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Autore: HannibalLecter    30/08/2018    0 recensioni
Liam Carter Wright è un giovane avvocato esperto in divorzi e furiosi litigi, tipico topo di città la cui unica idea di contatto con la natura comprende un dissetante cocktail servito in una noce di cocco, calda sabbia bianca e donne dalla pelle dorata dal sole.
Felicity Van Houten, testa tra le nuvole e lentiggini, invece lavora quotidianamente immersa nel verde e ogni sera si rifugia nella sua casetta di campagna alquanto malandata, circondata da un vero e proprio paradiso fiorito, che la tiene impegnata a tal punto da farle scordare di fare la spesa o pagare le bollette.
Il sole stava calando e tutto il giardino aveva assunto una deliziosa sfumatura aranciata. Diressi il getto dell'acqua verso il cespuglio di azalee e mi misi a canticchiare tutta allegra:
«Le rose sono rosse
le viole sono blu
Liam Carter Wright è una testa di cactus
e presto lo scoprirai anche tu!»
Passai al rododendro che tenevo in un bellissimo vaso di terracotta decorata e innaffiai abbondantemente anche lui.
«Miss Van Houten, lei è una poetessa sublime»
Mi voltai di scatto e mi trovai di fronte in tutto il suo splendore Mr. Testa di Cactus meglio conosciuto come Liam Carter Wright.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Zoe

Quando ero una bambina mi piaceva osservare le persone che incontravo e ogni volta mi domandavo se fossero cattive. Credo che ciò sia nato da tutto quel parlare che Nonna faceva riguardo alla brutta fine che attendeva le persone cattive. Mi chiedevo se la bidella della mia scuola, l'insegnante di karate o l'autista dell'autobus fossero brave persone o, se una volta riposta la loro divisa, conducessero una seconda vita all'insegna della criminalità. Mi affascinava il lato nascosto e potenzialmente maligno che le persone nascondono. Immaginare che la fragile Mrs. Richardson dopo averci consegnato il latte andasse a casa a versare una piccola dose quotidiana di veleno per topi nella zuppa dell'odiato marito me la faceva sembrare più umana, più simpatica.

Ho raccontato questi miei pensieri ad una sola persona in tutta la mia vita ed ora essa si rifiuta di vedermi o farmi avvicinare a lei, nonostante tutti i soldi che avevo investito nella terapia psicoanalitica. Mi sorprendo ancora oggi di come funzioni la mia mente, ma ho smesso di chiedermi perché essa spaventi così tanto gli altri. Lo percepisco, l'isolamento mi piace non solo perché sono una solitaria. Non mi piace come mi fanno sentire gli sguardi degli altri, i loro giudizi silenziosi ma impietosi, le loro convenzioni a cui conformarsi per essere uguali a tutti gli altri, membri accettati e rispettabili della società. Ma quale rispetto? Tutti sempre a puntare il dito contro la diversità, contro qualsiasi cosa si discosti dalla nostra sbagliata concezione di cosa è normale o cosa non lo è. Tutto è normale, e al tempo stesso nulla. Non esiste la parola normale, perché non esiste un metro di giudizio universale per misurare la normalità di una cosa. Fahrenheit, Kelvin, Watt, Joule. Unità di misura valide globalmente, accettate e adottate da tutti. Nulla di tutto ciò si può applicare alla natura umana, siamo diversi e questo è bellissimo, è imprevedibile. E spaventa.

Oggi è il mio compleanno, festeggio trent'anni e spengo delle candeline immaginarie in solitudine. Vivo nel Maine da sei anni ormai e queste montagne sono diventate la mia casa, la casa che mi sono scelta. Nonostante la strada accidentata e impraticabile con la neve, nonostante il silenzio che a volte pare terrificante tanto rumore fa, nonostante la mia condizione di moderna Raperonzolo. Non l'ho mai ammesso, ma ho sentito la mancanza del mare per lungo tempo prima di abituarmi alla roccia, al ghiaccio e al profumo di pino. Faticavo a prendere sonno e ripensavo costantemente alla mia infanzia, quel periodo d'oro e zucchero filato che a volte mi chiedo se ho vissuto per davvero. Mamma era sempre la prima a tornarmi alla mente, con il suo appuntamento del venerdì dal parrucchiere e le sue mani sempre profumate che mi intrecciavano i capelli, mi lisciavano le pieghe sui vestiti e mi soffiavano il naso. A pensarci a posteriori quello era davvero un gesto d'amore, considerato il suo terrore per i batteri. Papà invece solitamente sorrideva e basta, facendomi trotterellare sulle sue ginocchia, che ricordo come assolutamente scomode, colpa della sua magrezza. Felicity invece correva, cadeva, si rialzava, ballava facendo ruotare la sua gonna rossa. Il mare si infrangeva, si ritirava e io infine riuscivo a prendere sonno.

Adesso non mi succede più, anche perché vado quasi sempre a dormire dopo le tre di notte e il mio sonno assomiglia più ad una perdita di conoscenza. Oggi sono stranamente riposata e le mie occhiaie sono di una delicata sfumatura indaco, invece del solito nero violaceo. Sembro quasi più giovane, nonostante l'anno in più con cui mi sono svegliata. Ho deciso giorni fa che oggi mi sarei presa una pausa dalla scrittura, così il mio computer giace ancora spento sulla scrivania e il telefono è offline, destinato a restare così fino alla mezzanotte. Non voglio ferire nessuno, perlomeno non le poche persone a cui provo a volere bene seppure nel mio modo strampalato e difficile, ma l'unico regalo di cui ho bisogno è un po' di pace. Pace che non sono riuscita pienamente ad avere negli ultimi tre mesi, con il mio soggiorno prima a Plymouth da Flick e poi a Tampa dai miei genitori, seguito da un susseguirsi di appuntamenti legati all'uscita del mio ultimo romanzo breve. Non mi piace molto, ho scritto di meglio, ma il mio editore ne era entusiasta e pare che le vendite siano alle stelle. Usare uno pseudonimo mi aiuta a tenere distante ciò che creo da chi sono veramente. Nei miei libri c'è sempre una parte di Zoe, ma non raccontano di Zoe, non sono Zoe. Quando le persone credono di conoscermi dopo aver letto uno dei miei libri io non posso far altro che aprirmi in uno dei miei celebri sorrisetti derisori. Io stessa non mi conosco; sono una, nessuna e centomila. Figurarsi cosa ne sanno gli altri.

Ora ho ripreso a lavorare al mio prossimo lavoro, ma ho ancora le idee confuse e la stesura della bozza procede a rilento. Mi hanno affidato un aiutante, nonostante i miei continui e poco cortesi rifiuti categorici. Non ci siamo mai incontrati, su questo punto sono stata irremovibile, ma devo ammettere che sa quel che fa. È disordinato, fattore che non ci aiuta nel lavoro, ma me lo fa sembrare più simile a me, e perciò più simpatico. Stamattina non mi ha ancora scritto, fatto insolito considerato che pare non dormire mai, ma normale se si considera cosa succederà oggi. Mi risponde ad ogni ora, corregge, revisiona e ricopia qualsiasi cosa nel giro di tre ore. È efficiente, riservato e l'unica cosa che mi ha rivelato di sé è il suo nome. Johannes. Gli ho riferito che lo trovavo un nome veramente brutto e ridicolo e lui mi ha solo detto di avere discendenze danesi. Da allora gli ho chiesto spesso se per pranzo avesse mangiato Smørrebrød o se qualcuno gli avesse letto La Sirenetta prima di andare a dormire, ma lui mi ha sempre ignorata facendomi irritare a dismisura. Quando le persone si offendono, si scandalizzano o mi rimproverano dopo una delle mie uscite al vetriolo io me ne compiaccio, contenta di aver scatenato una reazione. Ma se mi trovo di fronte ad un muro di gomma di nome Johannes mi ritrovo spiazzata, senza parole. Il che per me è una vera novità.

Sono solo le nove di mattina e già non so come impegnare il mio tempo. Solitamente scrivo, faccio lunghe camminate, leggo o vado giù in paese a fare scorta di libri e cibo poco salutare. Non arrivano tutte le ultime uscite alla piccola libreria cittadina e così negli ultimi anni mi sono dedicata principalmente alla rilettura dei grandi classici, che si sono rivelati una vera sorpresa. Amazon impiega delle ere geologiche a farmi recapitare gli ordini così solitamente inviavo lunghe liste di cose che desideravo o di cui avevo assoluta necessità a Felicity, la quale sbuffava per una settimana prima di iniziare a spuntare le voci della lista. Mia sorella però, nonostante la nostra infanzia condivisa e la nostra conoscenza quasi trentennale, continuava a tempestarmi di telefonate per domandarmi se il cioccolato lo volevo fondente al 100% o se mi potevo accontentare di quello al 98%.  Oppure sbagliava sempre ad acquistarmi i libri, scegliendo edizioni o traduzioni che notoriamente io detestavo. Da quando ho Johannes delego tutte queste faccende a lui, il quale mi risponde con un freddo 'ok' e nel giro di una decina di giorni massimo mi fa avere tutto quello che avevo richiesto senza mai farmi domande. Nell'ultima lista ho aggiunto la voce 'furetto' per metterlo alla prova e una settimana più tardi mi sono ritrovata tra le mani un peluche con un biglietto pinzettato alla coda. Con questo avrai meno responsabilità e meno probabilità di essere denunciata dal WWF per maltrattamento di animali. All'inizio non sapevo se ridere o arrabbiarmi, e così alla fine gli ho inviato dei ringraziamenti via email, dicendogli quanto apprezzassi la fiducia che riponeva nei miei confronti. Solo due giorni più tardi una domanda mi ha svegliato all'alba. Come faceva Johannes a sapere della storia di Giselle, la gatta di mia madre, che fece una brutta fine per colpa mia anni fa?

Gliel'ho chiesto nel nostro successivo scambio di messaggi e così ho scoperto che aveva conosciuto Madre. Credo di aver perso i sensi a quel punto e quando sono tornata in me, dieci tazze fracassate contro la parete più tardi, il mio telefono stava suonando e Felix si era ferito con i cocci di ceramica. Sono anni che proteggo la mia identità a costo della mia stessa vita, celandomi dietro uno pseudonimo, non raccontando mai nulla di me, avendo un doppio numero di telefono e una casella di fermo posta a quasi duecento miglia da dove abito davvero. Definire scomodo tutto ciò vuol dire semplificare ciò che davvero significa vivere nell'anonimato. Sono stata distratta una sola volta ed è successo tutto ciò. Devo aver dimenticato il mio telefono lavorativo in giro per casa un giorno mentre ero a Tampa e mia mamma ha risposto. Era Johannes. Johannes che di me conosceva solo il falso nome e la mia bibliografia. Johannes che ora sa che ho avvelenato un gatto, e con molta probabilità ed inconsapevolezza anche altre creature innocenti nel corso della mia vita. 

Non ho chiesto a mamma se gli aveva rivelato anche il mio nome di battesimo, principalmente perché la sto punendo per quello che ha combinato con un silenzio stampa che ormai dura da tre settimane. Ho quasi temuto che si presentasse alla mia porta, dopotutto è settembre e i colori autunnali del Maine sono veramente splendidi. Invece in cambio ho ricevuto solo un suo lapidario messaggio e altrettanto silenzio. Sei un'immatura. Non le ho risposto e ho continuato a fare la sostenuta. Con Johannes non potevo fare finta di niente però. Il non sapere quanto ne sapesse sul mio conto mi rendeva agitata, mi faceva sentire scoperta, vulnerabile. Devo ammettere che lui si è comportato in modo molto corretto, confessandomi che si è sentito molto a disagio nell'ascoltare le chiacchiere di mia madre, consapevole del patto di riservatezza non scritto che vigeva chiaro tra di noi. Non mi ha mai fatto domande, però non riuscivo a perdonargli il fatto di non avermi informata subito di quanto successo.

Ho pensato tantissimo a come comportarmi e alla fine ho deciso che dovevamo incontrarci, io avevo bisogno di vederlo in viso prima di congedarlo e raccontare alla casa editrice di quanto fossero superflui gli assistenti. In casa non ho quasi nulla, ma credo che un po' di gin allungato con dell'acqua frizzante andrà più che bene. Dopotutto è il mio compleanno e una sbornia non potrebbe che farmi bene, giusto per farmi dimenticare che persona sgradevole io possa essere a volte. Sono ancora in pigiama, o meglio con quello che io chiamo così. Questa maglietta di una vecchia maratona che di certo io non ho corso mi arriva quasi alle ginocchia e questi calzettoni a righe sono sopravvissuti a così tante lavatrici da non possedere più un vero colore. Non ho alcuna voglia di cambiarmi, di pettinarmi o di guardarmi allo specchio. Mi limiterò a lavarmi la faccia e i denti, adoro lavarmi i denti. Passo minuti interi a spazzolarmi in modo certosino entrambe le arcate dentarie, facendo attenzione a raggiungere anche i molari più posteriori. 

Quando suona il campanello io sto cercando di convincere Felix a mangiare dei cubetti di mango, uno dei pochi alimenti presenti in casa. È in ritardo e ciò mi irrita perché solitamente sono sempre io che mi faccio attendere. Mamma Grace, mi detesto ogni volta che penso con una punta di nostalgia a lei, dice che non ho considerazione per gli altri, che sono egocentrica e credo sempre che i miei bisogni e le mie esigenze siano più importanti di quelle degli altri. Non ci ho mai riflettuto troppo, so di avere un carattere terribile e non ci tengo davvero a scoprire quanto terribile sia. 

Non mi sono mai domandata che aspetto potesse avere Johannes, o che età. Nella mia mente era una presenza extracorporea con capacità organizzative fuori dal normale e una casella di posta elettronica. Poteva avere novantuno anni o tredici, l'importante era che facesse ciò che gli chiedevo di fare. Apro la porta dopo più di due minuti, giusto per fargli capire con quanta ansia stessi aspettando il suo arrivo, ma sulla soglia non c'è nessuno. In una scala da 1 a 10 al momento il mio grado di sopportazione è sottozero. Non avevo voglia di incontrarlo, mi ci ha costretta. Afferro il mio impermeabile giallo che mi fa sempre assomigliare a Georgie di It, mi infilo un vecchio paio di stivali di gomma ed esco nello spiazzo davanti a casa. Non c'è nessuna traccia umana, solo uno stupido scoiattolo che non appena mi vede fugge a gambe levate. Svolto sul lato destro ed è allora che lo vedo, stravaccato sul mio tronco di abete abbattuto da un fulmine tre anni fa. Sta fumando una sigaretta, incurante del fatto di trovarsi in una pineta, con i piedi su un tappeto di aghi di pino e nelle vicinanze di una casa di legno. 

Cretino, cretino, cretino. La mia mente si è impallata su quell'unico aggettivo perché non riesco a pensare ad altro. Quello non è il mio Johannes, quell'essere mezzo albino che sta gettando un mozzicone in mezzo alla boscaglia non può essere lui. Ha delle gambe lunghissime e scheletriche, avvolte in un paio di vecchi pantaloni neri tutti rammendati. Un corpo sottile e sgraziato, dinoccolato e pallido come la morte. Come me, mi ritrovo a pensare colma di orrore. Quando si volta smetto di respirare. Quegli occhi torbidi si fissano nei miei e non mi lasciano scampo. È come guardarsi in uno specchio. Le uniche differenze sono che lui è un uomo, è alto molti centimetri più della sottoscritta e pare poco più che ventenne. I suoi capelli sono così chiari da sembrare bianchi, come quelli di Felicity in estate. Come erano i miei da bambina, prima che iniziassi a tingerli senza pietà del color dell'inchiostro.

«Zoe?», chiede avvicinandosi. Non sorride, continua solo a scrutarmi negli occhi. 

Non ha ancora abbassato lo sguardo, né guardato oltre le mie iridi, nonostante la ridicola tela cerata e le mie gambe completamente nude ed esposte. Gli volto le spalle ed entro in casa, dopotutto quel gin si rivelerà utile. Soprattutto a stomaco vuoto.

Mi segue, sento i suoi passi cadenzati dietro di me, così come sento il sonoro tonfo che produce la sua testa nel momento in cui va a collidere con il cornicione troppo basso della porta d'ingresso. Non lo guardo, non mi interessa sapere se si è fatto male, dopotutto chi lo conosce? Devo solo licenziarlo, magari allungargli un paio di banconote dal momento che pare un senzatetto poco più che maggiorenne.

Quando torno a guardarlo lo trovo seduto tranquillamente sul divano, perfettamente a suo agio. Non mi ha chiesto il permesso per farlo e sembra terribilmente sicuro di sé, certamente sa il fatto suo, cosa che io non sapevo alla sua età.

«Quanti anni hai?», gli chiedo accoccolandomi sul pavimento, le spalle contro la vecchia poltrona in velluto. La bottiglia di gin stretta al fianco, giusto per evenienza.

«Ventiquattro. Tu?»

Sembra più piccolo. Forse sta mentendo, ma a che pro?

«Sono sicura che mia madre ti abbia spifferato addirittura il giorno del mio compleanno», borbotto acida.

Non so se l'ha fatto e questa mia mancanza di informazioni mi fa sentire in netto svantaggio.

«Esatto, è oggi. Non mi ha rivelato però il tuo anno di nascita, non che mi interessi davvero»

L'istinto di aggrapparmi ad una di quelle gambe eccessivamente lunghe e tirare fino a staccargliela mi pervade, ma decido di mantenere la calma. Sono sempre io quella che provoca, che porta gli altri a perdere ogni contegno e scoppiare, mentre io resto composta ed impassibile.

«Ottimo, cosa ti interessa allora?», gli chiedo deridendolo. 

Sono io la sua datrice di lavoro, sono io che sgancio il suo stipendio, mi ripeto per darmi un tono. 

Lui incrocia le gambe e nel farlo urta la pila di libri che si ergeva pericolante alla sua destra causandone la caduta. Vorrei ridere del suo essere maldestro, ma lo sono anche io e perciò mi risulta impossibile. Ho speso una vita intera a camminare strisciando i piedi, facendo cadere ciò che tenevo tra le mani, sbattendo contro ogni superficie della casa riempiendomi continuamente di lividi bluastri.

«Volevo vederti, almeno una volta. Per ora ti ho trovata piuttosto deludente», confessa guardandomi con uno sguardo di sfida.

«Rimarrai ancor più deluso allora quando saprai che ti ho convocato per darti il benservito. O non ti interessa neanche di questo?»

«I soldi non sono importanti», afferma scrollando le spalle.

La penso allo stesso modo da sempre, ma non posso convenire, non posso proprio. Sembra tutto un gigantesco scherzo. Johannes non era emozionato all'idea di incontrarmi, non era interessato a sapere cose di poco conto su di me, non è deluso dal fatto di essere improvvisamente disoccupato.

«Cosa lo è allora?»

«Tutto e niente. Le mie opinioni, la mia arte, la tua scrittura»

«Quale arte?», domando irritata.

Lui sorride ma non mi risponde, lasciando la mia curiosità insoddisfatta. 

«Perché sei venuto?» 

«Mi piace quello che scrivi, soprattutto come lo scrivi. Tutto qui, ma questo non significa che mi piaccia chi lo abbia scritto o mi interessi chi si cela dietro quello pseudonimo»  

«Eppure sei qui. Non ti dovrebbe interessare proprio nulla dell'autore, non dovresti neanche domandarti se ti piace o meno. L'arte e l'artista. Una persona di merda può creare una quantità di bellezza inimmaginabile». Non può immaginare quanto quel tema sia per me importante.

«E tu lo sei? Una persona di merda?»

«Quasi certamente, ma non creo nulla di particolarmente bello...»

«Non ho alcuna intenzione di contraddirti»

«Meglio così, detesto i fan ruffiani»

«Non mi definirei un fan»

«Non riuscirai ad offendermi, questo gioco l'ho inventato io»

«Ne sei sicura?», osa sfidarmi.

Lo ero fino ad un quarto d'ora fa, fino a quando non ho incrociato quegli occhi neri che brillano di sagacia e sfida. Non parla, ma è come se mi stesse urlando in pieno viso di metterlo alla prova.

«Ho voglia di camminare», esclamo all'improvviso. L'aria fresca porta sempre i suoi buoni frutta, o perlomeno questo è quello che ci raccontano. In ogni caso questa stanza mi sta facendo soffocare e ho bisogno di spazi ampi per riprendere fiato. Non ho nessuna intenzione di domandarmi perché ne ho bisogno, a volte l'ignoranza è una benedizione.

«Bé, io no», mi contraddice Johannes, comodamente spaparanzato tra i cuscini sfondati del divano.

Lo sta facendo apposta, mostrandosi ostile nella speranza di farmi infuriare. Ma io nella mia vita ho sprecato sufficienti scenate di rabbia, mal di pancia e pensieri omicidi per persone che non meritavano neanche un secondo delle mie nottate insonni o dei miei incubi. Neanche un millesimo di secondo.

«Questa è casa mia. Esco io, esci tu», scandisco il mio ultimatum facendo dondolare le chiavi di fronte al suo naso.

Non sono una persona amabile, chi mi conosce da sempre ha imparato ad accettarmi così come sono, mentre le nuove conoscenze solitamente evaporano alla velocità della luce. Pochi restano e sono abbastanza obiettiva da ammettere che la causa della loro dipartita sono solo e soltanto io, con i miei modi spesso bruschi e la mia lingua troppo pungente. Eppure solitamente sono solo me stessa, mentre con Johannes mi sembra di essere me stessa al cubo. Come se ogni mio difetto venga amplificato e ogni mio angolo aguzzo e pungente lo sia tre volte più del normale.

Ci siamo conosciuti virtualmente tre mesi fa e da allora lui si è comportato benissimo ai miei occhi, ovvero da psicopatico secondo il parere di una persona normale. Faceva il suo lavoro, era piuttosto schivo, glissava in modo esperto quando non voleva concedermi una risposta e dormiva poco e niente. Ora, nel vedere dal vivo le sue occhiaie, violaceo riflesso delle mie, mi rendo conto di quanto mi assomigli e del perché fosse resistito per tutto quel tempo sotto la mia guida.

Lo guardo alzarsi, troppo alto per aggirarsi in modo elegante e sicuro nella mia piccola casa in legno piena zeppa della mia robaccia. Mi segue fuori e osserva le mie mani affaccendarsi con la serratura. 

«Parli sempre a lungo delle mani nei tuoi scritti. Mani di carnefici, mani innocenti, mani con i polpastrelli macchiati di sangue...»

Nessuno se n'era mai accorto, nemmeno Felicity che solitamente è una lettrice attenta e - soprattutto - critica. 

«Parlano sempre tutti degli occhi. Gli occhi specchio dell'anima e storie varie. Credo che le mani siano più sincere», sussurro incamminandomi nel bosco dietro casa.

Un leggero pendio conduce ad una radura, dove solitamente passo la stagione estiva, cullandomi sull'amaca e provando a colpire più scoiattoli possibili lanciando pistacchi con la fionda. Solitamente finisce che io non centro neanche un bersaglio, mentre loro fanno indigestione di pistacchi.

L'ho scoperta solamente sette mesi dopo essermi trasferita, principalmente perché non appena acquistai la casa una frenesia, che non ho mai più sperimentato, mi colse e mi portò a settimane e settimane di prolifica reclusione. Nacque così il mio terzo romanzo, che tutt'ora resta quello di cui mi vergogno meno.

«Cosa raccontano le tue mani?». Mi ha seguita, ne ero certa. Io non gli avrei lasciato scampo, fossimo stati a parti invertite. Fiato sul collo, sempre. Fino alla vittoria finale. O all'annientamento reciproco.

«I miei molteplici e crudeli omicidi», lo zittisco, sedendomi a cavalcioni della vecchia panca di legno mezza ricoperta dal muschio, che trovai già in posizione anni fa al mio arrivo.  

«Bambini? Giovani fanciulle bionde nel fior fiore degli anni? Inermi signore anziane?»  

Mi ritrovo a reprimere un sorriso. 

Zoe, per carità, fai la seria per una volta. Prima o poi qualcuno ti crederà e nel giro di un battito di ciglia ti ritroverai rinchiusa a Guantanamo. Le parole di Madre mi rimbombano in testa.

«Principalmente giovanotti biondi e con un'altezza sopra la media...»

Potrebbe essere l'inizio di un romanzo horror. Dopotutto il Maine è la patria del caro vecchio Stephen King. Kilometri di abeti ed isolamento, due ragazzi che si detestano. Una lite, un attimo e una pietra colpisce l'osso occipitale con troppa forza. Sangue, perdita di coscienza. Cosa ho fatto? 
Dovrei prendere nota, magari se ne può ricavare un piccolo racconto per il mio blog.

«Ho letto la bozza dei primi tre capitoli che mi hai inviato ieri sera...»

Avrei voglia di chiedergli quando sia riuscito a fare ciò dal momento che è mattina presto e si trova disperso nel Maine. Avrà pure dovuto intraprendere un viaggio per arrivare fino a qua, no?

«E...?», lo incalzo, curiosa mio malgrado.

Scuote quella zazzera platinata e ride sommessamente tra sé. «Il sole della Florida non deve averti fatto bene»

Ottimo, ora sapeva anche che ero originaria della Florida e dove avevo trascorso le mie vacanze estive. Probabilmente avrei dovuto scrivere una guida a quattro mani con mia madre su come mandare a puttane un'identità anonima costruita con tanta fatica in quasi dieci anni.

«Cheerleader? Sul serio?», rincara la dose.

L'avevo detto che il lavoro procedeva a rilento e in maniera insoddisfacente, ma un conto è ammetterlo a me stessa, un altro sentirmelo sbattere in faccia da questa sottospecie di watusso ossigenato.

«Le ho sempre detestate», mi limito a commentare in modo un po' ottuso.

Che fine ha fatto la mia lingua tagliente dalla risposta sempre pronta?

«Dai, che sorpresa!», esclama ironico. «Posso provare a indovinare la descrizione della Zoe liceale?»

Non mi piacciono questi giochetti, soprattutto se riguardano la mia persona e non sono io ad averne il controllo.

«Non serve barare, immagino che mia madre ti abbia già fornito anche i più irrilevanti dettagli della mia sventurata gioventù», mi difendo nella speranza che decida di lasciar perdere.

«Purtroppo non ne ha avuto il tempo quindi sarà tutta farina del mio sacco». Si sistema di fronte a me sulla panca e mi fissa solenne prima di prendere fiato. «Allora, diciamo che ci troviamo in un esclusivo liceo privato di Tampa, più o meno dodici anni fa?»

«Più o meno», confermo evitando di spiegare che io il liceo dodici anni fa lo avevo già terminato. E che Montgomery Van Houten aveva spedito i suoi pargoli alle scuole pubbliche.

«Eri già ai tempi pelle ed ossa come ora, ma la tua carnagione era più dorata grazie alla continua esposizione al sole della Florida. Ti aggiravi arcigna per i corridoi, i capelli neri come era il tuo umore per la maggior parte del tempo. Ascoltavi musica distruggi timpani, piena zeppa di parolacce, e non avevi uno straccio di amico. Osservavi il mondo da lontano, colma di rabbia e risentimento, convinta di essere impegnata in una guerra solitaria contro il mondo. Ci sono quasi?»

Sorrido divertita. «Alla stesura della presentazione di un romanzetto young adult? Quando arriva il giocatore di football, il golden boy dell'istituto, che la conquista con un frappè alla ciliegia e una promessa d'amore eterno?»

«Stiamo sconfinando nell'horror così però...»

«...Honey, prima di te non sapevo cosa significasse amare. Sei stata tu, con i tuoi modi impacciati e le tue gote sempre rosse di timidezza, ad insegnarmi ad ascoltare il mio cuore...», improvviso stando al gioco.

Lui coglie la palla al balzo e si avvicina di più a me, scivolando in avanti sul legno della panca.

«...Nathaniel, io non so cosa dire. Ti ho sognato per così tante notti, nella tua divisa blu sgargiante, vincere il campionato studentesco e portarmi sulle tue spalle a festeggiare con i tuoi amici. Sognavo i tuoi occhi verdi e il tuo invito al ballo di fine anno, ma non mi ero mai spinta così in là da sperare di conquistare il tuo cuore irraggiungibile...»

Senza volerlo mi ritrovo intenta nel scambiarmi un sorriso con Johannes. «Chissà perché vanno così tanto di moda queste coppiette di adolescenti assolutamente irrealistiche. Le protagoniste femminili nella stragrande maggioranza dei libri sono delle totali imbranate, che cadono, si feriscono utilizzando le forbici dalla punta arrotondata a prova di Art Attack. E ovviamente sono delle turbo-secchie, sempre impegnate a diventare orbe sui libri e troppo sfigate per avere uno straccio di vita sociale, perlomeno prima dell'avvento del nostro eroe bamboccione...»

«...il quale ovviamente è alto, bellissimo e con un passato tormentato. O perlomeno con un genitore morto o un coinvolgimento in qualche giro poco raccomandabile. Molti tatuaggi e una moto. Può avere tutte le ragazze della scuola, ma lui no, lui sceglie la talpa studiosa tra tutte. Amore, scintille, ma purtroppo qualcosa minaccia di dividerli. Lei non mangia per settimane, la sua vita senza lui ormai è priva di senso. Lui nel frattempo fa a botte così a caso e si mette in pericolo. Poi capiscono che esistono solo in coppia, si ritrovano, scena di sesso descritta male, fine.»

Per essere due che disprezzano quei romanzetti ne sapevamo fin troppo.

Decido all'improvviso che quella tregua deve finire, riesco a percepire il lieve rumore del suo respiro e i palmi delle mie mani iniziano a formicolare. «Ottimo allora! Tu mi hai visto e io ti ho licenziato, entrambi abbiamo ottenuto ciò che volevamo. Ora proporrei di salutarci e andare ognuno per la propria strada», esordisco alzandomi in piedi ed indietreggiando di qualche passo.

Lui pare divertito dal mio repentino dietrofront, ma si limita ad alzarsi a sua volta e a valicare nuovamente il limite invisibile che sancisce l'inizio del mio spazio personale, nel quale preferirei che solo Jake Gyllenhaal entrasse.

 «Non pensare di potertela cavare così facilmente...», sussurra lui.

Alzo lo sguardo, in modo da poterlo fissare negli occhi nonostante la sua altezza notevole. Trovo due pozzi neri scintillanti di determinazione. Non lascerà perdere, continuerà a darmi il tormento finché morte non ci separi. Chi dei due ucciderà per primo l'altro, quella è una faccenda tutta da decidere.

«Addio, Johannes», lo saluto voltandogli le spalle e incamminandomi spedita tra gli alberi.

Una risata di scherno mi raggiunge. «A presto, Van Houten!», strilla, facendola suonare come una minaccia.

A presto un corno di rinoceronte! 

  
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