Serie TV > Elisa di Rivombrosa
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Autore: wolfymozart    13/09/2018    2 recensioni
La storia tra Anna e Antonio sarà messa a dura prova da scottanti questioni sociali e drammatiche vicende private che si intrecceranno in un inestricabile garbuglio nel quale ritrovare il "filo rosso del destino" non sarà affatto facile.
Per questo sequel è stato necessario forzare un po’ i tempi dell’ambientazione per motivi di ordine storico, viceversa non sarebbe stato possibile far incontrare la Storia con la storia. Lo slittamento temporale consiste in un lasso di una decina d’anni. Mi auguro che chi leggerà mi vorrà perdonare.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna Ristori, Antonio Ceppi, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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-Tu sei pazzo, Antonio, tu sragioni! – sbottò dopo aver ascoltato la richiesta dell’amico, alzandosi in piedi e spalancando platealmente le braccia per poi abbandonarle lungo i fianchi. Come poteva pensare a una cosa del genere? Non riusciva proprio a comprenderlo, non riusciva a immaginare nemmeno lontanamente quali fossero le ragioni profonde che lo muovessero verso una tale decisione. Per lui, era soltanto un pazzo.

- Non mi vuoi aiutare, ho capito. Mi rivolgerò a qualcun altro, non voglio tediarti oltre. Va’ pure, torna alle tue carte, certamente sono più importanti di queste mie miserie. – lo invitò ad andarsene Antonio, finito che ebbe di tossire.

- Non si tratta di questo, lo sai benissimo. Ma non riesco a capire che cosa tu abbia in mente. Non ha alcun senso quello che hai intenzione di fare, te ne rendi conto? – scosse la testa spazientito e allo stesso tempo sorpreso da tanta ostinata determinazione.

- Sei tu che non ti rendi conto. E’ l’unica cosa che posso fare in questo momento, invece. – ribatté Antonio, lanciandogli uno sguardo perentorio da sotto in su.

- Ma, perdio, Antonio! Non puoi pensare di tenerle nascosto tutto, non puoi credere che sia disposta a partire senza di te! –

- Infatti ho bisogno del tuo aiuto, come ti ho spiegato. –

-Stai commettendo un grosso sbaglio, amico mio, non te lo perdonerà. Io, come ben sai, ho conosciuto moltissime donne, ma, ti giuro, nessuna mai è stata capace di amarmi come lei ama te. Lo ammetto, mi sono sbagliato sul suo conto, non è la nobildonna viziata che pensavo. Lei…lei non è come le altre. Ma, che stupido, non è certo a te che devo farlo notare. Quando è venuta a chiedermi tue notizie, gliel’ho letta negli occhi la disperazione per averti perso. Ho pensato che tu fossi un uomo molto fortunato di quanto non sia io, nonostante possa dire di essere arrivato dove volevo. Ti ho invidiato. –

- Ed è per questo che te la sei portata a letto? Per invidia? – obiettò amaro.

- Sì, forse anche per questo, non te lo nascondo. E anche se fosse? È successo ormai mesi fa, sembrano passati secoli, quante cose sono cambiate nel frattempo! –

Jerome afferrò con disinvoltura una vecchia sedia spagliata, la sistemò di fronte alla poltrona dove sedeva Antonio e ci si sedette, fissando l’amico negli occhi con quel suo sguardo pungente.

 - Forse sei tu che non l’hai ancora perdonata, nonostante sia giunta fin qui, si sia umiliata di fronte a me e si sia esposta a vari rischi per venirti a cercare. Ammettilo, non hai perdonato né lei né me. – lo provocò.

- Ti sbagli, io l’ho perdonata dal primo istante e non ho mai smesso di amarla. Quanto a te…-

- E allora perché te ne sei scappato? Non dirmi che l’hai fatto per la causa del popolo, non ci ho mai creduto, Antonio. –

- Nemmeno io ho mai creduto che tu lavorassi per la causa del popolo, se per questo. – ribatté, levandosi infine la soddisfazione di rinfacciargli la sua ipocrisia.  Poi proseguì: - L’ho fatto per non soffrire, perché la delusione che entrambi mi avete dato è stata enorme, non ero in grado di reggere la sua vista, il suo sguardo, come se fosse stata colpa mia poi...- concluse desolato: - Ma vi ho perdonato entrambi, come vedi.  –

Jerome non demordeva, non riusciva a concepire la logica dei pensieri dell’amico, gli era totalmente estranea.

-E allora perché? Perché vuoi soffrire da solo, senza il suo conforto, e nello stesso tempo far soffrire anche lei? – domandò sinceramente confuso.

- Non capisci proprio. E non capirai mai. Certe cose non si possono spiegare, se non le si prova. – scosse rassegnato la testa Antonio.

- Non c’è nulla che non possa essere spiegato in modo razionale, il fatto è che tu non sei razionale in questo momento. Sei troppo turbato, non puoi prendere una decisione ora. – L’irrazionalità della decisione dell’amico era lampante e la logica razionale era l’unico linguaggio che Jerome era in grado di comprendere e accettare.

- Non c’è nessuna decisione che possa essere rimandata. Anna non deve sapere nulla. Lei ed Emilia devono lasciare la città oggi stesso, non mi posso permettere che corrano altri rischi. –

- Ma tu l’ami! - esclamò Jerome infine, quasi stizzito di fronte a quel rifiuto dell’evidenza.

- Ed è proprio perché l’amo che devo lasciarla andare. E al più presto. – concluse Antonio, disarmante.

 

 

 

Il cielo si tingeva di arancione in quel freddo pomeriggio di primo inverno, mentre bianchi nuvoloni densi di neve si addensavano sopra la linea di fuoco dell’orizzonte; le ombre viola si facevano sempre più lunghe, cupe e quasi inquietanti, mentre un vento sottile e gelido spazzava le strade. Una donna e una ragazzina attendevano in piedi, avvolte dai loro mantelli, davanti alla stazione di posta, un solo baule di modeste dimensioni accanto a loro. Chi le avesse scorte passando avrebbe supposto che stessero scappando, che fossero esuli in cammino verso lidi più accoglienti, e forse in un qualche modo lo erano davvero. Aspettavano qualcuno. I loro sguardi si facevano più acuti all’apparire di una qualche sagoma in fondo alla via, i loro gesti diventavano sempre più nervosi man mano che il tempo passava e il cielo imbruniva senza che riuscissero a scorgere nemmeno l’ombra di chi stavano attendendo. La donna si torceva le mani convulsamente, sillabava qualche parola a fior di labbra – imprecazioni, preghiere, timori esposti a mezza voce? -; la ragazzina pareva contrariata, si intuiva dall’espressione corrucciata che non avesse alcun piacere a starsene lì, in piedi, al freddo, pronta a partire per un viaggio rispetto al quale, forse, non le era stata lasciata alcuna scelta alternativa.

- E’ quasi un’ora che stiamo aspettando. Fa freddo, tira vento. Perché non entriamo nella stazione?- fece la ragazzina, rivolgendo alla madre uno sguardo tra il supplichevole e l’indispettito.

-Emilia, per favore, non ti ci mettere pure tu. Un po’ di contegno, non sei più una bambina! Antonio non tarderà ancora molto.-

- E poi perché partire proprio oggi, con tutta questa fretta? Mi sembra di aver lasciato un discorso a metà, non ho avuto il tempo di salutare le compagne, le suore, la madre superiora…-

- Le tue compagne se ne saranno andate tutte, ormai. Le famiglie aristocratiche non lasceranno un giorno di più le loro figlie in questo guazzabuglio! Anche volendo, non saresti riuscita a congedarti da loro. E’ una situazione delicata, Emilia, dobbiamo metterci al sicuro il prima possibile. Tu non hai ancora compreso il pericolo che incombe su di noi, sul nostro sangue, sui nostri diritti! Il popolo è una belva affamata, figlia mia, non avrà misericordia per nessuno di noi. –

- Non è come dite voi, madre. Non ci accadrà niente: persone come Elisa, Angelo, Amelia, Bianca, non sarebbero mai capaci di farci del male, il popolo non è cattivo! –

- Quanto sei ingenua! Quanto poco conosci il mondo, bambina mia! Non si sta parlando della nostra servitù qui, ma di gente senza scrupoli. E poi…- Anna venne interrotta nella sua invettiva contro i popolani dall’apparire di una figura che si faceva strada nella penombra del crepuscolo. Tese la vista, fece qualche passo in avanti verso l’uomo che stava giungendo da un crocicchio.

La figura alta, elegante, agile, si fece sempre più nitida man mano che si avvicinava. Un mantello di pelliccia scuro di pregevole fattura, una ciocca di capelli biondo cenere che faceva capolino da sotto il tricorno, un lampo verde negli occhi identificarono lo sconosciuto come Jerome LeBlanc.

-Voi? – esclamò con la sorpresa nello sguardo Anna. – Che cosa ci fate voi qui? – domandò con una certa preoccupazione. Lui fece ancora qualche passo verso di lei prima di farsi riconoscere. Passi svelti, nervosi, quasi isterici, che risuonarono nel silenzio di ghiaccio che era calato dopo quell’ansiosa domanda.

- Buonasera, marchesa. Buonasera, marchesina Emilia. – esordì con un inchino, levandosi il cappello con deferenza.

- Buonasera a voi, signore. – rispose con garbo la ragazzina che per la prima volta si trovava quell’uomo di fronte.

Anna non ricambiò il saluto e chiese a bruciapelo: - Antonio dov’è?-

Jerome si rimise il cappello, indugiò per qualche istante con lo sguardo a terra e infine annunciò con un velo di impazienza nella voce, che tuttavia Anna percepì: - Mi ha incaricato di dirvi che stasera non verrà. Ha mandato me al posto suo.-

-Come sarebbe a dire “non verrà”? Che sta succedendo, LeBlanc? Fatemi comprendere, di grazia! – lo implorò aggredendolo con uno sguardo iroso e sperso al tempo stesso. Nei suoi occhi scuri si rifletteva una strana luce d’angoscia che all’avvocato non era nuova, gliel’aveva letta anche il giorno in cui era venuta a parlargli nel suo studio.

- Non verrà. È stato trattenuto per un’urgenza, in casa del sarto del quartiere. Sapete la figlia sta molto male…-abbozzò inspiegabilmente titubante, lui che con estrema disinvoltura costruiva castelli accusatori o erigeva argini difensivi nelle aule di tribunale.

- Che volete che mi importi di queste cose! Noi dobbiamo partire, dobbiamo ritornare al più presto a Rivombrosa, lo capite questo? Abbiamo una carrozza che ci attende da tempo ormai. Mandatelo a chiamare, questa volta non gli perdonerò alcun ritardo per i suoi pazienti!-

-Vedete, non mi è possibile. –

- Come non vi è possibile? Voi lo farete. E subito. Manderete a chiamare Antonio o andrete voi stesso in casa di questo sarto. – gli ordinò sempre più incollerita.

- Voi non mi darete ordini, madame. – ribatté lui con certo orgoglio di classe, fissandola dritto negli occhi e sostenendone per qualche istante lo sguardo con spavalderia. Poi aggiunse: - Antonio ci raggiungerà domattina. –

Ciò detto, mandò a chiamare la carrozza che le attendeva nella stazione, senza curarsi delle continue lagnanze di Anna, delle incessanti domande che gli rivolgeva sul conto di Antonio. Non appena il cocchiere gli fece un cenno, prendendo per una mano Emilia e per l’altra Anna le condusse entrambe, una rassegnata, l’altra riluttante, verso il mezzo; con piglio risoluto diede ordine di caricare i loro bagagli e, con un gesto deciso al limite della sgarbataggine, trascinò Anna per un braccio all’interno dell’abitacolo. Emilia si era già accomodata tra i cuscini e guardò con espressione sorpresa, la reazione isterica della madre. Jerome fece un cenno al cocchiere che si era voltato in attesa di ordini: i cavalli si misero in marcia scalpicciando sulla ghiaia.

-Come vi permette di trattarmi in questo modo? Chi vi dà licenza di strattonare in malo modo una nobildonna, forse la vostra Costituente? Non la passerete liscia, signor LeBlanc, mi appellerò a chi di dovere! E ora fatemi scendere da questo trabiccolo! Io ed Emilia non partiremo se non con Antonio. Lasciateci scendere! – strillava indispettita cercando in malo modo di divincolarsi e scendere dalla carrozza. – Emilia, muoviti, scendi subito! -

Che cosa diamine stava succedendo? Dove le stava portando LeBlanc? Si trattava forse di un rapimento? E Antonio dove si trovava? L’aveva forse segregato da qualche parte? L’aveva fatto arrestare? Non riusciva a raccapezzarsi in quell’assurda circostanza: l’unica cosa che voleva era scendere al più presto da quella carrozza. Cercava di forzare lo sportello, batteva i pugni sul finestrino.

- E’ inutile che vi affanniate tanto. Ormai siamo partiti e ci fermeremo soltanto a notte inoltrata a Nemours. – cerco di calmarla Jerome, con voce piatta, insensibile alle sue isteriche sceneggiate, mentre il cocchiere spronava i cavalli e la carrozza si metteva in moto.

- Come sarebbe a dire Nemours? Si era stabilita la prima tappa a Evry. Nemours è troppo lontano, vi arriveremo a notte fonda, come farà Antonio a raggiugerci in tempo? – ribatté lei in preda all’ansia.

- Nemours. Così è stato stabilito da me e Antonio. – tagliò corto l’avvocato. – Ed ora calmatevi, non gioverà a nessuno di noi tre un viaggio in tali condizioni. Dico bene, Emilia? – si rivolse sorridendo alla ragazzina.

- Dite bene, signore. Mamma, per favore, smettetela. Ve lo chiedo per favore, non rendete questo viaggio ancora più penoso. – la supplico Emilia.

- Avete sentito vostra figlia? Mettetevi l’anima in pace, marchesa. – rincarò la dose LeBlanc, abbandonandosi al morbido schienale e sistemandosi nella posizione più comoda. Poi senza più degnare di uno sguardo Anna, prese ad osservare il paesaggio che scorreva fuori dal finestrino.

Prima i sobborghi cittadini, poi distese di campi, dolci colline, vigneti e ancora campi a non finire. Di tanto in tanto qualche stazione di posta si stagliava al chiarore freddo della luna ormai sorta. I paesaggi cambiavano, si avvicendavano, senza che una parola risuonasse nell’abitacolo a rompere quel silenzio spettrale. Emilia si era addormentata, la testa appoggiata al vetro freddo; mentre Anna fissava con espressione imperscrutabile ora il paesaggio, ora la figlia, stando ben attenta a non sfiorare nemmeno per sbaglio con lo sguardo l’uomo impassibile e silenzioso che le sedeva di fronte. La luce della luna che filtrava dal finestrino ne illuminava il volto disteso, il sorriso appena accennato con cui le si rivolse non appena Anna abbozzò, dopo ore, un tentativo di discorso:

-Quanto manca alla fermata? Sono ore che stiamo viaggiando, la luna è ormai alta. Vorrei riposare. – il tono era piatto, distaccato, come avesse perso il piglio combattivo, sfinita dalla stanchezza.

- Non temete, tra poco saremo arrivati a Nemours. – le rispose cordiale, fissandola con quel suo strano sorriso.

- Io ed Emilia ci fermeremo lì fin quando non sarà arrivato Antonio. Ripartiremo con lui. – sentenziò assertiva, senza lasciare spazio a repliche. Gli occhi scuri decisi piantati in quelli di LeBlanc con aria di sfida. Per la prima volta in tutto il viaggio l’espressione di Jerome lasciò trasparire un lieve imbarazzo. Distolse lo sguardo da lei, abbassò il capo e lo rialzò.

- Ecco, vedete…Antonio non verrà. – le comunicò non senza esitazione nella voce. Temeva fortemente una sua reazione scomposta, temeva di non saperla gestire. Si accorgeva di essere per certi versi in balia di lei, cosa che mai gli era successa nei confronti di nessun’altra donna.

Anna chiuse gli occhi, trasse un profondo sospiro, poi, dominandosi:

-Che diavolo state dicendo? Mi avete ingannata? Mi avete trascinato con la forza chissà dove? – il panico crescente si faceva strada nella sua voce.

- Calmatevi, marchesa, calmatevi, vi supplico. – tentava di blandirla lui, prendendole una mano. Mano che immediatamente lei ritrasse.

- No che non mi calmo! Dove mi state conducendo, avvocato? Che cos’è tutta questa messinscena? E Antonio dov’è? – domandò a raffica, sottovoce per non svegliare Emilia, ma con eguale impeto.

- Vi sto riportando a casa, marchesa. Al sicuro. –

- Non vi credo. Che storia è mai questa? Ditemi immediatamente dove si trova Antonio! –

Per tutta risposta, Jerome estrasse dal taschino della giacca un biglietto ripiegato, poche righe, di pungo di Antonio. Lo aprì e glielo porse, senza aggiungere una parola.

 

 

 

Accanto al crepitante fuoco acceso nel grande camino della biblioteca, mentre si accingeva ad aprire l’ennesima lettera dalla calligrafia sontuosa, ingombra di promesse e buoni propositi giunta da Parigi, la mente le ritornò a quello scarno biglietto, appena due righe, che Jerome quella notte le porse, con delicatezza, quasi imbarazzato. Quanto avrebbe desiderato scorgere quella grafia sottile e ordinata tra l’incessante corrispondenza che le toccava smistare ogni giorno. E fra tutte quelle infinite lettere che non sapeva più dove conservare. Anzi aveva dato ordine che fossero bruciate, a lei erano soltanto di ingombro. La neve cadeva fitta in quella vigilia natalizia, mentre il palazzo, addobbato a festa, riluceva di colori e fasti, in attesa del Natale ormai prossimo. Un clima di allegria e spensieratezza aleggiava tra la servitù, che correva indaffarata da una stanza all’altra portando festoni, addobbi, vassoi ricolmi di ogni delizia, come aveva fatto predisporre suo fratello. Quella sera si sarebbe infatti dovuto tenere il cenone natalizio, sfarzoso come non se ne tenevano più dai tempi dei loro genitori. Fabrizio non aveva voluto badare a spese: il primo Natale di sua figlia a Rivombrosa sarebbe dovuto essere ricordato negli annali.

Questo entusiasmo palpabile ovunque, quest’aria di festa, non erano riusciti a contagiare Anna. Il suo umore rifletteva piuttosto il cielo grigio e foriero di neve di quel pomeriggio avanzato di uno dei giorni più corti dell’anno. Da quando, qualche settimana prima, era rientrata da Parigi, con Emilia ma senza Antonio, si era chiusa in un mutismo estenuante. Di umore cupo, scontroso, vagava dalla sua stanza alla biblioteca, al salone, meditando tra sé l’opportunità di un nuovo viaggio a Parigi, in attesa spasmodica di notizie, dell’arrivo della corrispondenza. Quando poi le venivano recapitate le missive indirizzate a lei, si chiudeva in biblioteca, adagiata sul divano, con le dita tremanti, iniziava a rompere i sigilli, scartare le buste, aprire le lettere, con una lentezza spasmodica, carica di attese ogni volta disilluse. Decine di lettere a firma di Jerome LeBlanc. Tutte molto simili, tanto che poteva recitare come una cantilena i suoi esordi ampollosi, le sue rassicurazioni, le sue promesse di giungere presto di persona per aggiornarla sui fatti parigini. Mentre gli elogi e le lusinghe che le rivolgeva, quelli no, non li avrebbe saputi ripetere come una filastrocca, perché ne inventava ogni volta di nuovi, sembrava che la sua fantasia da provetto oratore non avesse limiti. Lodava la sua forza, la sua pazienza, il suo contegno, la sua bellezza. Prometteva di giungere presto a Rivombrosa per farle visita. Non si stancava mai di chiudere le sue lettere con qualche dolce parola per lei, nonostante il più delle volte non ottenesse risposta, se non qualche riga scarna in cui lo ringraziava freddamente e gli chiedeva di tenerla costantemente al corrente su quanto avvenisse oltralpe. Di Antonio, al contrario, non giungeva nulla. Le ultime sue parole erano richiuse in quel biglietto logoro che ancora conservava tra le pagine del libro che teneva sulla propria scrivania e che le straziavano ogni volta il cuore. Parole scarne, distanti, fredde. Parole che sapevano di commiato definitivo.

 

 

 

-Che significano queste righe? Che significa che ha deciso di restare a Parigi? Perché, Dio mio, perché? – domandava mente brandiva convulsamente il biglietto davanti agli occhi di Jerome, aggredendolo con sguardi e gesti alterati, quasi fosse lui la causa di quanto fosse scritto in quel foglio.

- Calmatevi, Anna, vi prego! Sveglierete vostra figlia! – continuava a ripetere invano LeBlanc.

- Non posso capire. Questo è troppo! Quella serva…Dev’esserci di mezzo lei! È per questo che non è voluto partire? È per lei che mi ha congedato in questo modo, senza nemmeno una parola? – non trovava pace, si dimenava in preda all’angoscia nello spazio angusto dell’abitacolo, gli occhi lucidi di un pianto che si sforzava a tutti i costi di trattenere, davanti a quell’uomo.

Jerome la guardava impotente, ma gli si poteva leggere un vivo dispiacere negli occhi verdi. Un dispiacere che sentiva tuttavia come inutile. Le cercò la mano nel buio e gliela strinse con vigore. Anna si arrestò di colpo, si irrigidì fissandolo con espressione interrogativa.

-Vi fa male agitarvi in questo modo. – le raccomandò per tutta risposta, a sua volta incrociandone lo sguardo: il verde dei suoi occhi si fece più vivo in quegli istanti, perse quasi la solita malizia per acquistare sfumature più morbide.

-Da quando vi preoccupate per la mia salute? – ironizzò con voce rotta Anna per cavarsi da quell’imbarazzante frangente. Ma non le riuscì di distogliere lo sguardo da quello di lui, restò immobile quando Jerome fece scorrere le mani sulle guance, accarezzandola.

- Da quando ho letto dentro di voi, mentre voi avete capito ben poco di me. – le sussurrò a fior di labbra, il suo viso tra le mani.

Anna non ebbe la forza di reagire; era debole, confusa, avvilita, sola e il calore di un abbraccio le si presentava come un farmaco per il suo animo ferito. In preda ad una strana emozione che mescolava in sé l’angoscia e il desiderio di conforto, gettò le braccia al collo di Jerome e gli si accasciò sul petto, liberando sommessi singhiozzi. Lui le baciava i capelli, la fronte, la stringeva a sé, pervaso da un sentimento nuovo, sconosciuto, che solo in quella gelida notte di luna piena, su di una carrozza in corsa in mezzo alla campagna, sembrava dischiudersi a lui. Dopo essersi lasciata cullare per qualche minuto dal movimento della carrozza fra le braccia di Jerome, Anna fece per sollevare timidamente il capo, ancora incapace di realizzare quanto le fosse successo. E fu proprio allora che Jerome colse l’occasione per sfiorarle le labbra con le sue. Fu questione di attimi. Con estrema delicatezza le dischiuse le labbra con un bacio diverso da quelli che si erano scambiati in quella notte fatale. Un bacio timido, che chiedeva permesso, tenero e quasi incerto. Un bacio che le ricordava prepotentemente quelli di Antonio. Tratta in quest’inganno dalla sua mente confusa e snervata dalle emozioni di quella giornata, non le fu difficile ricambiare con trasporto quel bacio. Ma non appena riaprì gli occhi non si trovò di fronte il limpido celeste che si aspettava, bensì un verde vivace e penetrante, solo appena un po’ screziato dal turbamento di quegli attimi. Improvvisamente tornò in sé, maledicendosi per quella nuova debolezza che si era concessa, dopo che aveva giurato a sé stessa di non ricaderci più. Si riscosse, si staccò con foga dalle braccia di Jerome, respingendolo sgarbatamente, e si lasciò cadere stranita e silente sul sedile.

LeBlanc restò interdetto. Mormorava sconnesse sillabe nella sua lingua, senza dare un senso compiuto ai suoi pensieri. Supplicarla? No, non l’avrebbe mai fatto. Mai si sarebbe umiliato a tal punto per una donna, nemmeno per lei. Si nascose il viso fra le mani, i gomiti sulle ginocchia, il busto sporto in avanti verso di lei. Anna si stupì nel vederlo sotto quell’aspetto, amareggiato, forse, offeso dal suo rifiuto. Non sapeva come si sarebbe dovuta comportare, certo non le sarebbe parso il caso di consolarlo- proprio lei, dopo tutto quello che le aveva fatto passare- così se ne stette immobile, il collo rigido e lo sguardo fisso oltre le spalle chine di Jerome. Fu lui a rompere il silenzio, ricomponendosi, mostrando di aver ritrovato il suo piglio usuale tra l’ironico, il malizioso e il divertito.

-Ditemi, marchesa, aiutatemi a capire. – la pregò con quel suo solito sorriso brillante stampato in volto, che contrastava però con il verde cupo dello sguardo. Anna si mise in ascolto, incapace di immaginare dove l’avrebbe condotta quel discorso.

- Che cosa trovate in me che non va? Non ho forse un aspetto piacente, modi eleganti e garbati? Guardatemi! Forse mi trovate sgraziato? Sono brutto, ripugnante ai vostri occhi? Eppure non mi pare, anzi, ho un viso attraente, un corpo ben proporzionato. Possiedo quel tanto di arguzia che serve per intrattenere una dama sui più disparati argomenti, e poi, non ho forse una voce gradevole, ben modulata?  Non vi sembra? – domandò a conclusione di quell’elogio di se stesso, più sbandierato che veramente sentito. Pareva chiederle conferme con quel sorriso spavaldo e quel piglio sarcastico che aveva messo in ogni singola parola; pareva pendere totalmente dalle sue labbra, mentre si faceva gioco di lei con quelle stupide domande. Anna taceva e lui riprese. – Non rispondete? Avete perso la parola? Allora, ditemi, una volta per tutte, che cosa manca a Jerome LeBlanc per piacere a una donna? –

Anna attese qualche istante, sostenendo altezzosamente lo sguardo di lui, poi, con tono inappellabile, sentenziò:

- Gli mancano dignità ed amor proprio, dal momento che pone tale domanda ad una donna che sa già appartenere ad un altro. –

   
 
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