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Autore: theOldEnnui    16/09/2018    1 recensioni
John non sa cosa pensare. Sherlock Holmes, consulting wedding palanner, è una creatura bizzarra, una sbavatura inusitata nel grande disegno della realtà, un refuso cosmico in bilico fra miracolo ed eresia.
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(missing moment 3.02)
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Ehilà!! Qualche giorno fa ho riguardato un paio di puntate di Sherlock e mi è salita la nostalgia. Temo sia ufficiale: non c’è scampo dal johnlock hell…. UGH. Rovistando tra i miei documenti, ho trovato questo missing moment vecchio di qualche anno. L’ho risistemato un pochino (wow a quanto pare nel 2014 non avevo la più pallida idea di come funzionasse la punteggiatura ashgffgashd), ho tagliato quasi 500 parole di pura fuffa e uhm—spero che sia presentabile.
 
Come sempre, grazie a chiunque si fermi a leggere!!

 
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Leave but don’t leave me
 
 
 
John non sa cosa pensare. Sherlock Holmes, consulting wedding palanner, è una creatura bizzarra, una sbavatura inusitata nel grande disegno della realtà, un refuso cosmico in bilico fra miracolo ed eresia. Il buon dottore ha sprecato settimane a guardarlo erigere architetture complesse da quadrati di stoffa e cospirare con Mary in proposito alla disposizione degli invitati durante il ricevimento. In barba alla forza appianatrice dell'abitudine, ogni volta lo spettacolo si è fatto più surreale.
 
John non è un folle, né tanto meno un ingrato. In larga misura apprezza i vantaggi che questa situazione è riuscita a procurargli. Eppure, dopo i terremoti degli ultimi mesi, non gli sarebbe dispiaciuto trovarsi per le mani qualcosa di familiare, un paio di vecchie certezze con cui fortificare le rovine della propria esistenza. Tutto quello che gli è concesso invece, è questa riveduta versione di Sherlock: meravigliosamente addomesticata, pronta a piegare il proprio genio in ossequio agli utili più triviali, senza nemmeno il sospetto di un capriccio.
 
John si aspetta un passo falso da un momento all’altro.
 
Rimane deluso: per mesi, Sherlock perpetua la sua farsa con dedizione inalterata e John è costretto a ribollire di una rabbia lasciata senza bersaglio. Chissà cosa dice di lui il fatto che si senta più tradito da questa insperata arrendevolezza, piuttosto che dall'imbroglio di un finto suicidio.
 
Vuole solo un po' d'ordine, è chiedere troppo? Sherlock è un bambino egoista e capriccioso che non sa condividere i propri giochi. John vuole che data questa premessa, da essa si dipanino conseguenze logiche. Vuole che Sherlock torni ad essere se stesso e punti i piedi pretendendo di essere di nuovo l'unico centro del suo universo. Vuole che gli chieda di scegliere.
 
Forse, posto a confronto con una situazione del genere, John riuscirebbe finalmente a tagliare tutti i ponti in maniera definitiva. Potrebbe valerne la pena, se servisse a dare un senso alla sua rabbia.
 
Oppure… pensa. Oppure si arrenderebbe e accetterebbe di non avere scampo. Si lascerebbe risucchiare di nuovo nella sua orbita.
 
 
 
Comunque, sono tutte supposizioni inutili, perché Sherlock rimane irreprensibile e John arriva alla notte del suo addio al celibato senza aver dovuto decidere tra una moglie e un—uno Sherlock.
 
Tutto si è risolto per il meglio. Tranne il fatto che a poche ore dal fatidico sì, John e Sherlock si ritrovano sbattuti in una cella di prigione con l’accusa di ubriachezza molesta, ecco.
 
 
 
Nel corso della sua esistenza, John è riuscito ad assopirsi nelle situazioni più impossibili, eppure ora non sembra in grado di vincere il tormento del gelo che si irradia dalla parete della loro cella fin dentro alla sua spina dorsale.
 
Con un grugnito sconsolato abbandona la testa al sostegno del muro. Le mattonelle sono un cuscino infelice, premono senza pietà contro la sua nuca, ma lui è altrettanto risoluto. Vuole scrollarsi di dosso la veglia, così chiude forte gli occhi e respira lento.
 
Fuori, una voce abbaia degli ordini. Qualcuno strepita. Una sedia viene spostata con malagrazia, le gambe stridono contro le piastrelle. Sembrano suoni da un'altra dimensione, lontani anni luce.
 
La quiete assoluta che regna dentro la cella attutisce i rumori che si agitano all'esterno, tanto che John può quasi udire l'azione dell'umidità che gli rosicchia le ossa. Domani sarà un inferno, pensa, mentre il freddo serpeggia lungo i suoi muscoli. John apre e chiude il pugno sinistro un paio di volte per testarne il grado di intorpidimento e prova a scacciare i nembi scuri di pensieri che si stanno addensando dentro le pareti della sua scatola cranica.
 
Non avrebbe dovuto insistere così tanto affinché fosse Sherlock ad approfittare dell'unica branda messa loro a disposizione. Questo imperativo invincibile che lo scuote da dentro e gli impone di fare qualsiasi cosa pur di tenere quell'idiota avventato al sicuro è ridicolo e fuori luogo e autodistruttivo nella maggior parte delle occasioni. Sherlock non ha bisogno che John badi a lui. Infatti, Sherlock non vuole che John badi a lui: è sopravvissuto benissimo negli ultimi due anni senza le sue continue interferenze. Se John fosse un uomo più saggio avrebbe afferrato l'antifona, ormai, e se ne sarebbe fatto una ragione, invece eccolo ancora qui seduto a terra, sordo alle protesta della propria schiena, mentre sospira e strizza un'ultima volta le palpebre nel vano tentativo di prendere sonno, prima di arrendersi a se stesso e lanciare una nuova occhiata verso la branda.
 
Si aspetta di trovare il suo occupante addormentato, ma attraverso l'aria immobile che li separa, il suo sguardo finisce per scontrarsi con un paio di occhi ancora ben spalancati. John si sente colto alla sprovvista, come se qualcuno uscito fuori dal nulla gli avesse fatto uno sgambetto a tradimento, come se gli avessero appena rubato il terreno da sotto i piedi.
 
Sherlock lo guarda precipitare e precipitare e precipitare. È una delle sue attività preferite, John ne è convinto: sezionarlo con gli occhi mentre lui arranca come una piccola cavia da laboratorio, mentre si dimena e tenta di sottrarsi per non essere annientato dalla voracità del suo interesse.
 
Fra gli sbuffi e i cigolii di protesta della branda, il grande detective si gira su un fianco: è una posizione migliore per scrutare ed essere scrutato. John si ritrova seduto ad un soffio dal suo viso, vicino più di quanto sia opportuno. Senza allontanarsi, mette a tacere il buon senso e guarda. Scopre le labbra di Sherlock appena dischiuse, arricciate in un sorriso pigro, la fronte rilassata e un'espressione aperta che non sembra adatta a lui, sempre così distaccato, sempre così inarrivabile. È come se il caos frenetico che anima il suo genio avesse finalmente trovato un indovinello capace di catturare la sua attenzione per più di una frazione di attimo. Sembra che quel prodigio vorticante che è il suo cervello abbia finalmente scoperto un posto in cui è contento di sostare per un po'.
 
John è un'oasi e Sherlock sta riprendendo fiato—la consapevolezza gli piove addosso, lo infradicia, si infiltra sotto pelle. All’improvviso non sa cosa fare con la propria faccia. Che cosa c’è in lui che Sherlock vuole vedere? Come può impedire che si dissolva, se non riesce nemmeno a identificarlo? John può sentire ogni singolo muscolo del proprio volto fremere incerto su quale espressione assumere. E se sbattesse le palpebre e questo equilibrio incomprensibile andasse in frantumi? Dopotutto è già successo in passato. Sherlock lo ha già guardato con quella stessa inesplicabile amalgama di intensità e tenerezza, e ogni volta entrambi hanno lasciato che il momento si spezzasse.
 
“Mi piace la tua camicia,” Sherlock allunga un braccio verso di lui e stringe pollice e indice attorno al colletto. Le nocche spigolose della sua mano premono contro la gola di John.
 
John trattiene il fiato.
 
Sherlock ispeziona il tessuto, accarezza l’indumento come se appartenesse alla vittima dell’omicidio del secolo. La solennità dei suoi modi diluita nella trivialità del gesto dovrebbe risultare comica, ma John è troppo ubriaco per accorgersene. È una camicia a scacchi bianchi e blu, l'ha già indossata molte volte prima. “Si intona bene ai tuoi occhi,” gli confida Sherlock.
 
Un sorriso lusingato piega le labbra di John. Non è mai stato particolarmente sensibile ai complimenti. È un uomo con i piedi ben piantati a terra, troppo concreto per sprecare tempo cercando convalide nell'opinione altrui. Il modo in cui il sangue gli corre alle guance, il modo in cui lo sente fremere denso e caldo sotto alla pelle, lo lascia stupito.
 
Sherlock risponde al sorriso, i denti bianchi catturano le luci della notte che si tuffano dalla finestra accovacciata sopra alla sua branda. John si passa la lingua sulle labbra. “Grazie,” dice in un soffio.
 
“Mi ricordo la prima volta, al Bart's,” Sherlock gioca con il bottone del colletto, gli occhi attenti ad evitare i suoi. “Ti ho visto. Avevi questa camicia,” il suo pollice inciampa, si trascina con delicatezza contro la carne delicata appena sopra la clavicola di John. “È la mia preferita.”
 
È un dettaglio senza importanza, John stesso l'aveva quasi dimenticato, eppure Sherlock ha scelto di conservarlo. Probabilmente non vuol dire nulla: la sua memoria è gigantesca e questo è solo una tessera minuscola in un mosaico sterminato di informazioni. Un frammento talmente insignificante che non è valso nemmeno lo sforzo di essere cancellato.
 
John deglutisce, ignora lo sfarfallio che gli si agita al centro del petto. “È passato tanto tempo,” dice.
 
Sherlock alza gli occhi e John è sorpreso nel trovarli colmi di qualcosa che potrebbe facilmente essere scambiato per nostalgia, non fosse che – certo – la nostalgia è un vizio inutile e sentimentale. Sherlock non vi cederebbe mai.
 
“A volte—“ due dita lunghe e insolitamente esitanti abbandonano il colletto della sua camicia, risalgono lungo la gola, premono contro la carotide. Mentre Sherlock continua a parlare, John si accorge che gli sta prendendo il battito. “A volte vorrei tornare indietro.”
 
“Così potresti evitarmi? Ti risparmieresti un sacco di seccature,” John prova a scherzare, ma Sherlock rimane serio.
 
“No,” risponde, come se il solo pensiero lo offendesse. “Però credo che mi piacerebbe poter fare alcune cose in modo diverso.”
 
John inspira. L’odore di Sherlock gli riempie le narici e il suo cervello sembra incepparsi contemplando la loro prossimità. Anche il suo cuore si comporta in maniera bizzarra, comincia a correre, e all'improvviso i polpastrelli che investigano i segreti della sua circolazione, gli appaiono come strumenti spaventosi ed invasivi.
 
John strappa la mano di Sherlock dal proprio collo. La stringe per qualche attimo fra le proprie. Si scopre riluttante a lasciarla andare. Le punte delle dita sono fredde, il palmo è largo e rassicurante. Sherlock non protesta, così John decide di continuare a stringerla.
 
“Ti ricordi da Angelo, la sera dopo?” la voce di Sherlock è un soffio, ma le sue parole lo scuotono come le raffiche di un uragano. Non gli lasciano il fiato per rispondere.
 
Certo che si ricorda.
 
Che cosa vorresti cambiare?
 
John ha sempre pensato che Sherlock fosse inespugnabile, ma di colpo si accorge che gli è stata concessa una breccia. Che ora può guardare dentro. È tutto lì, allo scoperto sul suo viso, offertogli perché ne faccia ciò che desidera. Pressoché senza rendersene conto, John si ritrova a confessare, “Io non-- io non ho idea di quello che vuoi, Sherlock. Cos’è che vuoi da me?”
 
È quasi un'accusa e Sherlock abbassa lo sguardo, si chiude in un silenzio colpevole.
 
I secondi scivolano via con fatica, come se il tempo intorno a loro si fosse coagulato in un pantano incapace di lasciarli scappare.
 
John pensa che la conversazione sia finita, che Sherlock abbia scelto di non rispondergli. Poi il silenzio è rotto da un sussurro appena udibile. “Non mi lasciare.”
 
Il cuore di John batte forte, fa un balzo. Sherlock ha sempre avuto un pessimo tempismo. È una cosa così meravigliosamente da lui, chiedergli di scegliere quando ormai non c'è più scelta.
 
John è inchiodato nell'immobilità che lo circonda. Come se fosse stato morso da un serpente, sente il veleno della paura scorrergli nel corpo, sente la propria voce come quella di un altro ridacchiare mentre il suo braccio destro scatta goffo nell'aria indicando la porta chiusa della loro cella. “Non potrei neanche se volessi, che dici?”
 
Sherlock non risponde. Si lascia cadere di nuovo sulla schiena, la sua mano scivola fuori dalla presa di John.
 
 
John lascia che i contorni della sua sagoma vengano divorati dal buio e tenta di nuovo di prendere sonno.




 
  
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