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Autore: OrangePaint    15/08/2018    1 recensioni
Piccola storia ambientata nella terza stagione, prima che John e Mary si sposino.
Sherlock si trova in ospedale. Ho provato a raccontare dal punto di vista di John la situazione che si trova ad affrontare di nuovo, il pericolo di perdere il suo migliore amico un'altra volta e i suoi sentimenti.
Tre capitoli più un epilogo.
[Johnlock]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mary Morstan, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Nessuno dei personaggi rappresentati mi appartiene.
Sono tutti frutto dell'immaginazione di Arthur Conan Doyle.

1. Paura




Piove.
Il collo del tuo cappotto è zuppo, i tuoi capelli irrimediabilmente bagnati. Gocce di pioggia e di sudore percorrono il tuo viso ancora ammorbidito dal sonno. Normalmente ti vergogneresti ad andare in giro in pigiama, ma ora non te ne sei nemmeno accorto; il tuo cervello non ha neanche registrato che sta piovendo e tu corri, corri e annaspi nel traffico di Londra, non senti i clacson né la pioggia sulla pelle o il caldo umido insopportabile della primavera inglese. Riesci soltanto ad avvertire quella sensazione, orrendamente familiare, quella in cui qualcosa ti trafigge il cuore e ti senti cadere a terra. Il pavimento si inclina e compare dal nulla quella nausea tremenda, come se fossi appena sceso da una giostra infernale. Ti viene da vomitare, ma l’idea di fermarti non ti passa nemmeno per la testa: non è un’opzione.
 
«Ho… Hol…» ti sente dire quel povero ragazzo al banco della ricezione dell’ospedale, costretto ad assistere a quella scena pietosa di un uomo stravolto, occhi vuoti, zuppo, con il fiatone e una probabile polmonite in arrivo. La voce ti esce a malapena e tu senti un sapore ferruginoso ogni volta che cerchi di darle fiato, come se da un momento all’altro stessi per tossire sangue. L’infermiere ti fissa col capo inclinato come se parlassi una lingua aliena, con il risultato di farti irritare all’inverosimile; stai per prendergli il colletto del camice celeste e minacciarlo di morte, ma decidi di trattenerti, prendi due affrettati respiri e ci riprovi.
«Holmes! Sto cercando Sherlock Holmes», riesci ad urlare, con la voce roca di chi si è appena fatto chilometri correndo sotto un acquazzone. Il giovane, con addosso una faccia da “e quanto ci voleva per dire un nome?” che ti invoglia ulteriormente a prenderlo a ceffoni, sfoglia svogliato dei registri.
«Mi hanno detto che è stato ricoverato qui stamattina» aggiungi per velocizzare l’operazione. Poi ti sporgi oltre il banco con fare stranamente minaccioso, per mettere pressione.
«Holmes, Sherlock… eccolo. Stanza 157. …Vuole un asciugamano?» balbetta lui, indicandoti. Tu non hai sentito e sei già partito verso la stanza, che grazie al cielo sai già dove si trova. Almeno ci arriverai più in fretta. Il tuo passo è veloce e scomposto e sembri un maratoneta dilettante che arriva stremato alla fine di una gara, mentre le tue scarpe scricchiolano bagnate e tu fai il conto alla rovescia delle stanze. 179… 175… 173… 167. Arrivato alla 161, il telefono squilla. Ignori la chiamata e procedi, sta’ zitto, aggeggio infernale, non ora.

Non appena vedi il tuo amico sdraiato sul letto senti un tuffo al cuore, come se fino a quel momento avessi sperato che a Londra ci fosse un altro Sherlock Holmes andato in overdose quel 30 aprile. Adocchi tutti i macchinari presenti nella stanza e d’istinto prendi in mano la cartella clinica in fondo al letto, senza fidarti dei medici dell’ospedale. Sposti poi gli occhi verso Sherlock, senza alzare il viso dalla cartella. Hai paura di guardare? Codardo. E poi te ne accorgi. Cazzo, è ridotto male.
Prendi un sonoro respiro dal naso, chiudi gli occhi e ti dirigi verso di lui con fare marziale. Osservi il suo viso addormentato, la fronte corrugata e imperlata di sudore, coperta dai riccioli scuri e increspati in cattive condizioni. Porti l’indice e il medio sotto la sua mandibola inclinando delicatamente il capo ed esamini con cura la carnagione malata. Prima che tu possa pensare qualcosa, la tua mano sinistra scivola verso il suo polso e tu controlli ossessivamente che il cuore stia ancora pulsando, nonostante l’elettrocardiogramma l’abbia ribadito costantemente con quegli intermittenti bip meccanici.
Cristo, è vivo. Cristo.
Il telefono squilla ancora. Non rispondi. La tua mano è incapace di lasciar andare quel polso sottile e inerme e i tuoi occhi di spostarsi da quel pallido viso corrucciato.
«John». Non senti.
Noti l’avambraccio scoperto dal camice azzurro e ti rendi conto con orrore di quei buchi scuri sulla pelle candida. Non era un incubo. Si è fatto di nuovo.
«John!»
Stavolta senti la voce di Lestrade come in lontananza e ne sei riportato alla realtà. Sussulti e ti giri verso di lui, che ha una mano posata sulla tua spalla. Non ti sei accorto che era lì da tutto il tempo.
«Sono ore che cerco di avere la tua attenzione» sospira, senza alcun tono di rimprovero nella voce.
«Greg… cosa è successo? Come è andata? Dove l’hai trovato? Perché non l’hai tenuto d’occhio, porca puttana?!» Davvero, adesso incolpi Lestrade? Idiota, sei stato tu a lasciarlo solo.
«Calmati. Ero andato a Baker street per un consulto e l’ho trovato a terra, privo di conoscenza. L’ho fatto portare qui e ti ho chiamato subito».
Dannazione, dannazione. Dannato idiota, perché non ti sei accorto che qualcosa non andava?
«Il tuo cellulare continua a squillare da un po’. Non sarà Mary?»
Già, stamattina non le hai detto dove andavi. Sarà preoccupata.
«è stato privo di sensi tutto questo tempo?» chiedi, camminando nervosamente su e giù per la stanza e ignorando di nuovo il telefono. «Mycroft ne è stato informato? Il fratello». Il detective apre la bocca per parlare, ma lo interrompi. «Cosa… come… Greg. Fammi capire».
Dio, che voce da disperato.
Lui ti rivolge uno sguardo carico di compassione. «John, calmati. Non ha ancora ripreso conoscenza, no, ma i medici hanno detto che è fuori pericolo, perciò finché non rinverrà stiamo tranquilli. Sono stato con lui tutto il tempo. Il fratello è stato avvisato da uno dei miei agenti poco fa. È in Germania, pare, ma ha detto che salirà sul primo aereo, sarà qui presto». La sua voce è dolce e comprensiva mentre risponde alla lista di domande che gli hai appena posto a raffica.
«Ma… perché? Cosa… cosa può essere successo…» mormori, confuso. Per un attimo hai la sensazione che se ti impegnassi, una risposta la troveresti. Ma ora non riesci a pensare.
«Questo potrà dircelo soltanto lui, temo», risponde Greg, e lascia la stanza dopo averti chiesto se vuoi un caffè.
Le forze ti abbandonano e tutta la stanchezza della corsa sotto la pioggia e della sveglia a dir poco brusca ti investono come un treno.
Perché, Sherlock, perché l’hai fatto. Perché non ero lì con te, perché non ti ho fermato. Il pensiero fisso ti gira in testa come una cantilena, mentre ti accasci su una sedia accanto a lui e non lo perdi d’occhio. Lo sguardo fisso su quell’uomo addormentato, ora hai paura di perderlo anche solo se sbattessi un attimo le palpebre. Titubante, chiudi una mano a pugno e, dopo aver stretto con forza il nulla per qualche secondo, raggiungi piano la sua e la prendi, accarezzandola. È tiepida.
Il cellulare suona ancora, ma tu non molli la presa.








Angolo di OrangePaint-------------------------------
Spero di essere riuscita a riportare decentemente quello che può avere provato il nostro dottore in una situazione del genere.
Vedo il loro rapporto nella terza stagione come un lento realizzare di John i propri sentimenti (per poi ricominciare a negarli nella stagione dopo, vabbè). Adoro questi due. La prima volta che ho visto la serie (all'epoca c'erano due stagioni) la vedevo solo come un'amicizia, ma mi sono resa conto che è davvero molto, molto di più, per quanto ce lo nascondano bene (hahaha). Grazie mille per aver letto fino in fondo, se voleste lasciare un commento ne sarei più che felice! Pubblicherò il prossimo capitolo tra qualche giorno. Till then:)
OrangePaint

 
  
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