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Autore: Ink_    11/09/2018    1 recensioni
1996, Richmond, da qualche parte in America.
Dal testo:
«Resteremo qui per sempre?». Non gli ha detto nulla e John ha smesso di parlare con il suo secondogenito da un pezzo, eppure ha la sensazione che Sammy sappia che il tempo è quasi scaduto, che nel giro di settimane John tornerà dalla caccia e gli urlerà di preparare le sacche, perché ormai ha sterminato tutto quello che poteva nuocere all’umanità nel raggio dei tre stati confinanti ed è ora di spostarsi.
Sam siede sul cofano di una Chrysler più vecchia di lui, il libro di storia aperto sulla gambe incrociate e un ginocchio dinoccolato che spunta dallo strappo nei jeans, al suo fianco una bottiglietta di Cola galleggia a qualche centimetro dal cofano dell’auto. Dean abbandona a terra la chiave inglese e allunga il braccio per premere due dita sul tappo dalla Coca Cola e ripristinare la forza di gravità che in presenza di Sam sembra fare occasionalmente cilecca.
«Sì. Noi non ce ne andiamo».

{dark!Sam, dark!Dean}
Genere: Angst, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Dean Winchester, John Winchester, Nuovo personaggio, Sam Winchester
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Incest, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Prima dell'inizio
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Note: quest'opera di fantasia presenta alcune tematiche "delicate" come specificato nelle avvertenze. A mio avviso il contentuo è a rating "giallo", acceto volentieri suggerimenti cortesi per cambiarlo. Per chi volesse dettagli più puntuali su quali siano questi temi, così da non trovarsi in codizioni di disagio, può scendere fino alla fine della storia, dopo le note post fanfiction. Chiaramente la lettura delle avvertenze è sinonimo di spoilers. Ci tengo comunque a precisare che nessuna delle tematiche è trattata in modo esplicito/dettagliato, anzi alcune sono appenna accennate. Ma è pur sempre una storia dark ;) Buona lettura  



“you are something unholy inside of me. 

something monstrous. 

something great.”
 
—[ bezalel ] aliya g. 

 
 
Where the weeds decay
 
 
 1983.
 Sono chiusi in quella camera d’albergo da cinque giorni e Dean si sente come uno di quei bambini che si vedono alla televisione: rapiti dalle loro case e tenuti nascosti da qualche parte da qualcuno a cui non importa quanto piangano o quante volte gridino che vogliono la mamma.

Ma Dean non grida, se ne sta seduto sul pavimento a gambe incrociate, con indossi i vestiti datogli dalla signora con l’uniforme. Bussa alla porta della loro stanza ogni tre giorni per portare abiti puliti e da mangiare, poi se ne va.

Dean continua a chiedere dove sia la mamma, lo fa ogni giorno quando si sveglia e ogni notte prima di addormentarsi, ma suo padre continua a non rispondere. Lascia la camera ogni due giorni per una manciata di minuti dopo aver raccolto in una scatola tutte le bottiglie vuote sparse per la stanza e torna con una scatola identica ma più pesante.

Dean incrocia le gambe nell’altro senso perché si stanno indolenzendo. Gli viene il dubbio che forse quando chiede della mamma lo faccia con voce troppo flebile, forse John non lo sente, ecco perché non risponde. Glielo chiede di nuovo, a voce un po’ più alta ma i risultato è sempre lo stesso: il volto di suo padre rimane impassibile, lo sguardo fisso sulla tv spenta e una bottiglia di vetro marrone nella mano destra. Continua a  porgli la stessa domanda (Dov’è la mamma?) alzando ogni volta la voce finché non si ritrova a gridare.

John si alza dalla poltrona con uno scatto che gli ricorda quel giocattolo a molla di cui Sammy ha tanta paura; la bottiglia gli cade dalla mano. Una macchia scura e schiumosa si allarga sulla moquette e suo padre comincia a gridare con la voce rauca di chi non parla da giorni, urla che la mamma è morta, che non tornerà mai più e che è tutta colpa sua.

Sammy si sveglia e comincia a gridare anche lui, singhiozza e agita i piccoli pugni. John scatta verso il letto e per un momento Dean è assolutamente terrorizzato dall’idea che quell’uomo si avvicini a suo fratello, anche se non ne comprende il motivo. Suo padre si avvicina al neonato e sposta i cuscini con cui lo aveva circondato perché non cadesse, poi lo solleva e se lo porta al petto, la testolina scura appoggiata all’incavo della spalla. Sammy continua a gridare mentre le lacrime gli scorono sul viso paonazzo. John afferra una bottiglia dal comodino, torna sedersi sulla poltrona e comincia a piangere.

Dean è rimasto seduto sul pavimento per tutto il tempo e non ha le energie per muoversi, perciò resta lì e comincia a riflettere: non sa esattamente cosa implichi la parola “morta” e anche se capisce cosa significa che “non tornerà” non è certo di comprendere appieno quel “mai più”. Non sa nemmeno di chi sia la colpa, se John parlasse di lui o se si riferisse a se stesso.

Mentre formula quest’ultimo pensiero è colto da una strana sensazione alla bocca dello stomaco, perché in nessun modo potrebbe essere colpa sua. Sua padre gli ha messo Sammy tra le braccia e gli ha detto di correre e nonostante  non stesse davvero capendo ciò che stava accadendo aveva obbedito, si era lanciato giù per le scale stringendo forte quel fagottino urlante e non lo aveva lasciato nemmeno quando i pompieri lo avevano accerchiato e allontanato dalla casa in fiamme. Lui non ha fatto nulla di sbagliato, anzi, è quasi certo di aver salvato la vita di Sammy perché lui non sapeva ancora camminare e non avrebbe mai potuto farcela da solo. No, lui ha bisogno di Dean.

Solleva lo sguardo lentamente, puntandolo prima sulla macchia che impregna lo moquette, lì dove la bottiglia si è rovesciata e poi su suo padre, il volto rigato di lacrime e arrossato come quello di Sammy.

C’è qualcosa di tremendamente sbagliato in quell’immagine, Dean lo sa perché quella sensazione alla bocca dello stomaco si fa più acuta, brucia

Osserva come il braccio sinistro di John sorregga Sam e come la mano destra stringa il collo della bottiglia ed è probabilmente quello il momento in cui Dean realizza che suo padre è una persona orribile.
 
 
1996.
Sam ha quasi tredici anni quando John “compra” quella vecchia casa a Richmond.

Ci devono essere almeno sette città in America con quel nome e Dean è piuttosto certo che siano tutte uguali, perciò non si da nemmeno pena di ricordare in quale Stato si trovino.

La casa apparteneva ad uno dei contatti di John, ma per il giusto mix di munizioni, informazioni e sangue di drago si può comprare di tutto. È piccola, isolata ma con una fermata dall’autobus proprio in fondo al vialetto, alberi e cespugli incolti crescono nel giardino, due camere da letto, un bagno con una vasca (una vera vasca da bagno) e un seminterrato che da i brividi.

Sam è già iscritto alla scuola locale mentre Dean ha deciso che non ne vale più la pena e dopotutto l’officina giù in città ha bisogno di manodopera.

 John va e viene, a volte sta via per un paio di settimane  e torna senza un graffio, talvolta rientra dopo tre giorni nel cuore della notte  cercando di non far cadere le budella sul pavimento.
 
 
 1996.
Sam ha tredici anni e qualche amico con cui festeggiare.

Ha qualcosa di strano nello sguardo, una scintilla che non abbandona mai i suoi occhi, ma che Dean riesce ad intravedere soltanto quando Sam lo guarda attraverso le ciglia e quei capelli che stanno diventando troppo lunghi.

«Resteremo qui per sempre?». Glielo chiede un pomeriggio all’officina dove Dean è stato da poco promosso da garzone del garzone a garzone di prima categoria, con un aumento della paga dello zero percento. Quella luce inquieta non gli ha ancora abbandonato lo sguardo e Dean ha la sensazione che Sammy sappia.

Lui non gli ha detto nulla e John ha smesso di parlare con il suo secondogenito da un pezzo, eppure ha la sensazione che Sammy sappia che il tempo è quasi scaduto, che nel giro di settimane John tornerà dalla caccia e gli urlerà di preparare le sacche, perché ormai ha sterminato tutto quello che poteva nuocere all’umanità nel raggio dei tre stati confinanti ed è ora di spostarsi.

Sam siede sul cofano di una Chrysler più vecchia di lui, il libro di storia aperto sulla gambe incrociate e un  ginocchio dinoccolato che spunta dallo strappo nei jeans, al suo fianco una bottiglietta di Cola galleggia a qualche centimetro dal cofano dell’auto.  Dean abbandona a terra la chiave inglese e allunga il braccio per premere due dita sul tappo dalla Coca Cola e ripristinare la forza di gravità che in presenza di Sam sembra fare occasionalmente cilecca.   

Sammy è felice lì, a Richmond, in quella casa che quando tira vento geme più della cameriera del diner in fondo alla strada, in quella scuola dove tutti si conoscono da quanto erano lattanti ma che lo ha accettato comunque perché, dopotutto, chi non si innamora di Sam quando distende le labbra in uno dei suoi rari sorrisi? Dean è stato il primo a cadere nella trappola. La mosca e il miele.

Se il suo fratellino è felice in quella città che è la copia di una copia, allora Dean non potrebbe desiderare di vivere in nessun altro posto.

«Sì. Noi non  ce ne andiamo».

Sam solleva gli angoli della bocca e Dean si sente annegare, anche se i suoi occhi sono freddi e il sorriso e tutto denti.

 
 1996.
Dean scandaglia i giornali di sei stati differenti  alla ricerca di qualcosa che possa evitare la tempesta.

Finalmente trova una pista nelle paludi della Louisiana . John sale in macchina, gli lancia un’occhiata torva e mette in moto.

«Due settimane Dean».

«Sì signore».  

Si sente tremendamente calmo.
 
 1996.

John torna imbrattato di fango e con segni di morsi che potrebbero appartenere solo a qualcosa con una mandibola estremamente snodabile.

Sammy è sempre più irrequieto, le spalle curve sotto il peso della tensione che si addensa nell’aria ogni volta che padre e figlio si trovano nella stessa stanza. Smette persino di parlare con Dean.

La sera del 4 luglio il cielo passa dal rosso al bianco al blu e il cuore di Dean batte a ritmo. Sam è fuori sulla veranda ad osservare le stelle cambiare colore e John lo aspetta nel seminterrato, la portiera spalancata e la chiave nel quadro, tre sacche stipate nel bagagliaio. Dean riesce ancora a sentire gli scoppi dei fuochi d’artificio.

Boom.

Boom.

Boom – bamm.

Boom.

Boom.

La scatola è nascosta nel sottoscala, Dean la pulisce dalla polvere e torna al piano di sopra. Sammy non si è mosso e lo guarda con occhi  rossi, bianchi, blu.

«Ha trovato un’altra caccia. Starà via per un po’» e agita il contenuto della scatola, sorridendo.

Sam ricambia con denti e fossette e per un attimo è come se lo rivedesse per la prima volta.
 

  1996.

Le foglie cominciano a staccarsi dagli alberi e tutta Richmond sembra ricoperta di una coperta di gialli, arancioni e rossi.

Sammy è seduto sul pavimento della veranda, di fronte ad una delle due sedie che hanno sistemato fuori per godersi la brezza delle serate estive.

«Non tornerà, vero?» il suo sguardo rimane concentrato sugli alberi morenti, ma Dean non ha bisogno di guardarlo per sapere che i suoi occhi sono animati da quella scintilla, forse perché ultimamente l’ha vista riflessa nei suoi stessi occhi.

Protende la mano e gli accarezza la nuca, scendendo giù fino a quella porzione di pelle visibile tra il colletto della felpa e i capelli che Sam si rifiuta di tagliare. Gli sfiora il collo con leggerezza, un insetto che cammina sulla pelle, che non causa prurito ma brividi che percorrono la colonna vertebrale di Sam fino al bacino.  

L’aria si fa più fredda con il passare dei giorni, il che è una fortuna perché nelle giornate più calde il tanfo che aleggia nella casa è irrespirabile.

Risponde alla sua domanda, anche se non c’è ne davvero bisogno: «No, Sammy».

 
 
1996.
Dean ha soltanto tre regole e Sam fa del suo meglio per rispettarle.

Non metterti nei guai.

Niente ragazze o ragazzi.

Non scendere nello scantinato.
 

1998.
 
Sam ha quindici anni e gli amici che aveva a scuola si sono dimenticati di lui.

Non parla quasi mai in classe e quando lo fa è per dire qualcosa di intelligente. Per la maggior parte dei suoi compagni è trasparente come l’aria, ma per qualcun altro è solo strambo. William Hobbes – Billy per la nonna che va a visitare ogni giorno dopo la scuola e Ace per i ragazzini che terrorizza prima delle lezioni – è uno di quelli.

Sam sta attraversando il campo da football per raggiungere l’officina il giorno che Ace urla il suo nome. Lo ignora e continua a tagliare per il campo, ma il ragazzo gli corre dietro, afferra il suo zaino tirandolo verso di sé e gli fa perdere l’equilibrio.

Ace comincia a ridere guardando con aria sprezzante il ragazzino supino sull’erba. «Allora stramboide, com’è che mammina non ti taglia mai i capelli, uhm? Fammi indovinare, non avete nemmeno i soldi per permettervi un paio di forbici? È per questo che porti vestiti due volte più grossi di te? Eh?».

Afferra una ciocca dei suoi capelli tirandola per farlo alzare e lui obbedisce in silenzio. Ace è due spanne più alto di lui, ma si sente rimpicciolire quando Sam si rimette in piedi e lo guarda negli occhi: ha un sorriso sul volto che non si può nemmeno definire tale, tutto denti e fossette e il suo sguardo è di un colore indefinito tra il verde, il castano e il dorato. Ed è dannatamente vuoto.

Il pugno di Sam lo colpisce dritto sul naso e il suono secco di qualcosa che si rompe è seguito dall’odore metallico del sangue. Ace è troppo sconvolto di come la situazione di sia ribaltata per poter reagire; sta ancora stringendo i capelli di Sam tra le dita quando il ginocchio del ragazzo si scontra con il suo stomaco, allora lascia andare la presa e si accovaccia per contenere il dolore, le braccia che vanno a stringere il ventre. Sam gli lascia una frazione di secondo per alzare lo sguardo e lo colpisce di nuovo, mirando alla bocca.

Ace cade all’indietro e si ritrova nella stessa posizione di Sam poco prima, cerca di dire qualcosa ma il ragazzo porta indietro il piede e la sua sneaker consumata si abbatte sulle sue costole, una due tre quattro cinque sei volte. Perso il conto, tutto ciò che riesce a fare è ascoltare la sinfonia  che si leva dalla sua gabbia toracica ogni volta che l’osso si incrina e i gemiti che gli scappano dalle labbra spaccate. Il sangue che gli cola dal naso si mischia con quello proveniente dalla ferita sul labbro.

Respirare sta diventando sempre più difficile, ma non riesce a reagire. La vista si sta facendo un po’ offuscata ma l’espressione sul volto di Sam è nitida:  il sorriso agghiacciante e gli occhi che sembrano luccicare con qualcosa di tremendamente vivo, mentre i capelli che si agitano selvaggiamente e gli ricoprono parte del viso. E poi si ferma.

Si ferma e si china, le mani sulle ginocchia come se dovesse riprendere fiato dopo una corsa, le spalle cominciano a tremolare ed emette un suono che Ace non aveva mai sentito provenire da lui: una risata. Solleva di scatto la testa e i capelli gli calano sugli occhi come un sipario, non c’è traccia di ilarità sul suo volto, solo le pupille eccessivamente dilatate  e le nocche sporche del suo sangue che va seccandosi.

«Provaci ancora» pronuncia quelle parole con la freddezza di una condanna a morte e Ace, in un lapsus di lucidità, si rende conto che è la prima volta in settimane che lo sente aprire bocca, poi Sam completa la frase e lui desidera  che avesse continuato con la sua pratica del silenzio «E ti spezzo quelle due o tre costole che ti sono rimaste intatte».  

Il ragazzo continua a puntare i gli occhi nei suoi e il suo sguardo è così intenso che desidera abbassare le palpebre per sfuggirgli, ma non ci riesce. Non per codardia, non per paura e non per dolore: il suo corpo non risponde ai suoi comandi e improvvisamente anche respirare passa dallo straziante all’impossibile. Sente l’aria uscirgli lentamente dalle narici ma non riesce ad inalare. Pensa che sia a causa del naso rotto e tenta di inspirare con la bocca, ma l’aria che gli alleggia sulla lingua si rifiuta di scendere per la trachea.

Sam lo guarda con un’espressione tra il divertito e il curioso, mentre una singola goccia di sangue si fa strada dalla sua narice destra al labro superiore. Con un rapido movimento della lingua cancella ogni taccia del suo passaggio.

Dagli spalti proviene un applauso, Sam si volta e l’ossigeno che torna a fluire nel corpo di Ace è un pugno dritto ai polmoni. C’è una ragazza là seduta che li guarda con lo stesso interesse che di solito le ragazze riservano alle partite. Sam si irrigidisce impercettibilmente.

«Hai visto qualcosa, per caso?» la sua voce è gelida quanto i suoi occhi ed Ace ha la sensazione che i pezzi di Elizabeth Calvin verranno ritrovati  in un fosso.

«Sì ed è stato molto istruttivo» risponde la ragazza alzando il pollice «Hai fatto bene, quello stronzo se lo meritava».

Sam la studia per un momento per capire a che gioco stia giocando «Quanto costa il tuo silenzio?» le chiede infine.
Elizabeth Calvin ci pensa per un momento.  «Diciamo un frullato alla ciliegia».
 

1998.
 
 A Dean piace il suo lavoro all’officina ma la paga non è delle migliori e lui e Sammy hanno bisogno di mangiare.

Ha provato a chiedere un aumento a Beau, il proprietario, ma la risposta è stata un bonario “Niente da fare ragazzo. Lavori sodo e mi piaci, ma sei qui da appena un paio d’anni, se ti do una mano oggi domani ti prendi tutto il braccio”.

Dean cerca di spiegargli qual è la situazione, di come suo padre sia sempre fuori città per lavoro e di come mandi un po’ di soldi ogni mese, ma di come lui debba occuparsi del suo fratellino e tu lo sai Beau, quanto mangino gli adolescenti.

Una persona qualunque avrebbe probabilmente chiamato un assistente sociale sapendo che il ragazzo appena maggiorenne che lavorava per lui viveva da solo e che doveva sfamare un minore, ma Richmond è una piccola città e benché i pettegolezzi valgano più dell’oro  a nessuno importa realmente qualcosa.

Dopo settimane di tentativi Dean lascia perdere, ma se c’è qualcosa in cui John Winchester non ha fallito come padre, quello è insegnare ai suoi figli a cavarsela da soli.

 
1998.

Elizabeth Calvin si fa chiamare Izzy,  fuma sigarette ai chiodi di garofano ed è appassionata di medicina forense.

Sam si siede volontariamente accanto a lei a biologia, letteratura inglese e a pranzo ed è la cosa più vicina ad un’amicizia che abbia mai sperimentato nell’ultimo anno. Izzy passa dalla quiete alla logorrea in tre secondi netti, ma al ragazzo non dispiace che riempia tutti i suoi silenzi con chiacchiere inutili.  

Racconta  di lei con un tono quasi entusiasta una sera mentre Dean griglia i sandwich al formaggio; suo fratello si dice davvero felice che Sam abbia finalmente stretto nuove amicizie ma la sua postura rigida suggerisce il contrario. Quando gli chiede spiegazioni Dean si volta con un sorriso smagliante e gli strizza l’occhio: «Cerca di non dimenticare la regola numero due fratellino, non tirare giù le mutandine a nessuno». Sam scoppia a ridere.

Quasi ogni giorno dopo la scuola si recano al diner non lontano dall’officina di Dean per un milkshake, ne ordinano uno maxi con due cannucce perché Sam non ha soldi da buttare e Izzy ha una paghetta settimanale di  dieci dollari. Non c’è niente di romantico  dietro a quel frullato di latte e gelato all’amarena (il gusto preferito di Izzy) o banana e burro d’arachidi (Sam) perciò la cameriera dovrebbe piantarla di guardarli come se fossero la coppietta anni ’50 dei suoi sogni.

 Izzy fa un sacco di domande, ma non le solite del tipo “Che lavoro fanno i tuoi genitori?” “Dove andrai al college?” “Hai visto la partita ieri?”; le sue sono curiosità insolite come Qual è il colore che detesti di più?, Come ti sei procurato la tua prima cicatrice? oppure Secondo te, quanti cadaveri ci sono nell’oceano?  perciò a Sam non dispiace rispondere. 

Un giovedì la cameriera arriva al tavolo con il frullato all’amarena (il giovedì tocca ad Izzy scegliere) in bilico sul vassoio proprio mentre Sam sta mostrando alla ragazza la sua prima cicatrice: è una linea pallida sul palmo destro che si confonde tra le pieghe naturali della mano e quando lei gli chiede come se la sia procurata Sam risponde “un cane”  anche se pensa “licantropo”. Ad ogni modo la cameriera non vede che due ragazzini che si tengono per mano e quando gli porta il resto notano che Izzy ha pagato il frullato la metà.

«Non per complicare le cose tra noi Sam, ma penso che se provassi a baciarmi potremmo avere milkshakes gratis per un anno».

 
1998.
Dean ha diciannove anni e il conducente del bus 73 è fermamente convinto che abbia una ragazza.

La città più vicina dista soltanto cinque minuti, ma non avendo una macchina deve ripiegare sull’autobus. La rete di trasporti di Richmond è fin troppo puntuale ma procede con una lentezza esasperante.  Dean prepara la cena, mangia e tre volte a settimana si fa trovare davanti alla fermata in fondo al vialetto; saluta con un cenno dl capo il conducente – Archie recita la targhetta appuntata sul petto – e va a sedersi in fondo all’autobus, dove si trova chi non vuole essere disturbato, i piantagrane e i disperati. O chi come Dean è un pacchetto completo.

Dopo tre settimane Archie comincia a vedere uno schema. Dean prende il 73 tre volte la settimana – martedì, venerdì e sabato – e non manca mai un giorno; sale alle otto e si fa trovare all’una per prendere l’ultima corsa che lo riporta in città. È ovvio che i genitori della ragazza siano fuori casa in quel lasso di tempo o che quello sia il suo coprifuoco. 

E poi quando torna può notare come i suoi capelli siano sempre leggermente spettinati, come se avesse cercato di rimetterli in ordine in fretta e furia e le sue labbra – labbra da donnicciola, avrebbe detto suo padre – sono sempre lucide e leggermente gonfie. I segni sono tutti lì.

Una notte, quando sull’autobus non ci sono che lui e i ragazzo, decide di indagare per confermare i suoi sospetti: «Dovresti comprarti una macchina figliolo, alla ragazze piacciono i tipi a quattro ruote. E lo dico contro il mio interesse». Gli strizza l’occhio nello specchietto retrovisore mentre le parole rimbalzano sui sedili vuoti.

«E’ per quello che sto lavorando» gli risponde il ragazzo piegando gli angoli della bocca in un ghigno.

Il locale vicino a cui lavora si chiama John’s, la città Hope e Dean non può che apprezzare l’ironia della cosa. 
 

1999.
Sam ha sedici anni e non è un’idiota.

È seduto sul divano con le gambe di Izzy in grembo e una ciotola di patatine mentre riguardano un documentario datato sulle origini della medicina forense. Ma la ragazza non sta prestando alcuna attenzione al rigor mortis – la sua parte preferita – invece prende una patatina per volta, la stringe nel pugno fino a sbriciolarla e lascia cadere i pezzi nella ciotola.

Una piccola parte di Sam gli suggerisce che dopo un anno di solida amicizia dovrebbe chiederle cosa c’è che non va, la parte dominante invece  vorrebbe soltanto che la piantasse di rompere le patatine – e le palle – e l’unico modo è inevitabilmente chiederle cosa la disturbi.

Guarda il telecomando abbandonato sul bordo dl tavolino, nella stessa precaria posizione di quando la ragazza ce l’ha lanciato, poi con un sospiro concentra lo sguardo sullo schermo e la tv si spegne con un ronzio; Izzy sposta lo sguardo ignaro dalla ciotola al suo viso, ma non smette di sbriciolare. Sam piega la testa di lato, ma non le chiede “cosa c’è che non va” cerca invece di parafrase la domanda per seguire le regole del gioco: «Cos’è che al momento non fa schifo nella tua vita?».

Izzy sorride leggermente «Be’… la mia paghetta settimanale ha subito un aumento di ben due dollari e ho comprato un nuovo libro sulla medicina legale» . Tutte cose che gli ha già detto, perciò Sam tenta un altro approccio per farla smettere.

«Cos’è che non vorresti  facesse così schifo nella tua vita?». Finalmente – finalmente – Izzy lascia cadere la patatina nella ciotola, intatta.
«Mancano pochi mesi al nuovo millennio e io sono ancora vergine». Sam emette una risata che è più uno sbuffo e la ragazza affila lo sguardo «A giudicare dalla tua reazione pare che tu non soffra di simili problemi», suona come un’accusa e il ragazzo di limita a scrollare le spalle nascondendo un sorriso perché Izzy  non hai idea.

«Secondo te come funziona l’amore?» cambiare brutalmente discorso è un’abitudine di Izzy, parlare d’amore non è decisamente da lei. Sam lascia che prosegua per capire quale imprevedibile piega abbiano preso i suoi pensieri. «Come funziona quando ami qualcuno?».

L’ultima domanda, dal tono basso e meditabondo, pare retorica ma Sam non avrebbe comunque risposto perché descrivere qualcosa con cui si è convissuti tutta la vita è impossibile, quasi come sentire la mancanza di qualcosa che non si ha mai avuto. Una madre e un padre, ad esempio.

Izzy aggrotta le sopracciglia e sospira: «Immagino che capirò come funzionano davvero e persone solo quando potrò aprirne una».

Sam sorride perché se Izzy lo aprisse forse non troverebbe altro che un’oscurità densa come catrame e il nome di Dean inciso nelle ossa.

«Pensavo che tu e Jackson Maitland vi foste dati da fare» commenta.

«Tsk. Io mi sono dovuta dare da fare».

È martedì sera e Dean è a lavoro. Quando gli ha detto di aver trovato lavoro in un bar di Hope Sam ci ha creduto, almeno finché suo fratello non è rincasato la sera stessa all’una e tredici, la tasca dei pantaloni appesantita da qualche banconota stropicciata e l’odore di qualcun altro così impresso sulla pelle da dargli il volta stomaco. Sam si rifiuterebbe di stargli accanto quelle notti se non fosse Dean il primo a tenere le distanze, quasi temesse di contaminarlo.

Ogni volta che suo fratello menziona la regola numero due vorrebbe ridergli in faccia e ricordargli che razza di ipocrita sia, ma si limita a pensarlo sorridendo. Forse è il momento di pareggiare i conti.

Izzy lo sta ancora osservando, un sopracciglio leggermente alzato in attesa che di una sua risposta.

«E’ un problema che si può risolvere facilmente». Si sporge lentamente verso di lei e inclina la testa, i capelli gli accarezzano il collo mentre gli cadono sulla spalla.

La ragazza pare  pensarci per un istante e Sam si prepara mentalmente all’eventualità di uno schiaffo, della fine della loro amicizia o peggio, di un bacio. Lei scrollale spalle: «Via il dente, via il dolore».

L’incapacità di Izzy di provare stupore ha un che di sorprendente e Sam ride fra sé e sé mentre per la prima volta la conduce nella stanza da letto sua e di Dean; probabilmente quella ragazza potrebbe avere la stessa impassibile reazione anche davanti ad un cadavere. Anche quello è un dilemma che si potrebbe risolvere facilmente, un’ipotesi che come verifica richiederebbe solo l’apertura di una porta e la discesa di qualche scalino.

Dean ha detto “non tirare giù le mutandine  a nessuno” e Sam non è un’ipocrita. Si limita a spostare a lato l’intimo di Izzy e a pensare che un giorno potrebbe diventare un ottimo avvocato.

 
1999.
Sam ha sedici anni e cresce come un’erbaccia.

La notte giace nel letto immobile, gli occhi fissi nel buio mentre le ossa scricchiolano e i muscoli si tendono per occupare tutto lo spazio. 

Dean gli prepara bagni caldi anche nel cuore della notte, quando Sam si sente come le illustrazioni di quel libro che gli ha mostrato Izzy – quello sulle torture medievali, dove  la gente veniva tirata per gli arti fino a sfilacciarsi, dislocarsi, lacerarsi.

Sam si rannicchia nella vasca che lo contiene a stento, immerso fino alle labbra, gli occhi gialli a pelo dall’acqua come un coccodrillo, mentre Dean gli accarezza i capelli che si agitano come alghe. Canticchia Whole Lotta Love a labbra serrate e per Sam è un confortevole mormorio, la cosa più simile ad una ninna nanna che abbi mai sperimentato. Dean continua la sua litania anche quando una fitta particolarmente dolorosa coglie Sam di sorpresa e le lampadine ch ornano lo specchio vanno in frantumi, lasciandoli avvolti da un’oscurità che odora di zolfo.

 
1999.
 
Sam è in fondo al cortile, a qualche passo dal confine della loro proprietà e dall’intatta buca delle lettere.

Dean gli si avvicina lentamente, attento a non far rumore perché Sammy non perda la concentrazione. Lo guarda lanciare in aria manciate di sassolini e benché la maggior parte finisca al suolo, alcuni rimangono a mezz’aria, inchiodati dal suo sguardo aureo. Sam trae un profondo respiro e le pietre sciamano dentro la cassetta delle lettere con una forza talee da farla inclinare all’indietro. Soddisfatto, Sam si lascia scivolare lungo il tronco dell’olmo fino a terra.

«È bello essere liberi» mormora.

Dean aveva capito molto in fretta che in Sammy c’era qualcosa di speciale. Non speciale come in quei bambini prodigio della musica o dei numeri , qualcosa  di profondo, di radicato, di sacro. Glielo avevano suggerito gli oggetti che sembravano cambiare posto da soli, la tv che si accendeva e spegneva quando Sammy batteva le manine paffute e le bottiglie di whiskey che volavano per la stanza per fracassarsi contro il muro quando era arrabbiato. Ma Sammy rimaneva comunque un bravo bambino, piangeva poco o niente, dormiva quasi tutta la notte e non aveva timore del mostro sotto al letto.

Dean aveva sette anni e mezzo quando si rese orribilmente conto che il suo fratellino era in pericolo. Se John  avesse scoperto che cosa era in grado di fare ne avrebbe inevitabilmente approfittato, avrebbe portato Sammy a caccia prima del tempo, lo avrebbe usato, come uno scudo, come un’arma per vincere quella sua assurda crociata. Quale dono migliore per un uomo che viveva di troppo alcool e non abbastanza rimpianti?

Nascondere il dono di Sammy nel tempo fu più facile di quanto Dean si aspettasse. Dopotutto John era poco più che un fantasma nella loro vite, indesiderato ed irritante quando si manifestava, uno spiacevole ricordo quando se ne andava. I suoi sguardi oscillavano tra pagine di giornali e il vuoto. Tutte quelle piccole anomalie potevano passare inosservate e se le telecamere del 7/11 andavano in cortocircuito ogni volta che i Winchester erano a corto di carte di credito, allora era semplice sfortuna.

Ma ora che John è fuori dai piedi non c’è più bisogno di nascondersi.

Dean si lascia cadere con malagrazia accanto a Sam e, accigliato, raccoglie con il pollice la goccia di sangue che gli cola dal naso: prontamente la lingua di Sam guizza sfiorandogli il polpastrello. Il suo labbro superiore si tinge di rosso.

« Ti sforzi troppo» lo rimprovera. Il ragazzino risponde con una scrollata di spalle «Mi sto allenando». E prima che Dean possa indagare più a fondo Sam nota la giacca di pelle che ha indosso.

«Ma guarda … chi non muore si rivede». Accarezza una manica di pelle con delicatezza, quasi potesse dissolversi sotto le sue dita. Dean alza le spalle a sua volta.

«La considero parte dell’eredità».

«Pensavo che l’eredità dovesse essere consensuale».

«I morti non possono di no» replica asciutto Dean e Sam scoppia a ridere, poi mormora alcune parole: «Era un brav’uomo, un bravo cacciatore».  Il ragazzo si volta di scatto, l’incredulità malcelata in volto. Cerca di ricomporsi. Aveva passato giorni a lavare via l’odore di alcool e decomposizione dalla pelle.

«Era un pessimo padre» replica a denti stretti. Sam scuote la testa, i capelli si sparpagliano sul viso e sul petto.

«Immagino che non si possa avere tutto dalla vita». Ma si sbaglia. Dean è la dimostrazione che si può avere tutto ciò che si desidera e anche di più.


 
1999.
Dean ha vent’anni  e Beau gli regala una macchina.

Quella Chrysler prende polvere in un angolo dell’officina da prima che lui arrivasse, è in pessimo stato e Dean deve pagare a Beau i pezzi, ma è comunque un regalo. E il suo lavoretto rende bene: le tasse scolastiche di Sammy sono pagate e la dispensa è piena.

È giovedì sera quando Dean rientra, le stanze buie e silenziose, nessuna nota sul tavolo perciò Sam non è passato a casa. Alle otto e ventitré una chiave gira nella toppa e la porta si apre, Sam entra in cucina con passo leggero , fa strisciare rumorosamente una sedia sul pavimento e si accomoda al tavolo della cucina.

Dean non ha sentito il tonfo dello zaino di Sam colpire il tappeto dell’ingresso e la cosa lo insospettisce vagamente. Smette di tagliare le verdure e posa il coltello sul taglire, si gira verso il tavolo per salutare il fratello e nota una serie di dettagli fuori posto in un climax che va di pari passo con la bile che gli sta salendo dallo stomaco.

Lo zaino non si vede da nessuna parte, probabilmente Sam non ha messo piede a scuola quella mattina e i suoi capelli sono più selvaggi del solito, le labbra lucide e gonfie piegate in un ghigno. Il colletto della t-shirt scurito in certi punti dalla forma tondeggiante. Dean lo guarda dritto negli occhi – le pupille così dilatate che il verde-blu e oro dell’iride si riconoscono appena e quando Sam abbassa lo sguardo sul tavolo lui lo segue. Sulla tovaglia ingiallita, almeno cinque pezzi da cinquanta. Indietreggia di un passo fino a toccare il lavandino  e l’unica cosa che riesce a chiedersi è “perché?”.

«Vedi Dean, la gente davvero disperata se ne va in giro ad ogni ora del giorno, non solo tra le otto e l’una». Il suo tono di voce è gelido e non vi è traccia di sentimento, solo una punta di crudeltà.  

«Ma temo che dovrai cercare dei nuovi clienti» mormora ancora, alzando le mani insanguinate dal grembo e poggiandole sul tavolo, macchiando le banconote. È un battito di ciglia, ma per un momento Dean riesce a  vedere Sam così come lo vedono tutti gli altri: un ragazzino con i capelli troppo lunghi e gli occhi troppo vuoti illuminati da un sinistro scintillio. Percepisce ciò che c’è di marcio dietro a quella maschera stoica e si domanda come John fosse stato così ceco da non capire che il male che temeva e  a cui dava la caccia sedeva nel sedile posteriore.

Ma Dean non ha affatto paura di lui e il sangue che gli imbratta le mani è una testimonianza superflua. Colma rapidamente la distanza che li separa e afferra Sam per una ciocca scura, tirandogli indietro la nuca e guardandolo fisso negli occhi: «Perché l’hai fatto? » il tono è pericoloso quanto il ragazzino che gli sta di fronte.

Sam emette una breve risata. «Potrei chiederti la stessa cosa» gli tira indietro il capo con maggior forza ma lui non sembra curarsene, se è possibile il suo ghigno si fa più ferino «Pensavi di tenermi all’oscuro di tutto, uhm?».

Dean avvicina il suo volto a quello del fratello, scandendo attentamente le parole «Ti ho chiesto perché l’hai fatto Sam». 

Inclina leggermente la testa – per quanto la presa di Dean sul suo scalpo glielo permetta – e scrolla le spalle: «Volevo mettere da parte un po’ di soldi per il college».
 

1999.

È ormai da un mese che Archie non scorta più il ragazzo dell’officina.

Il bus numero 73 non è molto gettonato, specialmente dopo il tramonto, ma era piacevole avere qualcuno con cui condividere il tragitto, anche se il ragazzo non gli aveva mai rivolto più di un cenno e qualche monosillabo. È evidente che abbia seguito il suo consiglio e si sia trovato una quattro ruote o forse la sua pittoresca fuga d’amore settimanale è giunta al termine.

 Mette la freccia a sinistra e si prepara a consumare i diciassette minuti di viaggio che lo separano dal capolinea. Al tredicesimo minuto di corsa passa davanti alla fermata cui era solito aspettare il suo sfortunato Romeo e lanciando un’occhiata fugace verso il vialetto nota due siluette scure sulla veranda, illuminate dalle luci della casa; una è sicuramente quel simpatico ragazzo, l’altra sembra avere capelli lunghi e una corporatura più esile: indubbiamente la ragazza da cui lo ha portato per mesi.

Sospira lanciando un’ultima occhiata attraverso lo specchietto. Il primo amore non si scorda mai.
 

 
2000.
Sam è seduto sulla veranda , nonostante l’aria gelida.

Dean non presta realmente attenzione ai fuochi d’artificio, un palmo a sorreggere il capo e l’altro a reggere una birra, osserva il profilo di Sam illuminarsi di giallo rosso verde e blu, porpora bianco e arancio e poi di nuovo da capo.  

«Quando hai detto che volevi mettere da parte dei soldi per il college … dicevi sul serio?» non è la domanda che gli soffoca il respiro da mesi ormai ma è quanto di più vicino alla verità che riesce a esprimere. Sam continua a rivolgere gli occhi al cielo, l’urgenza nella voce di Dean è palpabile e riconosce subito che è una domanda alla Izzy – Izzy  che adesso starò ballando a piedi nudi sul tavolino da caffè di qualcuno, una bottiglia di champagne in mano e il vestito di paillettes che ha comprato con lui. Lo ha invitato ovviamente, anche se non era la sua festa e prevedibilmente Sam ha rifiutato.  Non è roba per lui quella, è qualcosa che non ha mai desiderato. 

«Dicevi sul serio Sammy?» il tono di Dean si fa più urgente, spezzando il suo prolungato silenzio.

«No» mormora sinceramente, rispondendo alla vera domanda di Dean:  Mi abbandonerai? Si volta verso il fratello e legge sollievo misto a qualcosa di sinistro sul suo volto illuminato di blu «Non avrei altro posto dove andare» la luce sfuma nel bianco e Dean torna a sorridere.
Restano in silenzio, il capo di Sam appoggiato alla spalla del fratello.

 «Hai la macchina, perché non sei tu ad andartene?». Dean gli passa una mano tra i capelli, delicatamente, invitandolo a volgere il capo nella sua direzione. I suoi occhi riflettono  i movimenti del cielo illuminato, ma la scintilla dorata che li anima è immobile.

 «Non avrei altro posto in cui vorrei stare».
 

 
Fine.
 


 
***
Questa storia è nata da due bisogni primordiali: primo, una necessità viscerale di vedere Sam con i capelli lunghi, ma lunghi sul serio e in secondo luogo il mio desiderio di  scoprire come sarebbero andate le cose senza John tra i piedi. Forse sarebbero state meno tragiche, ma tutti noi abbiamo qualcosa di inquietante e violento dentro di noi e talvolta bisogna lasciare la cosa libera anche se al guinzaglio.

E poi la storia è nata mentre ero in Canada, nel giardino di una casa vittoriana presumibilmente infestata, con il vento che ululava e i corvi che gracchiavano. So che sembra ridicolo, ma non credo che toccherò livelli così alti di goth  mai più nella vita. Mi sembrava giusto conservare i sentimenti suscitatemi dal momento.

Hope e Richmond esistono realmente e sono cittadine canadesi che ho visitato e di cui ho preso in prestito il nome.

Per chi desiderasse warning più puntuali: incesto, omicidio, prostituzione, lieve bullismo, 
violenza. I primi tre non sono assolutamente grafici ma soltanto nominati/intuibili; il "bullismo" si tratta di qualche insulto e la "violenza" consiste in una scazzottata con un po' si sangue e costole rotte. 
Grazie per la lettura 
~Ink

 
   
 
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