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Autore: Clown    24/09/2018    0 recensioni
Una lettera di licenza e il desiderio di un momento di normalità. Il Comandante Shepard non desiderava altro che abbandonarsi al sogno di quell'istante. La sensazione di sentirsi una donna, prima di un soldato. Di sentirsi un essere umano, prima di un eroe. Ma di fronte a sé, solo la realtà dell'esercito e della guerra. E di un sentimento che detestava non riuscire a sopprimere. [FemShepxVega]
Genere: Drammatico, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Comandante Shepard Donna, James Vega, Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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In hoc signo vinces





Da quella notte sul tetto dell’ospedale, James era riuscito a trascorrere innumerevoli serate in compagnia di Shepard, ringraziando l’intercessione di una certa dottoressa Lawson, incredula ma appagata del fatto che la sua paziente stesse recuperando il giusto equilibrio psicofisico grazie a colui che non esitava a definire “un krogan sotto anabolizzanti”.
Approfittava di ogni momento libero, con l’accuratezza di depistare per quanto possibile le spie krogan, come suggeritogli da Miranda: cambiava ripetutamente mezzo di trasporto; si presentava a sera inoltrata, col favore della penombra dei lampioni; era arrivato persino a travestirsi, fase durata giusto il tempo impiegato da un suo superiore per vederlo con la parrucca bionda. La degradazione fu una minaccia sufficiente per convincerlo a limitarsi a abiti civili e felpe col cappuccio.
Poi, un giorno, la notizia inaspettata.
Licenza anticipata, della durata di una settimana.
Il suo primo pensiero fu di provare a convincere Miranda a fargli trascorrere l’intero periodo in compagnia di Shepard, a costo di dormire per terra in un sacco a pelo. Ma prima, avrebbe dovuto sfruttare l’occasione a suo vantaggio.
Quella sera, a bordo del taxi, un messicano vestito con raffinatezza teneva tra le mani un mazzo di anemoni.

Chissà che faccia farà Lola. Scommetto che dirà qualcosa di volgare contro la roba da donnicciole” sogghignò tra sé e sé. Per lo meno, sperava che evitasse l’espressione disgustata del povero sottoposto che, dopo avergli riferito la lieta notizia, si era ritrovato avviluppato in abbraccio stritolante non richiesto.

Prima di quanto avesse immaginato, perso nelle proprie elucubrazioni mentali, James si accorse che il taxi era atterrato nella piazzola riservata di fronte all’Anderson Hospital. Con un cenno di ringraziamento allungò all’autista i soldi corredati di una generosa mancia e uscì dalla macchina.

 Vestito elegante, c’è. Fiori, ci sono. James Vega nelle condizioni migliori, anche. Vale, vamos!

Sfoderando il suo migliore sorriso, risalì l’architettonicamente impeccabile ma inutile rampa di scale che collegava la piazzola di atterraggio all’ingresso dell’ospedale. L’ultima procedura burocratica obbligatoria, a cui ormai aveva fatto l’abitudine, consisteva nel superare la procedura di riconoscimento presso la zona di smistamento antistante l’entrata.
Sperò che di turno avessero collocato Sam, con cui aveva stretto una discreta amicizia, e provò una sensazione di disappunto quando dietro bancone vide un impiegato mingherlino, i cui capelli color paglia facevano a pugni con il colorito verdognolo che le luci artificiali conferivano alla carnagione.
Particolare ancora più strano, non vedeva guardie di sicurezza nei paraggi.

Saranno andati a prendere un caffè…” cercò di giustificare, schiarendosi la voce.

«Salve!» provò a richiamare l’attenzione dell’impiegato. Questi non diede segno di aver udito, giacché continuò a pulirsi le unghie con una piccola lametta di plastica.

Dev’essere davvero molto concentrato” «Ehi, salve? Mi sente?» riprovò, stavolta bussando con ma mano libera contro la superficie del bancone.

«L’ospedale è chiuso per manutenzione, se ha bisogno provi a chiamare il numero di emergenza, altrimenti ripassi domani mattina» ottenne come risposta, senza tuttavia che il ragazzo, perché di un ragazzo e non di un uomo si trattava, alzasse la testa dal lavoro che lo impegnava.

«Come sarebbe dire che l’ospedale è chiuso? Da quando gli ospedali chiudono?» sbottò l’ispanico di rimando, mostrando appieno il proprio disappunto. C’era qualcosa che non andava.

Vide l’impiegato sospirare, un sospiro seccato più che dispiaciuto, e appoggiare la lametta sul tavolo di fronte a sé. Infine, si degnò di drizzare la testa.

«Se ha delle lamentele può rivolgersi, domani mattina, all’ufficio competente.»

Il tono era di sfida, la smorfia sul volto lasciava trasparire ostilità, ma più di ogni altra cosa, James fu attirato dagli occhi, immensi e verdi, e dal particolare che consentiva loro di rimanere impressi nella memoria: l’iride destra caratterizzata da una piccola screziatura color sangue.

L’inserviente…

Calò il gelo. Dall’espressione del ragazzo si rese conto di essersi tradito.

«Posso fare qualcos’altro per lei, signore?» si sentì chiedere da una voce improvvisamente melliflua, il sorriso di Giuda spuntato sul volto verdognolo.

Con la coda dell’occhio lo vide muovere un braccio, spostamenti quasi impercettibili, verso la parte inferiore del bancone.
Sentì l’adrenalina entrargli in circolo: riusciva a percepire il battito del proprio cuore nella testa, lento e costante, intervallato dai suoi respiri profondi, i sensi in allerta massima, i nervi tesi come corde di violino. Poi vide il braccio dell’inserviente scattare, un movimento fulmineo di un serpente, un bagliore metallico ben saldo nella sua mano.
I fiori scagliati con violenza contro il volto dell’impiegato e il colpo, perduto tra i petali, sfiorò il suo lobo. Tra i colori sgargianti dei fiori, James vide un’espressione di orrore impossessarsi del volto dell’uomo quando riuscì ad afferrargli il bavero della camicia.
La tempia sbatté una, due, tre volte contro la superficie del bancone. Le ossa del cranio scoppiettarono come rametti spezzati, la pelle emise un rumore di stoffa strappata, i capelli color sangue rimasero stretti nella mano libera dell’ispanico finché le convulsioni non cessarono.
Solo allora James lo lasciò andare.
Si guardò attorno, come aspettandosi di veder comparire qualcuno dai bui anfratti della sala d’aspetto. La colluttazione era stata caotica, lo sparo era chiaramente risuonato tra le mura dell’ambiente.
Alle orecchie gli giunse il solo rumore dei suoi stessi profondi respiri.

“Cosa cazzo sta succedendo?”

Ricordatosi di essere armato e in abiti civili, attivò lo scudo di emergenza prima di strappare dalle dita cadaveriche la pistola. Controllò il caricatore, per poi frugare nelle tasche dell’uomo: una sola clip termica con quindici colpi prima del surriscaldamento.
Infine, selezionò sul factotum la frequenza di comunicazione di Vakarian.

«Garrus, riesci a sentirmi?»

«James! Perché stai bisbigliando? Ah, ho capito! Non vuoi che Shepard si accorga che mi stai raccontando com’è andato il vostro primo allenamento orizzontale, eh?»

«Cos… no!»

«Allora vedi di sbrigarti, ho scommesso con Joker che sarebbe successo prima di tre mesi e non voglio perdere i miei crediti.»

«Avete scommesso…? Oh, Diós, che cazzo sto dicendo. Garrus, sto per entrare nella hall dell’ospedale. Un tizio ha appena cercato di ammazzarmi e credo che sia successo qualcosa di grosso.»

«Cosa? Dannazione…»

«Non lo so, non sono ancora entrato e l’ambiente è buio, temo che abbiano staccato i generatori.»

«Shepard?»

«Non lo so, la sto andando a cercare e ho paura di avere poco tempo.»

«Ho capito, mi metto in contatto io con il Centro Operativo. Appena sai qualcosa di più…»

«…te lo comunico. Tieni libera questa frequenza. Chiudo.» “Bene, ora vediamo di capire in che situazione di merda mi sono cacciato stavolta.”

In cuor suo, cercava di convincersi che Shepard non fosse coinvolta. Certo, lei era una calamita per gli assassini e gli squilibrati ma, in fondo, nessuno ad esclusione dei medici e delle sue guardie del corpo era a conoscenza del fatto che si nascondesse in quel luogo e non c’era motivo per cui qualcuno volesse farle del male. Eppure… eppure qualcuno l’aveva filmata di nascosto e aveva venduto le riprese al miglior offerente, e quell’inserviente, per il quarto piano, era riuscito quantomeno a transitare. Per quanto le possibilità che fosse Shepard l’obiettivo di quell’attacco potessero dirsi scarse, una brutta sensazione continuava ad aleggiare nella mente di James.
Spingendo la porta di vetro con una spalla, la pistola ben salda in mano, entrò nella hall dell’ospedale. Le fioche luci di emergenza non riuscivano a penetrare il buio asfissiante e si vide costretto ad accendere la torcia dell’omni-tool per riuscire a orientarsi.

«Madre de Diós…»

Decine di cadaveri giacevano riversi sul pavimento e contro i muri, annegati in pozze di sangue che si mescevano in un unico lago violaceo in cui le differenze di specie perdevano di significato.
L’arma stabile di fronte a sé, torcia puntata in avanti in posizione CQC, James avanzò nel mezzo del massacro; pur mantenendo un precario l’equilibrio, percepiva la debole resistenza delle suole degli scarponi al viscidume e si ritrovò in più punti costretto a pattinare sul sangue per evitare di sdrucciolare a terra.
La luce della torcia illuminò il volto di un bambino riverso su un poliziotto, le braccia esili che ancora stringevano un corpo i cui lineamenti erano stati cancellati da un colpo di fucile a pompa. Aveva cercato la protezione in un abbraccio e il terrore era rimasto impresso in due occhi troppo grandi per quel corpicino crivellato di proiettili.
Digrignando i denti, si avvicinò al bambino. Sentiva la necessità di abbassare quelle palpebre, doveva dare a sé stesso l’illusione che stesse solo dormendo.
La pelle era ancora calda e al tocco dell’uomo il minuscolo cadavere si mosse, adagiandosi sulla schiena.
L’ispanico trattenne a fatica un singhiozzo.
Un piccolo led lampeggiante, fino a quel momento rimasto celato dal corpo, illuminò fiocamente la stoffa lacera della divisa: il factotum del poliziotto, benché seriamente danneggiato, indicava una registrazione in corso.
James afferrò il braccio e lo trascinò a sé. Bastò il movimento perché la registrazione si interrompesse, e si vide costretto a premere più volte sull’interfaccia olografica prima che l’impulso elettronico di riproduzione giungesse all’hardware centrale.
Un audio fioco e saturo di disturbi fu tutto ciò che lo strumento riuscì a restituirgli.

“«Codice tre, uno, due. Ripeto, codice tre, uno, due. Siamo sotto attacco. Mandate rinforzi. Ripeto, mandate rinforzi. Siamo…»” il ruggito di un fucile spezzò le parole. Alle urla del bambino si contrappose una voce roca e profonda, “«Morti, con i complimenti del clan Urdnot.»”

James interruppe la registrazione.
Krogan.
Digitò freneticamente la frequenza radio di Garrus.

«Qua Vakarian.»

«Krogan!» la voce proruppe più forte di quanto avrebbe desiderato, «Sono i krogan! Stanno cercando Jane!»

«Porca puttana… invio la comunicazione al Centro Operativo, le forze speciali in venti minuti dovrebbero essere lì.»

«Venti minuti? Cosa cazzo hanno fatto in tutto questo tempo?»

«È un potenziale attacco terroristico, sai meglio di me che le procedure non sono veloci in questi casi.»

«Dannazione, Jane potrebbe non avere venti minuti. Devo andare da lei.»

«James, è un plotone krogan. Ti farai ammazzare!»

«Devo tentare. Non posso perderla di nuovo!»

Chiuse la conversazione. Non aveva tempo per gli scrupoli del turian.
Tentò di ricordare la pianta dell’edificio: al piano terra, due ascensori. Da scartare entrambi, il blackout li aveva messi fuori uso. Due scale di servizio, le luci di emergenza le davano entrambe agibili.
Doveva bloccarne una, obbligare i krogan a percorrere la sua stessa strada.
Il fulgore della fiamma ossidrica rimase impresso sul bordo della porta occidentale come una lunga scia incandescente.
James perse un paio di secondi a osservare il risultato.
Nemmeno una carica krogan avrebbe potuto sfondarla.
Eppure… tre preziosi minuti di vita di Shepard. Tanto aveva impiegato per concludere il lavoro.
Il cuore in gola, si precipitò verso il lato orientale della sala.
Si vide costretto a combattere contro sé stesse e ad aprire con cautela la porta tagliafuoco, nel timore che una truppa krogan fosse in dirittura di arrivo. Non sapere quanti fossero, e ritrovarsi per di più in posizione inferiore, lo poneva in una palese condizione di svantaggio.
Una fessura a separarlo dalla rampa di scale, trattenne il respiro per consentire al proprio udito di percepire il minimo afflato. Il cuore che rimbombava nel petto rimase l’unico segnale di pericolo imminente.
Consentendo all’ossigeno di sommergere i polmoni ormai brucianti, James entrò nella tromba delle scale e iniziò la salita. Benedisse il fatto che le rampe interne non fossero in acciaio e le suole degli scarponi, benché appiccicose, attutissero i suoi passi.
Quinto piano.
Decimo.
Quindicesimo.
Ventesimo.
Malgrado l’allenamento da N7, James dovette rallentare: il cuore aveva raggiunto la soglia di allenamento massima e protestava furioso in un torace che gli sembrava improvvisamente troppo stretto.
Ventitreesimo.
Ventiseiesimo.
La gola gli bruciava sin quasi a farlo lacrimare.
Ventinovesimo.
Trentaduesimo.
I muscoli delle gambe gli sembravano in fiamme.
Trentatreesimo.
Jane aveva in totale otto minuti in meno di vita.
Trentaquattresimo piano.
Sentiva delle voci. Spense la torcia. Socchiuse la porta tagliafuoco e vide anche le ombre.
Due krogan a circa trenta metri di distanza, uno di fronte all’altro, posizionati a guardia delle scale di servizio che portavano al tetto.
In quel momento capì dove avevano portato Shepard.
Era un soldato d’assalto e la sua stazza non gli avrebbe mai consentito di muoversi con circospezione. Doveva sfruttare velocità ed effetto sorpresa.
Controllò la pistola: i proiettili erano in canna, la clip termica inserita e la sicura tolta.

“Tre…”

Prese un respiro profondo.

“Due…”

Appoggiò la spalla sinistra sulla leva, pronto a spingere.

“Tre!”

La porta sbatté contro il muro. Il clangore dell’impatto si mescolò agli spari. Un colpo, poi un altro, e un altro, e ancora, il corridoio era stretto e lo spostamento delle braccia minimo. Un proiettile gli sfiorò il volto, l’imprecazione di un krogan gli scivolò addosso come acqua.
L’esercito gli aveva insegnato a essere spietato, gli N7 a essere preciso. Entrambi videro in quell’azione il perfetto compimento dell’addestramento.
James osservò i cadaveri dei krogan riversi a terra, le armature integre, i musi crivellati di pallottole da apparire indistinguibili.
Lasciò cadere la pistola, priva di colpi. Ammirò le armi degli avversari. Ignorò il fucile a pompa, intonso, e si appropriò del fucile d’assalto. Caricatore pieno e tre clip termiche.
Se le sarebbe fatte bastare.
Salì le scale. Poche rampe lo separavano da Shepard. L’adrenalina in circolo era talmente alta che gli sembrava di sentirla scorrere lungo le proprie vene.
Attraverso la porta d’accesso al tetto altre voci, altre risate; due, una sovrastava l’altra. Due krogan morti al piano inferiore, due sul tetto, un piccolo plotone, pochi elementi per catalizzare l’attenzione in maniera minore. Non faticò a distinguere il timbro crudele di Urdnot Wreav e, forse, soffocato dalla potenza dei krogan, sognò di udire Shepard, flebile come un sussurro.
Controllò che la sicura del fucile fosse disinserita prima di dirottare tutta l’energia secondaria del factotum sugli scudi. Aveva una sola chance e nessuna possibilità di individuare la posizione del nemico prima di esporsi. Il cervello macinò strategie militari a pieno regime; doveva agire per gradi, risparmiare munizioni e trovare una copertura.
Tutto questo, sperando che non ammazzassero Jane appena avesse fatto irruzione.
Cercò di infondersi coraggio: le possibilità di salvarla erano minime e si sarebbero azzerate del tutto se non fosse intervenuto.
Un respiro e poi un altro, lasciò che la respirazione regolasse il flusso d’adrenalina.
Contò fino a tre. Infine, spalancò la porta.
Fianco destro, guardia krogan, fucile a pompa. Di fronte, Wreav, fucile a pompa, a pochi passi dal cornicione alto pochi centimetri. Accasciata sulle ginocchia, tenuta sollevata per il braccio biologico, Shepard. Sangue sulla tunica, ecchimosi sul volto, testa china, reazione minima.
Lo sguardo di James si oscurò per un istante.
Il frastuono dello scudo in frantumi lo ritrasse bruscamente dall’abisso in cui era precipitato e le urla cantilenanti del factotum gli ricordarono come la sua vita fosse appesa a un filo.
Si gettò sulla sinistra, usando la parete opposta del gabbiotto delle scale come copertura; una sensazione di bruciore al braccio sinistro rimase come memento di un proiettile troppo vicino al suo corpo privo di protezioni.
Guardò di sfuggita l’ora: i rinforzi non sarebbero arrivati prima di sette minuti. Si appiattì contro il muro, il fucile d’assalto stretto al petto, impotente dinnanzi alla risata sardonica di Urdnot Wreav.
Digrignò i denti. Doveva almeno fingere sicurezza.

«L’esercito sa che siete qui. Lasciala andare e farò in modo che non vi usino per il tiro al bersaglio!» urlò, sperando di riuscire a simulare sufficiente arroganza. Non vide, né se ne accorse il krogan, come al suono della sua voce Shepard avesse alzato la testa.

«Lasciarla andare? Poi dicono che siamo noi krogan gli idioti della galassia» commentò Wreav, le parole frammiste a una nuova risata, «Ma tu… tu eri su Tuchanka quel giorno, vero?»

James si morse il labbro. Non poteva rischiare di mentire e farlo incazzare più di quanto già non lo fosse.

«…sì.»

«Sentito Svarr? Abbiamo un altro di quei figli di puttana! C’è anche il turian o anche lui ha capito chi è veramente Shepard?»

Wreav strinse il pugno attorno al polso della donna, strappandole un’imprecazione.

«Basta!»

«Sentilo come si innervosisce a toccargli il suo bel comandante. Ehi, Svarr, resta fermo e tienilo puntato. Voglio che assista alla morte di Shepard come ha assistito alla fine dei krogan.»

James sparò un colpo in aria, i muscoli del viso tanto contratti da dolergli.

«Lasciala andare ho detto! Non lo ripeterò un’altra volta!»

«Svarr, abbiamo un eroe tra noi. Come se fossi nella posizione di poter dare ordini, idiota. Getta quell’arma o sarò io a gettare Shepard dal tetto.»

«Tu fallo e vengo personalmente a prenderti a calci nel culo, James!»

La voce di Jane risuonò nitida e tagliente nell’aria gelida della notte, come un balsamo rincuorante che avvolse la mente dell’ispanico e gli diede il coraggio di sporgersi e incrociare il suo volto con lo sguardo.
Fu solo la consapevolezza di essere sotto il tiro dello scagnozzo a trattenerlo dal reagire d’istinto quando vide Wreav contrastare la ribellione di Shepard scagliandola a terra con violenza.

 «Sta zitta!»

James la sentì ridere, un tintinnio raggelante di belva al muro, e ammirò la tenacia con cui si rialzò da terra, il viso rivolto al cielo.

«Sentito, James? Secondo questo stronzo dovrei stare zitta altrimenti s’incazza. Che coglione!»

Wreav le puntò il fucile alla nuca sino a immergere la canna dell’arma tra i riccioli.

«Parla ancora e giuro che ti apro un buco nel cranio.»

«Come se avessi mai avuto altro in mente. Cristo santo…» Jane si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito, inarcando il collo ad appoggiarsi più comodamente contro il fucile «sei talmente una testa di cazzo da non aver ancora capito che non ho bisogno di aiuto per difendermi.»

Shepard scartò di lato. Sfruttando l’istante di disorientamento di Wreav, lasciò che il braccio sinistro scattasse verso l’alto. La rigidità del metallo si scontrò con un clangore secco contro l’armatura del krogan. Gli artigli persero la presa sul fucile.

«Ora, James!»

Urlò, e nell’istante in cui la voce le proruppe dal petto si scagliò con tutto il suo peso contro Wreav. Il colosso sfiorò il cornicione col tallone, e in un singulto di vendetta arpionò la tunica di Shepard. L’equilibrio, colpito a morte, li trascinò nel baratro.
James sentì il cuore accartocciarglisi nel petto.

«No!»

Abbandonò la protezione della parete; la raffica di proiettili approfittò della disattenzione del figlio di Tuchanka superstite.
Il fucile e il krogan collassarono all’unisono sul cemento.
La gola tanto contratta da impedirgli di respirare, James si sporse dal bordo del palazzo.
Dinnanzi a lui, incorniciata dal lampeggiare distante delle forze dell’ordine e dalla minuscola figura di un Wreav frantumatosi contro l’asfalto, si palesò l’ultima battaglia di Shepard: in un’estrema manifestazione dell’istinto di sopravvivenza, era stata in grado di agganciare le dita meccaniche della protesi alla bandiera dell’Alleanza.

«Jane! Sono qui! Prendi la mia mano!» urlò con foga, sporgendosi quel tanto che bastava per evitare di cadere.

«Non riesco a vederla!»

«Allungala, ti afferro io!»

La vide alzare il braccio libero, che annaspò nell’aria i pochi istanti che gli furono necessari per stringerle l’avambraccio. Sentì restituire la stretta, le dita della donna fare presa sui muscoli. Fece leva sullo spigolo del cornicione e i muscoli del suo corpo iniziarono a protestare. Ringraziò il cielo che Jane fosse più leggera di un tempo.
La sollevò sul tetto sino all’addome, quando si concesse di agguantare la stoffa sulla sua schiena per riuscire infine a portarla al sicuro, lontana dal bordo.
Si alzò in piedi e con sé trascinò Shepard, il corpo della donna stretto tra le sue braccia, il proprio a farle da riparo dal vento gelido che infieriva sull’edificio.

«Stai bene?» chiese con voce strozzata, cingendole il capo con le mani, gli occhi fissi sulla donna.

«Sì. È finita…» commentò di rimando, un sorriso soddisfatto dipinto sul volto tumefatto, il famigerato sangue freddo che si manifestava in tutta la sua energia, «quello stronzo non sarà più un problema».

«Diós, temevo… temevo… di averti persa di nuovo…»

James si sentì balbettare, lo sguardo che saltava in maniera convulsa dal volto di Shepard al parapetto e di nuovo sul suo volto. Pochi metri di distanza e non avrebbe avuto alcuna bandiera a cui appigliarsi.

«James, che cazzo, calmati! Sto bene!»

Gli afferrò il bavero della camicia. L’uomo sentì il fiato mozzarglisi in gola.
Il volto di Jane, pallido e chiazzato di ecchimosi violacee, gli sembrò così minuto e fragile tra le sue ampie mani. Con le dita le scostò i capelli sudati dalla fronte, per poi pulirle il mento dal rivolo di sangue ormai essiccato.

«Non stavolta…» riuscì a malapena a rantolare.

La donna corrucciò le sopracciglia. «Che hai detto?»

L’ispanico digrignò i denti, trovando le forze per respirare di nuovo.

«…stavolta non ti ho lasciata andare.»

La afferrò, avvolgendole il corpo con un braccio. La trascinò a sé e colmò la distanza tra le loro bocche prima che potesse parlare di nuovo.
La trattenne, immergendo la mano tra i suoi riccioli scuri, dimenticandosi del mondo intero: e quando Shepard schiuse le labbra per approfondire il bacio serrò gli occhi, pregando che il mondo intero si dimenticasse di loro.

  
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