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Autore: blackidyll    24/09/2018    0 recensioni
«Cresci, America!» ringhia Inghilterra. «È questo che facciamo. Formiamo e rompiamo alleanze per rafforzare e rinvigorire il nostro popolo, e se mi è vantaggioso sostenere la Confederazione, agisco di conseguenza».
«Non farlo». Le mani di America sono chiuse a pugno, le nocche bianche.
Inghilterra alza un sopracciglio. «Non farlo?» ripete con scherno.
La mandibola di America trema, eppure la voce è risoluta. Se solo controllasse il linguaggio del corpo, arriverebbe a convincere Inghilterra. «Potresti favorirmi. O diamine, potresti starne fuori! La Confederazione è insignificante – non vi è nulla da mediare perché quella gente è
me…»
Inghilterra gli ride in faccia. Poi, girando ordinatamente i tacchi, si dirige fuori dalla stanza.

{ pre-slash!Arthur/Alfred | One shot | 6690 parole | Guerra di secessione | Traduzione di Hiraeth }
Genere: Angst, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Note della traduttrice (Hiraeth): ogni tot tempo mi viene ciclicamente nostalgia per questa coppia. Ormai saranno passati anni da quando ho visto Hetalia per la prima volta, mah, sei/sette?
 Piccole precisazioni prima di cominciare a leggere: questa storia è stata originariamente scritta per jedishampoo in occasione del Secret Santa 2013 organizzato dalla community su LiveJournal usxuk, e il titolo è tratto dalla canzone Antebellum di Vienna Teng.
 Il link alla versione in inglese è questo. Ho cercato di fare del mio meglio per mantenere l’impressione, diciamo, che mi ha suscitato questa fanfiction, ma ovviamente leggere la traduzione non è minimamente paragonabile all’esperienza dell’originale, che vi consiglio caldamente se non ve la cavate male con le lingue – perché l’autrice è bravissima.
 A ogni modo, buona lettura!










splinter the night (draw these borderlines between us)
di blackidyll




Dal punto di vista ufficiale, Inghilterra e i suoi ambasciatori presenziano nel ruolo di osservatori neutrali ma interessati. Interessati poiché il commercio rimane l’unica valuta accettata globalmente…

 (Nella visione collettiva, la guerra è una volgarità. Rozza eppure stranamente istintiva nella natura degli esseri umani, giacché gli stessi si infiammano alla minima provocazione).

 …e dal momento che la maggioranza delle terre conosciute è stata reclamata sotto una qualsivoglia forma da una stretta cerchia di potenze coloniali, il commercio resta il miglior mezzo che Inghilterra possiede per esplorare il grande e vasto mondo. Gli è impossibile essere dappertutto allo stesso tempo, ma grazie al commercio riesce a mettere le mani sugli artefatti provenienti dalle lande più lontane, ed essi gli sono portati direttamente a casa.

 Dal punto di vista ufficiale, Inghilterra è qui presente poiché persino il suo governo riconosce la crucialità delle elezioni che si stanno tenendo nella sua ex colonia e il loro potenziale di riscrivere la storia, ed è sempre buona educazione porgere i propri saluti all’uomo che negli anni a venire determinerà il destino degli Stati Uniti. E considerati tutti gli uomini a corte a loro disposizione, Inghilterra è letteralmente la rappresentazione del Regno Unito, e chi meglio di lui è in grado di incidere una durevole impressione dell’Impero Britannico sulla futura amministrazione americana?

 (Inghilterra è una nazione. Percepisce una violenza latente che languisce negli Stati Uniti, ferma in una precaria posizione di equilibrio preelettorale; la bilancia comincerà a pendere da una parte non appena avverrà l’annuncio del nuovo presidente. E dacché Inghilterra è una nazione, quando quella violenza si scatenerà, lui avrà maggiori probabilità di sopravvivenza rispetto ad altri. Non è mai stato particolarmente dotato nella chiaroveggenza; la sua lunga vita, però, gli ha fatto dono dell’esperienza, dell’intuizione…)



…Abraham Lincoln è eletto presidente degli Stati Uniti e, anticipando il suo insediamento, sette stati meridionali fondati economicamente sulla coltura del cotone dichiarano la loro secessione.

 Si fanno chiamare i nuovi Stati Confederati d’America e aprono il fuoco contro le truppe dell’Unione a Fort Sumter: è l’inizio della guerra civile americana.




In apparenza, si tratta di una cena informale, ospitata dai rappresentanti del governo americano in onore dei vari funzionari stranieri sopravvenuti nel Nuovo Mondo. Ciononostante, sono le conversazioni sussurrate e le informazioni scambiate nei cantoni ombrosi a gettare le basi nei rapporti diplomatici, e alla delegazione inglese non sfugge la ghiotta occasione. Inghilterra è certo che nessuno degli invitati sia un alto ufficiale informato della sua vera identità – la folla lo ritiene l’ennesimo procuratore, qui per invito esteso all’intera commissione – e se la sua partecipazione è mandataria, almeno può ricavare consolazione nel suo anonimato sfruttato come camuffamento.

 Scorge America ben prima che l’altro si accorga della sua persona, ma capisce di essere stato notato nell’esatto istante in cui un oggetto pesante e presumibilmente costoso cade a terra e si frantuma; a seguire, una sequela di scuse sbrigative e un rumore di passi che si affrettano nella sua direzione.

 «Buonasera, America» lo blocca Inghilterra sul nascere. Sono circondati da ambasciatori giunti da tutto il mondo e vi sono un tempo e un luogo per le crisi di nervi. «Ti dispiacerebbe non renderti ridicolo con una scenata?»

 L’espressione di America si incupisce, le spalle incordate dal risentimento. Invero non è il caso di provocarlo, ma l’alternativa alla prima mossa è patire il dolore, il rammarico e la furia che inevitabilmente gli sorgono nel petto ogni qualvolta si imbatte in America, e dunque Inghilterra sceglie l’offensiva, sempre.

 «Scordatelo» ribatte America, lo sguardo che scintilla dallo sdegno. «Qualunque cosa tu abbia in mente, non farla».

 Gli occhi di Inghilterra si assottigliano e lui afferra il bavero di America, trascinandolo in un angolo recesso prima di essere spinto via dall’ex colonia. Inghilterra reagisce battendogli una mano sulla schiena e alzando la voce per esclamare: «Hai bevuto abbastanza per stasera», fingendosi un amico preoccupato; America si imporpora dalla rabbia, contribuendo alla credibilità della farsa.

 «Ti ho detto di non fare scenate» lo ammonisce Inghilterra sottovoce, mantenendo sulle labbra un leggero sorriso di cortesia – inteso a incoraggiare qualsiasi possibile interlocutore ignaro della tensione nell’aria a cercare dialogo altrove –, e arretra di un passo per sistemarsi i polsini.

 Oggi veste abiti di cotone, alla maniera di un mero civile: addosso non ha né armi né insegne, e i guanti in pelle sono i soli indizi che vi sia alcunché di inusuale nel loro proprietario. È quel semplice cotone a incollerire America, perché a eventi del genere Inghilterra normalmente indosserebbe camicie in lino confezionate su misura e cappotti sartoriali perfettamente abbinati.

 America invade il suo spazio personale, l’unica tattica di cui attualmente dispone per intimidirlo. «E io ti ho detto di andare a disturbare altre nazioni, invece eccoti qui. Che…»

 Inghilterra interrompe la risposta man mano sempre più infervorata di America e rimbecca con una parlantina strascicata: «Sì, sì, ti abbiamo sentito la prima volta, e il tuo buon signor Adams al mio governo non fa che ripetere a pappagallo la stessa frase ogni settimana da allora. Sei assordante come sempre».

 «Non scherzo, Inghilterra» sibila America. «Stanne fuori. Se riconosci ufficialmente la Confederazione, ti farò guerra».

 Entrambi stasera hanno l’obbligo di riservare all’altro un atteggiamento di garbo, e pertanto Inghilterra cura le sue parole con la stessa attenzione che un arciere impiegherebbe nel selezionare una freccia, valutandone l’equilibrio e il peso e la massima efficienza letale.

 «Per una nazione», e Inghilterra non riesce a nascondere una leggera sfumatura di scherno nella voce, «così ossessionata con la moralità, ami come nessun altro proclamare la guerra a coloro la cui opinione non coincide con la tua. Che modi dittatoriali».

 America si discosta come se preso a schiaffi. Inghilterra sorride in vendetta; non ha apprezzato le volte in cui America gli urlava contro perché smettesse di fare il dittatore, come succedeva all’epoca prima che due guerre e i successivi trattati li vincolassero a comportarsi civilmente alla vicendevole presenza.

 «Buona fortuna con quel bisticcio che hai tra le mani» aggiunge Inghilterra, il sarcasmo che trasuda dall’augurio. «Ho affari più urgenti da sbrigare in questo continente».

 «E che vi fai qui se altrove hai “affari” tanto importanti?» chiede America derisorio, e un simile interrogativo da chi in passato era sotto la sua custodia risulta doppiamente irritante a Inghilterra. Ma oltre la spalla del suo interlocutore avvista Lyons – è il suo ambasciatore negli Stati Uniti ed è senza dubbio al corrente della vera identità di America – dirigersi verso loro, imitato da un ufficiale americano che si fa largo tra la folla. Sembrano pronti a trascinare via le loro rispettive nazioni, pur di troncare quello che appare un litigio sempre più animato e cospicuo, e Inghilterra ha troppa dignità per soffrire un affronto del genere.

 Indietreggia di un passo, mira in faccia America e dice: «Stanne certo, America, che niente mi fa piacere quanto l’idea di andarmene domani». Si gira immediatamente e a passo militare raggiunge Lyons, senza guardarsi indietro per assistere alla reazione di America.

 Intuisce già abbastanza dall’occhiata torva e affilata che gli fora la schiena.




«Scommetto che ne sei compiaciuto».

 Per qualche lungo istante, Inghilterra tace e osserva il marciapiede fuori dalla finestra. Gli occorre un momento per individuarlo quando il messaggero finalmente si fa vivo, ma il segnale che questi sta gesticolando nella sua direzione è inconfondibile: Mason e Slidell sono a bordo dell’HSM Rinaldo, e l’equipaggio britannico li scorterà a un porto sicuro e predisporrà i preparativi per il viaggio che condurrà i due diplomatici oltre l’Atlantico, verso casa.

 Soddisfatto, Inghilterra chiude le tende e si volta verso un America vieppiù guardingo, l’unico presente nella stanza oltre a se stesso.

 «No, è stato seccante» replica Inghilterra, e piega e dispiega ripetutamente le dita tese e rigide per rilassarle. Sotto la pelle è ancora attraversato da un’irrequieta scarica di elettricità per aver mobilitato le sue truppe in Canada e nell’Atlantico: la sua tutela contro qualsiasi minaccia bellica. «Hai creato una situazione di perfetto caos».

 America, per una volta, non gli risponde a tono. Le circostanze attuali gravano su entrambi; una spada pende dal fianco di Inghilterra, la fondina vuota è l’unica concessione che ha accordato alla richiesta che entrasse disarmato, e America ha indubbiamente delle armi occultate lungo il corpo. Il loro intento non è intimidatorio, bensì esplicativo circa le proprie prese di posizione rispetto all’altro – America fermamente convinto della sua libertà di usare la sua milizia contro chiunque possa agevolare il processo di legittimazione della Confederazione, persino se si trattasse di Inghilterra, e Inghilterra pronto a difendere le sue prerogative, le sue navi e la sua gente a costo di ricorrere alle leggi internazionali, specialmente contro America.

 «Il mio capitano ne aveva tutte le ragioni» asserisce America, squadrando Inghilterra dall’altro lato di una larga scrivania in legno di quercia, strategicamente piazzata in modo da tracciare una linea di confine tra loro due – Inghilterra da una parte, America dall’altra – e servire da cuscinetto. «Quegli uomini progettavano di coinvolgere te e Francia nei loro piani e rendermi vostro nemico. Sono colpevoli di tradimento. Prelevarli e rimuoverli dal Trent era un mio diritto».

 Inghilterra scorre le sue caute dita lungo l’elsa, non bada agli occhi di America che seguono i suoi movimenti. «No, America, non lo era. Che fossero ambasciatori, passeggeri clandestini o immigrati non è di mio interesse. O sei in guerra con i tuoi staterelli ribelli, o non lo sei. E dato che insisti di non esserlo, non hai la facoltà né lo status legale come fazione belligerante per ispezionare le mie navi allo scopo di scovare delegati provenienti da un governo che non riconosci».

 Copre la distanza tra la finestra e la scrivania in due passi, inchioda America con un’espressione irremovibile. «Perché ti ostini ancora sull’argomento? Il rilascio di Mason e Slidell è stato ordinato dal tuo stesso presidente. Almeno la tua amministrazione è capace di ammettere i propri sbagli».

 America a sua volta si protende in avanti sulla scrivania, restituisce lo sguardo di Inghilterra con bieca intensità. «Di colpo sei il difensore degli emissari smarriti? Sono al corrente che quella là, la tua regina», Inghilterra si stizzisce a sentire insultata Sua Maestà, «ha dichiarato formalmente la vostra neutralità. Che diavolo credi di fare, sovvenendo alla Confederazione?»

 «Posso sempre cambiare idea».

 «No, non puoi» ribatte America, come se la questione fosse davvero così semplice. Tre parole per incatenare il più grande impero al mondo.

 «Perché no?» chiede Inghilterra con una certa indulgenza, nonostante la sua pazienza sia al limite.

 America sbatte una mano sulla scrivania; il legno antico si frantuma con un sonoro crac, e quando America solleva il palmo, rivela una sottile spaccatura che adesso attraversa la superficie. «Non puoi e basta!»

 «Cresci, America!» ringhia Inghilterra. «È questo che facciamo. Formiamo e rompiamo alleanze per rafforzare e rinvigorire il nostro popolo, e se mi è vantaggioso sostenere la Confederazione, agisco di conseguenza».

 «Non farlo». Le mani di America sono chiuse a pugno, le nocche bianche.

 Inghilterra alza un sopracciglio. «Non farlo?» ripete con scherno.

 La mandibola di America trema, eppure la voce è risoluta. Se solo controllasse il linguaggio del corpo, arriverebbe a convincere Inghilterra. «Potresti favorirmi. O diamine, potresti starne fuori! La Confederazione è insignificante – non vi è nulla da mediare perché quella gente è me…»

 Inghilterra gli ride in faccia. Poi, girando ordinatamente i tacchi, si dirige fuori dalla stanza.

 America reagisce immantinente, apre la porta scaraventandola prima che essa abbia la possibilità di chiudersi del tutto.

 «Inghilterra!»

 In passato, udire quel nome sulle labbra di America avrebbe avuto l’effetto di trattenere Inghilterra, attirare la sua attenzione per poi fargli prestare ascolto. Ora, però, Inghilterra marcia in avanti, sul pavimento il rumore sordo e intermittente degli stivali che riecheggia, facendo sì che per una volta sia America a rincorrerlo – e America lo insegue, deve aver perso tutta la prospettiva nella foga del momento, perché Inghilterra è sicuro che l’altra nazione di norma preferirebbe buttarsi in un fiume in piena, anziché esibire una tale sentimentalità. Dopotutto, è così che si è comportato durante i primi anni di ribellione, prediligendo delle rapide insidiose dalla bianca schiuma alla nozione che Inghilterra lo mettesse con le spalle al muro, persuadendolo o intimandogli di tornare al suo posto.

 Per un attimo quella memoria destabilizza Inghilterra, i passi vacillanti, e lui si volta, forza America, il quale lo ha tallonato con determinazione, ad arrestarsi.

 Inghilterra pronuncia le seguenti parole con una calma agghiacciante. «Chi credi che io sia?»

 America lo scruta per un lungo istante, il volto che si contorce per lo sbigottimento. «Hai battuto il capo da qualche parte? Sembri uscito di sen…»

 Inghilterra lo interrompe prima di cedere agli impulsi violenti. «Vuoi che io non interferisca. Che non comunichi con la Confederazione sebbene esiga un’udienza con il mio governo. A stento hai evitato una gaffe internazionale scatenata dall’arroganza che hai palesato supponendo di poter attaccare impunemente una delle mie navi. Con che insolenza ritieni di poter pretendere qualcosa da me?»

 L’espressione di America si corruccia ulteriormente, e d’istinto schiude la bocca per rispondere, per contrattaccare – e niente gli viene in mente, un fatto che imbarazza la giovane nazione come mai gli è accaduto.

 È perfettamente ironico, invero, che America abbia deliberatamente spezzato ogni singolo legame tra loro due e adesso sia costretto a coesistere con lui, per intimidirlo o per entrare nelle sue grazie.

Benvenuto nella realtà delle nazioni indipendenti, America.

 «No» dice Inghilterra con un sorriso che mostra i denti. «Io sono l’Impero Britannico, e mi rifiuto».

 La sua rabbia doveva non essersi spenta del tutto, se la vista del baluginio di devastazione seguito dalla furia assoluta – contieniti, America, sul serio, tuttora sei talmente ingenuo da esternare così le tue emozioni al prossimo? – sul viso di America gli procura solo una feroce soddisfazione, fredda e amara.



Ai suoi ufficiali occorrono due giorni per sbrigare l’impiccio, e nessuno osa bersagliare Inghilterra con occhiate in cagnesco, ma lui sente i loro mormorii inquieti, avverte i loro sguardi turbati – l’affare Trent è un ricordo ancora troppo fresco perché possano abbassare la guardia.

 Per sua fortuna, America non è andato a piagnucolare riguardo quanto avvenuto con Inghilterra al cospetto del suo governo. No, a quanto pare si è spassionato con Lincoln, che con tatto ha inviato un discreto messaggio alla locanda presso cui soggiorna – piuttosto che alla delegazione inglese –, il cui contenuto può essere più o meno riassunto con: «Insinuate che darete il vostro appoggio alla Confederazione, o tra voi e la mia nazione è soltanto nata un’incomprensione?»

 (Inghilterra pagherebbe profumatamente pur di scoprire come quell’uomo riesca a padroneggiare la sua rete di informazione al mezzo di una guerra civile).

 Quante volte l’ha ripetuto? Il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda si è dichiarato neutrale. La differenza tra i progetti della classe dirigente e la fazione che ha il supporto del popolo britannico è già netta così, senza gettare carbone sul fuoco in ambedue i gruppi.

 Inghilterra non mischierà il lavoro con i sentimenti personali; ormai ha imparato la sua lezione.




Trovare Francia nel suo soggiorno non lo stupisce particolarmente – l’altra nazione ha sempre avuto l’abilità di apparire elusivamente ove più è sgradito. Francia volge un cenno verso Inghilterra, la mano che sorregge un calice, e con regale esuberanza gli fa segno di accomodarsi a sua volta su una poltrona broccata.

 Inghilterra ignora l’invito per forza dell’abitudine. Gli sottrae il calice e ne beve un sorso. Le bollicine gli scoppiano sulla lingua – champagne, così tipicamente
francese – e lui, mentre dà una scorsa all’armadietto dei liquori, nota che persino allora Francia non si è allontanato dalla sua poltrona, non ha cominciato a curiosare come Inghilterra si aspetta quasi.

 Peccato. Non gli dispiacerebbe se Francia cadesse trappola di uno dei tranelli che ha disposto intorno alla sua scrivania e alle sue camere private.

 «Sai, ho un nuovo imperatore».

 Le parole, enunciate con una frivola cantilena, sono misurate in modo da instillare nel prossimo una sensazione di stizza al suo massimo livello, e Inghilterra lo schernisce, poggia un fianco contro la scrivania. Le fusa della magia lo avvolgono in un protettivo abbraccio di benvenuto, la rivoltella che tiene nella fondina sulla schiena è un peso rassicurante, ma è la solida pressura della spada sull’anca che lo fa sorridere, completamente a suo agio.

 Non ha mai perso un duello contro Francia.

 «Non è nuovo».

 «Lo è per me» replica Francia. «Alcuni di noi devono accontentarsi degli umani, data la scarsità di giovani nazioni
parvenus di cui ossessionarsi».

 Il calice si incrina tra le dita inguantate di Inghilterra. «Sono indaffarato» ribatte distaccato, girandosi verso la finestra.

 «Sì, indaffarato a
giocare». Francia non abbandona mai quella sua esasperante cadenza, l’inflessione civettuola, ma riflesso sulla superficie vitrea vi è uno sguardo tenebroso, predatorio. «Attento, petit frère, non dimenticare ciò che è più importante».

 Oh, Inghilterra sa bene cosa. Il suo impero si estende su tutto il globo e a più di una superpotenza piacerebbe intagliare per sé una porzione del suo territorio, reclamare quel che ne resta. Conosce anche le ragioni per cui Francia non perde di vista la guerra civile di America, per cui un boccone del Messico appare allettante in tempi tanto turbolenti.

 «Altrettanto, Francia» risponde Inghilterra. «Altrettanto».





In passato, gli spiriti di queste terre lo degnavano delle loro conversazioni. Inghilterra non imparò mai a controllarli – proprio come la loro nazione, erano creature troppo selvatiche e spregiudicate per essere dominate da una mano straniera –, nondimeno la mistica magia richiama gli esseri affini, e nelle vene di Inghilterra ne scorre abbastanza perché allora fosse in grado di convincere i coyote dagli occhi dorati e i fuochi fatui a orientarsi nella sua direzione.

 Adesso, senza il patrocinio offertogli dalla sua posizione come custode di America, gli spiriti si muovono felpatamente nella sua ombra, la loro circospezione gli grava sulle spalle, essi sono al contempo attratti e tenuti a bada dalla sua alterità. Ha cautela di non appressare le mani alle armi, e sebbene gli spiriti non gli rivolgano la parola, Inghilterra conta che almeno considerino la nozione di avvertirlo, qualora evitasse di inciampare in un tronco salvo poi finire dritto in un accampamento della Confederazione.

 Le creature di America si dimostrano alquanto versate nell’ostruzione dei sensi altrui, abbastanza da fargli ignorare l’attacco da parte di un soldato con i nervi a fior di pelle.

 Oggi erano nell’umore per combinare dispetti, quindi.

 È un miracolo che Inghilterra non spari America e che America non lo scagli contro e attraverso un albero. Un istinto rimasto a lungo dormiente congela l’indice di Inghilterra sul grilletto talché registri quei biondi capelli che ondeggiano al vento e quelle distintive iridi blu, e ritrae bruscamente la rivoltella, la canna che scosta la frangia dal viso di America.

 America non sussulta. «Che. Diavolo. Vi fai, tu qui?»

 Inghilterra lo squadra, colto alla sprovvista. Non si sono salutati amichevolmente la scorsa volta, e indipendentemente dall’opinione che America ha di lui (positiva o negativa che sia), Inghilterra è indiscutibilmente il più anziano dei due, il più saggio. È solo in territorio statunitense e, secessione o no, sarebbe un’idiozia provocare America in questo momento.

 «Lascia perdere – come hai fatto ad arrivare fin qui?»

 La sua voce è diffidente, e Inghilterra ripone via la rivoltella, raddrizza la schiena.

 «Violatori di blocco. Assolutamente legali».

 «No che lo sono. E in genere vanno in rotta verso il Messico» rimbecca America, gli occhi scintillanti.

 «Avrei più fiducia nella tua competenza come tutore delle cosiddette norme del diritto internazionale, se solo la tua marina fosse capace di catturare effettivi violatori e non le mie navi da trasporto».

 Inghilterra reprime un sorrisetto, ma deve avere un’aria ugualmente condiscendente se America avvampa dalla rabbia, lo sguardo assottigliato.

 «Li stai armando» dice. «Ho imposto il blocco per impedire che avvenisse, eppure fornisci loro moschetti, pelletteria, scorte ospedaliere, prolungando la guerra…»

 «Anche a te vendo moschetti» obietta Inghilterra, «benché le tue tariffe rendano il commercio meno appetibile a paragone delle transazioni con la Confederazione». Le sei sillabe scorrono con fluidità sulla sua lingua, che pone una lieve enfatizzazione sulla parola, e America trasalisce.

 Quella veduta non procura a Inghilterra la soddisfazione immaginata, neanche lontanamente.

 «E tu che vi fai qui?» domanda per converso, cambiando con cura l’argomento, e questa volta America non si irrita; fissa le profondità della foresta a lungo, prima di reindirizzare la sua attenzione verso Inghilterra.

 «Queste restano le mie terre».

 Inghilterra emette uno sbuffo derisorio. «Traduzione: uno dei tuoi leader ha pensato che inviarti come spia nei territori della Confederazione fosse una brillante idea. O…» Contempla il vestiario anonimo di America, lo zaino contenente degli approvvigionamenti e la vaga sagoma di un fucile cinto alla schiena e avvolto in tela cerata, difficile da estrarre in caso di una situazione in cui reagire con prontezza. «…è una tua iniziativa?»

 Il rossore si spande sul volto di America; d’istinto chiude una mano a pugno, le unghie che, con ogni probabilità, affondano nel derma vulnerabile. «Sono i miei territori» ribatte America, e nella sua voce vi è una convinzione caparbia e disperata. «Miei. E», il tono si fa accusatorio, «bizzarro che tu protesti contro il sequestro delle tue navi e merci quando i tentativi che hai compiuto per aggirare il blocco sono innegabili, dunque scusami tanto se non ho capito da che parte stai. Deciditi, Inghilterra».

 «Sono neutrale» replica Inghilterra. «E ciò significa che non sono dalla parte di nessuno, se non che la mia».

 L’ira è ancora lì, che definisce i tratti di America. Frustrato, America si passa una mano tra i capelli, e quel gesto fa sì che il colletto della sua camicia si scosti, rivelando delle bende che gli attorniano le clavicole e il collo, fasciate strettamente – appena sostituite – e costellate da macchie di tenue scarlatto – fresco sangue trapelante.

 La mente di Inghilterra si paralizza e tace; con concentrazione, cerca di mantenere un’espressione blanda, un impassibile linguaggio non verbale. Freddamente, si chiede se la guerra civile si stia manifestando sul corpo di America sotto forma di tagli veementi o caotici fori d’arma da fuoco: entrambi sono plausibili, ed entrambi sono dolorosi, d’un male immenso.

 «Perché tu sei qui?» America ora è irrequieto, si limita a spostare il peso da un piede all’altro perché le diverse guerre che ha affrontato gli hanno insegnato che muoversi invano fa di lui un bersaglio più facile. O forse sta provando ad agitarsi il meno possibile per non peggiorare le lesioni.

 Senza rendersene conto, Inghilterra risistema il colletto di America, celando le ferite – lontano dagli indiscreti, al sicuro, sane e salve. Le mani di Inghilterra sono inguantate, ma percepisce che America si immobilizza, una singola esalazione affilata che preme contro le sue dita, e quindi subito le ritira, se le stringe dietro la schiena affinché America non intuisca qualcosa dal loro tremolio, interamente fuori dal suo controllo.

 Non se n’era accorto. Lui stesso ha vissuto una guerra civile, e ciò nondimeno non se n’era accorto.

 «Sono qui perché sono qui alcuni dei miei uomini, che combattono per uno schieramento o l’altro della tua guerra» mormora Inghilterra, e non menziona il resto: che è alla ricerca dei segni di una neonata Confederazione. La natura delle nazioni è nebulosa persino a loro – non occorre che esistano due Italie, e tuttavia al presente stanno lottando per la riunificazione. E l’ultimo arrivato che si fa chiamare Germania rassembra il Sacro Romano Impero; Inghilterra si rammenta a sufficienza quel moccioso, a cui ha desiderato piantare un moschetto contro la schiena fin troppe volte durante…

 Inghilterra, però, non intende rimuginare su questo, e ha smarrito l’impulso di rintracciare la Confederazione…

 «Oh» è l’unica reazione di America; osserva Inghilterra, gli occhi sgranati, le pupille che dominano le iridi blu.

 …e ha bisogno di allontanarsi da America in questo esatto istante.

 «Me ne vado». È un’affermazione assolutamente futile; Inghilterra ha perduto la sua eloquenza, e all’improvviso spasima per una pipa. Il tabacco è un vizio che si concede di rado, un residuo degli interminabili giorni in cui stava rinchiuso nell’umido a bordo di una nave, durante i quali gli alloggiamenti stipati e il fetore dei corpi ammassati lo soffocavano. La pipa occupava la sua mano quando essa non impugnava una sciabola o una pistola; ora circonda con fermezza le dita intorno alla rivoltella, la tiene pronta all’uso ma puntata a terra, in posizione difensiva.

 America – quell’idiota squilibrato – allunga un braccio per afferrarla. «Sì – anche no».

 Ringhiando, Inghilterra lo schiva. «Non ti sparerò, America!» Scivola lesto fuori dalla portata di America, e le seguenti parole gli sfuggono di bocca con un misto di amarezza e rassegnazione. «Ne sembro fatalmente incapace, come ben sai».

 America non dà segno di averlo ascoltato; scrolla le spalle per riaggiustare lo zaino sulla schiena, fissa la rivoltella con cruccio. «Mettila via».

 «E rischiare che uno dei tuoi incantevoli sudisti mi colpisca a tradimento nell’attimo necessario a estrarla?» contesta Inghilterra, la collera che lo ricopre come un manto protettivo. «Grazie, ma no».

 «Come ti pare» risponde America con delicatezza. «Andiamo, tanto riesco ad avvertire la loro presenza quando si spostano in massa». Una pausa, durante la quale Inghilterra si limita a scrutarlo. «Non ti lascio gironzolare da solo. Non se ne parla».

 La mascella di America è rigida, e Inghilterra d’un tratto è stanco, stanco di scontrarsi con la rettitudine giovanile di America e stanco di essere lontano dai suoi territori. Prima capitola, prima se ne può andare, lontano da America e a contatto con i familiari oceani.

 Inghilterra chiude le palpebre per un breve secondo, e in quel momento di cecità ripone via la rivoltella.

 «D’accordo» dice. «D’accordo».




È la quiete che glielo fa notare.

 Tutto tace, eccetto l’ubiquo sottofondo del mare, il crepitio della legna che arde, le voci distanti dell’equipaggio che fa rifornimento; Inghilterra la ravvisa e la conosce bene – è la quiete di una persona che cerca di non farsi scoprire.

 Si tuffa nella brezza pelagica, inspira l’odore intenso e salato del porto, e fa rilassare un poco la sua spina dorsale – non all’erta all’apparenza.

 «Che fai?»

 Inghilterra non solleva il volto. Invece arrotola ulteriormente una manica e replica, la faccia rivolta allo scafo della nave: «Hai due occhi. Usali».

 America ha imparato a essere furtivo. Ha sempre attirato l’attenzione altrui con il suo bel aspetto, la sua risata contagiosa, lo splendore del suo animo; ora li tiene a freno. Persino la mano posata sull’avambraccio di Inghilterra è contenuta, non più la brusca presa di un ragazzino, bensì una mossa calcolata che lo fa girare, lo costringe a fronteggiare America.

 A quel tocco, una nube di tenebre invade Inghilterra, che alza di scatto una mano, urtando via il braccio di America.

 «Non» proferisce piano, carezzevole, «osare farlo ancora».

 Lo sguardo di America, però, gli è pari per spirito.

 «Perché stai fabbricando navi corsare?»

 «Qui non ne vedo, tu? Piuttosto, una mancanza di cannoni e munizioni…»

 «La CSS Alabama» lo interrompe America, la voce che si incrina come ghiaccio. «Costruita dalla John Laird Sons and Company, un cantiere navale inglese, attrezzato di macchinari e componenti inglesi, che impiega un personale composto per la maggioranza da marinai inglesi. Tutto questo, per la Confederazione». Pronuncia quel nome come una maledizione, del genere di Inghilterra, stregata, celere ed esplosiva, e come un novellino ha il fiato grosso dopo averla scagliata. «Questo è peggio che eludere il blocco».

 Il silenzio può essere adeprato come un’arma, anche quando non è inteso in tal senso, e più Inghilterra lo protrae, rifiutandosi di ribattere finché non capisce come gestire la situazione, più l’agitazione di America cresce.

 Per una volta, è Inghilterra il trasandato tra i due, il cappotto e la cravatta e altro abbandonati nella cabina, le maniche arrotolate e la camicia pregna di sudore e i capelli scompigliati selvaggiamente dal vento. Mai Inghilterra si sente scapestrato quanto a bordo di una sua nave, e se con essa non può salpare per l’oceano, è disposto a rinunciare alle maniere signorili pur di prendersi cura di lei, provvedendo a tutto, dal trasporto dei carichi all’avvolgimento delle corde da ormeggio per guidarla ai moli.

 Inghilterra non abbassa spesso la guardia, e nemmeno mettere piede sulla costa americana era suo proposito. Ha trascorso settimane in compagnia della Royal Navy, perlustrando i mari europei e sorvegliando le flotte francesi e russe. In seguito ha ricevuto contezza dell’Enrica, trasferita all’isola di Terceira e destinata a essere ricommissionata e corredata per diventare l’incrociatore d’attacco CSS Alabama, e lui è stato trasbordato su una nave da carico e allontanato il più possibile dalle acque portoghesi. Il mercantile era diretto verso gli Stati Uniti e, per qualche motivo inintelligibile, Inghilterra non ha avuto il cuore di ordinare il deviamento della rotta prestabilita.

 Ha pensato di essere al sicuro, almeno, alle banchine riservate alle imbarcazioni straniere ove il popolo di America si avventura di rado senza una ragione precisa, tuttavia è da America abbattere con sfrontatezza tutte le aspettative di Inghilterra senza sforzo alcuno.

 «Anche a te una volta ho fornito delle navi» risponde Inghilterra.

 America gli griderebbe contro se non fosse mezzo ammutolito dalle emozioni che prova. «Non è la stessa cosa!»

 «Al contrario». Inghilterra solleva il mento, scruta America. «A tua detta, nessun paese può ammettere la Confederazione a meno che non voglia trovarsi in guerra contro gli Stati Uniti. Se la Confederazione non esiste, io dunque sto facendo affari con te. Sono la tua gente, no?» Allunga la mano inguantata per accarezzare lo scafo della nave. «Ed eccomi, senza aver violato alcun patto».

 Lo sguardo di America si illumina dalla frustrazione, dal disappunto, dalla collera contro se stesso. «Non è la stessa cosa» mormora, la voce intrisa di ciò che è inespresso tra loro due, «e lo sai bene».

 Inghilterra ritira il braccio, inclinando il capo per esaminare America, come se studiarlo da un angolo diverso gli permettesse di comprenderne meglio la mentalità. La retorica di Lincoln è chiara – i sudisti sono considerati dei ribelli, ed è per preservare l’Unione se invia le sue truppe in battaglia, rigettando ogni proposta di negoziazione, giacché non opina che la Confederazione sia un governo legittimo. E mentre è palese che America parteggia per l’Unione, persiste nell’asserire che tutti gli americani gli appartengono, e non fa mai menzione delle ribellioni.

 Inghilterra si chiede se America si renda conto delle sue stesse parole, e se capisca meglio i sentimenti patiti da Inghilterra quasi un secolo fa.

 In un punto indefinito del cielo, si libra il rauco richiamo di un gabbiano solitario. America non si muove, non sembra prestare attenzione a nient’altro che il molo su cui sono in piedi. «Perché lo fate? Vedo sempre te e Francia volteggiare intorno alla mia guerra come… come avvoltoi che attendono il momento propizio, ignorando le mie minacce contro chi interferisce – perché?»

 «Per l’amor del cielo». L’esasperazione che ribolle nel petto di Inghilterra è dolorosa nella sua familiarità – la sorte dell’ingenuo idealismo di America è quella di finire annientata in un modo o nell’altro, e sebbene una volta l’innocenza della giovane nazione gli ispirasse tenerezza, Inghilterra oramai è ben poco propenso a difendere America dalla dura realtà.

 Non che America glielo consentirebbe. Anzi, si immerge in essa di sua volontà.

 «Senza dubbio una qualsiasi nozione su come opera questo mondo ti sarà entrata in quella testa dura» prosegue Inghilterra, e la mascella di America si irrigidisce e digrigna i denti. «Amici, alleati, tutte definizioni commoventi su carta, ma in verità noi nazioni dobbiamo badare a noi stessi, anche a scapito dei cosiddetti… amici».

 Resiste l’impeto di toccarsi il braccio sinistro, quello rottogli in quattro parti da uno dei suoi fratelli durante una lotta per il potere e i territori tra le molteplici, molto, molto tempo fa. Il Medioevo è stato un letamaio di inclemente violenza commessa nel nome dei propri interessi.

 «Lo so» ringhia America.

 «Puoi affermarlo con convinzione? Vascelli come l’Alabama sono mere transazioni commerciali tra la Confederazione e dei cittadini privati dediti alla costruzioni di navi. Non sono sanzionabili dal mio governo. Ma non incolpo la mia popolazione per aver cercato di trarre profitto da una valida opportunità lavorativa».

 America lo spintona, fulmineo e brusco, e Inghilterra è talmente colto alla provvista da urtare la murata della nave, le mani di America poggiate sulle sue spalle che lo bloccano con saldezza. America si prende un attimo di pausa per recuperare il fiato, sollevando lentamente il capo, e Inghilterra è disarmato ma è veloce, scaltro, esperto, un moto di violenza che canta nelle vene…

 «Inghilterra» dice America, il viso così ravvicinato che Inghilterra avverte il suo respiro contro la propria gote, e pertanto si paralizza; è la prima volta da diverso tempo che sente America chiamarlo per nome in quel modo, spoglio di ira, di biasimo o di fastidio. Spesso e volentieri, America preferisce evitare di pronunciarlo.

 Si scrolla rudemente da sé la stretta di America, il peso del corpo tuttora riversato sulla punta dei piedi. America si scosta a malapena, séguita con la sua insistenza, non abbastanza da torreggiarlo, nondimeno a sufficienza da innescare ogni suo impulso difensivo. Inghilterra, però, decide consciamente di stare fermo, e aspetta.

 «Se qualcosa…», ed entrambi ignorano che è una questione di quando, non se, «…accade alla mia gente a causa di queste navi, ti riterrò personalmente responsabile».

 Sono troppo prossimi per guardarsi serenamente in faccia, la contiguità che rende l’atmosfera insoffribilmente intima. Inghilterra abbassa lo sguardo per un istante, osserva il vestiario di America. Questa volta, la sua camicia è abbottonata fino al collo.

 Inghilterra potrebbe spingere America e farlo cadere a terra, invece sussurra: «Non è quello che fai sempre?»




“…che nel primo giorno di gennaio, nell’Anno di Nostro Signore 1863, tutte le persone tenute schiave in qualunque Stato o parte designata di uno Stato, il popolo del quale sia allora in rivolta contro gli Stati Uniti, siano allora e da quel momento innanzi per sempre libere; il Governo esecutivo degli Stati Uniti, comprese le autorità di terra e di mare, riconoscerà e manterrà la libertà di dette persone e non farà atto alcuno per reprimere qualsivoglia sforzo esse facciano, singolarmente o in associazione, per ottenere la loro libertà…”



Brillante, brillante America. O fortunato America, per avere una guida e uno stratega tanto abile come Lincoln al suo fianco.

 «Congratulazioni».

 La testa di America scatta in su.

 Inghilterra scivola con grazia nella piccola nicchia che si erge sulla sala da ballo sottostante. Oggi indossa abiti in pelle e lino, nello stile dei mercanti britannici, il che mette a disagio le sentinelle di America nascoste nel buio, malgrado il fatto che un reale assassino avrebbe maggiore discrezione, e che la loro nazione, nonostante sia ferita, sarebbe più che in grado di difendersi.

 Inghilterra li squadra, dando apertamente atto della loro presenza – vi vedo, e non mi spiace che ne siate al corrente –, mossa che li fa impuntare e che li allarma ulteriormente finché America non volge loro un gesto muto ed educato. I soldati si ritirano, e Inghilterra volge loro le spalle, nell’ombra si unisce ad America appoggiato alla balaustra del balcone.

 «Ti hanno reso guardia d’onore. Sul serio?»

 «Non faccio che tentare di controllare le condizioni in cui riversano gli altri stati» borbotta America cocciutamente. «Per adesso, pensano tutti che sia meglio che riposi».

 Sul volto di America si possono ancora scorgere delle fugaci tracce di meraviglia, negli angoli degli occhi, nella curva delle labbra che inconsciamente tende in giù, e sebbene la sua faccia sia indirizzata verso la sala da ballo, continua a studiare Inghilterra di tralice.

 Inghilterra posa una mano sulla balaustra, scruta il salone su cui si elevano. America vi si è recato giusto un’ora fa, audace e gioioso e libero, al centro dell’attenzione, la sua gente che gli si è radunata intorno d’istinto, prescindendo che fossero edotti o meno della sua identità.

 «Si preoccupano sempre» sussurra di rimando Inghilterra, «quando per loro saremmo disposti a tutto».

 Si arresta un attimo – le spalle di America sono impercettibilmente tese, ancora innervosite dal commento con cui si è annunciato Inghilterra, come se attendesse una sequela di stoccate. Inghilterra emette uno sbuffo sommesso di riluttante divertimento; prevedibile che America non fosse capace di distinguere la differenza tra un complimento genuino e uno sarcastico. Mantiene un timbro basso, confidenziale. «È stata una manovra strategica. E molti applaudono questo tuo passo in avanti verso l’eguaglianza».

 Ufficialmente, la guerra imperversa. Ma l’annuncio di Lincoln – il Proclama di Emancipazione – rovescia completamente le carte in tavola. Il cangiamento nel popolo americano, nella causa per cui lottano, è lampante. E per quanto concerne Inghilterra – il suo governo ha assistito meticolosamente gli sviluppi, e dacché vi era prova di un addizionale conflitto, quello razziale, una decisione è stata presa.

 Inghilterra è ed è sempre stato neutrale, ma adesso è impossibile che il suo parlamento riconosca od offra apertamente il suo sostegno alla Confederazione.

 «Te l’ho detto» ribatte piano America, la postura che si rilassa appena. «Mi appartengono tutti gli americani».

 «Invero» concorda Inghilterra.

 Lo sguardo di America guizza in alto a quella risposta, e quello di Inghilterra lo incontra questa volta, non consente a esso di sfuggire.

 Non esiste nessuna nazione sudista. Vi è solo America, che con ogni probabilità rimarrà integro.

 Inghilterra è irrazionalmente, intensamente fiero che America vi sia riuscito.

 «Sono certo che ne hai il sentore, ma adesso non dovrai temere le interferenze di noi europei». Le labbra di Inghilterra si inarcano in un sorriso sardonico, sghembo. America lo fissa, la bocca semiaperta come se volesse obiettare senza avere idea di cosa dire, e il sorriso di Inghilterra si fa un poco più goliardico prima di distogliere il viso, soddisfatto dell’affermazione.

 Non si concede la gratificazione di sfiorare America; le nazioni, specialmente le potenze coloniali, preferiscono mantenere le distanze l’un dall’altro, ma America era un bambino affettuoso e Inghilterra ora può confessarlo – gli manca. È più prudente e benefico alla sua salute serbare la lontananza, però, pertanto si congeda da America con un cenno di capo, e si gira per avviarsi.

 «Sarà sempre così?»

 La domanda è secca, come se ad America fosse scappata intenzionalmente, ed essa rimbomba nella quiete spezzata. La mortificazione invade il volto di America, per poi essere forzatamente sostituita da una calma incolore, il mento alzato con insolenza.

 Potrebbe avere una moltitudine di accezioni; Inghilterra ne riesce a immaginare una dozzina. È quantunque consapevole di cosa America gli sta chiedendo veramente, che questa guerra civile rappresenta un mutamento paradigmatico per la giovane nazione, ove le guerre non sono vinte affidandosi meramente alla possanza e alla perizia dei singoli o alla probità della propria causa, bensì districandosi nell’aggrovigliata rete della politica, influenzata dalle nefaste ingerenze dei poteri esterni.

 E per quanto riguarda combattere la propria gente, non un’invasione straniera, bensì il rifiuto amaro ed emorragico dall’interno…

 «Hai sempre voluto secedere da me?»

 Inghilterra non saprebbe indicare chi, tra loro due, è più stupito dall’interrogativo. Deglutendo la sua gola schiocca, la sua bocca è arida di colpo. Gli occhi di America sono sgranati nell’oscurità, e il silenzio è greve come la madida aria virginiana di quel giorno, quando Inghilterra mirò il suo moschetto verso la faccia di America e non riuscì, non poté sparare quel colpo.

 L’espressione di America si storce, come se lui si costringesse a parlare con la trachea gonfia di polvere da sparo e fumo, ma quando infine replica, la sua voce è fievole, appena udibile, e soprattutto onesta.

 «No».

 Si osservano a vicenda con il fardello dei ricordi sulle spalle, America con gli orribili tagli ancora avvolti sotto gli strati di bende, e Inghilterra alto, candido, il cuore che brucia come aceto versato su delle vecchie ferite. America lo scruta con il tormento nelle iridi blu ceruleo, ma Inghilterra lo capisce – vi è acciaio nella colonna vertebrale di America, una forza di volontà al di là della desolazione che si cela dietro ogni sua azione.

 Tutto cambia. Coloro che si dichiaravano tuoi alleati possono divenire neutrali all’improvviso, solo per poi sovvenire a chi altri l’indomani. Le colonie possono giurare fedeltà o proclamare la loro scissione. Un popolo può annichilire il suo stesso paese, campagna per campagna. E a volte…

 A volte la ruota gira sino a tornare al punto di partenza, con America che lo guarda non più con meraviglia, non più con ingenua innocenza, ma vivo innanzi a sé.

 «Questa è la tua risposta» dice Inghilterra, e si incammina.










Note:
 ☙ L’Unione minacciava di dichiarare guerra a chiunque riconoscesse ufficialmente l’esistenza degli Stati Confederati d’America. La Confederazione credeva nell’autorità del “Re Cotone” (ovvero nella sua indicibile necessità come prodotto d’importazione) e presumeva che avrebbe ricevuto l’ausilio europeo. In realtà, l’opinione pubblica nel Regno Unito era divisa tra chi simpatizzava per i nordisti, che lottavano contro la schiavitù, e i sudisti, che invece lottavano per il diritto di autogovernarsi. La neutralità inglese irritava assai entrambe le parti, giacché erano ambedue convinte di meritare sostegno e consideravano intollerabile il fatto che la Gran Bretagna non appoggiasse loro.
 ☙ L’8 novembre 1861, la nave a vapore britannica RMS Trent fu intercettata dal capitano Wilkes e il suo equipaggio, che catturarono e rimossero due inviati sudisti, James Mason e John Slidell, in rotta verso la Gran Bretagna e la Francia al fine di ottenere legittimazione diplomatica e aiuto per la Confederazione. Gli inglesi ne furono oltraggiati, mentre gli Stati Uniti ritennero che trasportare Mason e Slidell a bordo del Trent potesse essere il modo con cui la Gran Bretagna riconosceva la Confederazione. Il Regno Unito pretese delle scuse e il rilascio dei due delegati; crebbe il rischio che scoppiasse una guerra, con gli inglesi che addirittura rinforzarono la marina e la loro presenza militare in Canada, finché Lincoln non appianò la situazione liberando gli uomini. Pur se Mason e Slidell completarono il loro viaggio, la Gran Bretagna non riconobbe mai la Confederazione.
 ☙ La Gran Bretagna e la Francia non entrarono in guerra come nazioni, ma alcuni individui inglesi prestarono servizio da una parte o l’altra del conflitto. La Francia rimase neutrale, in primo luogo perché intendeva appropriarsi del Messico (1862), e non voleva provocare l’Unione per non subire intromissioni. Il “nuovo” imperatore di Francia è Napoleone III.
 ☙ America finisce per ritenere Inghilterra “personalmente responsabile”. Nel 1872, dopo svariate dispute, la Gran Bretagna pagò 15,5 milioni di dollari agli Stati Uniti per i danni scaturiti dalla CSS Alabama e dalle altre navi sudiste di fabbricazione inglese.
 ☙ Con il Proclama di Emancipazione, l’Unione dichiarò l’eradicazione della schiavitù come una delle sue esplicite ragioni di guerra. L’emissione del documento garantì che la Confederazione non ricevesse il riconoscimento e il sostegno del Regno Unito, il quale aveva abolito la schiavitù all’inizio dell’Ottocento, e della maggioranza d’Europa, in quanto riconoscere la Confederazione implicava appoggiare la schiavitù.

   
 
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