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Autore: Shireith    21/08/2018    2 recensioni
Se solo avessero potuto capire, gli uomini la guerra non l’avrebbero amata più.
(Sheith, hurt/comfort, War World II!AU // Storia che partecipa alla 26 prompts challenge indetta dal gruppo Facebook Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart)
Genere: Angst, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kogane Keith, Takashi Shirogane
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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guerra
sostantivo femminile
a. Lotta tra stati, o all'interno di uno stato, condotta con le armi SIN conflitto: g. terrestre, aerea, atomica; g. di liberazione; dichiarare g.; entrare in g.
b. Divergenza, contesa fra individui o gruppi: g. tra rivali in amore, tra partiti politici || g. psicologica, volta a piegare il morale dell'avversario.


Lascia pure che parlino, i portatori di tutta questa sofferenza


 Un soffitto basso, sporco, decadente.
  Quando Shiro riaprì gli occhi, fu quella visione a dargli il bentornato nel mondo terreno. Tutt’intorno a lui la situazione era la medesima: sporcizia, miseria, desolazione.
  Si trovava all’interno di una grande stanza di cui non conosceva bene né le origini né la collocazione, e tutto ciò su cui riuscisse a posare gli occhi portava il nome dell’atrocità che riguardava il suo presente, un’atrocità chiamata guerra.
  L’essere umano la conosceva bene. Ed era anche buffo, si ritrovava spesso a pensare Shiro con una certa amarezza, che ad alcuni della sua razza fosse tanto cara nonostante lo spropositato numero di vittime che essa mieteva lungo il cammino.
  Era lei, la guerra, ad essere rea dei crimini contro l’umanità cui aveva assistito, i quali, benché parte del passato, l’avrebbero tormentato fino alla fine dei suoi giorni. Ed era sempre la guerra ad essere colpevole dello scempio cui anche ora erano costretti a fare da testimone i suoi occhi – troppo stanchi per cercare di combatterlo, troppo coinvolti per provare rassegnazione.
  Esseri umani che colpe non avevano ammassati come bestie tra il lerciume e il tanfo, mentre altrove, lì dove la sofferenza non sapevano neanche cosa fosse, i veri artefici di tanta disumanità giacevano tranquilli, troppo occupati a saziare lo stomaco per pensare ai corpi feriti e alle menti tormentate che si trovavano in quello stato a causa loro. Il tutto in un nome di un bene superiore che di bene e di superiore aveva ben poco.
  Se solo avessero potuto viverlo in prima persona, pensava Shiro.
  Se solo avessero potuto vedere con i loro stessi occhi la vitalità di un uomo scivolar via dal suo corpo esanime, se solo avessero potuto capire quanto ancor più doloroso fosse se l’artefice di quella vita appena spentasi sei tu stesso.
  Se solo avessero potuto respirare con le loro stesse narici l’aria pesante della guerra, un misto di terra bruciata, polvere da sparo e carne putrefatta.
  Se solo avessero potuto udire con le loro stesse orecchie il pianto di un bambino rimasto senza madre, o la disperazione di un uomo che, indifeso, innocente, s’inginocchia al tuo cospetto supplicandoti di risparmiargli la vita.
  Se solo avessero potuto capire, gli uomini la guerra non l’avrebbero amata più.
  Non tutti, almeno.
  C’era un’altra verità che si celava dietro alle motivazioni di un’inenarrabile insensatezza come la guerra, ed era così perversa che Shiro, ripensandoci, non riusciva a comprendere come fosse possibile. Uomini che, pur ben consci di tutto ciò che le loro scelte comportavano, ancora erano disposti a perseguire i loro obiettivi senza provare rimorso. Distruzione, desolazione, povertà, bambini rimasti orfani, mogli rimaste senza mariti, mariti rimasti senza mogli – a loro non importava. La scomparsa prematura di milioni di vite non era niente in confronto al profitto personale che essi ne traevano.
  Shiro non riusciva a comprendere. Ci provava, sforzandosi di entrare nella loro ottica, ma non ci riusciva. Era impossibile che tanta insensibilità avesse radici umane.
  O forse lo era. Forse era lui ad essere così ingenuo da credere ancora che il bene esistesse. Forse il genere umano era meschino di natura ed era così e basta.
  Avrebbe voluto non pensarlo, ma era difficile conciliare la speranza con la vista dei suoi compagni d’armi mutilati e in preda al dolore mentre l’odore acre del sangue misto al tanfo di quel luogo gli entrava di prepotenza nelle narici.
  D’un tratto si accorse di essere esausto. Non sapeva esattamente dove si trovasse né cosa fosse successo, ma, nelle sue condizioni attuali, poteva fare ben poco. Allora lasciò che le palpebre che pesavano in modo inusuale cedessero alla stanchezza senza opporre resistenza.
  Scivolando verso il sonno avrebbe tanto desiderato che esso potesse offrirgli un po’ di pace, ma sapeva fin troppo bene che ciò non sarebbe successo, che nemmeno i sogni potevano aiutarlo a fuggire da ciò che era diventato, da ciò che loro l’avevano fatto diventare.

  Si risvegliò nella medesima stanza con lo stesso odore nauseante a pizzicargli il naso e non sapeva quanto tempo fosse passato, se poche ore o giornate intere.
  Il suo corpo era ancora ancora dolorante, la testa che vorticava come in preda a una tempesta e gli arti che gravavano su di lui come mattoni. Non capiva più niente. Dove si trovava? Che cos’era successo?
  E Keith? Dov’era Keith? Stava bene? Shiro s’augurò con tutto se stesso di sì. Non sapeva che cosa avrebbe fatto se anche lui l’avesse abbandonato.
  Guardò in alto. Esisteva un Dio, lassù in cielo? Forse sì e c’era ancora speranza. Forse no e tutta quella sofferenza non aveva senso.
  Shiro volle avere fede. Si umettò le labbra e biascicò: «Ti prego… se non è chiedere troppo… tutti, ma non lui… non Keith.»
  E anche se non voleva cedere alla rassegnazione, anche se non voleva provare un dolore in grado di lacerargli l’anima, Shiro ripensò a lui. Ripensò al loro primo incontro, ai tanti momenti trascorsi l’uno in compagnia dell’altro, all’arruolamento forzato, alle notti insonni passate a ricordare l’un l’altro che la speranza ancora c’era, che presto o tardi tutta quell’agonia avrebbe avuto fine e che sarebbe di nuovo giunto il giorno di tornare a credere nei propri sogni.
  Ma non erano altro che bugie che si raccontavano per avere la forza di andare avanti, perché sapevano che, una volta persa la speranza, l’essere umano non è più niente. Respira, sì, ma porta avanti un’esistenza vuota, priva di significato. Non vive, sopravvive.
  E ora che tutti gli orrori del suo passato sarebbero tornati a tormentarlo ogni singolo giorno, ora che Keith se n’era andato, anche la sua non sarebbe stata più vita ma sopravvivenza.
  «Shiro...!»
  Ed eccola poi tornare, tanto desiderata quanto inaspettata, la sua principale fonte di vita.
  Udì Keith pronunciare il suo nome poco distante da lì, e in quel momento avrebbe potuto giurare che quello fosse uno dei suoni più armonici che avesse mai udito e non sarebbe stato un bugiardo.
  «Shiro…!»
  La voce si fece più vicina, più impaziente: adesso la sentiva provenire dalla stessa stanza in cui si trovava lui.
  «Shiro, sei qui?»
  Impossibilitato a muoversi, ebbe a stento la forza necessaria a biascicare il nome del compagno d’armi.
  Ma Keith fu in grado di sentirlo. Shiro che chiamava il suo nome era tutto ciò che stava sperando di sentire da quando era arrivato lì che per un attimo pensò di star sognando. Ma poi lo vide.
  «Shiro!»
  Seppur non in grado di incontrare il suo volto con la stessa prontezza con cui avrebbe voluto alzarsi e correre da lui, questa volta Shiro poté udire il suo nome sfuggire dalle labbra di Keith non più con disperazione e impazienza ma con gioia e sollievo.
  Keith entrò nel suo campo visivo con la prontezza e l’imprevedibilità di un fulmine a ciel sereno, e sorridendogli con tutta la felicità rimastagli in corpo l’abbracciò. Aveva alle spalle un passato che gli aveva portato via la famiglia e viveva in un presente che l’aveva quasi svuotato di tutta la sua umanità, eppure, in quel momento, Keith si ritenne fortunato, così fortunato che non poté fare a meno di gettargli le braccia al collo.
  «Sono così felice che tu stia bene.»
  Da quando gli avevano riferito che il luogo in cui si trovava Shiro al momento del bombardamento era nei pressi del gravoso incidente, l’aveva cercato incessantemente per giorni. Tuttavia, con il numero di vittime che cresceva sempre di più, era stato prossimo ad abbandonare la speranza.
  Ma ora l’aveva ritrovato, ed era così grato di essere riuscito a perseverare: non poteva immaginare la sua vita senza Shiro.
  Terminato l’abbraccio, Shiro sbirciò alla sua destra e notò solo allora che, all’infuori di lui e Keith, le quattro mura all’interno delle quali si trovavano erano ora deserte. «Che cos’è successo?» domandò, tornando a guardare Keith nelle iridi scure in attesa di una risposta.
  «La guerra è finita.»
  Shiro sgranò gli occhi, sorpreso ma al tempo stesso lieto di ricevere una tale notizia. Keith, tuttavia, non sembrava altrettanto sollevato, e allora nacque in lui il sospetto che un cessare delle ostilità così repentino e inaspettato celasse qualcosa di più grande. «Come?»
  L’altro esitò un attimo. «Hiroshima… Nagasaki… due bombe nucleari» rispose, le labbra che improvvisamente erano diventate secche. Dirlo ad alta voce rendeva il tutto ancora più reale, ed era una realtà spaventosa, di cui Keith non avrebbe predetto la concretizzazione neanche nei suoi incubi peggiori.
  Il dolore che si posò sull’espressione stanca di Shiro, così vivo da essere quasi palpabile, era impossibile da non cogliere.
  Il nemico, rifletté Shiro, doveva aver agito nell’intento di sfoltire i mesi di guerra che ancora avevano davanti, e, a conti fatti, ciò aveva permesso di evitare di subire ulteriori perdite tra le file di entrambi gli eserciti. Ora nessun altro uomo sarebbe più dovuto scendere in battaglia e mettere fine alla vita di tanti altri come lui, né avrebbe più rischiato la propria. Anche i civili avrebbero tirato un sospiro di sollievo, sapendo che la loro incolumità non era più un’incognita ma una certezza. Inoltre, coloro i cui familiari arruolatisi erano ancora vivi li avrebbero visti fare ritorno a casa con gli occhi velati di lacrime e il cuore in tumulto.
  Ma ne era davvero valsa la pena?
  E tutte le altre morti? Chi aveva deciso che era giusto mettere fine alla vita di migliaia di civili per salvarne altri? Che cosa si sarebbero sentite dire tutte quelle persone che avevano perso i propri cari mandati al fronte? Non c’era molto da dire, perché la semplice verità era che erano morti invano, in nome di una causa che non aveva senso.
  Erano felici, ora, gli artefici di quella guerra? Erano soddisfatti di ciò che avevano ottenuto, seppur a discapito di innumerevoli vite umane? Erano fieri di averli usati come fossero dei semplici pedoni disposti su una scacchiera?
  «Che cosa succederà, adesso?» domandò Shiro, uscendo dal breve silenzio che si era concesso per contemplare tanta sofferenza.
  «Si torna a casa.»
  «E poi?»
  Keith serrò le labbra: sapeva bene a che cosa si stesse riferendo, benché per il momento avesse cercato di non pensarci. Ma, per quanto cercasse di eluderlo, il problema sussisteva: era sufficiente fare ritorno a casa affinché tutto tornasse come lo era un tempo? Certo che no. Ciò che erano diventati a causa della guerra non li avrebbe mai abbandonati, e, anzi, sarebbe stato parte della loro identità personale fino alla fine dei loro giorni. Quante notte insonni li attendevano? Quali mostri del loro passato sarebbero tornati a tormentarli?
  Tra i due, poi, Keith era anche il più fortunato – sempre se così si poteva definire. La sua salute mentale era un’incognita che il futuro non gli poteva svelare, ma il suo fisico non aveva riportato lesioni serie o permanenti. Shiro, al contrario, non era stato trattato dalla sorte con lo stesso riguardo.
  Nel penultimo conflitto con le forze nemiche, il suo braccio destro aveva subìto gravi ferite, e, non potendo essere salvato, l’amputazione era stata l’unica soluzione. Quello o la morte. Shiro si vergognava di ammettere di aver per un momento accarezzato la seconda ipotesi.
  Keith ricordava ancora le sue urla di dolore, un lamento così profondo e primordiale che il suo eco, impossibile da dimenticare, s’aggirava ancora tra i corridoi del sua memoria.
  Non aveva mai visto Shiro così vulnerabile prima d’ora. Si era piegato in due dal supplizio che gli provocava il suo braccio, aveva cercato di divincolarsi dalla stretta dei suoi compagni d’armi mentre implorava loro di non mutilarlo, di non renderlo un invalido.
  Non c’era posto all’interno del creato per individui del genere. Era un mondo cattivo, quello degli uomini, che si riservava il diritto di emarginare chiunque non ritenesse degno di farne parte.
  Di questo Shiro e Keith ne erano consapevoli già da prima, seppur per ragioni differenti.
  «Shiro, io…» Gli occhi gli pizzicavano, e le lacrime cominciarono a solcargli le guance senza che Keith cercasse di impedirglielo. Era stanco di fingere di stare bene. Non voleva più farlo, non di fronte a Shiro. «Io… io non lo so come faremo, ma insieme troveremo un modo. Te lo prometto.»
  E così dicendo, semplicemente lo baciò. Lì in quel luogo dimenticato da Dio non v’era rimasto nessun altro, e fu solo e soltanto per questo che Keith si concesse la libertà di violare le labbra del compagno d’armi.
  Avrebbe voluto farlo così tante volte che ormai aveva perso il conto, ma quella, di fatto, era la prima di tutte quelle in precedenza sperate e sognate.
  Era un contatto così naturale e rasserenante che quasi sembrava destino, come se un’entità superiore avesse scritto nelle stelle che dovesse avvenire. Avvertì una sensazione appagante all’altezza del petto, lì dove il cuore aveva preso a battere all’impazzata, e si pentì di non aver ceduto prima all’istinto di baciare Shiro.
  Cosa avrebbero fatto d’ora in avanti, come e dove avrebbero vissuto non lo sapevano neanche loro. L’unica certezza era il momento che stavano vivendo, l’uno perso nell’esplorazione delle labbra dell’altro.

   
 
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