Arthur si sveglia
perché qualcuno sta
allontanando da lui il calore in cui era sepolto. Emette un verso di
protesta e
subito dopo la voce di Eames mormora: «Torna a dormire.
È ancora troppo presto.
Ti sveglio io fra un po’.» Per una volta, fa come
dice senza obiettare, dopo
tutto addormentarsi prima che suoni la sveglia sembra proprio
un’ottima idea.
Si sveglia di
nuovo quando Eames lo
avvisa: «Arthur, sto per uscire…» Apre
gli occhi e suo marito è lì vicino a
lui, vestito e con il profumo del doccia shampoo biologico
all’arancia che ha
comprato la settimana scorsa.
«Perché
non sei a letto con me?» gli
chiede, con la voce morbida del sonno.
«Lo sai
che devo andare a Madrid per
conto di Aaron. Non fare finta di niente!» replica lui,
sorridendo.
«Posso
offrirti qualcosa in cambio per
farti restare… che ne dici del sesso? Tu non rifiuti mai un
po’ di sano sesso
orale o del rimming o magari
entrambi, che te ne sembra?»
Eames ride, gli
bacia le labbra
inumidendole con le sue che sanno di dentifricio alla menta.
«Sono
solo tre giorni» dice
appoggiando la fronte alla sua.
Arthur sospira,
non è quello il
problema. Sono le sue stramaledette ansie e paranoie che lo stanno
tormentando
da giorni, non appena ha saputo che Eames andrà a Madrid.
«Sono
passati al livello tre di
sicurezza in Spagna. Ci sono svariate minacce di attacchi
terroristici» sussurra.
Poi prende la sua mano sinistra intrecciando le dita con le sue e
prosegue: «Lo
so che anche se non facciamo più quelle vite,
c’è ancora un soldato da qualche
parte dentro di te. Se fosse necessario, ti prego Eames, tiralo fuori e
torna
da me.»
Lui lo bacia di
nuovo, gli dà un bacio
tenero e teso al tempo stesso. La sua espressione è seria,
mentre dice: «Hai la
mia parola.»
Lo osserva
uscire, mentre si prepara
mentalmente a una nuova giornata. Sono le 05.45: anche se è
presto, gli sembra
impossibile riaddormentarsi, perciò si reca in bagno per
lavarsi il viso e
spazzolarsi i denti. Si veste ed esce con le cuffie nelle orecchie. Fa
una
corsa leggera, impostando un passo non troppo veloce, corre per una
buona
mezz’ora, finché si rende conto che è
finito in un’altra zona della città,
senza ricordarsi che strada ha percorso per arrivare fin qui.
È una cosa che
gli capita abbastanza spesso: quando corre o è concentrato
in un’attività
fisica, la sua mente si distacca dalla realtà e si lascia
trasportare dalla
musica. Si volta e torna indietro cambiando percorso, fino a
raggiungere di
nuovo casa sua, per poi fare stretching
e rilassarsi sotto la doccia tiepida.
Sta finendo di
leggere le notizie sul tablet
quando suona il campanello alle
08.15. Apre la porta a Claire, la signora delle pulizie, che lo saluta:
«Ciao
Arthur. Scusa se sono in anticipo, ma oggi devo andare via un
po’ prima, perché
mio figlio ha un appuntamento dal dentista.»
La fa entrare,
mentre le dice: «Non ti
preoccupare, lo sai che per me puoi gestire gli orari come
vuoi.»
«Grazie.
Magari fossero tutti
flessibili come te!»
Claire si dirige
di sopra, per
iniziare le pulizie, mentre Arthur torna in cucina, finisce di fare
colazione e
carica le stoviglie sporche nella lavapiatti.
***
Si sveglia di
soprassalto non appena
avverte il rumore delle chiavi nella serratura del portone. Nonostante
non sia
più un agente sul campo riesce ancora distinguere ogni
minimo rumore nel sonno.
Probabilmente è una parte di sé che non
scomparirà mai del tutto. Sospira,
mentre si aggiusta la coperta sul petto, ascoltando i passi di Eames al
piano
terra. Poco dopo, suo marito entra nella loro stanza, spegne
l’allarme
silenzioso che ha iniziato a lampeggiare dopo aver aperto la porta e
posa il
bagaglio sul tappeto. Dopo essersi sfilato le scarpe, si avvicina al
letto,
accende la lampada e gli chiede, piegandosi sopra di lui:
«Arthur, ti ho
svegliato?»
«Non fa
niente. Vieni qui» mormora
lui.
Eames ubbidisce e
prende il suo viso
tra le mani per baciarlo. Arthur si lascia trasportare, attirandolo a
sé,
finché Eames è steso sopra di lui e Arthur
è invaso dal suo profumo. Quando si
separano, gli domanda: «Tutto bene a Madrid?»
Lui annuisce, per
poi chiedergli: «Hai
mangiato?»
«Sì,
tu?»
«Ho
cenato prima di salire in aereo.»
Arthur lo bacia
ancora, poi sussurra:
«Mi sei mancato.»
«Anche
tu» Eames gli regala uno dei
suoi sorrisi teneri, prima di riappropriarsi delle sue labbra. Si
lasciano andare,
assecondando la loro fame: baci e morsi e lingue che si reclamano e
respiri
pesanti che si rincorrono. Arthur gli sfila la maglietta e mentre Eames
si
solleva per togliersi i jeans, lui scosta il piumone e si toglie
rapidamente i
boxer che indossa. Afferra il lubrificante dal comodino per versarne
qualche
goccia sulla mano. Si concede qualche rapida carezza e in pochi secondi
è
completamente duro.
Eames si getta
sopra di lui per
baciargli il petto e poi scendere lungo il fianco sinistro per lambire
con la
lingua la sua cicatrice. Assapora ancora la carne del suo addome fino a
tracciare una lunga scia verso il suo inguine. Eames lo accoglie tra le
labbra
e muove la sua fantastica bocca lungo il suo membro. Arthur sospira,
gli
accarezza i capelli con una mano, ma poco dopo dice: «Babe, torna qui.» Non vuole
venire così, vuole sentire il peso e il
calore di Eames sopra di sé che lo schiacciano contro il
materasso.
Suo marito lo
accontenta, rilasciando
il suo sesso con un sonoro pop. Gli
mordicchia la carne bianca e tenera dell’interno coscia,
lecca la piega del suo
inguine, per poi ripercorrere il tragitto che ha solcato sul suo corpo.
Quando
Eames torna a baciarlo, Arthur allarga un po’ le gambe per
fargli spazio,
avvolge la sua schiena con le braccia e muove il bacino spingendo i
loro membri
l’uno contro l’altro. Dio, è intossicato
dalla sua presenza, dai suoi gemiti
che Arthur inghiotte con ogni bacio che si scambiano, dal suo corpo
solido che
è la cosa più erotica che abbia mai toccato in
vita sua.
È come
se per loro sia impossibile non
essere attratti l’uno dall’altro, come due magneti
dai poli opposti. A volte
basta così poco per accenderli, per incendiare quella
passione irruenta e
sensuale: una battuta, un’espressione maliziosa, un bacio
tenero che viene
approfondito.
Si amano con
movimenti languidi,
spingendosi l’uno contro l’altro, avvinghiati nella
lussuria del sesso e nella
tenerezza dell’amore. Solo Eames può farlo sentire
così: bello e amato e giusto
e osceno, con la mente offuscata dagli innumerevoli modi in cui
desidera il suo
compagno e con la consapevolezza che non esiste vita senza di lui.
***
Più
tardi, abbracciati sul letto, si
accarezzano piano e si baciano in silenzio.
Eames interrompe
i suoi pensieri
dicendo: «Ho invitato a cena mio padre domani sera. Cerca di
non intimorirlo
troppo, va bene?»
«Che
intendi con troppo?»
«Per
quanto io sia bravo a creare
illusioni, so anche essere realista: chiederti di non spaventarlo per
niente e
fingere che sia tutto rose e fiori mi pare un po’ eccessivo.
Cerca solo di
limitarti e di non infastidirti se fa qualche domanda inopportuna.
È solo
curioso.»
C’è
un pensiero fugace e acido che Arthur
non riesce a frenare nella sua testa: “Curioso di cosa? Del
fatto che tu sia un
uomo realizzato, senza il suo aiuto, felice e migliore di quanto lui
possa
essere mai stato?” Eppure non lo dice ad alta voce,
perché Eames ha bisogno di
suo padre e Arthur si è ripromesso tempo fa che non avrebbe
boicottato questo
riavvicinamento. Inoltre, sa che suo marito può essere
oggettivo, perciò se parla
così di suo padre, deve essere la verità. Eames
non si lascia influenzare dai
suoi sentimenti se deve fare un’analisi della psicologia di
una persona, anche
quando è un suo familiare. Perciò, replica:
«D’accordo. Immagino che dovremmo
attendere che ci sia più confidenza prima di mostrargli il
Mr. Blonde che c’è
in me!»
Suo marito lo
ripaga con una grossa risata
che gli scuote le spalle, per poi continuare a ridere per minuti
interi, mentre
immagina Arthur come un personaggio del film Reservoir
Dogs.
***
La mattina
seguente, non avendo molto
lavoro da svolgere, intorno alle undici si ritrova libero. Si reca in
cucina,
dove apre il frigorifero e osserva il suo contenuto: ci sono troppe
mele nel
cassettone della frutta. Eames le ha comprate sabato al mercato sebbene
nessuno
dei due ne mangi granché. Ne prende quattro e le ripone sul
ripiano di marmo
dell’isola, per poi estrarre il burro e il latte.
Per prima cosa
taglia il burro a
pezzetti e lo mette in una ciotola per farlo ammorbidire. Poi, sbuccia
le mele
con attenzione, le affetta e le lascia a insaporire in un contenitore,
con il
succo del limone e la cannella. Estrae la planetaria
dall’armadietto degli
elettrodomestici, monta il burro con lo zucchero e solo in un secondo
momento
aggiunge le uova, una alla volta, e infine il latte. Poi setaccia la
farina e
il lievito e poco a poco li aggiunge al composto, amalgamando con una
spatola
dal basso verso l’alto, a mano, cosicché
l’impasto resti soffice e aerato.
«Ehi,
che fai di buono?» gli chiede
Eames, mentre si lava le mani nel lavello. Deve aver sentito il rumore
dell’impastatrice dallo studio dove dipinge, per poi venire a
controllare che
Arthur non dia fuoco ai fornelli. Per sua fortuna i dolci sono
l’unica cosa con
cui ha dimestichezza in cucina.
«Torta
di mele!»
«Mm…
La mia preferita!»
«Vuoi
disporre tu le fettine? Di
sicuro riesci a fare una composizione più decente della
mia.» La decorazione
non è mai stata un suo forte, purtroppo.
«Yuppi!»
esclama Eames come un bambino
di dieci anni.
Mentre Arthur
controlla che il forno
sia alla giusta temperatura, Eames dispone le mele e
l’impasto nella teglia,
che poco dopo viene infornata.
***
Quella sera
quando il suono del
citofono si diffonde in casa, Arthur va ad aprire, perché
Eames sta togliendo
dal forno lo strudel salato che ha preparato.
Il padre di Eames
gli rivolge un
sorriso serio: non è un sorriso ilare, ma in un certo senso
trasmette serenità.
Arthur lo interpreta come il sorriso di qualcuno che è
consapevole di aver
intrapreso una strada lunga e tortuosa, ma che è volenteroso
di proseguirla.
«Ciao,
sono George» afferma
porgendogli la mano.
La stringe e dice
semplicemente: «Arthur.
Vieni pure.»
George entra in
casa e gli porge un
pacchetto incartato: «Ho preso del gelato, spero di aver
scelto i gusti che vi
piacciono!»
Sulla carta
è inciso il nome della
gelateria preferita di Arthur: l’unica vera gelateria
italiana di tutta Londra.
Non sa se sia stato un suggerimento di Eames, ma se anche fosse, non
gli
interessa. Non sono queste le cose importanti.
«Grazie!
Vieni, andiamo in cucina
prima che Eames ci chiami.»
Suo suocero resta
per un microsecondo
stupito dal fatto che Arthur chiami suo marito per cognome, ma lo
maschera
bene, riprendendosi abbastanza in fretta e seguendolo.
«Ciao
papà, siediti» dice Eames,
indicando uno degli sgabelli di fronte l’isola.
George lo saluta
e segue il suo suggerimento
prima di chiedergli: «Hai cucinato tu?»
«Sì!
Se fosse per Arthur vivremmo solo
di take-away o dei pasti che sua
madre prepara quando è qui da noi e mette in congelatore per
ogni evenienza.
Una volta è riuscito addirittura a bruciare un hamburger e
lasciare la parte
interna completamente cruda!» esclama suo marito, ridendo.
Arthur richiude
lo sportello del
congelatore dove ha riposto il gelato e indignato, si volta, dicendo:
«È
successo solo una volta Eames!»
«Oh,
povero Arthur… tormentato così,
per non sapere cucinare!» lo prende in giro di nuovo.
«Stronzo!»
replica senza acrimonia, perché
lo sa che sta facendo così per mettere suo padre a suo agio
e non perché vuole
deriderlo. Mentre George domanda a suo figlio cosa ha scelto di
cucinare,
Arthur entra nella dispensa per prendere un pacco di pasta e pesarne
tre
porzioni.
Più
tardi, in sala da pranzo, mentre
mangiano la pasta con le zucchine, George si complimenta con Eames:
«È davvero
la pasta più buona che io abbia mai mangiato.»
«Perché
questa è pasta. Non
quegli orribili piatti che ho visto cucinare qui in
Inghilterra! Una volta ho assistito a un ragazzo che metteva il sale
sulla
pasta dopo averla cotta! Oppure ho
sentito storie di gente che butta la pasta nella pentola prima
che l’acqua abbia raggiunto la temperatura di
ebollizione!»
replica Arthur.
«La
mamma di Arthur ha origine
italiane. Mi ha insegnato lei come cuocere la pasta e con quali
ingredienti
abbinarla» gli spiega Eames, che trova sempre divertente
l’orrore provato da
Arthur di fronte certi accostamenti.
«Credevo
fossi americano, Arthur.»
«Lo
sono, perché sono nato a New York,
ma i miei genitori sono entrambi europei e ci siamo spostati spesso in
passato.
Mia sorella ad esempio aveva anche la cittadinanza francese,
perché era nata in
Francia, quando i miei vivevano ancora a Parigi. Solo quando lei aveva
tre
anni, prima che nascessi io, si sono trasferiti negli Stati
Uniti.»
«Questo
spiega perché lei a volte aveva
l’accento francese e tu no?» chiede Eames ridendo.
«No, le
piaceva averlo. Diceva che funzionava
di più con i ragazzi!» esclama lui, strappandogli
una risata.
Deve avere
un’espressione malinconica,
perché poco dopo Eames cambia discorso, chiedendo qualcosa a
suo padre sul
centro sociale che gestisce. È sempre così quando
parla di Mal. Fa male: la sua
assenza è una sofferenza sorda e soffocante e parlare di
lei, ricordare i
periodi di felicità è catartico, ma anche
doloroso. Immagina che sarà così per
sempre: non ci sarà un giorno in cui sua sorella
smetterà di mancargli.
Durante la cena,
George gli chiede:
«Posso chiederti di cosa ti occupi Arthur?»
«Sono
un medico. Anche se non sono in
attività, ora. Diciamo che lavoro per il Governo.»
Lui lo guarda per
un attimo in
silenzio, in attesa di una sua spiegazione. Quando si accorge che non
arriverà,
inclina la testa da un lato per domandargli: «Questo governo?
O quello degli
Stati Uniti?»
«Entrambi,
a volte.»
«Arthur
fa ricerca. E se tu mi chiedessi:
“Che tipo di ricerca?” Ti risponderei:
“Ogni tipo”» aggiunge Eames, come se
un’affermazione del genere possa essere un indizio. A
pensarci bene, in realtà,
forse lo è: in fondo nonostante quello che credano molte
persone, non è così
infrequente lavorare per l’intelligence.
E in effetti il suo lavoro consiste proprio nella ricerca di
informazioni,
perciò Eames non sta mentendo.
George riflette
per un po’ in
silenzio, mentre Arthur raccoglie i piatti sporchi ed Eames porta a
tavola il
secondo, poi chiede loro: «È così che
vi siete conosciuti? Facendo ricerca?»
Mentre lui
esclama con sarcasmo:
«Eames non ha mai ricercato nulla!» suo marito
replica con un’espressione
divertita: «In un certo senso sì!»
George emette una
risata sommessa, poi
domanda loro: «Siete un po’ confusi?»
Prima che Eames
possa rivelare
qualcosa, Arthur gli rammenta: «Ti ricordo che hai firmato un
accordo di non
divulgazione, per quella
ricerca.»
«Maledizione!
Va bene, non possiamo
dirti come ci siamo conosciuti, ma si può dire che era per
lavoro, poco prima
di congedarmi dall’esercito.»
George annuisce,
soddisfatto della
risposta.
Eames ha
preparato due tipi di strudel
salati: uno con speck e spinaci e l’altro con pere e
formaggio. Ne versa due
porzioni abbondanti per ciascuno, mentre George osserva suo figlio con
un’espressione strana, come se si stia chiedendo come sia
finito nell’esercito
e cosa sarebbe successo invece se fosse stato con lui quando era ancora
un
ragazzo.
Iniziano a
mangiare il secondo in
silenzio, poi George chiede: «Che tipo di medico sei,
Arthur?»
Lui risponde:
«Non mi sono
specializzato, in realtà. Avrei dovuto, ma dopo la laurea mi
è stato proposto
un dottorato in neurofisiologia e dato che mi interessava ho proseguito
per
quella strada. Immagino che se mi fossi specializzato avrei optato per
neurologia o ematologia.»
«Non ti
manca praticare?»
È la
prima volta che qualcuno gli
rivolge una domanda simile. A dire la verità è la
prima volta dopo anni che si
sofferma a rifletterci. Se deve essere onesto, negli ultimi mesi ha
sentito il
bisogno di allontanarsi dalla vita che ha condotto in questi anni: il dreamsharing è diventato meno
affascinante di quanto fosse in passato. Forse continuerà a
compiere qualche estrazione
ogni tanto, ma non prova più quell’ebbrezza che un
tempo avvertiva non appena
metteva mano alla PASIV.
D’altro
canto la medicina per lui è
sempre stata allettante: è ancora abbonato alle maggiori
riviste scientifiche
in campo medico, legge spesso articoli interessanti, acquista libri
specialistici. Considera il corpo umano e le sue malattie come un
puzzle, un
qualcosa da indagare con attenzione e con logica per poi arrivare alla
soluzione e svelare il problema alla base.
In fondo, ci sono
molti aspetti comuni
tra l’attività del medico e quella del point
man: la preparazione, lo studio, l’attenzione per i
dettagli, un pizzico di
improvvisazione nelle situazioni inaspettate, l’intuizione
che arriva al
momento giusto e che può rappresentare la svolta di una
strada che prima
appariva a fondo cieco. Forse è per questo che fino a quando
ha occupato la
maggior parte del suo tempo come point man
non ha davvero sentito la mancanza della pratica medica. Tuttavia, ora
che
svolge un lavoro diverso, deve ammettere che spesso si trova annoiato e
poco
stimolato dalle analisi eseguite al computer. L’idea di
tornare al progetto di
vita che aveva ideato da ragazzino è una prospettiva
interessante, da prendere
in considerazione.
«Un
po’ sì» ammette.
«Non
è troppo tardi se vuoi
riprendere. Per come sei fatto tu, una specializzazione di tre anni te
la
mangeresti nella metà del tempo!» dice Eames con
gentilezza, guardandolo con affetto.
«Non
è una cattiva idea. Ci penserò»
replica lui, sorridendo.
Più
tardi, dopo aver mangiato la torta
di mele accompagnata con il gelato che George ha portato, restano un
altro po’
a tavola, mentre Arthur toglie i piatti, finisce di caricare la
lavastoviglie,
per poi scegliere il lavaggio ecologico. Subito dopo accende la
macchina del
caffè e il bollitore.
Quando esce dalla
cucina, George ed
Eames si sono spostati in salotto: il primo è a destra del
camino, di fronte un
antico comò di legno di noce che Eames ha acquistato anni fa
in un negozio di
antiquariato. Sopra di esso c’è una scultura in
legno chiaro, che raffigura un
orologio e dentro di essa si intravede una bussola, come se la bussola
sia
stata inserita all’interno del quadrante
dell’orologio. È una delle
meravigliose sculture di Penelope Byrne, la madre di Eames. Accanto al
rilievo ci
sono due cornici d’argento: in ognuna di esse è
contenuto un ritratto eseguito
a carboncino, uno di Mal e l’altro di Penelope.
Eames
è seduto sul divano, studia suo
padre senza farlo sentire osservato, una delle tante abilità
da falsario in cui
eccelle. Arthur lo abbraccia da dietro, appoggia il viso sulla sua
spalla e
sussurra: «Ho acceso il bollitore, se ti va del
tè.»
«Grazie,
darling» replica lui, poi
chiede a suo padre: «Papà, la prendi una
tazza di Earl Grey?»
«Sì,
per favore» risponde con la voce
un po’ graffiante.
Mentre Arthur
torna in cucina per
preparare il caffè e il tè, sente George dire a
suo figlio: «Questa era di tua
madre.»
Non ascolta la
risposta di Eames, né
come prosegue la conversazione: se è un momento privato tra
padre e figlio
decide di concederglielo. È giusto così.
Poco dopo, torna
in salotto con un
vassoio e le bevande. Mentre lo appoggia sul tavolino, Eames si scusa
per
allontanarsi un momento. Non c’è niente attraverso
il legame che possa farlo
preoccupare, perciò o si è allontanato di
proposito, per lasciarli un attimo da
soli e vedere come se la cavano o ha bisogno di distanziarsi per un
po’ da suo
padre.
George prende la
sua tazza e si siede
su una delle poltroncine di pelle vuote, con lo sguardo rivolto verso
la foto
di Mal, mentre Arthur si siede sul divano.
«Era
mia sorella.»
«Mi
dispiace. James non mi ha detto
niente, non avevo capito che fosse morta» dice un
po’ a disagio, forse
imbarazzato dal fatto di essere stato colto osservando la sua
fotografia,
chiedendosi chi fosse.
Arthur annuisce,
poi gli dice: «Sono
due anni. Dovrei essermi abituato, ma è ancora difficile.
È come un arto
fantasma: pensi di averlo sempre, poi all’improvviso quando
vuoi usarlo, ti
ricordi che non c’è più. Ancora mi
capita di comporre il suo numero o di voler dire
ai miei nipoti: “Passami la mamma” quando siamo al
telefono.»
Lui annuisce
osservando il contenuto
della sua tazza. Riflette per un po’ in silenzio, poi rivela:
«Credo sia
impossibile abituarsi del tutto. O almeno lo è per me. Sono
passati più di
venti anni dalla morte di mia moglie e non riesco ancora a togliermi la
fede.»
«Non ci
hai mai provato?»
«No.
Sai… Penelope e io non eravamo
anime gemelle, non avevamo il marchio.
Però ci amavamo molto. Lei era speciale… Non so
come spiegartelo, aveva questa
gentilezza innata e sapeva sempre mettere gli altri a proprio agio. Era
comprensiva
e paziente e anticonformista. Quando l’ho conosciuta, non
piaceva granché alla
mia famiglia. Per loro è sempre stata troppo intraprendente.
Ma io amavo questo
suo carattere. Era un’ottima madre e aveva capito in fretta
che James era un bambino
diverso.»
George prende un
sorso del suo tè,
appoggia la tazza sul tavolino e abbassa gli occhi. Arthur immagina
quale sia
la direzione del suo discorso. Non sa se vuole ascoltare quello che suo
suocero
ha bisogno di confessare, ma non può tirarsi indietro.
«Io non
volevo vederlo. Me ne ero
accorto, che era gracile, delicato e sensibile, ma giravo la testa
dall’altra
parte. Ogni volta che lo accompagnavo agli allenamenti di calcio mi
chiedeva:
“Papà, perché gli altri bambini devono
sempre spingermi o farmi lo sgambetto
per prendere la palla? Mi piace il calcio, ma non capisco
perché si comportano
così con me!” Lo rimproveravo quando lui piangeva
dopo aver letto una storia
triste. Cercavo di non farlo stare con i suoi nonni materni, che lo
facevano
mascherare, truccare e recitare. Pensavo fosse sbagliato,
perché non era il
modo in cui ero cresciuto io. I miei genitori mi avevano mandato in una
scuola
privata molto rigida fin da bambino e quando ero a casa
l’unico adulto che si
occupava di me era la bambinaia.»
Eames
è seduto sull’ultimo scalino
delle scale, Arthur può avvertire la sua presenza e
intravedere le sue
ginocchia piegate con la coda dell’occhio. È alle
spalle di suo padre e sta
ascoltando le sue parole, ma Arthur immagina che non riesca a farlo
guardandolo
di fronte a sé. A volte Eames sente ancora il bisogno di
proteggersi da George:
nonostante suo padre non possa più sfiorarlo, rivivere
alcuni ricordi gli
provoca comunque dolore.
«Quando
Penelope si è ammalata, sono
diventato ancora più duro con lui. Ero arrabbiato e
terrorizzato, perché sapevo
che lei ci avrebbe lasciato e io non ero capace di crescere James, non
senza di
lei, che riusciva a capirlo e ad amarlo senza difficoltà.
Quando mia moglie è
morta, ho seppellito insieme a lei anche quella parte di me che
l’amava e che
mi avrebbe permesso di sostenere mio figlio. Non volevo tirarla fuori,
mi
faceva male guardarlo e vedere ogni singola traccia di lei in lui:
l’avidità
con cui leggeva i libri, le sue mani sempre macchiate di acrilico o di
matita,
l’insofferenza verso la divisa scolastica, il suo amore per
il teatro. Il mio
dolore e la mia rabbia non avevano niente a che fare con lui e mi
dispiace che
lui abbia dovuto capirlo da solo negli anni successivi.»
Arthur resta in
silenzio. Riesce a
comprendere quello che ha passato quest’uomo: il dolore di
una perdita così
grande è insopportabile. Ma lo è ancora di
più sapere che il bambino che ci è andato
di mezzo è la persona a cui Arthur tiene di più
al mondo.
George si sporge
un po’ in avanti con
il busto, intreccia le mani e afferma, con voce bassa: «Non
mi sto
giustificando, Arthur. Voglio solo che tu sappia come sono riuscito a
commettere l’errore più grande della mia vita. Te
lo devo. Dubito che sarei qui
se tu non approveresti. Ma soprattutto dubito che potrei rientrare
nella vita
di James senza il tuo lasciapassare.»
Fa una leggera
pausa, poi prosegue: «Sai,
ero un po’ incerto su stasera. James ti descrive come una
persona molto
protettiva e se sei a conoscenza anche solo di un pezzo del nostro
passato,
immagino che tu non sia stato contento di avermi intorno.»
Arthur sceglie
con cura le parole da
dire prima di spiegargli: «Non lo ero e non perché
sono iperprotettivo e
paranoico. Non lo ero perché ho visto quanto ha sofferto
tutte le volte che la
vita gli ha ricordato che non aveva una famiglia.
C’è stato un momento, quando
eravamo a Nizza e mia madre gli ha fatto capire che non era
più solo, in cui ti
ho odiato. Ti ho odiato così tanto da desiderare di venirti
a stanare e farti
del male.»
Poco dopo
confessa: «Più di una volta
ci sono andato vicino.» Fa un paio di respiri profondi,
perché deve assicurarsi
che la rabbia non lo accechi. Lo ha promesso a suo marito:
può farcela.
George
deglutisce, può vedere quanto
Arthur sia serio e a fatica dice: «Però non
l’hai fatto.»
«Non
l’ho fatto, perché Eames non ha
bisogno della mia vendetta. In altre occasioni, ho distrutto diverse
persone
che hanno anche solo pensato o provato a ferirlo, ma questo
è diverso. Sei suo
padre… non stava a me decidere.» Ci riflette un
momento, prima di aggiungere:
«Forse una parte del mio inconscio sperava che ti saresti
fatto vivo. Quando
Elisabeth è venuta a cercarlo, ero arrabbiato e mi ci sono
voluti un paio di
giorni per capire che dovevo stargli accanto, perché questa
era l’unica
occasione che avrebbe avuto per riavere suo padre.»
Beve un sorso di
caffè caldo e
conclude: «Non è facile per lui: ci sono momenti
in cui ha bisogno di
allontanarsi da te o di non focalizzarsi su episodi del passato. Non so
se sia
possibile perdonare un genitore abusivo, ma se esiste un modo lui lo
troverà.
Tu non mollare, anche quando gli verrà voglia di
confrontarsi con te, di dirti
quanto tu lo abbia ferito, non arretrare, lascialo sfogare, anche
quando ti
farà soffrire.»
George annuisce
con un’espressione
seria. Resta in silenzio per un po’, poi si guarda intorno e
gli chiede, con
gli occhi curiosi: «Come mai non ci sono foto di voi due? Non
sono affari miei,
ma non ho potuto fare a meno di notarlo: sai, quando entri in casa di
qualcuno,
in salotto trovi sempre due o tre fotografie della coppia felice o del
loro
matrimonio.»
Arthur
può finalmente provare da chi
Eames abbia ereditato la sua curiosità. È una
domanda talmente inappropriata da
fare la prima volta che si è ospiti in una casa che solo
qualcuno che condivide
il patrimonio genetico di Eames potrebbe chiedere, con garbo, senza
neanche
sembrare maleducato.
Gli risponde con
sincerità: «Non ci
sono foto qui, perché se sali le scale da qui al terzo piano
costeggerai una
serie di quadri. In realtà sono lastre di vetro sovrapposte
con una cornice,
non veri e propri quadri. Negli anni le ho usate per raccogliere tutte
le
fotografie che Eames ha scattato quando eravamo insieme o quando uno di
noi era
via per lavoro. C’è ancora un po’ di
spazio da riempire. Non ti so dire perché
lo faccio, è diventata una sorta di tradizione
oramai.»
George gli
sorride e Arthur prosegue:
«Per quanto riguarda il nostro matrimonio, in
realtà è stata una civil
partnership e non abbiamo fatto
nessuna festa in grande stile. Non amo granché stare al
centro dell’attenzione
ed era una scelta che abbiamo fatto non solo perché ci
amiamo, ma anche per
regolarizzarci. Siamo solo andati in un ufficio del comune e abbiamo
firmato
insieme alla mia famiglia, per poi andare in un ristorante. Dopo ci
siamo
concessi un viaggio in Italia di un mese. Tutto qui. So che magari non
è molto
romantico, ma questo ci sentivamo di fare.»
Arthur non era
partito con l’idea di
fare tutte queste confessioni, ma di fronte quest’uomo
silenzioso, che negli
ultimi mesi ha reso più sereno suo marito, che è
interessato al tipo di vita
che si è costruito suo figlio, senza giudicarlo,
è facile rivelare la verità.
George annuisce.
Finisce il suo tè,
poi chiede: «Posso farti un’altra domanda? Come mai
non lo chiami per nome?»
«Non
gli piace granché il suo nome.
Quando ci siamo conosciuti lo chiamavo Eames, perché ci
frequentavamo per
lavoro e non sapevo neppure quale fosse il suo nome. In
realtà lo sapevo, ma
non perché me l’avesse detto o glielo avessi
chiesto. Era impensabile chiedere
il nome di qualcuno nel nostro ambiente. Si era presentato come Eames e
così è
rimasto anche dopo che ci siamo messi insieme. Solo quando
l’ho presentato ai
miei, mia madre gli ha detto senza troppi convenevoli: “Devi
dirmi il tuo nome,
perché mi rifiuto di chiamarti per cognome. Arthur! Che
razza di maniere!” e
lui le ha concesso di chiamarlo per nome, ammettendo però
che si sente molto
più a suo agio come Eames.»
George ride della
sua interpretazione
dell’accento di sua madre, mentre Eames rientra in salotto,
dicendo: «State
ridendo di me, vero?»
«Sì,
del fatto che sei troppo bohémien
per accettare un nome come
James!» lo prende in giro Arthur.
«Oh,
andiamo, la smetti di dire che
sono bohémien? Le
persone inizieranno
a pensare che non mi lavo e vivo in una roulotte!»
«Come
se ti interessasse quello che
pensano gli altri di te! Ti ho visto indossare vestiti così
orribili che mi ero
convinto li avessi presi dai bidoni dell’immondizia! Non mi
pare che tu abbia
mai dato peso ai miei tentativi di sbarazzarmene…»
Arthur
può vedere che George vorrebbe
trattenersi dal ridere di suo figlio, ma è più
forte di lui e anche se Eames
prende la sua tazza dicendo: «Ho deciso. Vi odio
entrambi!» si vede lontano un
chilometro che non lo pensa davvero e ha un angolo delle labbra
all’insù, come
se non riuscisse a trattenere anche lui il sorriso.
Quando George si
è calmato, gli dice:
«Non sapevo non ti piacesse il tuo nome. Lo sai, non
l’ho scelto io.»
«Lo so,
l’ha scelto la mamma e non è
che non mi piaccia… è che è un nome
talmente comune che ogni volta che lo sento
mi giro. Lo sai che anche il nipote di Arthur si chiama James? Sentire
Marie
dire: “James, vieni a mangiare la pappa!” e pensare
per un nanosecondo che sia
rivolto a me può essere traumatico!»
***
Più
tardi, quando accompagnano George
alla porta, suo suocero dice: «Mi ha fatto molto piacere
conoscerti Arthur.
Spero di replicare, magari la prossima volta potete venire da
me.»
«D’accordo»
replica lui con sincerità.
Dopo averlo
salutato, si siedono sul
divano. Eames chiude gli occhi e appoggia la testa sulla spalliera,
esausto.
Ogni volta che rivede suo padre è così: sta
facendo un lavoro incredibile dentro
sé stesso, cercando di riconnettere i frammenti dolorosi del
passato con la
serenità del presente.
Eames dice a
bassa voce: «Conserva
ancora tutti i beni della mamma: le sue opere, i suoi materiali, i suoi
blocchi, le sue fotografie, i suoi libri… tutto. Ha detto
che sono miei, che
posso prenderli quando voglio.»
Arthur lo stringe
tra le braccia,
restano in silenzio per un po’, mentre Eames si lascia
cullare.
«Grazie»
sussurra suo marito
nell’incavo del suo collo.
«Di
cosa?» chiede lui mentre gli
accarezza i capelli soffici sulla nuca.
«Di
averlo fatto parlare e di avermi
lasciato ascoltare. Ne avevo bisogno.»
Arthur gli bacia
la tempia, mentre
riflette tra sé e sé. Eames è il suo
miracolo. Non riesce a trovare un’altra
parola che possa descriverlo. Ha vissuto la sofferenza della perdita
materna,
poi la solitudine e il terrore negli anni trascorsi con suo padre e
infine la
disperazione della tossicodipendenza. Sono traumi che nessuno si merita
di
affrontare e di sicuro non la sua anima gemella, con il suo animo
gentile e
ilare che illumina il cammino di chi incontra. Eppure, suo marito
è qui,
intero, con qualche ferita che passo dopo passo riuscirà a
richiudere. Affronta
ogni giorno gli spettri del passato, dipinge il proprio mondo su una
tela, ama
Arthur in maniera incondizionata, ha una famiglia meravigliosa e
imperfetta e
allargata.
Arthur
può decisamente andare a cena a
casa di George o invitarlo qui, fargli conoscere i propri genitori e
festeggiare il Natale insieme a Nizza, se lo vorrà. Non
sarà sempre facile e ci
saranno momenti difficili, ma può farcela, se significa
rendere felice Eames. Possono
riuscirci, insieme.