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Autore: Ily Briarroot    06/09/2018    8 recensioni
[Fanfiction partecipante al contest "Foto Ricordo" indetto da Fiore di Cenere sul forum di EFP].
[ATTENZIONE: CITAZIONI riguardo lo special "La scomparsa di Conan Edogawa - I due giorni peggiori della storia.]
"Gli occhi grandi di un neonato, le iridi dal colore ancora indistinguibile, scrutavano l'obiettivo della macchina fotografica. Sembravano la stessero fissando, implacabili e scrutatori. La colpivano da dentro, sgretolando velocemente il coraggio che si era imposta di mantenere."
... "Mise una mano nella tasca dei pantaloncini, stringendo tra le dita la foto dalla quale non era ancora stata in grado di separarsi. Quel gesto le trasmise di colpo la forza della quale aveva sempre avuto bisogno e che credeva si fosse assopita anni prima."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Shinichi Kudo/Conan Edogawa | Coppie: Shiho Miyano/Ai Haibara, Shiho Miyano/Shinichi Kudo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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The same seafoam eyes



Stava ancora cercando di lasciarsi lo spavento dei due giorni precedenti alle spalle, nonostante tutto. 
Nonostante i lividi e i graffi che aveva ancora sul corpo, i capelli trasandati ai quali aveva inutilmente cercato di dare una sistemata. I graffi sulle braccia e sulle gambe, che non sanguinavano più ma che bruciavano come fossero freschi. 
Erano i segni di quell'angoscia che aveva preso il sopravvento, di quei momenti terribili che aveva vissuto nella speranza di trovare Shinichi sano e salvo. 

Quest'ultimo era scomparso, preda di una situazione che forse, stavolta, non avrebbe potuto gestire da solo. E lei era partita senza pensarci, così, istintivamente. Aveva rischiato grosso, ne era consapevole, ma lo avrebbe rifatto allo stesso identico modo. Solo per lui, per cercarlo e riportarlo a casa, poiché non avrebbe mai potuto permettersi di perderlo o avrebbe rischiato di perdere se stessa, in quella lunga lotta chiamata vita. 
Non ora che aveva preso il coraggio a due mani con la nuova convinzione di camminare a testa alta, senza fuggire. E lo aveva imparato grazie a quel detective immaturo e superficiale che non esitava a lanciarsi nelle situazioni più pericolose per lei.

Da quando era tornato, ognuno si era tranquillizzato, tornando alla vita di sempre. Soltanto Ai non era ancora riuscita a farlo, svegliandosi di notte colta dalle peggiori sensazioni e da incubi che non cessavano. Persino quel giorno, ventiquattro ore dopo il loro ritorno a casa sani e salvi, faticava a respirare con regolarità. Specchiandosi, riusciva ancora a intravedere le enormi borse sotto agli occhi, il pallore del volto, le leggere tracce di pulviscolo sulla pelle nonostante si fosse appena lavata. 

«Ai, sei ancora sotto la doccia?». 
La voce premurosa di Agasa giunse attraverso la porta chiusa del bagno, interrompendo quel flusso di pensieri. 
«No, qualche minuto ed esco». 
Si tolse l'asciugamano dalle spalle, per poi tamponare lentamente i capelli ramati. Sospirò, percependo l'urgenza del professore che si trovava ancora nel salone. 
«D'accordo, ma tra poco arriva Shinichi e avrei un certo bisogno di usare il bagno». 
Fu quella frase a far scattare il campanello d'allarme. 
Ai si vestì in fretta, infilandosi velocemente gli abiti di ricambio che aveva lasciato sul bordo del mobile vicino allo specchio. Dopodiché uscì nel corridoio, lanciando al dottor Agasa un'occhiata colma di rassegnazione. 
«Scusami» disse lui in imbarazzo, la mano sulla nuca. 
«Non fa niente» gli rispose, trattenendosi dal prendere in giro la sua espressione colpevole. Ridacchiò, fermandosi a pochi passi dal professore.

Dopodiché lo seguì con lo sguardo mentre si chiudeva la porta alle spalle, prima di fiondarsi nel salone a recuperare i vestiti rovinati e strappati del giorno prima. Li scrutò tra le mani, accennando un sorriso. Non avrebbe mai ammesso davanti a Shinichi ciò che aveva fatto per aiutarlo, per riportarlo a casa. Non gli avrebbe confessato il motivo della stoffa strappata, dell'incidente volontario che aveva portato il maggiolino di Agasa fuori strada, sbalzandola via verso il profondo dirupo di quella maledetta strada, né la fatica per tornare su e per non cedere. 
Tutto per lui.
No, non glielo avrebbe mai raccontato. 

Con i resti di quei vestiti tra le mani, Ai si avviò verso il soggiorno. Ignorò il computer  che aveva lasciato acceso sul tavolino e si diresse verso il cesto della biancheria, quello dove il professore lasciava a decantare gli abiti rovinati e dismessi che avrebbe dovuto buttare da anni. 
Lo aprì velocemente, guardandovi istintivamente all'interno. Sul fondo, un camice che una volta doveva essere bianco ma che ormai era annerito dalla polvere e dal fango le fece sgranare gli occhi. Lo stesso che aveva utilizzato per tanto tempo, un compagno di viaggio che faceva parte di quel passato misero e crudele.
 
Strinse un lembo di quella stoffa spessa tra le dita, tirandolo fuori del tutto. Non lo vedeva da tempo, finito in chissà quale spazio lontano nella mente. Forse perché convinta che Agasa lo avesse gettato, dopo due anni. O, magari, era stata lei a volersene dimenticare. 
Ai iniziò a tremare impercettibilmente, infilando cauta la mano nella tasca destra; quella che, in passato, conteneva l'apotoxina che le aveva salvato la vita. Ed eccola. 
Ne percepì gli angoli ancora intatti, lo spessore della carta tagliente. Estrasse la foto subito dopo, nello stesso momento in cui il suo cuore perdeva un battito. 

Gli occhi grandi di un neonato, le iridi dal colore ancora indistinguibile, scrutavano l'obiettivo della macchina fotografica. Sembravano la stessero fissando, implacabili e scrutatori. La colpivano da dentro, sgretolando velocemente il coraggio che si era imposta di mantenere. 
Il ciuffo biondo sulla testa, la quale era coperta da un sottilissimo strato biancastro, il corpicino avvolto in una coperta improvvisata.
Dopodiché, Ai distinse le proprie braccia che avvolgevano quella creatura, così minuscola e fragile, così capace di spogliarla di ogni sorta di dignità, di farle mancare l'aria. Il panico tornava forte, così come il senso di colpa che non si era mai attenuato. 

Il bambino della foto sembrava la guardasse, le guance tonde e paffute, le manine strette in un pugno minuscolo. Il cuore batteva furioso, adesso, mentre il magone che le stringeva la gola cresceva sempre più forte. 
Quei giorni d'inferno tornarono vividi in lei con una violenza inaudita, come se il tempo appena trascorso non fosse mai esistito realmente. 

Ricordava il suo corpo cambiare, segno indelebile di quelle mani macchiate di sangue addosso, sulla pelle. La prova tangibile di essere stata sua e di una situazione della quale si era pentita troppo tardi. La fuga negli Stati Uniti, l'aiuto da parte di persone che conosceva poco, pochissimo, e che l'avevano aiutata a nascondersi. Lontana da quell'unico affetto che rappresentava Akemi, ma anche da quegli occhi pieni di bramosia che la osservavano sempre più frequentemente. 
Una fuga che le sarebbe costata cara, se fosse finita male. Ma era stata obbligata a rischiare, per poter dare una possibilità in più a quella nuova vita. Un'alternativa che Shiho Miyano non aveva mai avuto. 

Percepiva ancora il freddo seminterrato di quel laboratorio dimenticato dal mondo, mentre delle perfette sconosciute avevano deciso di rimanere con lei, di aiutarla fino alla fine. Perché, grazie a quelle estranee, la farsa era andata avanti senza crollare. 
Ai si perse ancora una volta nei meandri della propria mente, di quel dolore insopportabile e brusco tanto da non farla respirare. Quel luogo umido e gelido, adiacente al reparto di anatomia patologica ormai in disuso, che non le permetteva di sentirsi a proprio agio. L'aria gelida che le penetrava attraverso la pelle, in contrasto con la temperatura elevata del corpo e che non percepiva più una volta iniziato il vero dolore. Il sudore sulla fronte, l'angoscia del vedere da un momento all'altro gli uomini dell'Organizzazione entrare in quel luogo angusto e ucciderla all'istante. Ricordava il desiderio di voler vedere il viso di quel bambino anche soltanto una volta, prima di salvargli la vita. 

Aveva i capelli appiccicati sulle spalle, in quel momento. Il respiro affannoso che si condensava fuori dalla bocca; poteva vedere il suo fiato dal freddo. La stanchezza che le rendeva quasi impossibile muoversi. Ma aveva anche il calore di quel corpicino tra le braccia, di quel piccolo innocente venuto al mondo in una realtà sfortunata, la bocca urlante e la pelle rossastra del viso. 
Forse Shiho aveva urlato, immagini indistinte che le si accumulavano nella mente. Sì, aveva urlato, lei che era abituata a sopportare in silenzio, a non ammettere mai una debolezza. Era sempre stata forte, ma era certa di aver gridato durante quelle ore, di aver implorato qualcosa o qualcuno, pur senza essersene resa conto. Una scarica elettrica capace di trapassarle il corpo da parte a parte, di impedirle qualunque movimento. E poi era sparito tutto; ogni sorta di dolore, la confusione. Ogni cosa.

Probabilmente aveva sorriso, sentendolo su di sé, percependo il suo respiro leggero e delicato. Nonostante la finta indifferenza verso le persone che le erano intorno, aveva chiesto una foto. Quell'unica foto, prima che le venisse portato via, combattendo contro le lacrime che minacciavano di scivolarle sul viso. Non avrebbe mai pensato di riuscire sul serio a provare affetto per quella creatura, di potersi rivedere in quel ruolo. E invece, una volta lì in carne e ossa, non riusciva più ad accumunare quel bambino all'uomo sporco e crudele che l'aveva generato. Si era stupita di scoprirsi fragile in quella situazione, una situazione complicata che la stava facendo sentire male secondo dopo secondo.

Poi, quando glielo avevano preso dalle braccia, si era voltata per non guardarlo. Poiché se lo avesse fatto, anche solo per un attimo, era certa che non sarebbe più riuscita a lasciarlo andare. 
Si era morsa il labbro inferiore mentre lo allontanavano da lei, sostenuta solo e unicamente dalla consapevolezza che gli avrebbe donato una vita degna di tale nome. 
Si trattava dell'unico scatto che aveva di lui e che era diventato tutto ciò che potesse avere di così prezioso e intimo. Un segreto che faceva parte di se stessa e che non aveva mai condiviso con nessuno. 
Conservava quell'immagine in tasca; non l'aveva mai sfilata dal camice, dopo quella volta. Dopodiché era trascorso tutto troppo velocemente perché potesse pensarci davvero, dopo la fuga, il rimpicciolimento. Dopo l'assassinio di Akemi e il coraggio di lottare. 
Aveva creduto di aver perso quella foto, così come quel camice e quel passato da dimenticare. Ma adesso, ogni cosa era tornata nel petto con la potenza di un tornado. 

«Dottor Agasa, sono arrivato». 
La voce di Shinichi la riscosse bruscamente e non si voltò a guardarlo neanche per un secondo, mentre questi appariva sulla soglia dell'ingresso. Ai infilò nuovamente la foto nella tasca del camice con uno scatto e gettò il tutto all'interno del cesto, insieme ai vestiti strappati del giorno prima. 
«Mh? Sei qui?» le chiese il detective, guardandola accigliato. I suoi movimenti non gli erano sfuggiti e nemmeno il tremore quasi impercettibile del suo corpo, nonostante lei cercasse in tutti i modi di trattenerlo. 
«Sì, perché?» rispose Ai, cercando di ritrovare la solita compostezza nel tono di voce. Gli lanciò un'occhiata indifferente, sedendosi sul divano davanti al computer. «Agasa è in bagno».

Shinichi la osservò qualche attimo, ancora un po' incerto. Tuttavia lasciò perdere quando la vide intenta a lavorare e digitare freneticamente sulla tastiera. 
Non aveva notato le lacrime che si erano raccolte agli angoli degli occhi di lei - difficili da bloccare come mai prima d'allora - neanche quando tentò una conversazione con l'amica con l'unico scopo di ringraziarla per ciò che aveva fatto. 
Poiché, nonostante Ai non lo sospettasse, lui sapeva già tutto comunque. 

 


~



Camminava persa tra mille pensieri, un paio di passi indietro rispetto a Shinichi e ai bambini. 
Aveva appena udito Ayumi chiederle di aumentare il passo, finché qualcos'altro attirò la sua attenzione. Accanto a sé e nella direzione opposta alla loro, una giovane donna dai capelli scuri teneva per mano un bambino di un paio d'anni. 
«Coraggio, tesoro» lo spronava quest'ultima, studiando i passi goffi e instabili del piccolo che cercava di seguirla senza cadere. «Continua, sei bravo». 

Ai si bloccò sul posto, studiando l'espressione di quel bambino così bello. Un collegamento inevitabile, una stretta al cuore. Gli occhi sgranati, la sensazione che qualcosa le stesse schiacciando il respiro, in quel momento. 
In quel lungo istante, il volto del piccolo nella foto le tornò in mente. Era lui, non aveva dubbi. I tratti del volto, i capelli di un biondo chiaro, così diverso dal suo castano ramato. 
La scossa che percepì al cuore quando si voltò a osservarlo, le confermò ogni minimo dubbio. Si trattava dello stesso bambino, ne era sicura. 

Lo guardò negli occhi con un peso maggiore sulle spalle, la tensione di un pensiero che aveva ogni giorno e che non si era mai allontanato del tutto. 
Le iridi erano chiare, del colore del mare. 
Aveva gli occhi di lei. 
Esclusivamente gli occhi di lei.

Ai sospirò, invasa da un'enorme sensazione di sollievo.
Nel suo bambino non vi era traccia degli occhi glaciali che le riempivano gli incubi ogni notte.
Quegli occhi.
Suo figlio non gli assomigliava, non aveva niente di quel criminale. 
«Ai, tutto bene?». 
Si voltò appena verso Shinichi, senza smettere di fissare i due. Il detective la osservò accigliato e spaesato, senza comprendere. 
«Dai, piccolo. Andiamo? Papà ci aspetta». 
La dolcezza nel tono di voce di quella donna la fece sorridere malinconicamente, mentre vedeva il piccolo sollevare lo sguardo e annuire.
«Sì, mamma». 
Un'altra fitta al cuore, il peso in gola continuava a stringere. 
«Ai?». 
Shinichi si spostò davanti a lei nel vano tentativo di avere la sua attenzione, poiché l'amica non dava cenno di sentirlo. 

Lo sguardo di quest'ultima continuava a fissarli, mentre si voltavano riprendendo a camminare. 
Stava bene, adesso lo sapeva. Avrebbe sempre fatto parte di una famiglia che lo amava, alla luce, lontano dall'oscurità dal quale lei stessa era fuggita. Di colpo, una nuova sensazione si fece largo in sé. Una nuova spinta per continuare a lottare, soprattutto per ciò che aveva messo al mondo e che doveva proteggere a ogni costo. Nonostante la situazione, nonostante le paure. L'oscurità era lontana e il suo bambino era felice. 

Mise una mano nella tasca dei pantaloncini, stringendo tra le dita la foto dalla quale non era ancora stata in grado di separarsi. Quel gesto le trasmise di colpo la forza della quale aveva sempre avuto bisogno e che credeva si fosse assopita anni prima. 
«Sì» disse appena senza voltare lo sguardo e senza perdere il sorriso, ora colmo di una nuova certezza. «Va tutto bene». 






*****************



Note dell'autrice
Bene... non ho idea del modo in cui mi sia venuta fuori questa oneshot, ve lo giuro. Cioè, ho recentemente fatto un sogno simile e ho unito questo al tema del contest nel quale sono iscritta ("Foto ricordo"), et voilà. Probabilmente la prima idea me l'avete data voi in "Broken", quando per Shiho era finita in modo diverso e qualcuno mi aveva detto "Chissà se invece... ". Ecco, è colpa vostra, mi avete istigato voi. xD scherzi a parte, trovo di averla scritta anche in un modo particolare rispetto al mio stile, così, dal nulla. Okay, detto questo - sì, sono preoccupata, si vede - spero abbiate capito (per chi lo ha visto) che la prima parte della fanfic si svolge durante l'epilogo dello special "La scomparsa di Conan Edogawa - I due giorni peggiori della storia" che comunque non è necessario aver visto per capirne la trama. Non posso raccontarvela per ragioni di spoiler - credo - però fatelo perché secondo me ne vale la pena. :D
Ci tengo a ringraziare chiunque abbia voglia di leggere e recensire, ma anche quei lettori silenziosi che però mi aggiungono tra i preferiti. :) fa sempre tanto piacere!
Ile
  
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