Perth
– “Quel terribile vuoto”
Un
mese.
Era
trascorso solo un maledetto mese da
quando era successo. Un mese in cui la sua vita era continuata come se
nulla
fosse, come se quel giorno non fosse arrivato. Come se qualcuno avesse
deciso
di cancellarlo dal calendario e dalla sua memoria. Non era successo,
lui
ricordava benissimo quel maledetto lunedì di metà
giugno e tutto quello che era
accaduto.
Tutto
quanto.
Non
avrebbe mai dimenticato. La sua vita
era legata agli eventi di quel giorno, anche se lui avrebbe dato
qualsiasi cosa
perché non lo fosse. Quel lunedì di
metà giugno lo aveva segnato, aveva
cambiato per sempre una parte importante di lui. Una parte che non
sarebbe mai
guarita, neanche con il tempo. Dall’esterno nessuno sarebbe
riuscito a cogliere
la differenza, ma lui sapeva che non sarebbe mai più tornato
l’uomo di prima.
Nessuno, al suo posto, avrebbe potuto farlo e lui rimaneva un essere
umano, un
insieme quasi perfetto di carne, sangue e anima. Quella ferita non
sarebbe mai
guarita, lo sapeva. Niente sarebbe tornato come prima. Quel
lunedì di metà
giugno segnava un punto fermo nella sua vita, come una strada che
poteva essere
imboccata solo in un senso o un entrata da cui non si poteva uscire.
Tutto
quello che veniva prima di quel giorno era stato cancellato insieme
alla sua
vita, quello che veniva dopo era completamente diverso. Come se si
trovasse in
una realtà parallela così dannatamente simile a
quella in cui era cresciuto, ma
comunque diversa. E nonostante fossero simili, lui percepiva lo stesso
la
differenza. Perché lei non c’era più.
Chris
sospirò e spense il computer. La
luce blu elettrica del monitor lo illuminò tenue per una
manciata di secondi,
poi il buio tornò a sovrastare qualsiasi cosa. Si
alzò e, a tentoni, recuperò
tutte le sue cose e le infilò nella valigetta che usava
portare a lavoro.
Kaito, sulla soglia del laboratorio, continuava a fissarlo. Chris
sentiva i
suoi occhi grigi fissi sulla propria schiena, gli dava quasi fastidio
sapere
che lui era lì e che lo stava guardando. Analizzando.
«Come ti senti oggi?» gli chiese l’amico,
con un filo di voce.
«Bene.»
«Davvero?»
Chris non rispose, prese la valigetta e
varcò la porta. Kaito lo affiancò. Per un
po’ rimasero entrambi in silenzio.
«Vai spesso a trovarla?» chiese l’amico.
«Quando posso.»
«Chris…»
«Ultimamente sono impegnato con il
lavoro e non ho molto tempo a disposizione. Tanto da lì non
scappa.»
Erano giunti al piano terra
dell’edificio. Fuori pioveva. Chris lanciò una
lunga occhiata al cielo plumbeo,
poi prese l’ombrello e fece per uscire. Kaito lo
afferrò per un braccio,
bloccandolo.
«Se hai bisogno di una spalla, io ci
sono. Non devi sforzarti di essere forte a tutti i costi. Sei quello
che soffre
più di tutti, ma non sei l’unico. Non sei solo in
questo dolore.»
Kaito lasciò andare la presa sul suo
braccio e Chris si affrettò ad allontanarsi. Pioveva
sommessamente e la
temperatura era scesa di diversi gradi, tanto che il giovane aveva
dovuto
indossare un pullover sopra la camicia. Era strano per quel periodo
dell’anno,
di solito a luglio faceva sempre molto caldo. Probabilmente era solo un
temporale passeggero. Sollevò di nuovo gli occhi al cielo,
cercando di
rievocare alcuni ricordi nella sua mente, ma non ci riuscì.
La sua testa era
vuota, completamente bianca. Si riempiva solo quando si concentrava sul
lavoro
e solo di numeri, formule e calcoli matematici. Non un ricordo, un
pensiero o
un’immagine, nulla che riguardasse lei. Solo il vuoto,
terribile e freddo, così
simile allo spazio aperto eppure privo della sua bellezza eterna. Un
piccolo vuoto
che gli faceva paura, che lo terrorizzava e lo faceva sentire
impotente. Che lo
divorava un po’ per volta, dilaniava la sua carne, faceva
marcire il suo
sangue, annichiliva la sua mente, finché di lui non sarebbe
rimasto altro che
un guscio privo di tutto. Una specie di involucro, la muta di un
serpente,
qualcosa che non aveva vita, né consistenza. E una parte di
lui desiderava
diventarlo il prima possibile, perché nel vuoto non
c‘era più alcuna sofferenza.
Non
c’era niente.
Quando
raggiunse casa aveva smesso di
piovere già da diversi minuti. Sulla porta lo aspettava suo
padre. Aveva
un’espressione preoccupata negli occhi ed era diretta a lui.
Chris lesse anche
un accenno di pena sul volto piccolo e deformato del genitore e non
poté fare a
meno di sentirsi ferito. Faceva davvero quell’effetto? Era
davvero così
miserabile ai suoi occhi? Solo perché aveva perso tutto?
Trattenne a stento un
moto di rabbia e varcò il portone di casa, senza degnare di
uno sguardo il
bambino.
«Cosa c’è per cena?» chiese,
mentre
riponeva l’ombrello nel portaombrelli e si toglieva le scarpe.
«Qualcosa di leggero. Thomas non ha
avuto tempo per cucinare piatti complicati.»
«Bene. Non ho molto appetito.»
«Abbiamo ospiti. Yuma e Kotori cenano
qui da noi stasera.»
«Sono già arrivati?» gli chiese Chris,
voltandosi leggermente verso di lui. Byron annuì.
«Se devi cambiarti fai in fretta, la
cena è già pronta» aggiunse subito
dopo, poi si diresse verso la sala da
pranzo.
Il giovane salì al piano superiore per
sistemare la valigetta e cambiarsi d’abito. Non voleva
presentarsi a cena con
gli abiti che aveva portato tutto il giorno in laboratorio, voleva dare
loro
una buona impressione così che non si sarebbero preoccupati
troppo. In fondo
sapeva che se erano lì era solo per accertarsi che stesse
bene. Lo facevano
tutti, da un mese a questa parte, da quando Yuri era morta. E lui non
poteva
fare a meno di odiarli. Non voleva essere compatito, non voleva che
cercassero
di farlo stare meglio. Voleva solo poter tornare indietro nel tempo e
salvarla.
Ma non poteva farlo, il passato non poteva essere cambiato e lei non
sarebbe
mai ritornata in vita. Non riusciva neanche a ricordarla, la sua mente
si
rifiutava di proporgli ricordi di lei. Ci riusciva solo quando ingeriva
una dose,
solo la droga riusciva a rendere sopportabile quel terribile vuoto. Per
questo
non riusciva più a farne a meno. E si sentiva stupido,
perché sapeva bene
quanto male stesse arrecando al suo organismo. Quanto male stesse
arrecando a
lei e a tutti quelli che conosceva.
Eppure
ne aveva
bisogno.
La cena trascorse tranquilla. Nessuno
osò chiedergli se stesse bene, si limitarono a parlare del
più e del meno,
senza accennare minimamente a Yuri e alla sua morte. O a qualsiasi
altra cosa
che potesse ricordargliela. Chris sapeva che lo facevano solo per non
farlo
stare peggio, eppure non poteva fare a meno di trovarlo irritante.
Possibile
che non capissero che i loro sforzi erano inutili?
«Fratellone, potresti accompagnare Yuma
e Kotori a casa?» fece Michael, al termine della cena. I due
ragazzini erano in
piedi di fronte all’ingresso, pronti per andare via.
Sorridevano, ma non c’era
luce nei loro occhi. Chris annuì e prese le chiavi della
macchina; avrebbe
voluto rifiutarsi, ma non poteva. Anche quello era un test.
Il viaggio in macchina si svolse nel
silenzio. Fu solo quando giunsero in vista della casa di Yuma, che il
ragazzino
osò aprire bocca.
«Come ti senti,V?»
Chris gli scoccò una rapida occhiata e
tornò a concentrarsi sulla strada.
«Bene» rispose.
«Anche se Yuri è…»
«Sì» lo interruppe lui. «Anche
se Yuri è
morta.»
Cadde di nuovo il silenzio e nessuno osò
interromperlo. Quando giunse di fronte all’abitazione degli
Tsukumo, i due
ragazzini scesero dall’auto.
«V…» fece Yuma, poco prima di
allontanarsi per accompagnare l’amica a casa. «Se
hai bisogno di qualcuno puoi
contare su tutti noi. Non devi tenere il dolore per te...»
Di nuovo. Ancora mani tese, ancora compatimento.
Lui non voleva il loro aiuto, non voleva la loro pietà e non
voleva condividere
quel dolore con nessuno. Voleva solo smettere di soffrire e dimenticare
quel
maledetto lunedì di metà giugno. Dimenticare la
corsa in ospedale, l’odore
pungente dei medicamenti, il volto del medico che gli comunicava che
non c’era
stato nulla da fare, il lettino con il suo corpo privo di vita, poi il
freddo
dell’obitorio, il funerale e quella lapide anonima. Voleva
che i ricordi di quando
Yuri era viva si sostituissero a quelli della sua morte, ma la sua
mente
sembrava incapace di andare più indietro nel tempo di quel
lunedì. Come se
prima non fosse avvenuto nulla che valesse la pena di essere ricordato.
Come se
la sua vita fosse iniziata con la morte della persona che
più di tutte aveva
amato. Quello era forse il pensiero che meno di tutti riusciva a
tollerare.
Poteva accettare che la meningite si fosse portata via la sua ragazza,
poteva
accettare persino di continuare a vivere senza di lei, ma non poteva
concepire
l’idea che il suo cervello non conservasse alcun ricordo di
com’era la vita prima
che il suo mondo scomparisse per
sempre. Per questo si drogava, per cercare di recuperare qualche
ricordo e uno
sprazzo di felicità. In quei momenti gli pareva persino di
riuscire ad
abbracciarla.
In quei momenti lei era di nuovo in quel
mondo.
Quando tornò a casa, si limitò ad
augurare la buonanotte al resto della famiglia e si chiuse a chiave in
camera
sua, come faceva quasi ogni sera. Tirò fuori un piccolo
porta-pillole dal
cassetto del comodino e lo aprì. Le pasticche erano tutte
lì, in attesa. Rimase
per molti secondi a guardarle, la mente completamente svuotata,
incapace di
pensare. Un grande e terribile vuoto che continuava a divorarlo e a
nutrirsi
degli unici ricordi che non voleva dimenticare. Ne prese una e la
ingoiò, poi
si lasciò cadere sul letto e aspettò. Ben presto
la droga avrebbe iniziato a
fare effetto e lui avrebbe smesso di soffrire per qualche ora. Forse,
se fosse
stato fortunato, sarebbe riuscito a vedere il suo volto e il suo
sorriso. E
magari sarebbe anche riuscito a stringerla a sé, forse per
sempre.
Si stava distruggendo, lo sapeva bene,
ma non riusciva a fare a meno di quelle pasticche.
Non
era forte a
sufficienza da continuare a vivere senza.
La
droga l’avrebbe ucciso e il vuoto
l’avrebbe divorato del tutto. E in quel modo avrebbe perso
per sempre i ricordi
di lei. Sarebbe morto e non l’avrebbe più rivista,
né sulla foto della lapide,
né nei suoi sogni. Perché la morte era la fine di
tutto e la droga era uno dei
tanti modi per raggiungerla. Chris lo sapeva, eppure non poteva fare a
meno di
quelle pasticche, perché erano anche l’unico modo
che aveva per ricordare il
suo volto.
Era
una strada
che l’avrebbe portato alla distruzione, ma non poteva fare a
meno di
percorrerla. E si sentiva parecchio stupido per questo.