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Autore: Urban BlackWolf    20/08/2018    3 recensioni
Può un falco forzare se stesso e rallentare per mettere in discussione le scelte fatte nonostante la sua natura lo costringa alla velocità, alla determinazione nel raggiungimento dell’obbiettivo di una vendetta?
E può una gru riuscire a proteggere con l’amore e la cieca fedeltà tutto ciò nel quale crede fermamente?
Possono due esseri tanto diversi fondersi in uno per tentare di abbattere le barriere che li separano pur solcando lo stesso cielo?
Ungheria 1950: Michiru, figlia della ricca e storica Buda, dove tutto è cultura e tradizione, lacerata tra il dovere ed il volere, dalla parte opposta di un Danubio che scorre lento e svogliato, Haruka figlia di Pest, che guarda al futuro correndo tra i vicoli dei distretti operai delle fabbriche che l’hanno vista crescere forte ed orgogliosa.
Una serie di eventi le porteranno ad incontrarsi, a piacersi, ad amarsi per poi perdersi e ritrovarsi nuovamente, a fronteggiarsi e forse anche a cambiare se stesse.
Genere: Romantico, Storico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Yuri | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Usagi/Bunny | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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Le Gru della Manciuria

 

 

I personaggi di Haruka Tenoh, Michiru Kaioh, Setsuna Meioh, Usagi Tzukino. Mamoru Kiba, Makoto Kino, Rei Hino e Minako Aino apparsi in questo capitolo appartengono alla fantasia della scrittrice Naoko Takeuchi

Sviluppo della storia ed altri personaggi sono idea di Urban Blackwolf

 

 

 

Capitolo XX

 

 

Il velo sulla verità

 

 

Se lo rigirò nel palmo della mano e ne studiò l’impugnatura decorata. Che insperato regalo aveva ricevuto dalla sorte. Tanto prezioso da provare quasi un senso d’invidia per colei che l’aveva posseduto. Tanto utile ora, che ancora non riusciva a credere di esserne entrata in possesso così facilmente. Non avrebbe dovuto trovarsi nelle sue mani e per questo non l’avrebbero mai cercato. In ogni caso lei sarebbe riuscita ad occultarlo. In anni passati rinchiusa a spender la vita all’interno di quelle quattro mura che la società per bene aveva eretto per tenere lontana gente come lei, gli ambienti della casa della luce non avevano più segreti. Ogni anfratto, ogni angolo, persino quel pezzo di marmo posto al lato del vascone in pietra del locale lavanderia che si alzava per un non nulla e che tante volte le aveva fatto da compagno silenzioso celando ai più i suoi segreti.

Sfiorando con il polpastrello del pollice la decorazione cesellata raffigurante piccole piume stilizzate, la donna sorrise ironica al gesto che presto avrebbe compiuto grazie a quell’oggetto. Conosceva il significato del possederlo ed in tutta franchezza il sapere di chi fosse l’aveva sorpresa parecchio. Era proprio vero il detto che ogni uomo porta in se l’ambigua bivalenza tra il bene ed il male.

Riponendolo con cura nella piccola buca ricavata dallo squasso del massetto, prese il pezzo di marmo ormai reso liscio dallo sfregamento di mille e mille suole, riposizionandolo accanto agli altri, poi si alzò sbattendo più volte i palmi l’uno contro l’altro.

“Ti procurerò tanto di quel dolore che rimpiangerai di essere venuta al mondo e questo inatteso aiuto, renderà ancora più dolce la mia vendetta.” Soffiò nella solitudine della lavanderia afferrando il cesto del bucato ed uscendo come nulla fosse verso l’aria del cortile.

 

 

Erano passati giorni ed il Carnevale era ormai nel vivo. Per le strade di Budapest maschere di ogni tipo, sfilate, luminarie notturne, fuse con allegra assonanza all’odore delle frittelle e delle crépe dei carrettini di strada. All’interno della casa circondariale della luce, lo strano quanto inusuale fermento per il ballo che sarebbe andato presto in scena aveva conteggiato chiunque non avesse un’uniforme in dosso. La vita carceraria sembrava ormai inesorabilmente girare attorno a quell’evento, tanto che anche la comprensibile agitazione scaturita dall’omicidio della detenuta 0056 sembrava essersi sopita.

Tutto era quasi pronto, come un ultimo giorno di scuola. Era stata decisa la scaletta per le musiche che si sarebbero suonate, la biblioteca ormai irriconoscibile nello spazio dilatatosi dalla rimozione dei tavoli, i festoni multicolori appesi, ed il menu per la cena in piedi che sarebbe venuta prima delle danze. Non mancavano che pochi dettagli, come ad esempio i vestiti. Naturalmente non si poteva pretendere di fare indossare alle detenute abiti di gran gala, ma il partecipare con i cenci casalinghi che molte portavano ormai su da anni, avrebbe in un certo senso guastato tutto ciò che di buono Michiru e le altre avevano fatto. Setsuna aveva così deciso di aprire a tutte le donne che avrebbero avuto il permesso di partecipare alla festa, la sala per le attività domestiche, pagando di tasca propria il materiale tessile per la modifica o il confezionamento dei vestiti.

Le uniche a non avere alcuno slancio euforico per quel ribollire di umanità erano le guardie, che leggevano in quel perenne via vai un potenziale rischio. Nonostante la famigerata arma con la quale l’ombra aveva graffiato la porticina metallica del vano caldaia fosse stata ritrovata ed identificata come essere un cacciavite a stella abbandonato da un operaio distratto impegnato nel lavoro di ripristino d’impianto idrico del Blocco A, non si dimenticava che la responsabile dell’omicidio fosse ancora libera di girare per gli ambienti. Come non si poteva dimenticare che Makoto Kino si stesse immolando rinchiusa in una delle stanze del personale.

Così, sinceramente stanca di essere criticata di scarsa efficienza dall’agente Rei Hino quando poteva contare solo su poche decine di guardie, il capo squadra Shiry aveva deciso di fregarsene del rigore, della correttezza e dell’abnegazione verso la figura della Direttrice, iniziando a servirsi di alcune recluse delle quali si fidava, per far spiare le altre. Non ne andava certo fiera, ma a mali estremi...

Si, perché la parentesi del cacciavite e dell’ombra nel cunicolo non erano state le uniche stranezze che avevano dovuto affrontare. Erano accadute altre cose raccapriccianti, cose che avevano posto lei e la sua squadra in uno stato di altissima tensione.

Come quella sera, quando impegnata nella ronda post chiusura delle celle, una delle guardie aveva trovato il corpicino mutilato di un uccello davanti ad una delle porte della mensa. La testa era saltata fuori due giorni dopo, proprio durante l’allestimento della biblioteca. Fatta sparire prima che qualcuna delle detenute l’avesse potuta vedere, aveva creato allarme, rientrato solo all'agirarsi tra il filo spinato del muro di cinta, di un grosso gatto rosso. Ma se per quel macabro memento mori poteva essere incolpato l’istinto di un randagio, per il contenitore di sangue lasciato a marcire dietro un mobile della cucina, il discorso poteva dirsi ben diverso.

“Come diavolo si sta facendo sicurezza in questo posto!?” Aveva tuonato l’agente Hino ormai inchiodata dal Ministero in quel carcere fino a quando non fosse riuscita a trovare la colpevole dell’omicidio.

“Abbiamo chiesto alle cuoche, ma nessuna ricorda di aver lasciato del sangue in giro.” Aveva risposto Annamariah sapendo benissimo che quell’atto, come la testa mozzata di un’animale, nella cultura più arcaica della delinquenza magiara simboleggiava avvisaglie di morte.

“Ovvio! Nessuno si ricorda mai niente quando serve!” E con un moto di profonda frustrazione aveva finito per gettare sul pavimento la pila di cartelline che languivano da giorni su quella che era diventata la sua scrivania e che ormai aveva imparato infruttuosamente a memoria.

Con le poche forze messe a sua disposizione, l’unica cosa che al capo squadra rimaneva da fare era quella di cercare di proteggere le sue guardie, attendendo come in una partita a scacchi che sentiva di stare perdendo, la prossima mossa dell’assassina. Così alzando ulteriormente l’asticella dei controlli, aveva posto come veto il girare per la struttura sempre in coppia.

A minare ulteriormente lo stillicidio nervoso ormai proprio del capo squadra, era poi arrivato il suggerimento di quella ragazzina dalla stramba capigliatura, Usagi, che una mattina le si era presentata con aria gioviale permettendosi d’invitarla a revocare allo zerbino, ovvero una delle detenute simpatizzanti della banda di Tesla, il permesso di fare le faccende in tutto il Blocco C. Un segno d'aiuto che se non fosse venuto da una delle due figlie del Generale Aino, Annamariah Shiry avrebbe sicuramente mal tollerato. Ma arrivati a quel punto si era fatto anche questo e lo zerbino era tornata al ruolo poco performante di detenuta comune.

Sotto quella scure di pesante soffocamento che era il doversi guardare sempre le spalle cercando nel contempo di non far trasparire nulla, Johanna Tenoh, che nulla aveva a che spartire con quel posto, attese per la prima volta il suo giorno di permesso come una boccata d’aria pulita. Voleva tornare a casa, starsene un po’ in panciolle davanti al caminetto, bearsi nello stordimento di un buon bicchiere di vino e fare quattro chiacchiere con Mirka e Scada. Persone normali immerse nella quotidianità di una vita come tante.

“Jo!” Si sentì chiamare spostando lo sguardo dal viso della collega con la quale stava facendo la ronda, a quello di una bionda tutta agitata che stava arrivando.

“Jo… Agente Horvàth. - Si corresse Haruka nel vedere l’altra guardia. - Dovrei parlarvi. Avete un attimo?”

“Prendi fiato Tenoh. E’ una cosa urgente?”

Vedendola muovere la zazzera affermativamente, Johanna guardò la donna accanto a lei e quella si allontanò di qualche passo.

“Allora che c’è?”

Con le mani completamente sporche di grasso a causa di quel porco camioncino che stava cercando di far ripartire da giorni e che con ostinazione ancora si rifiutava di darle retta, la sorella prese a torturarsi le dita temporeggiando.

"Ruka, non ho tutto il giorno."

Invitata allora da una smorfia sputò tutto d’un fiato. “Domani è il tuo giorno libero, vero? Senti, avrei bisogno di un paio di favori.”

“Addirittura un paio?”

“Si… e vedi di prendere poco per il culo. Allora. Dovresti portarmi il mio completo scuro. Per il ballo qui stanno tutte preparando qualcosa. C’è chi ha pensato di rimodernare un vecchio abito, chi, come Kōtei, se ne sta addirittura confezionando uno nuovo. Non posso certo partecipare alla festa conciata così, no?” Allargando un poco le braccia mostrò il maglione a costine grigie chiazzato d’olio.

“E te n’esci il giorno prima della festa!”

Haruka non prestava il fianco ai venti della moda, ma non era certo un tipo sciatto ed orgogliosa come poche non avrebbe mai tollerato di sfigurare nel confronto con le altre.

“Sono stata impegnata! Dunque? Me la faresti o no questa cortesia?!”

“Certo e a pensarci bene ti servirebbe anche una camicia nuova.”

“Grande! E poi… - Abbassando di colpo voce e sguardo. - … poi ci sarebbe un’altra cosa…”

“Dimmi.”

Tornando a massacrarsi le dita le chiese di guardare nel secondo cassetto della scrivania della loro stanza. “C’è un libro. Nell’ultima pagina ci sono un po’ di fiorini. Vorrei che li usassi per comprarmi…” Ed avvicinandole la bocca all’orecchio concluse sussurrandole l’articolo.

“Cosa?!” Cercò di non ridere Johanna, ma non poté impedire alle sue labbra di stirarsi all’insù per una richiesta tanto dolce.

“Togliti quel ghigno idiota dalla faccia!”

“O povera la mia Ruka. Che brutta botta che hai preso.”

“Fanculo!” Ringhiò girando i tacchi avvampando dalla vergogna.

Guardando di soppiatto la collega poco oltre, la maggiore cercò di ritrovare un briciolo di distacco assicurando alla detenuta l’esecuzione della commissione.

“Vedrò quello che posso fare Tenoh.” E ricevendo come ringraziamento un grugnito indecifrato, la guardò allontanarsi provando al petto una stretta di puro amore.

 

 

La voce di un padre

Pest – Distretto VI, Casa Tenoh.

 

 

Era di venerdì grasso quando inserendo le chiavi nella toppa del portoncino, Johanna si affacciò dopo un’infinità di tempo all’ingresso di casa. Era tutto rimasto come l’aveva lasciato. Tutto abbastanza in ordine. La penombra degli scuri a donare agli ambienti l’aria dormiente di un momentaneo abbandono. Il camino pulito dal carico dell’ultima cenere. La cucina rassettata. Dal vetro della porta sul retro anche il giardino appariva sgombro da gran parte della neve fioccata negli ultimi giorni. Sicuramente la mano amorevole di Scada.

Sospirando e gettando le chiavi sulla piccola consolle alla sua sinistra, la ragazza si tolse le scarpe sporche di fanghiglia grigia, agganciando il cappotto all’appendiabiti accanto al cappello di Jànos, che come un piccolo guardiano, o un talismano, non era mai stato spostato da li. Avvertendo la solita tristezza che la colpiva quando il suono sordo di quel silenzio le dava il bentornato, iniziò a salire le scale cercando gli scricchioli famigliari del legno. La sua casa era sempre la stessa; i quadri alle pareti, i ninnoli sparsi un po’ dappertutto, i tappeti, le venature delle doghe dei pavimenti, eppure a lei sembrava tutto diverso, come se fosse stata la casa di un’altra famiglia e lei un ospite non attesa. Una volta giunta al primo piano percorse il corridoio passando le stanze del bagno e dei suoi genitori, arrivando così a quella sua e della sorella aprendo lentamente la porta. Entrata la colpì l’odore suo e di Haruka provenienti dai vestiti ripiegati sui letti, fusi alla resina delle scaffalature montate la primavera precedente. Non fece neanche luce, andò semplicemente a gettarsi sul suo materasso e senza neanche accorgersene si addormentò per un paio di ore.

Quando riaprì gli occhi era quasi l’ora di pranzo. Sentendo l’aggrovigliarsi di uno stomaco vuoto, si portò per istinto la destra all’addome e l’altra al viso. Era crollata beandosi della sensazione di sicurezza che alla casa della luce proprio non riusciva a trovare. Conosceva ogni suono della sua casa, ogni sibilo di corrente. Nessuno avrebbe mai potuto farle del male li. Quello era il suo castello. La sua rocca invalicabile.

Era crollata e aveva sognato. Per lo più scene indefinite, prive di quella logica che alle volte quell’onirico sfogo le dava, ma di una cosa era certa; aveva distintamente percepito la voce di suo padre. Johanna le aveva detto, non attendere più. Agisci. Un’esortazione che però lei non aveva afferrato e che continuava a non capire pur se riemersa alla realtà.

Stropicciandosi un occhio, si alzò a fatica dirigendosi verso la finestra aprendone vetri, persiane e scuri. Poi verso l’armadio, ridendo all’incommensurabile casino che si ritrovò davanti una volta spalancate le ante. Haruka era sempre stata una confusionaria cronica, ma non si poteva certo dire che lei fosse meglio. Sfiorando con l’indice della destra gli indumenti appesi della sorella, arrivò al completo che le aveva chiesto di prenderle.

“Farai proprio un figurone e sono sicura che la signorina Kaioh crollerà come la torre di Babele.” Disse sganciando la stampella dall’asta di metallo.

Posando il tutto sul letto della bionda andò infine alla loro scrivania ed aprendo quello che da sempre era il cassetto dell’altra, vi trovò un libro in pelle nera dal titolo: le poesie di Jacques Prévert.

Sei tanto bestia quanto tenera, si disse di quella stroboscopica accozzaglia di colori che era il carattere della sua Ruka. Forte e tenace fino allo sfinimento. Delicata e gentile come una brezza dopo la tempesta. Capace di collera e di successiva redenzione. Di attenzioni con chi amava. Di coraggio quando serviva.

Soffermandosi a leggere qualche riga della primissima pagina, passò poi all’ultima trovandovi una manciata di banconote. Quasi sicuramente parte dell’ultima busta paga della C.A.P.. Prendendole richiuse il testo, ma mentre lo stava riponendo venne attratta da una serie di fogli piegati in quattro dimenticati verso il fondo. Li riconobbe perché già visti. Abbandonando il libro sul pianale, li prese aprendoli e stingendo la polizza che Jànos aveva firmato con la Kaioh Bank si prese qualche minuto e la rilesse. Capoversi scritti con l’asettica ed alle volte incomprensibile lingua dell’alta finanza, imparati quasi a memoria qualche mese prima e che ebbero il potere di far riemergere velocemente quella rabbia che aveva cercato di soffocare con il lavoro quotidiano, ma che, sotto sotto, sapeva essere sempre li; dentro di lei. Quando terminò quel masochistico strazio che aveva portato all’annientamento di tutto il suo mondo, le parole dette in sogno dal padre improvvisamente acquistarono una connotazione nuova e seppe cosa doveva fare.

Johanna, non attendere più. Agisci.

Iniziando a spogliarsi, tornò all’armadio, questa volta spulciando nella sua parte e scegliendo un bel vestito si preparò per uscire. Aveva un incontro speciale.

Agisci. E lo avrebbe fatto.

 

 

Buda – Distretto I, Palazzo Kaioh

 

L’aveva riconosciuta subito quella ragazza minuta dagli occhi grigio verdi. La ragazza con la quale si era scontrato un giorno al punto accettazione della casa della luce.

La cameriera l’aveva avvertito di una giovane donna che necessitava con una certa urgenza di parlargli, ma in tutta franchezza con l’emicrania che gli era scoppiata già dall’alba, avrebbe voluto rimanersene disteso sul suo divanetto di raso, alla luce fioca dell’abat jour della sua scrivania, con una pezzuola umida sugli occhi, piuttosto che ricevere visite, per di più di gente sconosciuta. Segno certo di un violento cambiamento atmosferico, alle prime avvisaglie di quel dolore ormai noto, era stato costretto a cancellare tutti i restanti impegni della giornata e a rintanarsi nel silenzio delle scaffalature piene di libri e nell’avvolgente calore della stufa. Ma quando aveva sentito Tenoh, scandito dalla domestica, si era drizzato a sedere abbandonando i cuscini e il suo stupore era cresciuto quando a quel nome aveva associato un viso già noto.

“Non mi aspetto certo che voi vi ricordiate di me signor Kaioh, ma abbiamo già avuto modo d'incontrarci." Sentiva di avere una morsa alla gola Johanna, come una mano nerboruta serrata alla sua povera carotide.

“Se non erro ci siamo incrociati alla casa della Luce.

Disse e la sorprese.

"Complimenti, avete un'ottima memoria."

"Grazie. Ma prego, a cosa devo la vostra visita? Spero che… - Una lievissima sospensione che alla ragazza non sfuggì. - …non si siano verificati dei problemi alla casa della Luce.”

Non si era esposto nel chiederle apertamente di Michiru, non poteva farlo, per questo Johanna lo rassicurò prontamente. “No signore, ma lasciate che sia franca con voi; mia sorella è attualmente rinchiusa in quel carcere e so che anche vostra figlia lo è … con un’altra identità. Sentitevi perciò libero di chiedermi di lei, se volete.”

Ma Kaioh non rispose. Perché quella ragazza era venuta da lui.

“Sta bene ed è serena. - Continuò Johanna apparentemente calma. - Comunque nonostante questa grottesca coincidenza, non sono venuta qui per parlarvi di lei.”

Segnando la fronte con una profonda ruga, Alexander si sentì perso. “Ma voi sareste?”

“Mi sembra che la vostra domestica ve lo abbia già detto. Tenoh. Johanna Tenoh…. Ma aggiungo di essere la primogenita di Jànos Tenoh; ex presidente della Cooperativa Acciaierie Pest.”

Rimasero in piedi l’uno di fronte all’altra, in silenzio. Per molto tempo. Lo sguardo dell’uomo fisso alla libreria, senza però vederla veramente e Johanna a scrutarne i lineamenti, con una strana sensazione di disagio dentro. Quante cose Alexander aveva donato di se alla figlia; la forma delle orecchie, l’inarco delle sopracciglia castane, la forma del viso, quella particolare punta di blu negli occhi.

E quanto lo aveva maledetto quell’uomo, arrivando addirittura a sfiorarlo con l’odio quando una febbricitante Haruka le era svenuta tra le braccia surclassata dagli effetti delle tre sfere del destino. Lui era la causa di tutto. Lui era l’artefice dello sfascio della sua famiglia, della perdita della loro fabbrica. Lui era la causa dell’arresto di Jànos e indirettamente, della sua morte. Ma Kaioh era anche il padre di una bravissima ragazza, che non aveva fatto loro alcun male, anzi, se mai il contrario. Improvvisamente Johanna riuscì a comprendere lo strazio di Haruka.

Sospirando l’uomo tornò a guardarla. Non sentiva responsabilità sull’acquisizione della Cooperativa da parte della sua banca, di per se un’azione finanziaria perfettamente in regola, ne della sottoscrizione che Tenoh aveva fatto accettando le clausole della polizza assicurativa per la perdita dei materiali durante la tempesta del Nesznély. Ma del fatto che fosse stato trattato come, se non peggio di un reo insurrezionalista dall’ÁHV solo perché in quell’affare era coinvolto anche lo Stato; di quello si, se ne sentiva tutto il peso.

Sentendo debolezza nelle gambe le indicò divano e poltrone. “Vogliamo accomodarci?”

E lei accettò, anche se avrebbe tanto preferito fare avanti ed indietro per cercare di scaricare la tensione. Guardandola andare verso il divano aspettò che prendesse posto imitandola subito dopo. Occupando una delle poltrone, il padrone di cada si sporse informalmente in avanti poggiando gli avambracci al nero dei pantaloni.

“Ammetto di essere rimasto sorpreso non vedendovi assieme al Direttivo della C.A.P. quando all’indomani dell’arresto di vostro padre si è presentato in blocco alla sede della Kaioh.”

“Sono stati giorni un po’… impegnativi. Non avendone il titolo ho preferito lasciare queste cose in mano a chi di dovere.” Ammise sentendo caldo e pulsazioni impazzite.

“Perdonatemi, ma è per questo che sono stupito nel vedervi qui, ora, dopo tutto questo tempo.”

“Già. Diciamo che ai giorni impegnativi se ne sono aggiunti molti altri. - Abbassando la testa iniziò a scuoterla. - Eppure sembrate un uomo così a modo. Sapete… conosco vostra figlia. L’avete tirata su bene. E’ gentile, educata, generosa. Una ragazza determinata, con un carattere ben delineato. Ha legato subito con mia sorella. Sono diventate praticamente inseparabili. Haruka non starebbe affrontando così bene la detenzione se al suo fianco non ci fosse Michiru.”

“Questo… mi fa piacere. - Disse lui ancora più interdetto da quel preambolo. - Posso chiedervi se vostra sorella ne avrà ancora per molto?"

"Si. Un anno. - Ed il viso di Michiru si sovrappose nuovamente a quello del padre. - Sapete proprio non riesco a capire.

"Cosa signorina?"

"Come si possa riuscire a trasmettere così tanti valori positivi alla propria figlia, se poi si è pronti a pugnalare alle spalle gli altri in nome di una cosa disgustosa come il denaro. Spiegatemi signor Kaioh, spiegatemelo, perché io proprio non capisco.” Una liberazione.

“In realtà sono io a non capire signorina Tenoh. Se come credo vi state riferendo all’affare C.A.P., vi chiedo la cortesia di essere più chiara.”

Affare, iniziò a ripetersi lei cercando di star calma. “Non chiamatelo così. Per decine di persone che lavoravano presso la nostra fabbrica e che si sono trovate dall’oggi al domani in mezzo ad una strada, per mio padre, che con tanti sacrifici era riuscito a tirare su dal niente una cooperativa, per me e mia sorella, che ce lo siamo viste portar via dall’ÁHV, non è stato un affare!”

“Ma per la mia banca si e so che per una profana come voi può risultare difficile, ma in questo tipo di contesto non c’è posto per i sentimentalismi.”

Stirando un sorriso distorto lei sembrò rifletterci su. “Sapete, non avete tutti i torti. Anche se ammetteste di aver giocato sporco sulla pelle di mio padre, nessuno me lo riporterebbe indietro ed anche se avessi le vostre scuse…, queste non cancellerebbero nulla.”

“Giocato sporco?! Aspettate un attimo! Vi sto accogliendo in casa mia dedicandovi il mio tempo e mi devo sentir dire di aver gioc…”

“Giocato sporco! - Gli si accavallò con prepotenza emettendo quasi un ringhio. - E ho le prove di quel che sto affermando.”

Totalmente privo d’espressione, Alexander si alzò dalla poltrona e chiedendole di attendere, sparì dietro la porta d’entrata lasciandola sola. Non voleva trattare male quella ragazza, ma sentiva di doversi difendere dalle accuse che gli stava muovendo.

Riuscirò a farvi sbattere in galera proprio com’è successo a mio padre e forse a farlo prima che Haruka esca e si faccia giustizia da sola, si disse Johanna avendo come l’impressione che i suoi pensieri stessero andando a fondersi con il ticchettio fastidioso dell’orologio da tavolo presente sulla scrivania del banchiere. Ritrovandosi a vagare con lo sguardo sui particolari di quell’ambiente, notò una foto di Michiru adolescente in una cornice argentata posta sul tavolino che intramezzava divano e poltrone. Al suo fianco una donna dai tratti somatici orientali. Quasi sicuramente la madre. Mi dispiace, ma tuo padre deve pagare per quello che ha fatto. Sono sicura che capirai. Sentendo la porta riaprirsi stirò la colonna mettendosi composta.

“Ecco signorina Tenoh. Qui c’è tutta la pratica che la Kaioh Bank ha aperto con la C.A.P.. Come vedete anche io ho delle prove. Qualunque siano le vostre motivazioni non permetto che mi si tacci di scorrettezza ai danni dei miei clienti.” E gliela porse con uno sguardo glaciale totalmente trasfigurato.

Afferrandola lei l’aprì puntando subito all’ultimo documento che in ordine cronologico si riferiva al settembre scorso. “Ecco signor Kaioh. La polizza che la Cooperativa ha stipolato con voi.”

Alexander dovette guardarla in modo strano, perché stizzita Johanna lo invitò ad aprirla. “Coraggio! La terza pagina. In fondo!”

E lui lo fece seguendola sempre di meno. “Lo sblocco della polizza per eventuali danni a cose o a persone deve considerarsi a sessanta giorni. - Scorse ad alta voce le righe scritte a macchina. - Dunque? E’ questo che volevate che leggessi? Che il denaro per la perdita del vostro acciaio sarebbe stato erogato dopo due mesi dalla firma di questo documento?!”

“Si! - Alzandosi di scatto estrasse dalla borsa i fogli in suo possesso. - Questa è la copia che è stata rilasciata a mio padre. Vi invito a leggere la stessa clausola! Noterete da voi che sono riportati la metà dei giorni. Trenta! Questo vuol dire solo una cosa; che qualcuno ha falsificato ad arte la firma di mio padre! Voi signor mio, avete deliberatamente creato un raggiro per portare al fallimento la C.A.P. per poi spartirvene con lo Stato i profitti del suo smembramento, sapendo che tanto, qualunque causa legale la Cooperativa avesse mai provato ad intentare contro di voi, le prove sarebbero state cancellate con le perquisizioni fatte sia in casa nostra che il fabbrica. E visto che quei bravi signori dalla Polizia Tributaria si sono ritrovati con un pugno di mosche per le mani, hanno incarcerato mio padre affidandolo alla persuasione dell’ÁHV nella speranza di riuscire ad estorcergli l’ubicazione della copia in suo possesso.”

“Badate signorina, questa è diffamazione!”

“Non m'interessa! Non cercate d’intimidirmi quando questo contratto parla tanto chiaramente. Ecco, guardate!”

Alexander prese quasi con foga la copia della ragazza aprendola esattamente alla terza pagina, ne lesse l’ultima parte dove effettivamente si parlava di trenta giorni e non sessanta, poi tornò a sedersi iniziando a massaggiarsi le tempie con le dita della sinistra. Gli stava scoppiando il cervello.

Sentendosi già vittoriosa la ragazza stirò le labbra respirando finalmente meglio. “Ricevendo dalla vostra banca il denaro dell’assicurazione dopo un mese, la nostra fabbrica avrebbe già dovuto fare salti mortali per consegnare per tempo la prima parte della campata per quello stramaledetto ponte; aspettare sessanta giorni per l’acquisto di una nuova partita d’acciaio sarebbe stata una follia che mio padre non avrebbe mai sottoscritto!”

“Mi sono chiesto spesso del perché Jànos avesse avvallato una clausola che di fatto tagliava le gambe alla C.A.P.. Ammetto di aver pensato ad un momentaneo appannamento di giudizio dettato dalla paura di non riuscire a seguire il crono programma impostogli dal Ministero. Ma ora che ho le due copie della polizza tra le mani… - La guardò con dolore. - Ora so il perché.”

Johanna attese rimanendo in piedi. Lo guardò scuotere la testa ridendo grottescamente.

“Mi dispiace signorina Tenoh, ma anche la firma che avrei sottoscritto io e che è sulla copia di vostro padre… è falsa.”

“O su via, signor Kaioh. Non state parlando con una sempliciotta di campagna!”

“Non sto cercando di sgravarmi da responsabilità che comunque come proprietario mi sento di avere, ma guardate voi stessa. Ammetto che ci sia arte in questo scarabocchio, ma non è certo opera mia!” E visto che Johanna sembrava tutto fuorché convinta, andò alla scrivania prendendo un paio di documenti su cui stava lavorando.

“Guardate da voi se non mi credete. Potete fare tutte le comparazioni calligrafiche che volete. - Le porse i fogli, ma pur notando un improvviso cedimento nella carica nervosa di lei, insistette. - Ed aggiungo che sia il mio avvocato, che la stessa Michiru, potrebbero testimoniare sul fatto che quel modo di arricciare la lettera K non mi appartenga affatto.”

Quella ragazza, indubbiamente armata di tutte le buone intenzioni del mondo ed un amore viscerale per il padre, non poteva non vedere quanto quella firma, anche se molto ben fatta, non fosse originale.

“Signorina Tenoh, a causa del mio lavoro non vado fiero di molte cose. In vita mia sono stato tacciato molte volte di disonestà, tante d’averne perso il conto, ma vi assicuro che non avrei mai potuto tradire proprio la fiducia di vostro padre. Mai!”

“Allora… - si schiarì la voce. - … Allora chi sarebbe stato a far questo?!”

Questa volta Alexander non si sedette semplicemente sulla poltrona, ci crollò come una quercia abbattuta dalla foga del vento e portandosi la mano sul viso inspirò pesantemente. Certo che sapeva chi aveva accolto, parlato e, a questo punto, ingannato Jànos.

“Vi ripeto che mi sento responsabile anch’io. Come direttore dovrei controllare tutti i documenti in entrata ed in uscita, ma sono tanti e ho dei collaboratori fidati che mi aiutano a farlo seguendo personalmente alcune pratiche.”

"Perciò non siete stato voi a seguire la pratica riferita alla C.A.P., ma un vostro collaboratore..." Ribadì con un leggerissimo soffio carico di bile.

“Esattamente e la cosa grave e' che questa persona non abbia apposto la sua firma, ma la mia."

"E potrebbe essere rintracciato?"

"Con estrema facilità. Anzi, credo proprio di sapere chi sia senza neanche avere bisogno di conferme.

Se soltanto fosse stato più accorto. Se si fosse accertato della posizione bancaria di quella pratica per lui tanto importante soprassedendo alle continue emicranie che in quel periodo lo avevano reso un invalido. Se proprio in virtù di quella strana sottoscrizione, si fosse preso la briga di dargli un’occhiata, Jànos sarebbe ancora vivo e fieramente alla testa della sua fabbrica. Ma con i se e con i ma non si fa la storia, ne lo strallo di un ponte, ne si rianimano i morti, così Alexander andò alla sua scrivania, afferrò la cornetta di bachelite nera, compose il numero sferzando più volte la grossa rotella d’osso e attese.

“Pronto? Si, sono io. Devo vedervi subito. No, non qui… In sede. Si, ora! Non m'interessa! Tra un’ora alla Kaioh Bank.”

 

 

Notte d’amore e sangue

Pest – Distretto XIII, casa circondariale della luce

 

Setsuna abbandonò il foglio che stava reggendo con entrambe le mani, scambiando un fugace sguardo con il capo squadra Shiry, seduta con il fiato in sospensione dalla parte opposta della scrivania. Incredula tornò ad alzare la carta intestata accorgendosi di stare leggermente tremando. Non le si poteva chiedere una cosa così, perché avvallare qual trasferimento sarebbe equivalso a condannare due ragazzine ad una fine orribile. L’ÁHV reclamava il suo tributo e lei avrebbe dovuto far finta di niente.

Visto gli infruttuosi interrogatori che avevano visto Minako e Usagi Aino trincerarsi dietro il mutismo più ostinato, la sezione della Polizia Segreta aveva deciso che gli interrogatori alle due ragazze, momentaneamente sospesi fino a data da destinarsi, da li in avanti si sarebbero dovuti tenere in un ambiente diverso, più adeguato.

Con la presente, si invita la casa circondariale della Luce ad informare le signorine Minako e Usagi Aino del loro imminente trasferimento alla casa della giustizia. Il prelevamento sarà eseguito con automezzo blindato e scorta annessa. Si confida nella più totale collaborazione.” Rilesse e Shiry ebbe un brivido.

“Cosa vorrebbe dire imminente?” Chiese sporgendosi in avanti improvvisamente accortasi della scomodità della sua seduta.

“Cosa volete che significhi! Che non abbiamo molto tempo per inventarci qualcosa.”

Inventarsi qualcosa. Già, come se fosse stato facile cercare di strappare due potenziali vittime alle grinfie della polizia segreta.

“Non riuscendo ancora a trovare il nascondiglio del Generale Aino, le alte schiere dello Stato vogliono cercare di estorcere alle figlie più informazioni possibili. Evidentemente Mosca sta facendo pressioni sul governo e l’ultima carta da giocarsi rimane il torturare quelle due disgraziate.”

“Le tortureranno fino… - Ma Shiry non ebbe cuore di continuare la frase. - Quando direte loro del trasferimento?”

“Ora. Le ho fatte andare a chiamare.” Confessò e l’agente in un certo senso la maledì, perché si sarebbe trovata suo malgrado ad assistere ad un dramma.

Anche se giovanissime, la loro età non rappresentava per l’ÁHV un problema, semmai un vantaggio. Non era raro che perfino bambini o anziani all’occorrenza conoscessero la brutalità dei metodi persuasivi di quella gente. A volte bastava mostrar loro alcuni dei giochi preferiti usati da quei sadici bastardi, per far sciogliere anche le lingue più taciturne.

Proprio in quel momento alla porta bussò una guardia e loro sobbalzarono all’unisono.

“Direttrice, ho portato la detenuta Usagi Tzukino. Posso entrare?”

Come morsa da una bestia velenosa, Shiry schizzò in piedi mentre Setsuna acconsentiva all’ingresso.

Usagi comparve loro con la sua solita capigliatura buffa, il viso ovale e gli occhi di un celeste quasi trasparente. Sembrava molto più serena, anzi, l’imminente inizio del ballo le stava restituendo l’originaria immagine di una ragazzina solare e spigliata.

“Buona giornata Direttrice.” Si presentò sorridendo alle due donne.

“A voi signorina Tzukino.” Poi vedendo che Minako non era con loro, interrogò la guardia che le rispose di averla trovata nelle docce.

“Va bene, potete andare, grazie.” Un saluto, un’occhiata d’intesa con il suo capo squadra e la sottoposta uscì congedandosi.

“Molto bene signorina. Vorrà dire che parlerò prima con voi.”

“Direttrice! - Intervenne Shiry dilatando incredula i suoi begli occhi castani. - Non è meglio aspettare che ci sia anche la sorella?!”

Posando lo sguardo prima su l’una, poi sull’altra, Usagi approfittò del momento d'empasse iniziando ad inondarle di parole sul perché e per come l’idea di un ballo, che lei per prima aveva ostracizzato, si stava invece rivelando una cosa incredibilmente eccitante.

“Sono riuscita a confezionarmi un abito! In verità ne ho modificato uno. Per essere sincera sono state Mina e Michiru ad aiutarmi… In realtà l’hanno fatto loro, ma io ho collaborato! - Confessò strappando alle due un mezzo sorriso. - Perciò approfitto di questo incontro per ringraziarvi ancora per tutto il materiale che ci avete fatto trovare nella stanza per le attività domestiche e per il ballo naturalmente.”

“Di nulla. Sono felice che siate riuscita a svagarvi un po’ e sono io a ringraziarvi per l’aiuto che informalmente ci state dando nella ricerca dell’assassina della detenuta 0056.”

Aggrottando le sopracciglia, la ragazzina tornò a guardarle con alternanza.

“Ho detto alla Direttrice che l’esonerare momentaneamente personale estraneo alla sicurezza nelle funzioni interne a questa parte di prigione, è stato un vostro buon suggerimento, Usagi.” E nel compiere quell'atto di profonda umiltà Annamariah si sentì un poco svilita nel suo ruolo.

Sorpresa, la ragazzina accolse quel ringraziamento con fin troppo imbarazzo. ”Oh… sono convinta che avreste preso questo provvedimento molto prima se non ci fossero state tante teste a parlare. - Un nano secondo e rendendosi conto di ciò che aveva detto, si portò la destra alla bocca incassando leggermente il collo. - Scusate. Non intendevo offendervi.”

Ma ne la Meioh, ne Shiry se la presero, perché in tutta onestà l’arrivo dell’agente speciale Hino aveva portato scompiglio un po’ su tutta la linea. Avevano perso intere giornate a farsi la guerra, rimpallandosi responsabilità di ogni tipo e colei che ne aveva giovato, era stata solo la truce mano che aveva sgozzato quella donna.

“Usagi non preoccupatevi nell’esporre il vero. Alle volte noi donne tendiamo all’individualismo, invece che all’unione. Comunque grazie ancora.”

Stirando un sorrisetto buffo e portando le mani ad allacciarsi dietro la schiena, gonfiò il petto come se avesse ricevuto un premio. Un gancio alla bocca dello stomaco che Setsuna assorbì a fatica.

“Purtroppo non siamo ancora riuscite a scoprire nulla di che, ma sono convinta che questo momento di apparente calma, rappresenti solamente la quiete prima della tempesta. Non trovate?” E si riferì soprattutto a Shiry, che sentendosi tirata in ballo deglutì nervosamente.

“Vorrei che sia voi, che vostra sorella, manteneste comunque un profilo basso. Non c’è bisogno che ribadisca quanto quella persona sia pericolosa, giusto?” Una domanda con un’altra domanda. Setsuna stava tergiversando in maniera imbarazzante e Annamariah un po’ ne godette.

“Certo Direttrice. Ma perché mi avete fatto chiamare?”

Ecco. E adesso come si sarebbe comportata quella donna austera di fronte alla necessità di eseguire un ordine impostole dai suoi superiori? Sospirando esageratamente, chiuse gli occhi abbandonandosi allo schienale della poltrona.

“In effetti vi ho fatto venire qui per chiedervi una cosa. – Riaprendoli esplose un sorriso che il capo squadra non comprese subito. - Vorreste fare una visitina alla detenuta 0201? Con la reclusione forzata e la questione del ballo, è un tantinello nervosa e come darle torto. Giusto, agente Shiry?”

“Come?”

“O si grazie! Avevo proprio una voglia matta di scambiare quattro chiacchiere con Mako!” Entusiasta oltre ogni dire per quella concessione, Usagi non si accorse dell’espressione di completo sbigottimento che Annamariah assunse dopo quella richiesta.

“Bene allora. Siamo d’accordo. L’agente Shiry vi accompagnerà dalla signorina Kino. Andate ora.”

Vigliacca, pensò la graduata guardandosela con pietismo mentre fuori un cielo stracarico di bianco iniziava a spolverare le prime manciate di neve.

 

 

Makoto se la ritrovò avvinghiata addosso come uno di quei rampicanti fastidiosi e ridacchiando a quell’esplosione di sincero affetto che solo un tipino come Usagi riusciva a manifestare senza alcun pudore, contraccambiò con il doppio della forza. Arrivando ad alzarla da terra di una decina di centimetri, la fece dondolare un paio di volte a destra e a sinistra fino ad una lamentosa opposizione.

“Mako, mi fai male. Rimettimi giù!”

“A..., prima butti il sasso e poi nascondi la mano?! - Disse arpionandole le spalle per squadrarla da capo a piedi. - Ti vedo bene! Il moro di Buda sta facendo un ottimo lavoro!” Ed attese l’inevitabile reazione.

Sbuffando con scocciata sonorità, la biondina si svincolò dai suoi palmi andando a buttarsi a sedere sul letto.

“Piantala! Sei peggio di Mina!”

“Ma tesoro non è colpa mia se sei un bersaglio tanto facile da impallinare.”

“E che sono un uccello io!!?”

“No, in effetti assomigli più ad un coniglio… - Raggiungendola le sedette accanto chiedendole come andasse. - Le altre?”

“Oh, tutte bene e tu?”

“Lo vedi da te, no?! Mi sto rompendo l’anima. Se la Direttrice non mi avesse promesso uno sconto di pena, non avrei mai accettato questa tortura! Di un po’, ma queste quattro guardie che tanto si credono brave, stanno facendo realmente qualcosa o rimarrò a marcire qui dentro per l’eternità?”

“Non essere severa con loro. Fanno quel che possono. La stessa Minako, che sai quanto possa essere intuitiva, sta trovando parecchie difficoltà nel circoscrivere la potenziale assassina.”

“Tzs. Le vorrei vedere io a star chiusa ventiquattro ore su ventiquattro!”

Usagi si fece pensierosa e le raccontò un avvenimento del quale lei e Minako erano venute a conoscenza e che tutte le guardie, agente Hino in testa, avevano cercato di tenere nascosto. Ascoltando della testa mozzata dell’uccello e del sangue in cucina, Makoto ebbe un fremito ghiacciato lungo tutte le terminazioni nervose della schiena.

“Cazzo. Questa è matta sul serio.”

“Hai capito con chi abbiamo a che fare? La pazzia rende scaltri. Molto intelligenti. Non sarà facile risalire a colei che si nasconde dietro a tutto questo.”

“Capito. Resterò confinata qui per tutto il resto della vita.” Mugugnò raggomitolandosi in avanti.

“Ma no, dai!”

“A no?! - Scattò come una molla. - Se due ragazzine sono venute a sapere di un avvenimento che hanno cercato di tenere nascosto… Bè, saluti e baci alla sicurezza! Sono delle incompetenti, altro che!”

L'altra stava per aprir bocca e continuare a difendere le guardie, ma si fermò per tempo. Non le andava di passare i pochi minuti che aveva con l’amica a discutere su una cosa che non avrebbe spostato l’ago della bilancia di un solo centimetro. La verità era che nei confronti dell’assassina, stavano perdendo ed anche malamente. Nella sua pur breve esistenza Usagi ne aveva viste abbastanza per avvertire, annusare nell’aria l’odore nauseabondo del pericolo e della conseguenziale sconfitta più nera. Era consolante sapere Mako al sicuro, rinchiusa li, a rompersi l’anima certo, ma accerchiata di guardie.

“Sai quello che mi rode di più? E’ che mi perderò il ballo!” Continuò l’amica facendola sorridere.

“Tutto qui? Ma questo non è un problema! - Ed alzandosi dal letto, annunciò stentorea porgendole la mano. - Mio bel cavaliere, potreste concedermi l’onore?!”

“Ma cosa…”

“O suvvia, non farti pregare.”

Makoto si sentì afferrare e strattonare in piedi. Arpionare spalla destra e mano sinistra. “Non vorrai che conduca io?!”

“Ma dici sul serio?”

“Ti sembra che stia scherzando?” Inquisì iniziando a muoversi.

“Va bene. Va bene! Come volete voi. signorina.” Ed iniziando a portare l’altra, le sorrise teneramente sentendosi meno nervosa.

Contro ogni diceria o apparenza, questo era il grandissimo potere di Usagi; far sentire bene le persone che le stavano accanto. Così immerse tra oggetti asettici che nulla avevano a che fare con loro, si persero in un giro di danza.

 

 

Il tempo era volato da quando si era congedata da casa Kaioh diretta verso una delle mercerie più fornite di Pest. Era riuscita a fare tutto quello che si era ripromessa; acquistare il tanto agognato oggetto per Haruka, sceglierle una bella camicia nuova d’accompagnare al completo e fare un salto dagli Erőskar per mettere a conoscenza Scada di quello che aveva saputo nel faccia a faccia con Alexander Kaioh. Non avendolo trovato, aveva lasciato detto a Mirka, intrattenendosi con lei per il restante pomeriggio, prima di chiudere nuovamente casa e tornare verso il tredicesimo distretto alle diciotto passate di un venerdì grasso dal tempo orrendo.

Doveva parlare con la sorella e cercare di farle capire che degli sbagli e delle sviste, della fiducia mal riposta ed una certa dose di sconsiderata negligenza, non potevano fare di Alexsander Kaioh un assassino. Sarebbe stato difficile, n’era certa. Lei per prima non riusciva ancora a capire cosa stesse provando realmente. Quando si spende tanto tempo a focalizzarsi su un’idea, giusta o sbagliata che sia, non è facile accettare di aver dissipato energie inutilmente. Ma si sentiva comunque sollevata, soprattutto nei confronti di Michiru. Forse con l'immagine de banchiere parzialmente redenta, anche la storia tra lei ed Haruka avrebbe potuta diventare più semplice.

Una volta dismessi i panni di una ragazza di ventiquattro anni e messi quelli di una guardia carceraria, Johanna riprese servizio con animo più sereno. Entrando nel Blocco A insieme a due colleghe, si diresse verso la scala del ballatoio tenendo da conto il pacchetto che aveva nella tasca destra della giacca. Intravedendo di sfuggita Michiru dirigersi ai bagni tenendo tra le braccia quello che presumibilmente era il vestito che avrebbe indossato quella sera, ipotizzò che la bionda fosse rimasta a prepararsi nella loro cella e la raggiunse. Aprendo lo spioncino, la vide voltata di spalle mentre stava allacciandosi la camicia.

“Tenoh sei presentabile?” Urlò mentre mandava i tre giri di chiave ed apriva la porta.

“Spiritosa! Mai una volta che ne combinassi una giusta. Mi sta stretta!” Lagnandosi si voltò allargando le braccia mostrando rotondità che in effetti Johanna non ricordava tanto abbondanti.

“No Ruka, la taglia è sempre la stessa, sei tu che sei ingrassata. Tutto il giorno ad oziare e guarda il risultato… - Agganciandosi le chiavi al cinturone, iniziò a sistemargliela alle spalle terminando con l'allacciarle al collo l’ultimo bottone. - Sono contenta che il pacco che ho lasciato in guardiania ti sia stato consegnato per tempo.”

“Mi stringe dappertutto!”

“E’ perfetta così! Tu sei perfetta così. Avanti, infilati gilè e giacca e fatti guardare.”

Poco convinta e stranamente agitata, l’altra obbedì sbuffando smaniosa. “Mi sento strana.”

“E’ ovvio, hai un indumento nuovo ed un completo che non porti da tempo. Datti una calmata.”

“Non è per questo!”

“Lo so.”

Maternamente le aggiustò il cran. Le piaceva farlo e Haruka se lo lasciava sempre fare quando le capitava d'indossare una giacca.

“Credo che a breve sarà un’altra donna a far si che tu ti renda presentabile.” Disse in tono scherzoso facendole roteare gli occhi.

“Che palle! Piuttosto, con i vestiti non mi hanno portato quello che ti avevo chiesto di comprarmi. Non te ne sarai mica dimenticata?”

“Certo che no, ma per chi mi hai presa?! - Disse estraendo dalla tasca il piatto pacchettino in carta da zucchero che la bionda prese tra le mani come un reliquiario. - Senti Ruka, dovrei parlarti di una cosa importante.”

“Ora?” Ed intanto fece per scartarlo.

“Ma che fai!” La bloccò.

“Lo apro. E se avessi combinato uno dei tuoi soliti casini?!” Si difese.

“Non ho combinato proprio niente. Fidati. Vuoi forse che le tue zampacce maldestre lo rovinino?”

Pensandoci storse la bocca accettando l’ovvietà. Avrebbe potuto tenere fra le mani l’ingranaggio più delicato del mondo e sarebbe stato al sicuro come in una cassaforte, ma per tutto il resto Haruka era l’undicesima piaga d’Egitto.

Allungando il braccio ed abbandonando il pacchetto sul suo materasso, sembrò darle finalmente retta. “Allora? Dimmi pure.”

Johanna stava per parlare quando un qualcosa nello sguardo della sorella le uccise il suono. Una scintilla di felicità, quel sentimento così bello che non le aveva più visto da tempo e si ritrovò a mordersi il labbro inferiore sentendosi gli occhi pizzicare.

“Dio, se apa fosse qui sarebbe così fiero. - Se ne uscì lasciandola di sasso. - Come lo sono sempre stata io.”

“Ma… che… sciocchezza! Non dovevi dirmi qualcosa?” Borbottò imbarazzatissima.

“Sai che c’è? Non questa sera. Domani. Goditi la festa e l’amore della tua Michiru. - Le accarezzò lieve la frangia bionda. - E brilla Haruka, brilla come solo tu sai fare.”

“Ma che ti prende?!”

“Nulla. - Alzò le spalle montando la solita faccia scherzosa. - E’ che ritornare a casa mi fa sempre un certo effetto.”

Spezzando il momento catartico con una decisa pacca sulla spalla, Johanna la lasciò andando verso la porta.

“Ci sarai questa sera?” Si sentì chiedere scuotendo però la testa.

“Mi dispiace, ma ho la ronda. Ci sono parecchie detenute che non sono state ammesse al ballo e vanno controllate. A domani.”

“Jo!”

“Si?” Voltando il busto di tre quarti, la maggiore sentì le braccia dell’altra avvolgerla forte.

“Grazie… anche per la camicia. Stai attenta d’accordo?”

Si concesse un po’ di tregua quella che fra le sorelle Tenoh era apparentemente la più appiccicosa, ma che in realtà nascondeva un enorme pudore nel manifestare apertamente il proprio affetto. Così aggrappandosi alla schiena di Haruka, Johanna contraccambiò quella stretta con un solo braccio concedendosi un attimo per goderne, poi sciogliendola, si portò la mano destra alla fronte mettendosi sull'attenti rispondendo con un si signora. La bionda naturalmente ce la mandò.

 

 

La biblioteca era già parecchio animata. Con gli strumenti perfettamente accordati, la musica aveva iniziato a diffondersi per il piano già da prima di mangiare, quando il buffet sarebbe stato servito con la concessione di un po’ di vino. Michiru non stava più nella pelle e con il suo bel vestito nuovo, aveva suonato un paio di brani in assolo, lasciando poi il violino ad un’altra detenuta. Lei ed Haruka avevano pattuito che si sarebbero viste direttamente alla festa. Covava in loro il gusto della sorpresa, dello scoprirsi e perché no, del corteggiarsi. Tutto bello, tutto dannatamente eccitante, fino al solito passo falso della bionda. Michiru lo sapeva che dentro quella scorza batteva il cuore di una donna, ma non avrebbe mai immaginato che ci avrebbe messo tanto nel prepararsi.

Non si è mai sentito di un cavaliere che faccia ritardo! Inalando insofferenza, Kaioh guardò per l’ennesima volta l’entrata mentre Minako prendeva a ridersela.

“Mina… cortesemente…” Continuando a tenere gli occhi fissi come un gufo sopra il ramo di un albero, bruciò l’amica prima ancora che avesse potuto aprir bocca.

“E poi dici di non avere intuito?” Puntualizzò Usagi nel suo bel vestitino rosa.

Non è che avessero confezionato chissà quali abiti di alta moda, erano lontani i tagli da sera che le avevano viste brillare nelle notti dell’alta società della capitale, ma stavano ugualmente tutte e tre molto bene, soprattutto Michiru, che in quella sera nevosa sembrava lucente. Un vestito semplice, di color blu scuro dalla gonna un poco più bassa del ginocchio, aderentissimo in vita grazie ad una fascia di color beige e scollato a V sul petto. Le maniche portate alla drop shoulder grazie al fenomenale riscaldamento che stava permettendo a tutte di vestire in maniera più leggera. I capelli lasciati sciolti e vaporosi sulle spalle. Nessun gioiello; il regolamento lo vietava, ma in tutta onestà anche se il suo viso fosse stato valorizzato da un paio di orecchini o il suo collo da una vistosa collana, non sarebbe potuta essere più bella di quanto non lo fosse li, ora, in un carcere della periferia di Pest.

“Non capisco dove possa essere! Quando l’ho lasciata per andarmi a cambiare aveva già indossato i pantaloni.” Soffiò tra i denti mentre una giacca nera entrava nella sala accompagnata da un brusio.

“Eccola!” Esclamò Mina quasi immediatamente sbugiardata.

“No, è il dottor Kiba con la direttrice Meioh!” Disse Kaioh iniziando ad innervosirsi.

Drizzando le antenne, Usagi gonfiò il piccolo petto facendo sorridere entrambe.

“Porca miseria! La Direttrice è fantastica.” Se ne uscì Minako serrando la mascella.

“Chi quella zitella? Ma fammi il piacere…” Obiettò la biondina mentre dentro rodeva di rabbia.

Michiru fece finta di sorridere, anche se di quella strana coppia venutasi a creare tra la solitudine di due ruoli molto diversi fra loro, non poteva importarle niente. Uno strano senso d'abbandono iniziò ad avvilirla, tanto che rifiutandosi di suonare o ballare con chi che sia, andò a rifugiarsi in un cantuccio, che poi altro non era che la parte più nascosta della sala; una piccola nicchia ricavata tra le scaffalature ed un angolo del muro. Incrociando le dita dietro alla schiena si appoggiò ad un filare di libri iniziando a rimuginare. Lì rimase per un po’, a testa bassa, con la frangia in quella sera particolarmente obbediente, mentre tutto il resto di quella piccola euforia le vorticava intorno.

“Ma che viso sconsolato che abbiamo signorina.”

Riconoscendo quella voce profondissima come una delle vibrazioni sonore più sensuali del mondo, Kaioh inalò aria serrando per un momento gli occhi pronta a dar battaglia, poi alzando di scatto il viso, schiuse le labbra per dar sfogo a tutta l’indignazione che sentiva dentro, quando l’immagine di un angelo biondo la sgretolò.

“Sei incantevole. - Sospirò Haruka avvicinandosi al suo orecchio facendola rabbrividire. - Scusa se ci ho messo tanto. Non trovavo una cosa.”

“Una cosa!” E volendo fargliela pagare, Michiru cercò di mantenere il punto e sguardo a sguardo aggrottò la fronte.

“Già. Tieni, questo è per te.” Prendendole la destra ancora nascosta dietro il tronco, gliela aprì lasciandole nel palmo il pacchetto e richiudendola, se la strinse tra le sue portandosela alle labbra per baciandola delicatamente.

Non trovava il suo coraggio Haruka, altro che pacchetti o entrate ad effetto galvanizzate dalla musica. Aveva finito di prepararsi più di quaranta minuti prima e per il restante tempo se n’era rimasta seduta sul letto di Michiru a rigirarsi quel regalo tra le mani, indecisa se dar retta ai crampi di stomaco o all’aritmia del suo povero cuore. Uscita a forza dalla cella, spinta per lo più dalle prese per i fondelli delle altre, aveva strascicato i piedi come un’ameba arrivando infine alla meta, dove cercando tra volti ormai troppo noti, era riuscita finalmente a scorgere la fonte di tutto quell’assurdo malessere nascosta in un angolo. Una volta vistala, tutta la paura e l’ansia erano scemate di getto e al loro posto una forza prorompente, un’energia sana, aveva preso ad irrorarsi in lei come alcool caldo.

Ed ora ferma con le mani avvolte nella sua a pochi centimetri da labbra leggermente umide, Haruka Tenoh sentiva di essere tornata il giovane falco pescatore pronto a scendere in picchiata e far suo il pasto che voleva.

“Hai perso il mio assolo.” Punzecchiò Michiru. Cosa credeva quella spudorata bionda, che sarebbe crollata tanto facilmente?

“Aprilo.” Esortò indomita accettando l’ennesima sfida.

“Sei impossibile!”

“Lo so, ma aprilo, dai.”

Un tantino sulle sue, l’altra ubbidì cercando di controllare l’agitazione per quell’inaspettato gesto. Lo fece lentamente, con gusto, con gratitudine ed anche con un pizzico di perfidia nel vedere Haruka trepidante nell'attesa di un consenso e quando un nastro di seta blu con leggeri arabeschi di foglie d’acanto le sfiorò la pelle lasciandole una sensazione di freschezza sulle dita, piegò leggermente la testa da un lato stirando le labbra.

"Ruka...

“Perdonami, non è molto. Meriteresti che ti facessi dono della luna, ma… non mi è concesso.” Disse con tono dispiaciuto, come se realmente avesse potuto strapparla alla profondità del cielo.

“E’… bellissimo…”

“Tu lo sei. Mi piace tanto quando tiri su i capelli. Hai un collo così fine.” E sfiorò quella piega morbida che Michiru troppe volte nascondeva. La sfiorò provocandole un brivido di piacere e provandolo anch’essa.

Finalmente Kaioh tornò a guardarla e c’era solo tanto amore nel cobalto del suo sguardo. Anche quella parentesi di lotta era finita.

“Aiutami.”

"Con piacere." Asserì e galvanizzata le tirò su i capelli.

Una volta finito Michiru le strinse forte il braccio. “Andiamo a ballare?”

“Certamente! Non è per questo che ci siamo esercitate tanto?”

Tanto?, pensò l'altra inarcando le sopraciglia sarcastica non dicendo però nulla, ma lasciandosi guidare in un lato della sala.

“O Signore del cielo se sono belle!” Se ne uscì di cuore Minako non potendo che ammirarle lasciando in se una punta d’invidia.

Intrecciando le dita della destra con quelle della sinistra di Haruka, Michiru le poggiò le altre alla spalla opposta, delicatamente, come un tocco di piuma. Aspettandosi una certa dose d’incertezza da parte del suo indisciplinato cavaliere, guardò le donne che stavano suonando sopra un palchetto allestito per l’occasione, quando avvertendo la destra della bionda cingerle saldamente la vita all’altezza dei reni, si ritrovò a sbattere le palpebre stupita. Un viso improvvisamente serio le si avvicinò, i suoi smeraldi la penetrarono sin nel profondo, mentre complice la diversa altezza, i loro bacini presero un incastro perfetto. Tutto questo la disorientò ancor più che sentirla condurre con insospettata maestria, ed in quell’istante, dove il corpo caldo della bionda era ormai stretto al suo nei lenti movimenti della danza, Michiru capì cosa realmente fosse il desiderio. Quale potente mezzo che madre natura aveva messo a disposizione degli esseri umani per abbattere le paure del contatto ed iniziare invece a bramarlo con urgenza. Quale trucco meraviglioso, paravento alchemico, fusione burrascosa e comunque armonica fatta di sensazioni tattili, olfattive e chimiche tutte fuse insieme. Si sentì avvampare in ogni parte del corpo, dalla testa al petto e poi più giù, dove una forte contrazione nel suo essere donna le provocò un improvviso dolore.

Dio Ruka…, gemette nella sua mente.

Quando anche l’ultima nota abbandonò l’aria calda della sala, le due ragazze si fermarono. Occhi negli occhi. Fiato a fiato. Carne viva a carne viva. La prima a tornare a respirare più liberamente sembrò essere Haruka, la quale staccando il contatto dei loro busti facendo un leggero passo indietro, continuò a guardarla sfoderando un sorriso enorme.

“Non siamo andate poi tanto male, no?”

“Direi.” Ma nel risponderle Michiru non le lasciò subito le mani. Ne avrebbe sofferto troppo.

“Ho saputo che, udite udite, questa sera ci spetta anche un bicchiere di vino a testa. Ne vogliamo approfittare?”

“Si, ne ho bisogno. Ma tu non hai caldo?”

“Caldo? Non più del solito. Comunque hai ragione, qui ce né parecchio. Se vuoi vai pure a rinfrescarti in corridoio. Ti porterò da bere li.”

Accettando al volo, Michiru schizzò fuori come inseguita dalla lava. Cosa mi sta succedendo?! Si chiese iniziando a fare profondi respiri. Mi sento bruciare.

“Tutto bene Kōtei?” Il capo squadra se la guardò accigliata.

Non amando troppo gli assembramenti, aveva deciso di rimanere fuori dalla biblioteca, controllando da lontano l’andamento di una festa comunque abbastanza tranquilla. A parte qualche giovane e irruento cucciolo del Blocco A, le altre avevano preso quell’occasione come un libero sfogo di movimento ed evasione dalla routine carceraria. Poi Shiry aveva visto quella giovane rampolla uscire con il volto arrossato e sembrandole strano le si era avvicinata per sincerarsi sul suo stato.

“Si grazie. Credo di essere completamente fuori esercizio. E’ bastato un ballo per farmi venire il fiatone.”

“A…, se è tutto qui allora va bene.”

AnnaMariah calcava da troppi anni le scene delle carceri femminili per non rendersi conto dell’attrazione tra due donne e quella che Michiru stava provando per l’irruente Haruka, era talmente lampante che il dissimularla le sembrava quasi una capriccio da ragazzina.

“Ecco il vin…” La bionda spuntò dalla porta bloccandosi di colpo.

“Tenoh! Cosa abbiamo ripetuto da quando è stata decisa la data della festa?!”

“Che i bicchieri di vetro non devono uscire dalla biblioteca.” Rispose come a scuola.

“Allora perché per le mani ne hai addirittura due?”

“Colpa mia agente Shiry. Dai Ruka, in effetti non mi sento molto bene. Potremmo tornare in cella?”

La bionda dimenticò i bicchieri guardandola con preoccupazione. “Che cos’hai?!”

“Non fare quella faccia, sono solo un po’ stanca. Sono giorni che aiuto a preparare la festa e ora che vedo quanto stia riuscendo bene, deve essermi calata di colpo la tensione.”

“Forse dovresti stenderti.”

“Si…”

“Tenou non vorrai lasciarla da sola spero.”

“N…no, certo che no!” Voltandosi verso la sala, la bionda attirò con un fischio l’attenzione di una detenuta che stava parlottando e chiamandola fuori le mollò i bicchieri.

“Su andiamo. Vi accompagno io.” Chiarì il capo squadra.

S’incamminarono dirette al blocco d’appartenenza, ma proprio a circa metà strada, un secondino le intercettò trafelata iniziando a parlare con la graduata. Pochi istanti ed il colorito dell’agente Shiry cambiò bruscamente.

“Sono qui?”

“Si e pare abbiano anche una certa premura.”

“Dov’è l’agente Hino?”

“Non è ancora tornata dal Ministero. Pare che sia in arrivo una tormenta. Sta diventando difficile muoversi in auto.”

“Ma quelle bestie ci sono riuscite!”

“Così sembra. Dobbiamo informare la Direttrice.”

“Ci penso io. Tu scorta Kōtei e Tenou in cella.” Ordinò e senza neanche degnare di uno sguardo le ragazze, tornò velocemente sui suoi passi mentre le luci del corridoio iniziavano a sfarfallare.

 

 

Haruka corrugò la fronte allo sgradevole rumore dello scorrere della porta sui binari. I tre canonici giri di chiave ed i passi dell’agente che si allontana.

“Non sarebbe stato meglio passare prima in bagno per darsi una rinfrescata?”

“No tranquilla, sto bene.”

“A me non pare, sei tutta rossa. - Appoggiandole una mano alla fronte cercò di verificare se avesse la febbre. - Guarda che mi sembra che tu sia calda.”

A quelle parole Kaioh si staccò sentendosi pesante come il piombo.

“Si Haruka, sono calda. Non puoi immaginare quanto. - Iniziò finalmente a guardarla nella sua interezza, perché fino a quel momento era stata troppo presa per farlo. - Questo completo ti sta divinamente. Lo porti con talmente tanta naturalezza che sembra che tu ci sia nata dentro.”

Dopo un primo istante di ovvio imbarazzo, la bionda iniziò a ridere grattandosi la testa. Cosa voleva dire che vestita a quel modo assomigliava ad un figurino di Buda? "Grazie, ma e' anche parecchio ingombrante." E con un movimento brusco si tolse la giacca sbottonandosi il gilè.

"Ora va meglio. Sai, non so proprio come tu faccia a stare a tuo agio con un abito tanto aderente ai fianchi."

Posandole le mani sulle asole, Michiru iniziò a concentrarsi sui bottoni di madreperla della camicia. “Perché?… - Via il primo. - Sono sicura che con un pò d'esercizio finiresti con il trovarlo comodo anche tu… - Il secondo. - Potremmo provare..., ma non questa sera.”

“Michiru… cosa stai facendo?!”

Il terzo. “Ruka non ce la faccio più. Sono giorni che ci stiamo ammazzando di lavoro per arrivare a crollare stanche la sera; io per i preparativi di questa sera e tu dietro a quello stupido furgoncino. - Le rivolse uno sguardo talmente carico di desiderio e supplica che l’altra deglutì a vuoto digrignando i denti fino a farsi male. - Ti prego. Ora basta. Ho voglia di te.”

Completamente tramortita da quel comportamento tanto inedito, la bionda le bloccò le dita avide ormai arrivare all’ultimo bottone prima della cinta dei pantaloni.

“Michiru ferma. Guardami. - Indice e medio a sollevarle il mento. - Avevi detto che volevi fare le cose per bene, che avresti voluto la favola.”

“Haruka… sei tu la mia favola.” Ed arpionando la stoffa della camicia ormai del tutto aperta, si tuffò sulla sua bocca chiedendole quasi immediato spazio.

Cercò di opporsi, ma quando sentì la camicia scorrerle lungo le braccia per poi perdersi in terra con il gilè, ad Haruka fu chiaro che il punto di non ritorno era stato oltrepassato e si lasciò andare. Interamente. Afferrandole i fianchi la spinse fin sotto alla finestra avvertendo sulla testa il formicolio della corrente fredda che serpeggiava dal telaio. La sovrastò mentre lei prendeva a danzare nella sua bocca stringendosi al suo collo. Con dita febbricitanti riuscì ad allentarle la chiusura lampo alla schiena, concentrandosi poi sulla cintura, vero ed ultimo baluardo difensivo. Facendo un poco di fatica le liberò la vita e fermandosi un istante a guardarsi reciprocamente, con le labbra che pulsavano arrossate, si sorrisero riprendendo fiato.

”Riesci sempre a sorprendermi Michiru.”

Posando i polpastrelli di entrambi i medi sull’attaccatura delle clavicole di Kaioh, li lasciò scorrere verso le maniche, lievemente, tanto che la sentì fremere. Poi, forzando con l’aiuto degli indici, spinse verso il basso ed inesorabile il vestito corse giù, ai gomiti, agli avambracci, ai polsi e la piccola gru, esposta e a un passo dall’essere sua, divenne preda di penna.

 

 

Con la punta del naso quasi a contatto con il vetro, l’agente Anya guardò i turbini bianchi che stavano confondendo la consueta vista che si aveva dalla finestra del corridoio del piano terra. Quella tormenta non ci voleva e lo sapeva fin dentro le ossa di una donna ormai colpita dai primi acciacchi dell'età che non avrebbe fatto che peggiorare.

“Addio ritorno a casa.” Lamentò mentre la collega la raggiungeva spazzando con il palmo della destra la condensa opaca sul vetro.

“Ne sta facendo veramente troppa. Se non cala d’intensità la linea elettrica rischia di andare in tilt.”

“Le luci ne stanno già risentendo, ma tranquilla, la prigione è dotata di un generatore ausiliario che all’occorrenza entra in funzione.”

“Meglio. Non mi alletta per niente l'idea di rimanere al buoi in una prigione.” Disse Johanna domandandole perché avendo finalmente il fine settimana libero non avesse ancora preso la via di casa.

“Le detenute della cella tre devono ancora passare in lavanderia e fino a quando non avranno finito non posso staccare. Ma visto quanta ne sta facendo…”

Anya era fin troppo onesta per chiedere a Shiry di poter uscire prima di aver assolto l’ultimo compito della giornata.

“Se aspetti un altro po’ non riuscirai neanche a trovare la strada. Vai, il tuo turno lo copro io.”

L’altra la guardò con gratitudine, ma scosse lo stesso la testa. “Pazienza, sarà per la prossima volta.”

“Proprio perché sei una anya egységes è giusto che il giorno del venerdì grasso tu stia con i tuoi figli. Avanti!”

La donna in un primo momento sembrò titubare, ma poi si lasciò convincere. Era un mese che non tornava in famiglia e voleva proprio goderseli quei giorni di permesso.

“D’accordo Horvàth, ma promettimi di stare attenta. Le detenute rimaste nel blocco non sono affatto stinchi di santo.”

“Si, si, ma adesso vai.” La rassicurò Jo stringendole un braccio per poi guardarla corricchiare verso l’accettazione.

Va bene. Allora andiamo da quelle due ragazzacce, si disse sfregandosi le mani sicura che non sarebbe comunque stata da sola.

E di fatti trovò una collega sull’uscio della cella e le due detenute che stavano uscendo con una pila di panni sporchi a testa.

“Uuuu… Ma veramente sei come il prezzemolo!” Se ne uscì Tesla una volta vistala arrivare.

“E tu la solita burlona!” Scambiando un cenno d’intesa con l’altra guardia, Johanna si mise dalla parte opposta delle due.

“Anya?” Le chiese mentre si stavano avviando e la musica della festa risuonava in lontananza.

“Ha staccato. Fuori c’è tormenta. Se avesse tardato avrebbe rischiato di non poter tornare a casa. Per questa sera la copro io.”

“Ma che gesto di buon cuore agente Horvàth!” Intromettendosi la donna slava iniziò a camminare all’indietro stirando un sorrisetto idiota che Johanna fece finta di non vedere.

Continuando a tirar dritta non le diede spago seguendo alla lettera le direttive che aveva cercato d'inculcarle Shiry. Non dare mai confidenza. Non rispondere. Non cadere nelle bieche provocazioni. Tutte cose che al sangue Tenoh risultavano difficilissime da fare. In tutto questo, l’altra detenuta non aveva ancora detto una parola. Con lo sguardo assente Mery se ne stava incollata alla compagna come un cagnolino al quale hanno appena rubato l’osso. Johanna non se ne lamentò.

Arrivate alla porta della lavanderia le due guardie rimasero fuori, mentre Tesla e Mery entrarono. Aprendo uno dei rubinetti del vascone la prima aspettò che il rivolo d’acqua riempisse la tinozza mentre la seconda afferrava l’asse di legno e un pezzo di sapone.

“Merda guarda qua! Le tubazioni devono essere quasi del tutto ghiacciate!” Disse la slava.

“Tranquilla Tesla, questa sera non abbiamo fretta. Datti una calmata.” Rispose Johanna iniziando a camminare lentamente avanti e indietro con le dita arpionate al cinturone.

“Voi non avrete fretta, ma io si! Possibile che per lavare due panni ci si debba sempre mettere un’eternità? - Sbraitò afferrando al volo l’ennesima scusa per attaccar briga. - Su amore, passami il sapone.”

Ma Mery lo lasciò cadere nell’incavo del vaso e serrando le mani al bordo iniziò a tossire curvando la schiena n avanti.

“Amore?”

E quel tossire si fece sempre più acuto fino a provocare sangue.

“Mery che cos’hai?!” Urlò la slava mettendo in allarme le altre due.

Afferrando la sua compagna per le spalle, la costrinse a voltarsi verso di lei e lì vide drammaticamente la sua bocca imbrattata di sangue.

“Oddio, chiamate il medico! Presto!”

“Vai a chiamare il dottor Kiba!” Disse Johanna alla collega sporgendosi sulla porta prima di essere bloccata per un avambraccio. “Rimani fuori, afferra il manganello e non entrare per nessun motivo. Io faccio prima che posso.” E correndo via la lasciò.

“Stai tranquilla amore. Vedrai, andrà tutto bene!” E quelle parole suonavano così dissonanti se si conosceva il soggetto Tesla nella sua interezza.

Johanna ne rimase in un certo senso colpita, come, se non più, del vedere il rivolo denso continuare ad alimentare la chiazza scarlatta sul colletto della camicia di Mery.

“Ho male. Portami via…” Articolò improvvisamente e Tesla non se lo lasciò ripetere due volte.

Andando verso Johanna le intimò di lasciarle passare.

“Ce la porto io in infermeria!” Alzò i pugni minacciosa costringendola a brandire il legno.

“Stai calma! La collega farà subito.”

“Non con questa stramaledettissima festa!

Giusto, pensò Johanna ricordandosi che anche il dottor Kiba avrebbe partecipato. Alzando il manganello all’altezza del petto della slava, cercò di mantenere tra loro una certa distanza quando le lampadine del piano iniziarono a blincare. Le due puntarono all'unisono l’attenzione a quella che serviva la lavanderia, che d’improvviso saltò spegnendosi.

“Porca puttana.” Disse Tenoh facendo un salto all'indietro allontanandosi mentre dall'ombra delle spalle di Tesla usciva Mery, sporca in viso come un vampiro appena nutritosi.

Rabbrividì. Gli occhi di quella donna avevano un non so ché di demoniaco e quando comparve sulle sue labbra un sorriso sardonico via via sempre più marcato, com’era accaduto nel tunnel, Johanna intuì di essere in pericolo.

“Mery?” Anche Tesla rimase stupita e quando il suono simile ad uno stec giunse alle sue orecchie, quello stupore si trasformò in incredulità.

La lama di un coltello si rifletté per qualche istante brillando come una stella alla luce delle lampade del corridoio, tanto che a Johanna sembrò quasi una visione, uno scherzo dettato dal panico che le stava montando dentro. Ma poi tutto si fece nitido.

“Lo riconosci o tua sorella non te lo ha mai fatto vedere?” Chiese Mery facendo un passo verso di lei ed era tanto divertita dalla bomba appena lanciata che iniziò ad oscillare l’impugnatura tra l’indice ed il pollice.

Un altro passo e Johanna percepì la presenza della massa del muro dietro alla schiena. Era in trappola? Guardando la fine del corridoio fece capire all’altra l’intenzione di scappare e quella scattò come una molla.

“Tu sarai la prima mia cara Johanna Tenoh!” E le si avventò contro.

 

 

 

NOTE: Ciau. Scusate, mi è scappata la mano! Non avevo mai scritto un capitolo tanto lungo, ma non potevo dividerlo in due, perciò ho deciso di troncarlo come al solito, così da lasciare che le vostre maledizioni mi colpiscano inesorabili. E visto il periodo di summa sfiga… fate anche meno, per carità hahaha.

Naturalmente scherzo.

Allora, con quest’ultima pagina abbiamo elevato Mery a psicopatica leader di tutta la casa della luce, che Tesla…, levati. Già si intuiscono gli enormi casini che ha combinato, le trame che ha tessuto, ma naturalmente spiegherò tutto all’inizio del prossimo capitolo. Come ha detto Usagi; i matti sono scaltri ed intelligenti, perciò della nostra biondina ci si può fidare :P

E di Haruka e Michiru che mi dite? Non siamo sotto l’egemonia del bollino rosso, perciò spero di non aver deluso nessuno non descrivendo nei minimi particolari la loro prima volta. Ammetto che avevo pensato ad una Tenoh che per non far cigolare le molle, spostava il materasso per terra e se ne usciva con una frase del tipo “come in campeggio”, ma poi ho scartato l’idea. Veramente poco romantica. Già abbiamo una Kaioh che per un pelo non le strappa i vestiti di dosso. Proprio non si poteva ;)

A prestissimo!

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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