomposta riusciva a suonare.
Lo stava ascoltando, quel ragazzo. Lo vedeva.
Vedeva con quanta concentrazione e passione pigiava quei tasti che da solo aveva imparato a suonare; vedeva la sua schiena china, le sottili dita affusolate. Vedeva il suo corpicino gracile, così apparentemente debole eppure così forte. Soprattutto, vedeva i sorrisi delle persone che passavano dinnanzi quella porta, avvertiva sulla sua pelle la leggerezza che quel pianista riusciva a donar loro e pensò a quanto cieco fosse stato allora, così avvolto nell'oscurità da non rendersi conto di aver dato della luce agli altri nonostante fosse la più cupa delle esistenze.
Poi, per un istante, il suo sguardo incontrò quello del suo fantasma passato. Si guardarono in silenzio in un frangente che gli parve eterno, nel quale nessuna parola venne proferita. Tuttavia, quella lontana ombra gli sorrise malinconica e Leo lesse, oltre quegli occhi nascosti da lenti e capelli, un barlume di mortificazione, una rassegnazione evidente e rimembrò che da sempre aveva saputo quale sarebbe stato il suo destino.
La sua esistenza era un sentiero maledetto e in quel sentiero non vi era spazio per l'espiazione. Ci aveva sperato, ci aveva provato, ci aveva creduto; ma un'anima dannata non può fuggire per sempre, stupido lui ad avere portato con sé anime innocenti; stupido lui ad aver acciuffato la mano del sole fino a farlo annegare nella sua medesima oscurità.
D'un tratto anche l'ombra sparì, lasciando che lo spazio intorno fosse nuovamente risucchiato dalla desolazione più cupa. Leo allora si avvicinò al pianoforte: osservò le sue componenti ricolme di polvere e rotti in alcuni punti, sfiorò con le dita quei tasti cosi familiari mentre i ricordi continuavano a tormentarlo quasi fossero reali, tangibili. Dopodiché si sedette, chiudendo gli occhi per ricacciare indietro le lacrime.
«Perché...perché è toccato a me questo?» Diceva in un mormorio strozzato. La gola bruciava, doleva come se avesse un male a propagarsi al suo interno, un male insopportabile che Leo ben conosceva. «Nonostante tutto questo tempo, mi sento più che mai da solo. Dicono che il tempo cura le ferite ma le mie... Elliot, dannazione, le mie sanguinano continuamente. Sono come Prometeo, continuamente dilaniato dalle aquile.»
Tra i singhiozzi, il giovane Baskerville cominciò a suonare. Il pianoforte era scordato, alcuni suoni fuoriuscivano stonati e striduli, quasi ad accentuare la tragedia che vi era tutt'intorno e che soprattutto faceva parte di quel componimento: Lacie.
Era come se vi fosse un vuoto, una mancanza reale che trascendeva il concetto stesso di tangibile e illusorio. Ma non durò molto, poiché quel componimento singolo, ritornò presto ad essere un'opera suonata a quattro mani.
Chissà per quale assurda ed inspiegabile ragione Leo non aprì mai i suoi occhi, convinto di esser stato appena risucchiato da un'illusione sublime, così reale da riportargli, anche se solo nell'immaginazione, la sua amata metà. Lo sentiva, di fianco a sé, sentiva la presenza di Elliot, della sua luce, delle sue mani che sfioravano le sue quando suonavano, così perfetti insieme da riuscire a creare qualcosa di magico nonostante quello strumento malandato.
E per quel lasso di tempo la sofferenza, la perdita, la solitudine e il dolore si dissolsero per dar spazio ad un'antica felicità che trasformò le lacrime d'agonia in lacrime di sollievo, come se fino ad allora avesse vissuto in incubo ma la realtà invece era piena di sole e di genuina felicità.
Quando si decise a schiudere le palpebre, sobbalzò nel vedere quel fantasma al suo fianco. Elliot era lì, accanto a lui, e stava sorridendogli con quel suo modo bambinesco e puro che Leo aveva sempre amato.
Le lacrime allora furono inarrestabili.
«Ell...Elliot, sei davvero tu?»
Singhiozzò, quando una mano ribelle e curiosa si protese verso quella figura, avvicinandosi ad uno zigomo che sotto la sua pelle era caldo, vivo. Troppo vivo per essere una mera illusione, troppo caldo per poter essere immaginato davvero.
«Elliot!» chiamò ancora, vittima di un'incredulità totale inesprimibile a parole.
Ma Elliot non parlò, limitandosi solo a sorridere e annuire, prima di allungare le sue braccia e stringerlo in un abbraccio a cui Leo si abbandonò completamente, come un bambino accolto dalla madre, o un uomo coccolato dalla propria amante.
A pieni polmoni respirò il profumo della sua luce, riconobbe ogni particolare di quel corpo, del suo odore e del suo calore e lo strinse, lo strinse così forte da far male, così forte nel terrore che sparisse ancora una volta e il gelo avrebbe rifatto ritorno nella sua vita. Elliot non pareva sentir dolore e anzi baciò i suoi capelli, continuò a stringerlo nel suo silenzio mentre Leo piangeva senza potersi dare un contegno nonostante lo avesse voluto.
E tra i singhiozzi e le lacrime chiamava l'amato nome, gli chiedeva se fosse vero, se fosse tornato da lui ma ancora una volta non aveva ricevuto risposta alcuna se non quell'abbraccio accompagnato da carezze e baci.
Rimasero quindi così per minuti, o forse ore; a rompere quel momento fu Elliot stesso il quale si allontanò di lui con gli occhi ricolmi di tristezza e dolore. Leo aveva dischiuso la bocca nel tentativo di parlare ma la voce gli morì in gola quando le sue labbra vennero baciate da quelle altrui, con malinconia e nostalgia. Fu un bacio lento, doloroso eppure dolce; ma il vero dolore venne quando Elliot si allontanò da lui del tutto, raggiungendo la finestra prima ancora che Leo se ne rendesse conto, fulmineo come un fantasma. Perché i morti non possono tornare tra i vivi e se ciò che vedeva era reale, sia maledetto il mondo stesso!, tutto doveva tornare alle origini e le anime fuggiasche non potevano che rientrare al loro mondo e seguire il loro cammino che le avrebbe in seguito portate in un nuovo corpo, in un'altra vita. Leo questo lo sapeva meglio di chiunque altro e forse fu proprio in nome di quella consapevolezza che evitò di farsi del male ulteriormente, non osando raggiungerlo, restando lì a fissarlo per catturare ogni minimo particolare e rimembrarlo fino alla fine dei giorni.
Guardò i suoi capelli biondo cenere, gli occhi blu, quel delizioso neo sotto l'occhio e la corporatura snella. Era bellissimo, bellissimo come da sempre gli suggerivano i ricordi. Il suo Elliot, il sole.
«Ti amo...Elliot.» Farfugliò, cercando di curvare le labbra in un sorriso. Erano parole che non era mai riuscito a pronunciare, parole che sorsero spontanee in quel momento, nel tragico terrore di non poterle dire mai più e convivere ancora con quell'enorme rimpianto.
Con il braccio si asciugò le lacrime e proseguì. «Ci rivedremo? O mi stai abbandonando per sempre?»
Ma nessuna voce venne udita dal nuovo Glen Baskerville, giacché era ben risaputo che i morti non parlassero. Tuttavia, ebbe comunque una risposta: mimata con le labbra, scandita lettera per lettera così che potesse decifrarla del tutto.
Ci rivedremo, Leo. Aveva detto il suo Elliot, con gli occhi blu che brillavano di speranza.  In un altro tempo, in un'altra vita, forse in un altro mondo. Ma ci rivedremo e allora non ti abbandonerò. Scusami, Leo.
Un attimo dopo dinnanzi alla finestra vi era il vuoto. Leo avrebbe dovuto pensare di aver sognato, di essere stato vittima di un'allucinazione disperata: tuttavia sentiva ancora quel profumo su di sé, avvertiva troppo chiaramente il sapore di Elliot sulle sue labbra. Non poteva esser stato un sogno e se così era...oh, pregava di sognare ancora e ancora, pregava di cadere nella follia e che questa gli regalasse sempre queste immagini fino al momento della sua morte.
Ma adesso in lui vi era un barlume di speranza, una piccola fiammella a cui decise di aggrapparsi. Sapeva che i cento rintocchi non avrebbero dovuto renderlo felice, tuttavia il mistero della vita e della morte era vasto abbastanza da concedere sorprese.
E chissà se per una volta, nella sua eterna oscurità, alla fine dei giochi potesse accendersi per lui una stella.



 
1. Questo è un riferimento ad un'altra mia oneshot: "Happy Birthday, Elliot!"
Angolo dell'autrice.
Ed eccomi tornata con l'ennessima ElliLeo!Questa fanfiction in realtà l'avevo iniziata un anno fa (dico davvero) ma tra una cosa e l'altra sono riuscita a terminarla solo ora. Come sempre spero sia di vostro gradimento, ci tengo particolarmente a questa oneshot e spero di esser riuscita a fare un buon lavoro. 
Alla prossima!
  
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