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Autore: Myrel    11/08/2018    0 recensioni
Una storia di vita tra i posti più belli del mondo. Un pittore inizia a raccontarsi partendo da un diario. L'attenzione del racconto è focalizzata sugli eventi del passato e sui ricordi di un incontro importante che gli ha cambiato, stravolto la vita. Un diario libero in cui l'autore può divagare su ciò che gli pare e indagare sulla sua stessa natura d'uomo. Sono presenti sue riflessioni personali e il progressivo cambiamento del modo di vedere la realtà attraverso il filtro delle esperienze.
Genere: Romantico, Science-fiction, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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Caro diario,
non so neanche come si scrive un diario, non so se sia corretto chiamarti caro, caro non mi sei, né ho mai avuto un rapporto con te. Gli unici oggetti a me cari sono i colori, le tele, non l’inchiostro su stupidi fogli di parole. Non odio le parole: vivo di parole. Non odio neanche la letteratura, non odio la poesia, ci fu un tempo in cui mi immergevo in esse e dalle quali traevo le mie ispirazioni. Odio i filosofi, quelli sì, quelli mi hanno fatto diventar matto, per loro abbandonai la lettura. Non pensavo che mi avrebbero portato a tale condizione, non pensavo che la forza che tutti attribuivano a quei pezzi di carta fosse vera, pensavo che la gente esagerasse, pensavo che la gente parlasse in generale della letteratura come di un qualcosa di sconosciuto a loro stessi e quindi pensavo anche che loro non sapessero quel che dicevano. Sperimentai con gli anni che quei  maledetti avevano ragione e che io, come sempre, mi ero sbagliato. Ormai ci ero cascato, ero entrato in questo labirinto ed uscirne mi sembrava quasi impossibile. La mia droga era diventata la conoscenza, ed il motivo era semplice.  Avevo sperimentato con gli anni la verità della solitudine della mente, l’incompiutezza dell’esistenza umana, avevo sperimentato che la tristezza a fine giornata, su una vecchio divano che era appartenuto a non so quale zio, era una condizione ricorrente ed inevitabile. Quel senso di non appartenenza al mondo mi aveva sempre accompagnato e tuttavia non potevo dirmi pienamente infelice. Scrivo questo diario perché me lo ha chiesto il mio medico, io non so come si scrive, mi ha detto di essere semplicemente me stesso e di scrivere le cose così come mi balzano in testa, nello stesso ordine. Se questo è un metodo per analizzare la mia pazza psiche, ti prego, dimmi cos’è questo senso di… non saprei dire di cosa. Difficile spiegare quello che penso, nella mia testa non scorrono parole, le emozioni, i pensieri, o almeno i miei, non sono facilmente esprimibili a parole.  Da sempre ho dedicato alle arti figurative il flusso caotico della mia testa e mi convincevo che era più semplice mescolare dei colori ed imprimerli su una tela per dare sfogo al mio ego. Quei messaggi così criptici potevano essere capiti anche da me e provavo un senso di piacere in questo. La chiave di lettura era solo mia e se gli altri in una macchia di colore ci vedevano una semplice macchia di colore, io ci vedevo il riassunto di una mia esperienza. Quando ero triste la mia tavolozza era così pasticciata. Vedevo le delusioni, le mie gioie, i miei momenti di ira che diventavano concreti, diventavano materiali e, vedendole prendere forma, me ne liberavo. Le mie emozioni erano reali e mi bastava vederle lì, davanti a me, per convincermi del fatto che non fossero più dentro me. Può sembrare banale e forse lo è, forse lo sono io stesso, ma la banalità mi ha sempre affascinato. Dopo aver cercato per tanto tempo la verità, una risposta in quei libri stupidi, in quei sistemi di pensiero così articolati e artificiali, ciò che più avevo iniziato a desiderare era la banalità.
Non so neanche se in questo momento sto mentendo a me stesso, che forse è la banalità quella dalla quale sono sempre fuggito. Non amavo stare solo. Non nel senso che preferissi la compagnia delle persone costantemente, ma nel senso che avevo continuamente bisogno di stimoli che solo gli altri esseri umani potevano darmi. Esseri umani come me, di carne e di ossa. Avevo rinunciato all’amore di una donna da non so quanto, forse non avevo mai dato realmente a me stesso una possibilità. Forse nelle donne vedevo solo l’immagine di mia madre. Mia madre. Quale delle due? Non ne avevo avuta neanche una. Quella biologica non l’ho mai conosciuta, di lei non seppi mai nulla e forse realmente i miei genitori di lei non seppero nulla da potermi dire. Ho scoperto di essere stato adottato da zio George che goffamente aveva cercato di consolarmi al suo funerale quando avevo solo 16 anni in preda alla disperazione. Non so se fu più traumatico aver perso la donna che per tutta la mia vita mi era stata accanto o aver saputo dal suo ubriaco fratello che in realtà quella stessa donna che io stavo piangendo, avesse tenuto dentro un segreto simile per così tanti anni. Non capirò mai il perché di questo segreto. Avrei potuto accettarlo. Insomma, avrei pensato bene di lei, mi aveva cresciuto ed amato come un figlio e io l’avevo amata come una madre. L’ultima volta che vidi il suo pallido viso in quella gelida chiesa, ricordo bene quale fu il mio pensiero: vedevo lì distesa una bugiarda. La vita ora mi sembra buffa. Avrei potuto approfittare di quell’ultimo sguardo per conservare nella mia mente un pensiero positivo, un ultimo addio a chi aveva avuto tanta cura di me, a chi mi aveva insegnato tutto. Invece no. Ero così arrabbiato con lei. Io ero completamente solo e lei, la bugiarda madre adorata, non solo mi aveva mentito, mi aveva distrutto, se ne era andata così. Non mi diede il tempo di incazzarmi. Ero incazzato con lei, non potei sfogarlo con lei stessa ed ero solo e l’aver represso quel sentimento di rabbia, mi faceva essere arrabbiato con me stesso. Mio padre poi, che dire di lui? Mi stava accanto quel giorno in chiesa. Un bugiardo in una chiesa. Un padre bugiardo accanto ad un finto figlio. Nelle settimane seguenti ero arrabbiato, ero ancora arrabbiato, ero sempre arrabbiato. Ormai non sapevo neanche più il perché. Quella casa era diventata vuota. Mio padre non aprì mai quel discorso e io non osai farlo, era una sfida del silenzio e io non intendevo perderla. Implicitamente si decise di non parlarne più. Non parlammo più neanche di quella povera defunta. La vita per me era diventata una routine e stavo con mio padre il minor tempo possibile. Pranzavamo e cenavamo insieme ascoltando solo il rumore della tv e delle nostre posate, poi lui si occupava malamente delle faccende che prima svolgeva sua moglie. Non mi importava di sapere se aveva o meno bisogno di aiuto. Anche io avevo avuto bisogno di aiuto e per me non c’era stato nessuno. Passarono gli anni e in quegli anni mi avvicinai alla pittura e alla lettura. Non piangevo, al massimo strappavo i miei disegni. Non capivo e cercavo delle risposte. Perché questo era capitato a me? La mia vita per me era stata così diversa e quell’evento era stato come una cesura per me. Smisi di avere amiche femmine, relazioni sentimentali. Erano tutte bugiarde come quella donna. Chissà cosa nascondevano. Non avevo conosciuto mia madre per sedici anni vivendo con lei, figuriamoci conoscere quelle. Di conseguenza smisi di credere all’amore, o forse non ci avevo ancora mai creduto. Anche negli anni successivi i miei rapporti con le donne duravano meno di un pomeriggio. Di loro non volevo sapere niente, erano ingannatrici. Come continuò la mia vita? Non lo so dire. Penso sia stata apparentemente una vita vissuta come veniva vissuta dai miei coetanei. Uscivo, frequentavo locali affollati, il sabato sera tornavo a casa tardi. A casa non c’era più nessuno ad aspettarmi con ansia. E comunque ero cresciuto. Non dovetti mai cercare un lavoro, mio padre non aveva mai insistito e poi pensava lui al sostentamento di quel che rimaneva della sua finta famiglia. Tre giorni prima del mio ventitreesimo compleanno, quell’uomo che con me aveva condiviso quella casa, morì. Aveva un problema ai polmoni. Quale? Non lo so. Non mi aveva detto niente. Non sapevo che stesse seguendo una cura e non lo vedevo neanche tanto male, pensavo che la sua brutta tosse derivasse da tutte le sigarette che ogni giorno fumava e forse era così. Probabilmente non mi aveva detto niente per non farmi stare nuovamente male, ma un’ulteriore bugia non avrebbe risollevato la mia condizione. Sinceramente non ho mai dato la colpa a lui per questa bugia: ero stato io a non interessarmi, a non fare domande quando mancava per giorni. Forse in quei giorni era ricoverato o forse usciva per vedere altre donne. Forse soffriva, forse non soffriva. Non sapevo niente e consapevolmente non volevo sapere niente, ormai il nostro rapporto era quello di due indifferenti coinquilini. Quando in quella casa rimasi solo, non mi sentii più solo rispetto a prima. Non sentivo la mancanza di quel padre dal quale per troppo tempo ero stato distante. Forse accadde il giorno prima o il giorno dopo del mio compleanno, non lo ricordo, ma ricevetti la notizia della mia eredità. Ero figlio unico, un finto figlio unico, e i miei genitori erano stati molto ricchi. Quella donna che mi aveva allevato ricevette a sua volta l’eredità di un padre avvocato. Non conobbi mai neanche quel nonno, ma da lui dovevano provenire quelle ricchezze, quelle proprietà che iniziai a vendere. Erano molte. I miei genitori adottivi avevano sempre avuto uno stile di vita sobrio e non si erano serviti di quel denaro, forse anche per altre ragioni. Io non ignoravo del tutto quel patrimonio, ma non mi era mancato mai nulla e non ci avevo mai pensato con particolare interesse. Non ricordo il giorno in cui ricevetti quella notizia, ma mi piace pensare che fosse il giorno stesso del mio compleanno per ricordare a me stesso che la vita si stava prendendo gioco di me. Mi aveva lasciato senza affetti e quasi privo di un’anima legata a qualcosa, ma mi aveva lasciato delle ricchezze alle quali neanche ero abituato e che neanche ritenevo necessarie. Può sembrare inverosimile, ero un ragazzo e i ragazzi sono incantati dalle cose materiali. Lo fui anche io forse i primi due anni. Comprai una bella macchina, comprai cose inutili e spesi tanto in frivolezze e poi mi resi conto proprio di quanto quelle cose fossero frivole. Tutto quello che acquistai con quei soldi, lo riuscii a rivendere o a regalare. Non mi serviva. Ero ricco ormai, e i soldi neanche mi servivano. Quella grande casa era troppo grande per me e non ci invitavo nessuno. Non avevo un gatto con cui parlare, avevo una domestica che si prendeva cura della casa ed un giardiniere che curava i bonsai di mia madre e nemmeno li conoscevo bene. Il colore scuro e ligneo di quella casa si adattava alle mie giornate. Le deboli luci rendevano visivamente il vuoto delle mie stagioni e da questi colori ne derivava la mia arte. Dipingevo. La mattina la trascorrevo restando a dormire fino a tardi. Non uscivo mai di giorno, neanche per fare la spesa. Di quei dipinti non ci ho mai fatto niente; alcuni li ho ammassati al secondo piano che ormai non uso più, altri li ho buttati via. Se avessi avuto un lavoro, forse avrei avuto anche una vita più stimolante e non avrei neanche avuto il tempo per l’arte e per i pensieri. Non pensai proprio al lavoro, in nessuna fase della mia vita. Cosa avrei potuto fare? Non sapevo fare niente e non volevo imparare a fare niente.
La svolta della mia vita fu inaspettata. Era una mattina di primavera. La domestica pensò di farmi un regalo per il mio onomastico, io non sapevo neanche che fosse il mio onomastico. Mi svegliai nella mia casa che non aveva più l’odore di quella vecchia moquette che avevo sempre odiato. La casa era pervasa da un forte odore di buono. Mi svegliai con quell’odore e quel risveglio fu triste. Non capii perché, ma ero più che furioso. Avevo ricordato l’odore di quei cornetti congelati che mia madre al mattino riscaldava per me e, ancor prima di aprire gli occhi, la sensazione fu piacevole. Fu il contatto con la realtà ad essere emotivamente rivelatore di quel vuoto e di quell’insensatezza. La mia domestica mi aveva preparato una torta di mele. Era così bella, così curata e sembrava fatta da una brava donna, per questo la licenziai. Non volli sentire le sue lamentele e le sue accuse, la riassunsi nuovamente dopo quasi una settimana, non avevo voglia di cercare un’altra domestica e non ero sicuro di poterne trovare un’altra che parlasse così poco. La cosa importante fu che quella donna, mentre incredula (per il suo licenziamento derivato da un buon gesto) mi accusava di in appropriatezza e di essere un uomo incapace di vivere e di essere “normale”, mi consigliò, quasi con rabbia, di spendere quei quattrini in viaggi, in esperienze che mi avrebbero almeno allontanato da quella monotonia. Mi iniziò a dire (o meglio ad urlare), che le cose spiacevoli capitano a tutti e che almeno io avevo la possibilità di fare quello che volevo, di ricominciare. Io ero nella stanza accanto per dimostrare che non volevo che le sue parole mi raggiungessero. Poi iniziò a parlarmi della sua vita difficile, del bisogno che aveva di quel lavoro e altre cose di cui mi importava molto poco. Non era l’unica persona a stare in quelle condizioni e di certo nel mondo c’erano molte altre persone in condizioni peggiori e io non ne ero responsabile e non dovevo farmene carico. Quella giornata fu lunga. Passai molte ore steso sul divano, fermo a fissare il soffitto. Lo facevo molte volte, soprattutto nelle giornate più calde, e mi soffermavo a pensare a quanto quel divano fosse scomodo o avesse un brutto tessuto che mi creava un fastidioso prurito. Era un divano antico, non cambiai mai quell’arredamento. Quel giorno forse il divano diventò più comodi e non mi disturbava più quella macchia di vino che zia Gilda aveva creato troppi anni prima durante una festa. In quella casa non c’erano più state feste. Le parole “monotonia”, “ricominciare”, “viaggi”, mi risuonavano nella testa e non potei non pensarci.
Trascorsero due giorni, ero rimasto in casa solo, non uscivo ormai quasi più con quei vecchi amici, alcuni avevano una famiglia, altri un lavoro e troppi impegni. Per due giorni non aprii neanche le finestre che mia madre e la mia domestica aprivano sempre per far “circolare l’aria”. Era Giovedì, era Aprile, e io stavo per riprendere in mano la mia vita. Ero nuovamente alla ricerca di qualcosa, ma di cosa? Non potevo sul serio fare un viaggio, non ci avevo neanche pensato abbastanza e non avevo neanche mai pensato ad una meta.  Decisi però di uscire, di uscire di mattina. Non sapevo per fare cosa e mi aggrappai nuovamente alla mia unica certezza, una tela. Avevo pensato che forse sarebbe stata una buona idea trovare un nuovo soggetto da dipingere. Potevo smetterla di dipingere le mie emozioni, potevo iniziare a dipingere ciò che c’era fuori dalla mia casa, dalla mia realtà. Un’idea mi venne guardando un quadro che era appartenuto a mia nonna e che si trovava nel mio salotto. Era una riproduzione de le Les Deux Sœurs di Renoir.  Pensai di voler dipingere qualcosa di verde o delle persone, scena di vita quotidiana o uno stagno. Qualsiasi cosa che potesse tenermi lontano dal grigiore. Volevo ritrovare i colori.
   
 
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