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Autore: Nazuhi    01/09/2018    6 recensioni
[Questa OS fa parte della Elder Futhark Challenge, la runa scelta è Perth]
[E' una what if di una mia long]
***
La vita di Christopher Arclight è finita il 13 giugno, in un giorno di sole. E' finita senza preavviso, come un temporale estivo, e con la stessa violenza di un terremoto. E' finita, eppure lui è ancora vivo. Respira, parla e si muove ancora; il suo cuore e il suo cervello funzionano perfettamente, eppure è come se fosse morto perché il mondo nel quale continua a vivere non è quello in cui vorrebbe trovarsi. Ed è per ritrovare il suo mondo perduto che ha deciso di imboccare una strada pericolosa.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christopher Arclight/ Five, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Perth – “Quel terribile vuoto”

 

Un mese.
Era trascorso solo un maledetto mese da quando era successo. Un mese in cui la sua vita era continuata come se nulla fosse, come se quel giorno non fosse arrivato. Come se qualcuno avesse deciso di cancellarlo dal calendario e dalla sua memoria. Non era successo, lui ricordava benissimo quel maledetto lunedì di metà giugno e tutto quello che era accaduto.
Tutto quanto.
Non avrebbe mai dimenticato. La sua vita era legata agli eventi di quel giorno, anche se lui avrebbe dato qualsiasi cosa perché non lo fosse. Quel lunedì di metà giugno lo aveva segnato, aveva cambiato per sempre una parte importante di lui. Una parte che non sarebbe mai guarita, neanche con il tempo. Dall’esterno nessuno sarebbe riuscito a cogliere la differenza, ma lui sapeva che non sarebbe mai più tornato l’uomo di prima. Nessuno, al suo posto, avrebbe potuto farlo e lui rimaneva un essere umano, un insieme quasi perfetto di carne, sangue e anima. Quella ferita non sarebbe mai guarita, lo sapeva. Niente sarebbe tornato come prima. Quel lunedì di metà giugno segnava un punto fermo nella sua vita, come una strada che poteva essere imboccata solo in un senso o un entrata da cui non si poteva uscire. Tutto quello che veniva prima di quel giorno era stato cancellato insieme alla sua vita, quello che veniva dopo era completamente diverso. Come se si trovasse in una realtà parallela così dannatamente simile a quella in cui era cresciuto, ma comunque diversa. E nonostante fossero simili, lui percepiva lo stesso la differenza. Perché lei non c’era più.

 

Chris sospirò e spense il computer. La luce blu elettrica del monitor lo illuminò tenue per una manciata di secondi, poi il buio tornò a sovrastare qualsiasi cosa. Si alzò e, a tentoni, recuperò tutte le sue cose e le infilò nella valigetta che usava portare a lavoro. Kaito, sulla soglia del laboratorio, continuava a fissarlo. Chris sentiva i suoi occhi grigi fissi sulla propria schiena, gli dava quasi fastidio sapere che lui era lì e che lo stava guardando. Analizzando.
«Come ti senti oggi?» gli chiese l’amico, con un filo di voce.
«Bene.»
«Davvero?»
Chris non rispose, prese la valigetta e varcò la porta. Kaito lo affiancò. Per un po’ rimasero entrambi in silenzio.
«Vai spesso a trovarla?» chiese l’amico.
«Quando posso.»
«Chris…»
«Ultimamente sono impegnato con il lavoro e non ho molto tempo a disposizione. Tanto da lì non scappa.»
Erano giunti al piano terra dell’edificio. Fuori pioveva. Chris lanciò una lunga occhiata al cielo plumbeo, poi prese l’ombrello e fece per uscire. Kaito lo afferrò per un braccio, bloccandolo.
«Se hai bisogno di una spalla, io ci sono. Non devi sforzarti di essere forte a tutti i costi. Sei quello che soffre più di tutti, ma non sei l’unico. Non sei solo in questo dolore.»
Kaito lasciò andare la presa sul suo braccio e Chris si affrettò ad allontanarsi. Pioveva sommessamente e la temperatura era scesa di diversi gradi, tanto che il giovane aveva dovuto indossare un pullover sopra la camicia. Era strano per quel periodo dell’anno, di solito a luglio faceva sempre molto caldo. Probabilmente era solo un temporale passeggero. Sollevò di nuovo gli occhi al cielo, cercando di rievocare alcuni ricordi nella sua mente, ma non ci riuscì. La sua testa era vuota, completamente bianca. Si riempiva solo quando si concentrava sul lavoro e solo di numeri, formule e calcoli matematici. Non un ricordo, un pensiero o un’immagine, nulla che riguardasse lei. Solo il vuoto, terribile e freddo, così simile allo spazio aperto eppure privo della sua bellezza eterna. Un piccolo vuoto che gli faceva paura, che lo terrorizzava e lo faceva sentire impotente. Che lo divorava un po’ per volta, dilaniava la sua carne, faceva marcire il suo sangue, annichiliva la sua mente, finché di lui non sarebbe rimasto altro che un guscio privo di tutto. Una specie di involucro, la muta di un serpente, qualcosa che non aveva vita, né consistenza. E una parte di lui desiderava diventarlo il prima possibile, perché nel vuoto non c‘era più alcuna sofferenza.

Non c’era niente.
Quando raggiunse casa aveva smesso di piovere già da diversi minuti. Sulla porta lo aspettava suo padre. Aveva un’espressione preoccupata negli occhi ed era diretta a lui. Chris lesse anche un accenno di pena sul volto piccolo e deformato del genitore e non poté fare a meno di sentirsi ferito. Faceva davvero quell’effetto? Era davvero così miserabile ai suoi occhi? Solo perché aveva perso tutto? Trattenne a stento un moto di rabbia e varcò il portone di casa, senza degnare di uno sguardo il bambino.
«Cosa c’è per cena?» chiese, mentre riponeva l’ombrello nel portaombrelli e si toglieva le scarpe.
«Qualcosa di leggero. Thomas non ha avuto tempo per cucinare piatti complicati.»
«Bene. Non ho molto appetito.»
«Abbiamo ospiti. Yuma e Kotori cenano qui da noi stasera.»
«Sono già arrivati?» gli chiese Chris, voltandosi leggermente verso di lui. Byron annuì.
«Se devi cambiarti fai in fretta, la cena è già pronta» aggiunse subito dopo, poi si diresse verso la sala da pranzo.
Il giovane salì al piano superiore per sistemare la valigetta e cambiarsi d’abito. Non voleva presentarsi a cena con gli abiti che aveva portato tutto il giorno in laboratorio, voleva dare loro una buona impressione così che non si sarebbero preoccupati troppo. In fondo sapeva che se erano lì era solo per accertarsi che stesse bene. Lo facevano tutti, da un mese a questa parte, da quando Yuri era morta. E lui non poteva fare a meno di odiarli. Non voleva essere compatito, non voleva che cercassero di farlo stare meglio. Voleva solo poter tornare indietro nel tempo e salvarla. Ma non poteva farlo, il passato non poteva essere cambiato e lei non sarebbe mai ritornata in vita. Non riusciva neanche a ricordarla, la sua mente si rifiutava di proporgli ricordi di lei. Ci riusciva solo quando ingeriva una dose, solo la droga riusciva a rendere sopportabile quel terribile vuoto. Per questo non riusciva più a farne a meno. E si sentiva stupido, perché sapeva bene quanto male stesse arrecando al suo organismo. Quanto male stesse arrecando a lei e a tutti quelli che conosceva.

Eppure ne aveva bisogno.
La cena trascorse tranquilla. Nessuno osò chiedergli se stesse bene, si limitarono a parlare del più e del meno, senza accennare minimamente a Yuri e alla sua morte. O a qualsiasi altra cosa che potesse ricordargliela. Chris sapeva che lo facevano solo per non farlo stare peggio, eppure non poteva fare a meno di trovarlo irritante. Possibile che non capissero che i loro sforzi erano inutili?
«Fratellone, potresti accompagnare Yuma e Kotori a casa?» fece Michael, al termine della cena. I due ragazzini erano in piedi di fronte all’ingresso, pronti per andare via. Sorridevano, ma non c’era luce nei loro occhi. Chris annuì e prese le chiavi della macchina; avrebbe voluto rifiutarsi, ma non poteva. Anche quello era un test.
Il viaggio in macchina si svolse nel silenzio. Fu solo quando giunsero in vista della casa di Yuma, che il ragazzino osò aprire bocca.
«Come ti senti,V?»
Chris gli scoccò una rapida occhiata e tornò a concentrarsi sulla strada.
«Bene» rispose.
«Anche se Yuri è…»
«Sì» lo interruppe lui. «Anche se Yuri è morta.»
Cadde di nuovo il silenzio e nessuno osò interromperlo. Quando giunse di fronte all’abitazione degli Tsukumo, i due ragazzini scesero dall’auto.
«V…» fece Yuma, poco prima di allontanarsi per accompagnare l’amica a casa. «Se hai bisogno di qualcuno puoi contare su tutti noi. Non devi tenere il dolore per te...»
Di nuovo. Ancora mani tese, ancora compatimento. Lui non voleva il loro aiuto, non voleva la loro pietà e non voleva condividere quel dolore con nessuno. Voleva solo smettere di soffrire e dimenticare quel maledetto lunedì di metà giugno. Dimenticare la corsa in ospedale, l’odore pungente dei medicamenti, il volto del medico che gli comunicava che non c’era stato nulla da fare, il lettino con il suo corpo privo di vita, poi il freddo dell’obitorio, il funerale e quella lapide anonima. Voleva che i ricordi di quando Yuri era viva si sostituissero a quelli della sua morte, ma la sua mente sembrava incapace di andare più indietro nel tempo di quel lunedì. Come se prima non fosse avvenuto nulla che valesse la pena di essere ricordato. Come se la sua vita fosse iniziata con la morte della persona che più di tutte aveva amato. Quello era forse il pensiero che meno di tutti riusciva a tollerare. Poteva accettare che la meningite si fosse portata via la sua ragazza, poteva accettare persino di continuare a vivere senza di lei, ma non poteva concepire l’idea che il suo cervello non conservasse alcun ricordo di com’era la vita prima che il suo mondo scomparisse per sempre. Per questo si drogava, per cercare di recuperare qualche ricordo e uno sprazzo di felicità. In quei momenti gli pareva persino di riuscire ad abbracciarla.
In quei momenti lei era di nuovo in quel mondo.
Quando tornò a casa, si limitò ad augurare la buonanotte al resto della famiglia e si chiuse a chiave in camera sua, come faceva quasi ogni sera. Tirò fuori un piccolo porta-pillole dal cassetto del comodino e lo aprì. Le pasticche erano tutte lì, in attesa. Rimase per molti secondi a guardarle, la mente completamente svuotata, incapace di pensare. Un grande e terribile vuoto che continuava a divorarlo e a nutrirsi degli unici ricordi che non voleva dimenticare. Ne prese una e la ingoiò, poi si lasciò cadere sul letto e aspettò. Ben presto la droga avrebbe iniziato a fare effetto e lui avrebbe smesso di soffrire per qualche ora. Forse, se fosse stato fortunato, sarebbe riuscito a vedere il suo volto e il suo sorriso. E magari sarebbe anche riuscito a stringerla a sé, forse per sempre.
Si stava distruggendo, lo sapeva bene, ma non riusciva a fare a meno di quelle pasticche.

Non era forte a sufficienza da continuare a vivere senza.
La droga l’avrebbe ucciso e il vuoto l’avrebbe divorato del tutto. E in quel modo avrebbe perso per sempre i ricordi di lei. Sarebbe morto e non l’avrebbe più rivista, né sulla foto della lapide, né nei suoi sogni. Perché la morte era la fine di tutto e la droga era uno dei tanti modi per raggiungerla. Chris lo sapeva, eppure non poteva fare a meno di quelle pasticche, perché erano anche l’unico modo che aveva per ricordare il suo volto.
Era una strada che l’avrebbe portato alla distruzione, ma non poteva fare a meno di percorrerla. E si sentiva parecchio stupido per questo.

  
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