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Autore: Koa__    18/09/2018    6 recensioni
Questa raccolta conterrà storie più o meno brevi, incentrate sulla coppia John Watson e Sherlock Holmes e (anche, ma non soltanto) sul loro ruolo di genitori.
La storia: "La geniale imperfezione di Sherlock Holmes" partecipa al contest "Tante navi per una palma" indetto da GiuniaPalma sul forum di EFP.
Alcune di queste storie partecipano alle Challenge dei gruppi: "Hurt/Comfort Italia - Fanfiction & Fanart" e "Aspettando Sherlock 5".
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Rosamund Mary Watson, Sherlock Holmes
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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You kiss me once (I’ll kiss you twice)




 

“When I'm with you it's paradise
No palace on earth could be so nice
Through the crystal waterfall
I hear you call”





È fuggito come un codardo. Non ha saputo fare niente di più sensato che prendere la porta e scappare. Se n’è andato incurante di tutto, della logica, della ragione, del buon senso. È uscito con addosso ancora pigiama e vestaglia, si è precipitato giù per le scale e ha iniziato a correre sul marciapiede, con indosso niente se non piedi nudi. Lui a ridere come uno scemo. Senza frenare le lacrime. È gioia. Di certo niente che c’entri con la tristezza. Si è messo a correre e basta, con il palazzo mentale impazzito e nessun reale motivo per avere così tanta fretta. Correre e basta. Sotto agli sguardi attoniti di passanti sconvolti. Correre sotto al cielo terso di una Londra di pieno agosto, col vento fresco della sera tarda a sbattergli contro. Infilandosi in vicoli stretti e bui e poi inerpicandosi su per scale antincendio. Tutto per poter salire lassù. Nell’unico luogo che sarebbe riuscito a calmare i suoi pensieri disordinati. Ha bisogno di mettere fine al caos, sistemare i ricordi. Tenere a bada i sentimenti e quella sensazione che ancora gli striscia sulla pelle. Non sa cosa sia, è un brivido e un’eccitazione che non se ne va. Alla quale si rifiuta di pensare. Ha un disperato desiderio d’inspirare a pieni polmoni, chiudere gli occhi e ascoltare il cuore pulsante di Londra. Riprendere a vivere, dopo quello che è successo, gli sembra impossibile.


E ora se ne sta lì, seduto sul cornicione di un palazzo infilato tra Saint Paul e deliziose casette più basse. C’è proprio la grande cupola che fa capolino tra un tetto e l’altro. E poi, finestre spalancate su momenti di vita altrui. Cose non importanti, ma che stranamente riescono a mettere a tacere le tante voci che urlano nella testa. Sente anche una musica che suona da una radio, in un sottotetto caotico e arredato malamente. La canzone è alquanto idiota, parla di gente che si tiene per mano e di un paradiso… Tzé, come se l’amore fosse quello! Eppure, stranamente sta funzionando. Non c’è riuscito il violino e nemmeno la meditazione. Ci riesce una canzoncina stupida che riverbera nella piccola casetta di una sconosciuta. Sì, funziona, si ripete. E quindi si lascia andare, chiude gli occhi e inspira lentamente mentre, inevitabile, un sorriso gli nasce d’improvviso. È felice e non sa dire neanche perché. Anzi, lo sa perfettamente ma è meglio non pensarci. Adesso deve concentrarsi, smettere di ragionare e nient’altro. Lasciarsi investire da Londra e permetterle di curarlo. Solo loro e nessun altro.


Non dura a lungo. Ma questa volta non è la concentrazione a mancare, è che sente rumore di passi alle spalle. Una volta si era detto che avrebbe riconosciuto il suo Watson in mezzo a milioni di persone. Eppure, quando se ne rende conto ormai è troppo tardi. John sta lì e lui non ha neanche il coraggio di guardarlo negli occhi. Sarà arrabbiato? Spaventato? O una commistione, pericolosa, di entrambe le cose? E quando questi gli si siede accanto e prende a dondolare i piedi giù nel vuoto, neanche riesce a sollevare il viso. Dovrebbe spiegarsi, parlare. Guardarlo in faccia. Dirgli che è tutto sbagliato (che lui è tutto sbagliato) e non dovrebbero trovarsi lì. Però non fa nulla se non rilasciare un sospiro teso. E la radio ancora suona.


«Beh, non dici niente?» domanda, ma Sherlock è talmente confuso che neanche sa distinguere le sfumature della sua voce. Dannati sentimenti! «Non mi chiedi come ho fatto a trovarti?»
«Non fare domande sciocche, John» borbotta, agitando una mano per aria. È la sua espressione annoiata e infastidita dal dover dire ovvietà. La stessa che ha una strana persa su John, che prevedibilmente prende a sorridere. A Sherlock tanto basta per continuare: «Prima hai chiamato Lestrade, il quale ha chiamato Mycroft che ha chiamato un tizio all’MI6 che gli ha detto che ero venuto qui. Ti sei complicato la vita inutilmente, avresti potuto seguire la scia di sguardi inorriditi della gente quando mi vedeva correre scalzo e con indosso la vestaglia.»
«Per forza» scherza ridendo appena, e manda indietro al testa, e chiude gli occhi, ed è bellissimo. Dovrebbe urlarglielo, ma non lo fa. Sente di non avere il permesso di dire certe cose. «Sei in pigiama e senza scarpe. È vero che la gente guarda ma non osserva, però…»


John scherza, ride e la prende alla leggera. Spiandolo come riesce a fare, sperando di non essere notato, Sherlock capisce che neanche è arrabbiato. Magari lo è stato. Di certo non è venuto per domandare spiegazioni, lo ha fatto per stargli vicino. Per fargli capire che c’è. Per dirgli che qualsiasi sia la ragione della sua fuga risolveranno tutto insieme, se solo glielo permetterà. Ed è questo il punto, Sherlock non crede di meritarselo. John è troppo per lui. Finirà col deluderlo o ferirlo e neanche si renderà conto d’averlo fatto. È a questo a cui pensa da settimane e che nelle ultime ore non ha fatto che tormentarlo. Sa che dovrebbe confessargli tutto quanto e farla finita prima che sia troppo tardi. Avrebbe anche un discorso adatto, da qualche parte nel palazzo mentale, ma di nuovo non riesce a parlare. C’è una parte di se stesso che non vuole lasciarlo andare e che gli dice che non ha nessun senso metter fine a tutto ancor prima che cominci. Oh, è terribile quando anche i sentimenti pretendono d’avere una logica. Quando nessuna argomentazione riesce a spuntarla con questo sentimento che gli divora via tutta l’anima. Neanche con la razionalità più distaccata riesce a controbattere. E infatti fallisce, e cede.
«John…»
«Forse dovresti chiedermi che cosa provo in questo momento, ma faremo prima se te lo dico io.»
«John!» Ribatte, ma non sa nemmeno che cosa vuole dire. Il suo discorso sensato muore lì, davanti al sorriso del suo John, un sorriso appena accennato e che trema subito. Che sparisce, inghiottito da un’espressione di seria dolcezza. C’è così tanto nell’uomo che ha davanti, che il famigerato spirito d’osservazione di Sherlock Holmes se ne va liberamente a farsi fottere.
«Quando mi sono svegliato» lo interrompe di nuovo, non sembra intenzionato a lasciarlo parlare. O forse sono proprio le intenzioni di Sherlock, ad apparire misere. John è determinato, convinto, guarda avanti a sé e parla a voce ben ferma. Ha l’aria di chi ha capito tutto quanto. Sherlock lo invidia, lui invece non ha capito niente. E questo lo terrorizza.
«Non c’eri mi sono spaventato» riprende «ti ho cercato dappertutto e quando ho capito che eri uscito mi sono anche un po’ incazzato. Ma poi ho provato a ragionare, mi sono detto che sei tu e che sei completamente imprevedibile e mi sei sempre piaciuto anche per questo. Inoltre credo di capirti, almeno un po’. Io sono nella stessa tua identica situazione. Ho una paura fottuta.»
«Non è soltanto quello, John, è tutto. Tutto quello che è successo. Io… dovevo mettere in fila i pensieri» annuisce e per la prima volta riesce a guardarlo negli occhi. Si vedono. Sorridono.


«Abbiamo fatto l’amore, Sherlock e nemmeno io riesco ancora a crederci. Anch’io ho paura di mandare tutto quanto a puttane, di rovinare la migliore amicizia che abbia mai avuto. Ma ormai dobbiamo farci i conti, non possiamo ignorarlo. Farlo, distruggerebbe entrambi.» Sherlock questa volta non risponde. Abbassa il capo, volge lo sguardo altrove. C’è ancora quella soffitta non troppo lontana da loro. E quella canzone che adesso John canticchia sottovoce. John che guarda lontano, oltre Saint Paul. John, a cui Sherlock non riesce a staccare gli occhi di dosso, non più. Sa perfettamente cosa deve dire, ma radunare le parole giuste è difficile. E quindi sospira, chiude gli occhi e tenta maldestramente di fare ordine. La radio è ancora accesa, pensa abbandonandosi per un frangente alla musica.
«Me lo sono immaginato tantissime volte e sempre ripetevo a me stesso che tra noi non sarebbe cambiato nulla e che mi sarebbe andata bene anche la storia di una notte. Pur di averti così vicino avrei accettato anche di non poterti più toccare o baciare. Odio ammetterlo, ma mi sbagliavo. Mi sbagliavo così tanto! È cambiato tutto, John. Io e te, non sarà più come prima e questo lo sai anche tu.»
«Questo discorso che significa?» chiede e Sherlock la nota allora, la maschera di tranquillità incrinarsi e cedere appena. La voce trema e le mani si stringono a pugno, in un gesto di tensione che gli ha visto fare troppe volte.
«Che la vita non è una canzone e che tu dovresti proprio baciarmi, dottore.» In risposta, solo una risata. Leggera, sottile. Appena sussurrata. Il loro cercarsi è come Sherlock lo ricordava, intenso, passionale. Infinitamente dolce. John è premuroso, gli spegne il sorriso con un tocco fugace e poi lo riaccende quando accenna a quella dannatissima e sdolcinata canzone d’amore. Mi baci una volta, io ti bacio per due, sembra dirgli. Pare che si chiami Laguna qualcosa. Sherlock non lo sa, non ha sentito. Adesso vive dei battiti del cuore di John Watson, adesso ascolta soltanto quelli. Adesso ha solo lui. E Londra.
 
 

 
 
Fine
 
 
 

Note: Il titolo, la citazione e la canzone che ascoltano durante la storia è Paradise, dal film Laguna Blu.
Non sapevo se avrei pubblicato o meno questa flash, l’ho scritta qualche giorno fa tutta di getto ma dato che sto lavorando a una storia molto complessa e che mi sta portando via tanto tempo, non ero sicura che sarei riuscita ad aggiustarla. Specie se si considera che ho fatto un casino con i verbi nel primo paragrafo! ^.^’
   
 
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