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Autore: wolfymozart    02/09/2018    1 recensioni
La storia tra Anna e Antonio sarà messa a dura prova da scottanti questioni sociali e drammatiche vicende private che si intrecceranno in un inestricabile garbuglio nel quale ritrovare il "filo rosso del destino" non sarà affatto facile.
Per questo sequel è stato necessario forzare un po’ i tempi dell’ambientazione per motivi di ordine storico, viceversa non sarebbe stato possibile far incontrare la Storia con la storia. Lo slittamento temporale consiste in un lasso di una decina d’anni. Mi auguro che chi leggerà mi vorrà perdonare.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna Ristori, Antonio Ceppi, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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-Avevi ragione tu, non hanno fatto obiezioni. La madre superiora è stata molto accondiscendente, Emilia potrà partire domani stesso. Del resto, esporre le allieve a un tale pericolo sarebbe da pazzi…Ahimè! Che tempi! –
Anna si stava preparando per la notte; mentre cercava di pettinarsi alla bell’e meglio i boccoli guardandosi riflessa su di vecchissimo specchio opaco e appannato, faceva ad Antonio, appena rientrato, un resoconto della giornata. – Pensa che tante famiglie vogliono portar via le figlie dal collegio: c’erano tutta la nobiltà parigina nella sala di ricevimento. Si preparano giorni bui…Per fortuna che ce ne andremo presto. Ma ti par giusto che siamo costretti a scappare a nasconderci perché questi zotici non solo ci vogliono portar via quel che è nostro, ma addirittura vorrebbero mozzarci la testa? – inveì voltandosi per guardare Antonio alla luce tremolante dell’unico candelabro che avevano in casa.
Antonio non si era nemmeno levato il mantello, stava seduto accanto al camino acceso, distratto, sfregando le mani vicino al fuoco. Era appena rientrato da un giro di visite ai suoi pazienti: la sera era gelida, anche se la neve aveva smesso di cadere, e quella stamberga era, se possibile, ancor più fredda delle vie parigine. Il camino della camera da letto non valeva a riscaldare quei quattro miseri ambienti, umidi, bui, esposti a nord.  Le pareti erano rovinate dalle macchie di umidità, il pavimento era gelido, l’insieme era spoglio e malsano. Non riusciva nemmeno lui a capacitarsi del fatto che Anna non gli avesse ancora fatto notare lo squallore dell’abitazione dove si era ridotto a vivere: gli rincresceva di averla trascinata lì, ma si trattava pur sempre di pochi giorni. Come Jerome gli aveva rimproverato quella mattina, non era certo una sistemazione degna di lei, ma che cos’altro avrebbe potuto offrirle in quel momento? Si era ridotto in quelle condizioni perché non aveva voluto accettare compromessi con la sua coscienza, perché aveva rifiutato quel mondo, falso anch’esso, forse ancor più ipocrita di quello precedente, che si stava delineando dopo i primi bagliori della rivoluzione. Eppure Anna si meritava il meglio, non le avrebbe dovuto chiedere questo sacrificio che per lei, orgogliosa com’era, sarebbe potuto risultare umiliante.
-Antonio, mi stai ascoltando? – gli domandò ad un certo punto, avendo notato la sua distrazione. Antonio distolse lentamente lo sguardo dalle faville, uno sguardo mesto, quasi colpevole, e lo portò su di lei. Sorrise sollevando a fatica gli angoli della bocca. Quant’era bella! Così in deshabillé, con i capelli sciolti che le ricadevano ribelli sulle spalle, ricoperte soltanto dalla candida sottoveste che lasciava trasparire le sue forme aggraziate. Abbassò lo sguardo e scosse il capo, con un sorriso quasi ironico o, forse, desolato.
-Che ti succede? - gli chiese avvicinandosi, con una punta di preoccupazione nella voce. Si acquattò accanto a lui per scrutarne lo sguardo.
- Nulla, Anna. Stavo soltanto pensando al fatto che…- e si interruppe, come per pudore, scuotendo la testa.
- Parla. Non ti capisco. – lo esortò, apprensiva.
- Al fatto che tu sei troppo bella per restare in questa topaia con me. – le disse infine con un sorriso, sfiorandole la guancia.
- Ma che dici! Antonio, così mi farai arrossire, lo sai. – gli rispose, schioccandogli un bacio a fior di labbra, per nascondere in tal modo l’imbarazzo. Lui le prese una mano e gliela baciò, poi chiese:
- E’ tutto pronto per la partenza? –
- Sì. Una carrozza ci attende alla stazione di posta vicino al collegio, domani nel pomeriggio, due ore prima del tramonto. Se tutto va bene, dovremmo arrivare a Evry prima che cali la notte.-
- Molto bene. Ora è meglio se ci riposiamo, domani ci attende una giornata impegnativa. – concluse Antonio, alzandosi e invitando al contempo anche lei ad alzarsi, tendendole le mani. Non accennava a spogliarsi del mantello e la cosa cominciò ad insospettire Anna.
- Perché non ti levi il mantello? Hai così freddo? – domandò seguendone i movimenti per la stanza.
- No…ma questa casa è talmente umida, non te ne accorgi? – ribatté – Ecco, ora mi spoglio. Non c’è nulla che non vada. – cercò di rassicurarla come giustificandosi. Quindi appese il mantello all’appendiabiti e iniziò a prepararsi anch’egli per la notte sotto gli occhi dubbiosi di Anna, che lo attendeva a letto.
 
Non sapeva che ore fossero, supponeva che si fosse nel cuore della notte, che l’alba livida dell’autunno avanzato fosse ancora di là da venire, ma non ne era certo. Squassato dai colpi di tosse, si allontanò dalla stanza più presto che poté: non voleva in nessun modo svegliarla. Barcollò per le stanze buie, infine si lasciò cadere sulla poltrona della sala, avvolgendosi nel pesante mantello. Si accorse di avere la febbre quando si passò una mano sulla fronte rovente. La tosse non accennava a smettere, nonostante i suoi tentativi di reprimerla per non destare Anna che dormiva ignara. Era da qualche giorno che gli era sorto il sospetto, ma aveva sempre voluto allontanarlo. Poi, travolto dagli eventi, dall’angoscia alla gioia immensa di aver finalmente ritrovato la donna che amava, aveva trascurato questi sintomi che, tuttavia, avevano continuato a tormentarlo. Ora, però, non gli era più consentito mentire a se stesso: avrebbe dovuto fare i conti con la realtà, era un medico dopotutto, non poteva chiudere gli occhi. Con terrore osservò nell’oscurità il fazzoletto tingersi di sangue. Non ne era certo, il barlume che filtrava dalla finestra non gli consentiva di mettere a fuoco alcunché. Ma il suo cuore iniziò a battere a mille e gocciole di sudore a impregnargli la fronte. Consunzione, mal sottile, in termini medici tisi. Vari dei suoi pazienti, tra cui Christine e suo figlio, ne erano afflitti, alcuni erano deceduti, altri la combattevano come combattevano la miseria e, secondo le sue previsioni, erano destinati a soccombervi. Ma lui? Lui si era sempre sentito invulnerabile, robusto, sano, mai aveva preso in considerazione l’ipotesi di poter essere anch’egli contagiato. In quel momento pensò alle terribili condizioni in cui viveva da mesi, l’abitazione fredda e malsana, il lavoro sfiancante, i pasti regolarmente saltati, le angosce e lo sconforto che lo avevano attanagliato fino a quando non aveva potuto riavere Anna fra le braccia. Tutto questo avrebbe provato anche un fisico di costituzione forte e sana come il suo.
Si prese la testa fra le mani, affondando le dita nei capelli scomposti, mentre brividi continui gli percorrevano il corpo, brividi dettati dal freddo, dalla febbre o, forse chissà, dalla paura, che per la prima volta in vita sua provava nei confronti della sua salute. Si alzò e andò ad appoggiare la fronte al vetro della finestra. La notte era serena, nessuno là fuori sembrava condividere le sue ambasce, le vie di Parigi dormivano quiete, la luna si era fatta strada fra le nubi e rischiarava il manto di neve. Gli pareva assurdo, uno scherzo atroce del destino, quella sorte. Proprio quando pensava di avere in mano la sua vita, la sua felicità, proprio allora che gli si srotolava davanti una serie infinita di giorni da condividere con la donna che amava, senza più ombre, senza più rancori o rimorsi. Era come se nel mezzogiorno di una splendida giornata estiva, nuvoloni neri si addensassero all’improvviso ad oscurare il sole, impedendo anche al più tenue raggio di filtrare al di là della cortina scura. Non era tanto per sé che si disperava, della sua sorte poco gli sarebbe importato fino a due giorni prima, era per la sua vita insieme ad Anna che non si dava pace. Come dirlo a lei? Come spigarle che da quella terribile malattia era quasi impossibile la guarigione? Che in un mese, o forse due gli avrebbe tolto le forze, l’avrebbe consunto? Che un viaggio così lungo in quelle condizioni non sarebbe stato in grado di affrontarlo?
In quel momento non gli riusciva di pensare: la febbre gli offuscava la mente, la disperazione gli annebbiava le idee. Cercò di calmare la tosse bevendo dell’acqua dalla brocca, poi, si avviò verso la stanza in cui Anna continuava a dormire all'oscuro di tutto. I capelli sciolti che si spandevano morbidi sul guanciale, le braccia raccolte davanti al viso, il respiro leggero e regolare, le ciglia perfette sulle palpebre chiuse. Si fermò per qualche tempo a contemplarla, mentre la visione placida e rasserenante di lei gli scioglieva in parte il peso che portava sul cuore. Si sedette sul letto, delicatamente le accarezzò i capelli, le guance, su cui impresse un bacio leggero; poi, si scostò da lei, si allontanò, per evitare ogni possibile rischio di contagio, e, rannicchiato sulla logora poltrona del salotto, trascorse quel che restava della notte fra cupe elucubrazioni e violenti accessi di tosse.
 
-Ebbene? Perché mi hai mandato a chiamare con tanta urgenza? – domandò Jerome appena entrato in casa, battendo i piedi per scrollarsi la neve dagli stivali, senza nemmeno essersi tolto mantello e tricorno, con il tono spazientito di chi è stato distolto da faccende considerate decisamente più importanti.
Antonio si limitò a fissarlo con uno sguardo che avrebbe mosso a pietà chiunque, anche il cinico avvocato LeBlanc. Era uno sguardo di supplica, ma nello stesso tempo orgoglioso; uno sguardo amareggiato dal fatto di dover chiedere aiuto, e nello stesso tempo costretto dalle circostanze a farlo. Anna era uscita presto quella mattina, diretta al collegio dove avrebbe atteso alla pratica di congedo di Emilia, nel pomeriggio una carrozza le avrebbe aspettate alla vicina stazione di posta, dove Antonio le avrebbe raggiunte. Tutto era ormai stabilito, quel giorno stesso avrebbero lasciato Parigi.
Non aveva avuto il coraggio di dirle nulla, aveva finto noncuranza, le aveva rinnovato la promessa che si sarebbe fatto trovare puntale nel luogo convenuto, che avrebbe sbrigato in mattinata tutte le commissioni del caso. Aveva annuito alle raccomandazioni di lei, non aveva osato contraddirla, nemmeno per un istante. Che sarebbe successo, se le avesse svelato il suo malessere? Quale sarebbe stata la sua reazione? Non se lo poteva immaginare, non ci voleva pensare. La più nera disperazione gli gravava sul cuore, ma in quel momento avrebbe dovuto innanzitutto provvedere a lei ed Emilia.
-Mio Dio, Antonio! Che faccia hai? Ti ha tenuto sveglio stanotte la marchesa? – insinuò scherzoso Jerome, con un sorrisetto allusivo e amaro. Poi si avvicinò all’amico sprofondato nella poltrona. – Che diamine! Tu non stai bene, Antonio? Che ti succede? – si allarmò notando il volto pallido, gli occhi arrossati e lo sguardo sofferente di Antonio.
Rimase a scrutarlo per qualche istante, prima di avere una risposta.
- Mal sottile. – rispose laconico, gli occhi di un azzurro spento fissi in quelli vividi dell’amico, poi si chiuse in un cupo silenzio.
- Che significa? Che vuoi dire? – gli domandò Jerome di rimando, senza battere ciglio, la tensione nella voce.
- Tisi, Jerome. Ne hai mai sentito parlare? – domanda più che mai retorica a cui il ciarliero avvocato, principe del foro parigino, non riuscì a trovare una risposta degna di essere chiamata tale. Restò senza parole, sbigottito, mortificato. Per qualche istante si limitò a deglutire nervosamente, studiando di sottecchi il volto emaciato dell’amico. Che fosse malato, non gli pareva possibile: lui, il medico più valente che conosceva, caduto vittima di una di quelle malattie che era solito diagnosticare e curare nei suoi pazienti. Più che il dispiacere era l’incredulità ad invadere la sua mente in quel frangente.
- Il n’est pas possible…ne sei certo? – balbettò infine sconcertato e in evidente imbarazzo.
- No. Non ne sono certo, ma sono ancora in grado di riconoscere i sintomi. Ho visto tanti di quei pazienti malati di tisi che ho pochi dubbi su quale sia il decorso della malattia. – constatò amaro, con un sospiro si prese la testa fra le mani.
Jerome taceva, passeggiava nervosamente per la stanza, il tricorno in mano, il mantello indosso, le mani dietro la schiena, gli occhi fissi al pavimento. Evitava ogni contatto oculare con Antonio, prostrato da quella conversazione e da frequenti colpi di tosse.
- Antonio, parla chiaro. Che cosa ti potrebbe accadere? Come hai intenzione di curarti? Se vuoi io posso…- si risolse infine a parlare, dopo essersi fermato di fronte all’amico.
- Non lo so, Jerome. – lo fermò, spegnendo sul nascere ogni possibile offerta di aiuto. – Che cosa mi potrebbe accadere? Potrei cavarmela per qualche mese oppure andare all’altro mondo in un paio di settimane. Non lo so, non so dirtelo. Dipende dallo stadio della malattia. So solo che non posso partire, non sopporterei le fatiche di un viaggio così lungo. – esclamò passandosi le mani sulle guance ispide. Tenne lo sguardo fissò davanti a sé poi lo spostò sull’amico che se ne stava ancora in piedi davanti a lui, pensieroso.
- Ma non ti sei accorto di nulla? Eppure avresti dovuto, sei stato a contatto con pazienti malati…Avresti dovuto fare attenzione ad evitare il contagio, prendere precauzioni! – sembrò quasi rimproverarlo, con tono stizzito, per la sua negligenza che ora gli stava costando tanto cara. Antonio gli mostrò un sorriso riconoscente: aveva intuito il cordoglio di Jerome e ne provava una sorta di tenerezza quasi. Mai aveva pensato che potesse provare una tale angoscia per la sua sorte o per la sorte di qualsiasi altro essere umano.
- Non credere che non abbia fatto il possibile per evitare di essere contagiato dai pazienti. Sono un medico scrupoloso, lo sai. Ma non sempre si può avere il controllo su tutto. E poi, queste stanze umide, malsane, le fatiche del lavoro…-
- Non hai risposto ad una mia domanda, però. Come hai intenzione di curarti? Ti posso aiutare, conosco alcuni tra i più capaci medici della città: senza nulla togliere alla tua perizia, ti potrebbero assistere…-
- Non è questo che ti chiedo, Jerome. Tu puoi aiutarmi, ma in un modo diverso. –
 
E lo fissò negli occhi, come a strappargli una promessa.
 
   
 
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