In hoc signo vinces
Da
quella notte sul tetto dell’ospedale, James era
riuscito a trascorrere innumerevoli serate in compagnia di Shepard,
ringraziando l’intercessione di una certa dottoressa Lawson,
incredula ma
appagata del fatto che la sua paziente stesse recuperando il giusto
equilibrio
psicofisico grazie a colui che non esitava a definire “un
krogan sotto
anabolizzanti”.
Approfittava di ogni momento libero, con
l’accuratezza di depistare per quanto possibile le spie
krogan, come
suggeritogli da Miranda: cambiava ripetutamente mezzo di trasporto; si
presentava a sera inoltrata, col favore della penombra dei lampioni;
era
arrivato persino a travestirsi, fase durata giusto il tempo impiegato
da un suo
superiore per vederlo con la parrucca bionda. La degradazione fu una
minaccia
sufficiente per convincerlo a limitarsi a abiti civili e felpe col
cappuccio.
Poi, un giorno, la notizia inaspettata.
Licenza anticipata, della durata di una settimana.
Il suo primo pensiero fu di provare a convincere
Miranda a fargli trascorrere l’intero periodo in compagnia di
Shepard, a costo
di dormire per terra in un sacco a pelo. Ma prima, avrebbe dovuto
sfruttare
l’occasione a suo vantaggio.
Quella sera, a bordo del taxi, un messicano vestito
con raffinatezza teneva tra le mani un mazzo di anemoni.
“Chissà che
faccia farà Lola. Scommetto che dirà qualcosa di
volgare contro la roba da
donnicciole” sogghignò tra sé
e sé. Per lo meno, sperava che evitasse
l’espressione disgustata del povero sottoposto che, dopo
avergli riferito la
lieta notizia, si era ritrovato avviluppato in abbraccio stritolante
non
richiesto.
Prima
di quanto avesse immaginato, perso nelle
proprie elucubrazioni mentali, James si accorse che il taxi era
atterrato nella
piazzola riservata di fronte all’Anderson Hospital. Con un
cenno di
ringraziamento allungò all’autista i soldi
corredati di una generosa mancia e uscì
dalla macchina.
“Vestito
elegante, c’è. Fiori, ci sono. James
Vega nelle condizioni migliori, anche. Vale, vamos!”
Sfoderando
il suo migliore sorriso, risalì
l’architettonicamente
impeccabile ma inutile rampa di scale che collegava la piazzola di
atterraggio
all’ingresso dell’ospedale. L’ultima
procedura burocratica obbligatoria, a cui
ormai aveva fatto l’abitudine, consisteva nel superare la
procedura di
riconoscimento presso la zona di smistamento antistante
l’entrata.
Sperò che di turno avessero collocato Sam, con cui
aveva stretto una discreta amicizia, e provò una sensazione
di disappunto
quando dietro bancone vide un impiegato mingherlino, i cui capelli
color paglia
facevano a pugni con il colorito verdognolo che le luci artificiali
conferivano
alla carnagione.
Particolare ancora più strano, non vedeva guardie di
sicurezza nei paraggi.
“Saranno andati
a prendere un caffè…”
cercò di giustificare, schiarendosi la voce.
«Salve!»
provò a richiamare l’attenzione
dell’impiegato. Questi non diede segno di aver udito,
giacché continuò a
pulirsi le unghie con una piccola lametta di plastica.
“Dev’essere
davvero molto concentrato” «Ehi, salve?
Mi sente?» riprovò, stavolta
bussando con ma mano libera contro la superficie del bancone.
«L’ospedale
è chiuso per manutenzione, se ha bisogno
provi a chiamare il numero di emergenza, altrimenti ripassi domani
mattina»
ottenne come risposta, senza tuttavia che il ragazzo, perché
di un ragazzo e
non di un uomo si trattava, alzasse la testa dal lavoro che lo
impegnava.
«Come
sarebbe dire che l’ospedale è chiuso? Da quando
gli ospedali chiudono?» sbottò
l’ispanico di rimando, mostrando appieno il
proprio disappunto. C’era qualcosa che non andava.
Vide
l’impiegato sospirare, un sospiro seccato più
che dispiaciuto, e appoggiare la lametta sul tavolo di fronte a
sé. Infine, si
degnò di drizzare la testa.
«Se
ha delle lamentele può rivolgersi, domani
mattina, all’ufficio competente.»
Il
tono era di sfida, la smorfia sul volto lasciava
trasparire ostilità, ma più di ogni altra cosa,
James fu attirato dagli occhi,
immensi e verdi, e dal particolare che consentiva loro di rimanere
impressi
nella memoria: l’iride destra caratterizzata da una piccola screziatura color sangue.
“L’inserviente…”
Calò
il gelo. Dall’espressione del ragazzo si rese
conto di essersi tradito.
«Posso
fare qualcos’altro per lei, signore?» si
sentì
chiedere da una voce improvvisamente melliflua, il sorriso di Giuda
spuntato
sul volto verdognolo.
Con
la coda dell’occhio lo vide muovere un braccio,
spostamenti quasi impercettibili, verso la parte inferiore del bancone.
Sentì l’adrenalina entrargli in circolo: riusciva
a percepire
il battito del proprio cuore nella testa, lento e costante,
intervallato dai
suoi respiri profondi, i sensi in allerta massima, i nervi tesi come
corde di
violino. Poi vide il braccio dell’inserviente scattare, un
movimento fulmineo
di un serpente, un bagliore metallico ben saldo nella sua mano.
I fiori scagliati con violenza contro il volto
dell’impiegato e il colpo, perduto tra i petali,
sfiorò il suo lobo. Tra i
colori sgargianti dei fiori, James vide un’espressione di
orrore impossessarsi
del volto dell’uomo quando riuscì ad afferrargli
il bavero della camicia.
La tempia sbatté una, due, tre volte contro la
superficie del bancone. Le ossa del cranio scoppiettarono come rametti
spezzati,
la pelle emise un rumore di stoffa strappata, i capelli color sangue
rimasero stretti
nella mano libera dell’ispanico finché le
convulsioni non cessarono.
Solo allora James lo lasciò andare.
Si guardò attorno, come aspettandosi di veder
comparire qualcuno dai bui anfratti della sala d’aspetto. La
colluttazione era
stata caotica, lo sparo era chiaramente risuonato tra le mura
dell’ambiente.
Alle orecchie gli giunse il solo rumore dei suoi stessi profondi
respiri.
“Cosa cazzo sta
succedendo?”
Ricordatosi
di essere armato e in abiti civili,
attivò lo scudo di emergenza prima di strappare dalle dita
cadaveriche la
pistola. Controllò il caricatore, per poi frugare nelle
tasche dell’uomo: una
sola clip termica con quindici colpi prima del surriscaldamento.
Infine, selezionò sul factotum la frequenza di
comunicazione di Vakarian.
«Garrus,
riesci a sentirmi?»
«James! Perché
stai bisbigliando? Ah, ho capito! Non vuoi che Shepard si accorga che
mi stai
raccontando com’è andato il vostro primo
allenamento orizzontale, eh?»
«Cos…
no!»
«Allora vedi di
sbrigarti, ho scommesso con Joker che sarebbe successo prima di tre
mesi e non
voglio perdere i miei crediti.»
«Avete
scommesso…? Oh, Diós, che cazzo sto dicendo.
Garrus, sto per entrare nella hall dell’ospedale. Un tizio ha
appena cercato di
ammazzarmi e credo che sia successo qualcosa di grosso.»
«Cosa?
Dannazione…»
«Non
lo so, non sono ancora entrato e l’ambiente è
buio, temo che abbiano staccato i generatori.»
«Shepard?»
«Non
lo so, la sto andando a cercare e ho paura di
avere poco tempo.»
«Ho capito, mi
metto in contatto io con il Centro Operativo. Appena sai qualcosa di
più…»
«…te
lo comunico. Tieni libera questa frequenza.
Chiudo.» “Bene, ora
vediamo di capire in
che situazione di merda mi sono cacciato stavolta.”
In
cuor suo, cercava di convincersi che Shepard non
fosse coinvolta. Certo, lei era una calamita per gli assassini e gli
squilibrati ma, in fondo, nessuno ad esclusione dei medici e delle sue
guardie
del corpo era a conoscenza del fatto che si nascondesse in quel luogo e
non
c’era motivo per cui qualcuno volesse farle del male.
Eppure… eppure qualcuno
l’aveva filmata di nascosto e aveva venduto le riprese al
miglior offerente, e
quell’inserviente, per il quarto piano, era riuscito
quantomeno a transitare.
Per quanto le possibilità che fosse Shepard
l’obiettivo di quell’attacco
potessero dirsi scarse, una brutta sensazione continuava ad aleggiare
nella
mente di James.
Spingendo la porta di vetro con una spalla, la
pistola ben salda in mano, entrò nella hall
dell’ospedale. Le fioche luci di
emergenza non riuscivano a penetrare il buio asfissiante e si vide
costretto ad
accendere la torcia dell’omni-tool per riuscire a orientarsi.
«Madre
de Diós…»
Decine
di cadaveri giacevano riversi sul pavimento e
contro i muri, annegati in pozze di sangue che si mescevano in un unico
lago violaceo
in cui le differenze di specie perdevano di significato.
L’arma stabile di fronte a sé, torcia puntata in
avanti in posizione CQC, James avanzò nel mezzo del
massacro; pur mantenendo un
precario l’equilibrio, percepiva la debole resistenza delle
suole degli
scarponi al viscidume e si ritrovò in più punti
costretto a pattinare sul sangue
per evitare di sdrucciolare a terra.
La luce della torcia illuminò il volto di un bambino
riverso su un poliziotto, le braccia esili che ancora stringevano un
corpo i
cui lineamenti erano stati cancellati da un colpo di fucile a pompa.
Aveva
cercato la protezione in un abbraccio e il terrore era rimasto impresso
in due
occhi troppo grandi per quel corpicino crivellato di proiettili.
Digrignando i denti, si avvicinò al bambino. Sentiva
la necessità di abbassare quelle palpebre, doveva dare a
sé stesso l’illusione
che stesse solo dormendo.
La pelle era ancora calda e al tocco dell’uomo il
minuscolo cadavere si mosse, adagiandosi sulla schiena.
L’ispanico trattenne a fatica un singhiozzo.
Un piccolo led lampeggiante, fino a quel momento rimasto
celato dal corpo, illuminò fiocamente la stoffa lacera della
divisa: il
factotum del poliziotto, benché seriamente danneggiato,
indicava una
registrazione in corso.
James afferrò il braccio e lo trascinò a
sé. Bastò il
movimento perché la registrazione si interrompesse, e si
vide costretto a
premere più volte sull’interfaccia olografica
prima che l’impulso elettronico
di riproduzione giungesse all’hardware centrale.
Un audio fioco e saturo di disturbi fu tutto ciò che
lo strumento riuscì a restituirgli.
“«Codice
tre, uno, due. Ripeto, codice tre, uno, due.
Siamo sotto attacco. Mandate rinforzi. Ripeto, mandate rinforzi.
Siamo…»” il
ruggito di un fucile spezzò le parole. Alle urla del bambino
si contrappose una
voce roca e profonda, “«Morti, con i complimenti
del clan Urdnot.»”
James
interruppe la registrazione.
Krogan.
Digitò freneticamente la frequenza radio di Garrus.
«Qua Vakarian.»
«Krogan!»
la voce proruppe più forte di quanto
avrebbe desiderato, «Sono i krogan! Stanno cercando
Jane!»
«Porca puttana…
invio la comunicazione al Centro Operativo, le forze speciali in venti
minuti
dovrebbero essere lì.»
«Venti
minuti? Cosa cazzo hanno fatto in tutto questo
tempo?»
«È un
potenziale attacco terroristico, sai meglio di me che le procedure non
sono
veloci in questi casi.»
«Dannazione,
Jane potrebbe non avere venti minuti.
Devo andare da lei.»
«James, è un
plotone krogan. Ti farai ammazzare!»
«Devo
tentare. Non posso perderla di nuovo!»
Chiuse
la conversazione. Non aveva tempo per gli
scrupoli del turian.
Tentò di ricordare la pianta dell’edificio: al
piano
terra, due ascensori. Da scartare entrambi, il blackout li aveva messi
fuori
uso. Due scale di servizio, le luci di emergenza le davano entrambe
agibili.
Doveva bloccarne una, obbligare i krogan a percorrere
la sua stessa strada.
Il fulgore della fiamma ossidrica rimase impresso sul
bordo della porta occidentale come una lunga scia incandescente.
James perse un paio di secondi a osservare il
risultato.
Nemmeno una carica krogan avrebbe potuto sfondarla.
Eppure… tre preziosi minuti di vita di Shepard. Tanto
aveva impiegato per concludere il lavoro.
Il cuore in gola, si precipitò verso il lato
orientale della sala.
Si vide costretto a combattere contro sé stesse e ad
aprire con cautela la porta tagliafuoco, nel timore che una truppa
krogan fosse
in dirittura di arrivo. Non sapere quanti fossero, e ritrovarsi per di
più in
posizione inferiore, lo poneva in una palese condizione di svantaggio.
Una fessura a separarlo dalla rampa di scale,
trattenne il respiro per consentire al proprio udito di percepire il
minimo
afflato. Il cuore che rimbombava nel petto rimase l’unico
segnale di pericolo
imminente.
Consentendo all’ossigeno di sommergere i polmoni
ormai brucianti, James entrò nella tromba delle scale e
iniziò la salita.
Benedisse il fatto che le rampe interne non fossero in acciaio e le
suole degli
scarponi, benché appiccicose, attutissero i suoi passi.
Quinto piano.
Decimo.
Quindicesimo.
Ventesimo.
Malgrado l’allenamento da N7, James dovette
rallentare: il cuore aveva raggiunto la soglia di allenamento massima e
protestava furioso in un torace che gli sembrava improvvisamente troppo
stretto.
Ventitreesimo.
Ventiseiesimo.
La gola gli bruciava sin quasi a farlo lacrimare.
Ventinovesimo.
Trentaduesimo.
I muscoli delle gambe gli sembravano in fiamme.
Trentatreesimo.
Jane aveva in totale otto minuti in meno di vita.
Trentaquattresimo piano.
Sentiva delle voci. Spense la torcia. Socchiuse la
porta tagliafuoco e vide anche le ombre.
Due krogan a circa trenta metri di distanza, uno di
fronte all’altro, posizionati a guardia delle scale di
servizio che portavano
al tetto.
In quel momento capì dove avevano portato Shepard.
Era un soldato d’assalto e la sua stazza non gli
avrebbe mai consentito di muoversi con circospezione. Doveva sfruttare
velocità
ed effetto sorpresa.
Controllò la pistola: i proiettili erano in canna, la
clip termica inserita e la sicura tolta.
“Tre…”
Prese
un respiro profondo.
“Due…”
Appoggiò
la spalla sinistra sulla leva, pronto a
spingere.
“Tre!”
La
porta sbatté contro il muro. Il clangore
dell’impatto si mescolò agli spari. Un colpo, poi
un altro, e un altro, e
ancora, il corridoio era stretto e lo spostamento delle braccia minimo.
Un
proiettile gli sfiorò il volto, l’imprecazione di
un krogan gli scivolò addosso
come acqua.
L’esercito gli aveva insegnato a essere spietato, gli
N7 a essere preciso. Entrambi videro in quell’azione il
perfetto compimento
dell’addestramento.
James osservò i cadaveri dei krogan riversi a terra,
le armature integre, i musi crivellati di pallottole da apparire
indistinguibili.
Lasciò cadere la pistola, priva di colpi. Ammirò
le
armi degli avversari. Ignorò il fucile a pompa, intonso, e
si appropriò del
fucile d’assalto. Caricatore pieno e tre clip termiche.
Se le sarebbe fatte bastare.
Salì le scale. Poche rampe lo separavano da Shepard.
L’adrenalina in circolo era talmente alta che gli sembrava di
sentirla scorrere
lungo le proprie vene.
Attraverso la porta d’accesso al tetto altre voci,
altre risate; due, una sovrastava l’altra. Due krogan morti
al piano inferiore,
due sul tetto, un piccolo plotone, pochi elementi per catalizzare
l’attenzione
in maniera minore. Non faticò a distinguere il timbro
crudele di Urdnot Wreav e,
forse, soffocato dalla potenza dei krogan, sognò di udire
Shepard, flebile come
un sussurro.
Controllò che la sicura del fucile fosse disinserita prima
di dirottare tutta l’energia secondaria del factotum sugli
scudi. Aveva una
sola chance e nessuna possibilità di individuare la
posizione del nemico prima
di esporsi. Il cervello macinò strategie militari a pieno
regime; doveva agire
per gradi, risparmiare munizioni e trovare una copertura.
Tutto questo, sperando che non ammazzassero Jane
appena avesse fatto irruzione.
Cercò di infondersi coraggio: le possibilità di
salvarla erano minime e si sarebbero azzerate del tutto se non fosse
intervenuto.
Un respiro e poi un altro, lasciò che la respirazione
regolasse il flusso d’adrenalina.
Contò fino a tre. Infine, spalancò la porta.
Fianco destro, guardia krogan, fucile a pompa. Di
fronte, Wreav, fucile a pompa, a pochi passi dal cornicione alto pochi
centimetri. Accasciata sulle ginocchia, tenuta sollevata per il braccio
biologico, Shepard. Sangue sulla tunica, ecchimosi sul volto, testa
china,
reazione minima.
Lo sguardo di James si oscurò per un istante.
Il frastuono dello scudo in frantumi lo ritrasse
bruscamente dall’abisso in cui era precipitato e le urla
cantilenanti del
factotum gli ricordarono come la sua vita fosse appesa a un filo.
Si gettò sulla sinistra, usando la parete opposta del
gabbiotto delle scale come copertura; una sensazione di bruciore al
braccio
sinistro rimase come memento di un proiettile troppo vicino al suo
corpo privo
di protezioni.
Guardò di sfuggita l’ora: i rinforzi non sarebbero
arrivati prima di sette minuti. Si appiattì contro il muro,
il fucile d’assalto
stretto al petto, impotente dinnanzi alla risata sardonica di Urdnot
Wreav.
Digrignò i denti. Doveva almeno fingere sicurezza.
«L’esercito
sa che siete qui. Lasciala andare e farò
in modo che non vi usino per il tiro al bersaglio!»
urlò, sperando di riuscire
a simulare sufficiente arroganza. Non vide, né se ne accorse
il krogan, come al
suono della sua voce Shepard avesse alzato la testa.
«Lasciarla
andare? Poi dicono che siamo noi krogan
gli idioti della galassia» commentò Wreav, le
parole frammiste a una nuova
risata, «Ma tu… tu eri su Tuchanka quel giorno,
vero?»
James
si morse il labbro. Non poteva rischiare di
mentire e farlo incazzare più di quanto già non
lo fosse.
«…sì.»
«Sentito
Svarr? Abbiamo un altro di quei figli di
puttana! C’è anche il turian o anche lui ha capito
chi è veramente Shepard?»
Wreav
strinse il pugno attorno al polso della donna,
strappandole un’imprecazione.
«Basta!»
«Sentilo
come si innervosisce a toccargli il suo bel
comandante. Ehi, Svarr, resta fermo e tienilo puntato. Voglio che
assista alla
morte di Shepard come ha assistito alla fine dei krogan.»
James
sparò un colpo in aria, i muscoli del viso
tanto contratti da dolergli.
«Lasciala
andare ho detto! Non lo ripeterò un’altra
volta!»
«Svarr,
abbiamo un eroe tra noi. Come se fossi nella
posizione di poter dare ordini, idiota. Getta quell’arma o
sarò io a gettare
Shepard dal tetto.»
«Tu
fallo e vengo personalmente a prenderti a calci
nel culo, James!»
La
voce di Jane risuonò nitida e tagliente nell’aria
gelida della notte, come un balsamo rincuorante che avvolse la mente
dell’ispanico
e gli diede il coraggio di sporgersi e incrociare il suo volto con lo
sguardo.
Fu solo la consapevolezza di essere sotto il tiro dello
scagnozzo a trattenerlo dal reagire d’istinto quando vide
Wreav contrastare la
ribellione di Shepard scagliandola a terra con violenza.
«Sta
zitta!»
James
la sentì ridere, un tintinnio raggelante di
belva al muro, e ammirò la tenacia con cui si
rialzò da terra, il viso rivolto
al cielo.
«Sentito,
James? Secondo questo stronzo dovrei stare
zitta altrimenti s’incazza. Che coglione!»
Wreav
le puntò il fucile alla nuca sino a immergere
la canna dell’arma tra i riccioli.
«Parla
ancora e giuro che ti apro un buco nel
cranio.»
«Come
se avessi mai avuto altro in mente. Cristo
santo…» Jane si lasciò sfuggire uno
sbuffo divertito, inarcando il collo ad
appoggiarsi più comodamente contro il fucile «sei
talmente una testa di cazzo
da non aver ancora capito che non ho bisogno di aiuto per
difendermi.»
Shepard
scartò di lato. Sfruttando l’istante di
disorientamento di Wreav, lasciò che il braccio sinistro
scattasse verso
l’alto. La rigidità del metallo si
scontrò con un clangore secco contro
l’armatura del krogan. Gli artigli persero la presa sul
fucile.
«Ora,
James!»
Urlò,
e nell’istante in cui la voce le proruppe dal
petto si scagliò con tutto il suo peso contro Wreav. Il
colosso sfiorò il cornicione
col tallone, e in un singulto di vendetta arpionò la tunica
di Shepard. L’equilibrio,
colpito a morte, li trascinò nel baratro.
James sentì il cuore accartocciarglisi nel petto.
«No!»
Abbandonò
la protezione della parete; la raffica di
proiettili approfittò della disattenzione del figlio di
Tuchanka superstite.
Il fucile e il krogan collassarono all’unisono sul
cemento.
La gola tanto contratta da impedirgli di respirare,
James si sporse dal bordo del palazzo.
Dinnanzi a lui, incorniciata dal lampeggiare distante
delle forze dell’ordine e dalla minuscola figura di un Wreav
frantumatosi
contro l’asfalto, si palesò l’ultima
battaglia di Shepard: in un’estrema
manifestazione dell’istinto di sopravvivenza, era stata in
grado di agganciare le
dita meccaniche della protesi alla bandiera dell’Alleanza.
«Jane!
Sono qui! Prendi la mia mano!» urlò con foga,
sporgendosi
quel tanto che bastava per evitare di cadere.
«Non
riesco a vederla!»
«Allungala,
ti afferro io!»
La
vide alzare il braccio libero, che annaspò
nell’aria i pochi istanti che gli furono necessari per
stringerle
l’avambraccio. Sentì restituire la stretta, le
dita della donna fare presa sui
muscoli. Fece leva sullo spigolo del cornicione e i muscoli del suo
corpo
iniziarono a protestare. Ringraziò il cielo che Jane fosse
più leggera di un
tempo.
La sollevò sul tetto sino all’addome, quando si
concesse di agguantare la stoffa sulla sua schiena per riuscire infine
a portarla
al sicuro, lontana dal bordo.
Si alzò in piedi e con sé trascinò
Shepard, il corpo
della donna stretto tra le sue braccia, il proprio a farle da riparo
dal vento
gelido che infieriva sull’edificio.
«Stai
bene?» chiese con voce strozzata, cingendole il
capo con le mani, gli occhi fissi sulla donna.
«Sì.
È finita…» commentò di
rimando, un sorriso
soddisfatto dipinto sul volto tumefatto, il famigerato sangue freddo
che si
manifestava in tutta la sua energia, «quello stronzo non
sarà più un problema».
«Diós,
temevo… temevo… di averti persa di
nuovo…»
James
si sentì balbettare, lo sguardo che saltava in
maniera convulsa dal volto di Shepard al parapetto e di nuovo sul suo
volto. Pochi
metri di distanza e non avrebbe avuto alcuna bandiera a cui appigliarsi.
«James,
che cazzo, calmati! Sto bene!»
Gli
afferrò il bavero della camicia. L’uomo
sentì il
fiato mozzarglisi in gola.
Il volto di Jane, pallido e chiazzato di ecchimosi
violacee, gli sembrò così minuto e fragile tra le
sue ampie mani. Con le dita
le scostò i capelli sudati dalla fronte, per poi pulirle il
mento dal rivolo di
sangue ormai essiccato.
«Non
stavolta…» riuscì a malapena a
rantolare.
La
donna corrucciò le sopracciglia. «Che hai
detto?»
L’ispanico
digrignò i denti, trovando le forze per
respirare di nuovo.
«…stavolta
non ti ho lasciata andare.»
La
afferrò, avvolgendole il corpo con un braccio. La
trascinò a sé e colmò la distanza tra
le loro bocche prima che potesse parlare
di nuovo.
La trattenne, immergendo la mano tra i suoi riccioli
scuri, dimenticandosi del mondo intero: e quando Shepard schiuse le
labbra per
approfondire il bacio serrò gli occhi, pregando che il mondo
intero si dimenticasse
di loro.