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Autore: Etali    23/08/2018    0 recensioni
I passi risuonavano nel corridoio simili ai rintocchi di poco prima.
A quell’ora non doveva esserci nessuno in tutto l’edificio. Percorse velocemente l’ingresso e si diresse verso il laboratorio dove, la sera prima, aveva lasciato i progetti per le scenografie. Si aggirò come un’ombra fra costumi di scena abbandonati sulle grucce e vecchi copioni lasciati sul tavolo, accanto a tre tazze da caffè vuote. Era strano vedere il teatro deserto. Un palcoscenico che è stato qualsiasi cosa, dalla corte di re Artù, a quella del re di Scozia, sul quale sono state viste foreste e spiagge, che si è trasformato nelle strade di Verona e Parigi, fa uno strano effetto ad essere visto vuoto, come sospeso nel nulla, quasi dubitasse della propria esistenza.
Con le scenografie sottobraccio e un piede già rivolto verso l’uscita, si girò e imboccò la strada opposta, improvvisamente desideroso di vedere il palco vuoto, anche solo per scoprire che in realtà erano solo assi di legno inchiodate su cui oziava la polvere, senza alcunché di vagamente surreale.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Universitario
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- Perderemo il treno.

Due ragazzi camminavano a lunghe falcate per la strada, con le braccia straripanti di cartelle e disegni e i pantaloni di velluto beige con qualche piega dovuta a una stiratura veloce, oltre che inesperta. E menomale che la camicia era ben nascosta da giacca e gilè: i due coinquilini avevano rinunciato in partenza ad affrontare l’impresa. Tanto, avevano concordato, qualora si fosse presentato un tanto agognato quanto improbabile motivo valido per rimuovere giacca e altri stati di vestiario, qualche piega sulla stoffa avrebbe solo giovato a quello che gli studenti della facoltà amavano definire “fascino trasandato” e che si diceva facesse il suo discreto effetto sulle ragazze. Come si dice, di necessità virtù.

- Ci metto solo un secondo, dai. Entro ed esco.

In quel momento l’orologio del campanile batté insistentemente la mezza, come a rispondere incalzante.
L’altro sembrò soppesare i rintocchi, saettando con lo sguardo velato appena di apprensione fra il viale, in fondo al quale si poteva scorgere come un miraggio la stazione, e l’edificio in mattoni appoggiato pesantemente al bordo della strada, il vecchio teatro comunale.

- Cinque minuti. Giusto il tempo di prendere le scenografie, andiamo.

Una sfumatura di tono implorante piazzata tatticamente decretò la vittoria.

- Te ne do tre. Se al prossimo rintocco non sei uscito da quella porta ti pianto qui e me ne vado in facoltà, intesi?

- Intesi.

Detto questo accatastò sulle braccia dell’amico anche le sue scartoffie, in una pila pericolante che gli arrivava quasi fino al mento. Poi lanciandogli un ultimo sorriso di scuse sparì oltre la soglia del teatro.
Si richiuse la porta alle spalle, tagliando fuori i rumori della strada e la vista dell’amico che, sotto la catasta di documenti, cercava comunque di arrivare a scorgere il quadrante elettronico dell’orologio da polso, mettendo in grave difficoltà l’equilibrio precario del tutto. Un classico, pensò avviandosi per il corridoio. Fosse nato un secolo prima, sarebbe stato sempre accompagnato dallo scatto dell’aprirsi dell’orologio da taschino. Ce lo vedeva proprio, un finto gentiluomo che tossiva alla sola vista di un sigaro e controllava costantemente un orologio da taschino con la catenella. Un ghigno gli risalì la gola a questa immagine, mentre riponeva meticolosamente la chiave in tasca, consapevole che sarebbe comunque impazzito per ritrovarla.
I passi risuonavano nel corridoio simili ai rintocchi di poco prima. A quell’ora non doveva esserci nessuno in tutto l’edificio. Percorse velocemente l’ingresso e si diresse verso il laboratorio dove, la sera prima, aveva lasciato i progetti per le scenografie. Si aggirò come un’ombra fra costumi di scena abbandonati sulle grucce e vecchi copioni lasciati sul tavolo, accanto a tre tazze da caffè vuote. Era strano vedere il teatro deserto. Un palcoscenico che è stato qualsiasi cosa, dalla corte di re Artù, a quella del re di Scozia, sul quale sono state viste foreste e spiagge, che si è trasformato nelle strade di Verona e Parigi, fa uno strano effetto ad essere visto vuoto, come sospeso nel nulla, quasi dubitasse della propria esistenza.
Con le scenografie sottobraccio e un piede già rivolto verso l’uscita, si girò e imboccò la strada opposta, improvvisamente desideroso di vedere il palco vuoto, anche solo per scoprire che in realtà erano solo assi di legno inchiodate su cui oziava la polvere, senza alcunché di vagamente surreale.
Si diresse a passo svelto verso la minuscola galleria del teatro. Scostata la pesante tenda, si sporse oltre il bordo della balconata. Il palco non era vuoto. Una figura esile si muoveva sotto una singola luce accesa. Teneva i capelli raccolti in una lunga treccia e la pelle le riluceva sotto il riflettore, trasformando ogni battito di ciglia e sfarfallio delle dita per aria in un lampo fugace. Teneva a portata di mano un copione un po’ malconcio, allungandovi una sbirciata di tanto in tanto.

- Allora le sorelle che dispensano i fili degli uomini dovevano svolgere i fusi del mio destino. Allora Medea poteva morire bene; tutta la vita vissuta da allora non è che castigo. – parlava con doloroso fervore alla platea vuota, percorrendo la sala con gli occhi senza quasi vederla. - Ahimè! Perché il legno del Pelio, spinto da braccia giovanili, cercò il montone di Frisso? Perché noi Colchi vedemmo Argo, la nave di Magnesia e voi, ciurma greca, beveste l’acqua del Fasi? Perché i tuoi biondi capelli mi piacquero più del giusto, e la tua bellezza e la grazia finta della tua lingua?

Si interruppe un momento, per girare qualche pagina del copione, mostrando uno scorcio di sé, giusto il tempo di un mormorio a mezza voce “ok, quasi… ora seconda parte…” e una ciocca della frangia soffiata via dagli occhi. Poi abbassò le palpebre per un attimo e quando le riaprì era di nuovo la regina Medea, regale, disperata e bellissima.

- Ti ho visto e ho cominciato a sapere chi sei, fu quella la prima rovina della mia mente. Ti vedo e sono perduta, bruciando di un fuoco ignoto, come una fiaccola di pino davanti ai grandi dei. Eri bello, e me mi trascinava il mio fato, i tuoi occhi mi avevano tolto la vista. Perfido, l’hai capito; chi sa nascondere bene l’amore? Si denuncia da sé la fiamma accesa.

Un battito del campanile si fece strada fra le mura del teatro, rischiando per un secondo di essere confuso con battiti di altro genere, ma ben più accelerati. Poi, un ragazzo col fiato sospeso e una pila di disegni per le scenografie fra le braccia sorrise a Medea e, piano come era entrato, uscì.
   
 
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