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Autore: SkyDream    24/09/2018    7 recensioni
«Va tutto bene, torna a letto» Riposò lo sguardo sull’orizzonte scuro, senza però staccarlo dalle loro ombre proiettate dal neon.
Lei, invece che allontanarsi, si avvicinò. Poggiò una mano fredda al viso spinoso di Heiji, piegò le ginocchia e si protese verso la sua guancia schioccandogli un bacio delicato.
Lungo.
Sapiente come pochi.
Quando il ragazzo riaprì gli occhi, lei era già andata via. Tanto da fargli dubitare dell’esistenza di quel bacio.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altro Personaggio, Heiji Hattori, Kazuha Toyama | Coppie: Heiji Hattori/Kazuha Toyama
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Raccolta storie su Heiji e Kazuha'
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Il neon proiettava le loro ombre sul muro

I palazzi scorrevano attorno a lui tra le luci e i suoni dell’Osaka viva che lo circondava. I raggi del sole non stavano ancora sparendo all’orizzonte, anzi, inondavano di luce i marciapiedi e le strade.
Heiji, a bordo della sua moto, sfrecciava tra le macchine cercando di non pensare alla discussione avuta con Kazuha. Se avesse permesso anche solo a un suo neurone di pensare a quelle parole, avrebbe certamente perso il controllo del mezzo.
L’unica volta in cui si era sentito così – spaesato, a detta sua - era stato quando sul ponte Ebisu, durante un caso di spacciatori, Kazuha parlava felicemente con un ragazzo della sezione anti-droga.
Solo e solamente quella volta aveva ammesso a sé stesso che il suo cuore aveva sentito qualcosa.
Ma in quel momento, scendendo e salendo i viali con il vento in faccia, aveva dovuto ammettere che quel senso di spaesamento lo provava ancora. E la discussione con Kazuha gli aveva dato occasione di confermare i suoi sospetti.
 
«Ci vediamo per le cinque, vedi di vestirti comoda» le aveva detto mentre rimetteva gli ultimi libri nella cartella blu. Dietro di lui Kazuha, seduta sul suo letto, sfogliava il libro di arte giapponese che era servito loro per studiare.
«Non salgo con te» aveva detto atona mentre sfogliava le pagine delle opere di Kawase Hasui. Panorami blu, donne vestite di cielo, un tempio scintoista sorgeva dalle onde cobalto del mare. Amava quell’artista.
«Non vuoi venire questa volta? Hai per caso la febbre?» chiese voltandosi verso la sua amica, ancora intenta a sorridere alle pagine del libro.
Si era avvicinato, aveva chiuso il libro con un tonfo e poi aveva puntato gli occhi su quelli suoi. «Allora?» aveva esordito per nulla sereno.
«Non ho la febbre, stupido. Salgo con Kei, ha detto che vuole conoscere mio padre e passare un po’ di tempo con me. Soli» Era arrossita, aveva distolto lo sguardo senza nascondere un sorrisetto malizioso.
«Non stiamo andando a un parco giochi, Kazuha!» urlò il detective con rabbia, le nocche delle mani erano ormai bianche e stringeva con forza il manico della borsa.
«Perché ti scaldi tanto? Se ci saranno delle indagini vi lasceremo lavorare tranquillamente, almeno non mi avrai in mezzo ai piedi…come mi ricordi in ogni occasione!» Kazuha si era alzata, più per distanziarsi dallo sguardo di fuoco del suo amico che per posare il libro sulla scrivania.
«Hanno detto che ci sarebbe stato un mistero da risolvere, non che sarebbe stata un’allegra gita per famigliole» cercò di spiegarle senza lanciarle in testa la borsa con i libri.
«Hanno anche detto a mio padre che il casolare è grande, e che se durante le vacanze di primavera avessimo avuto delle giornate libere, avremmo potuto approfittare per goderci un po’ di aria pulita. Se sono così gentili, perché preoccuparsi?»
Heiji, con le vene del collo tese come corde di violino, cercò di non urlare ancora. Non voleva che quei due fossero in mezzo ai piedi nelle indagini. Non insieme.
«Ehi, tranquillo» aveva poi sussurrato lei quasi preoccupata «Non mi metterò in mezzo, te lo prometto».
 
«Te lo prometto» aveva detto, come se per lei il problema fosse quello. Certo, avere una ragazza chiacchierona e combina guai alle calcagna durante un’indagine non era proprio piacevole, ma ogni volta le chiedeva sempre se le andasse di venire.
Dopo tutti quegl’anni, i misteri risolti e le gite scolastiche, non riusciva proprio a immaginare una vita senza la presenza fastidiosa di quella ragazza.
Stupida Kazuha, che aveva rischiato la vita innumerevoli volte e che altrettante volte lo aveva fatto spaventare.
Ora le case e le luci artificiali erano state sostituite dagli alberi e il verde brillante dell’erba. I raggi caldi lo colpivano ancora a tratti sulla schiena. Il silenzio era assordate, interrotto solo dal motore della sua moto e dal cinguettare degli uccelli.
Una risata, brillante e dirompente, lo costrinse a voltare il viso alla sua destra.
Il casolare degli Hinata sorgeva alto e imponente circondato da uno spiazzale coronato di aranci e mandarini in fiore.
Sotto uno di essi, cinta dalle braccia di Kei, stava Kazuha. Baciava Kei sulle labbra, lentamente e con leggerezza, quasi volesse solo sfiorarle.
I neuroni di Heiji cominciarono a impazzire, il viso di Kazuha toccato dalle labbra di un uomo, in quel modo così intimo. Il suo sorriso.
La sentì urlare, poi la vide correre e dire a Kei di chiamare suo padre immediatamente.
«Heiji, mi senti?»  Kazuha con gli occhi sgranati stava cercando di slacciargli il casco, le mani sottili e fredde gli solleticavano il collo.
Poi, come se i suoi neuroni avessero ripreso il controllo, si accorse di essere a terra, i gomiti e le ginocchia scorticate, ma niente di rotto. Era finito contro un albero con la moto, e non si era accorto di nulla.
Il bruciore delle ferite cominciò a fargli pulsare gli arti, appena fu libero dal casco con il vetro oscurato un profumo di arancia e mandarini lo investì. La luce limpida e i colori vivi gli ferirono momentaneamente la vista.
«Si può sapere che facevi con quello?» chiese risentito senza muoversi, Kazuha mutò espressione, passando dal preoccupato al sorpreso e infine all’adirato.
«Mi sa che stai benissimo, Heiji Hattori!»
Kei arrivò con bende e alcol, dietro di sè, Ginshiro rideva debolmente. Probabilmente l’unico abbastanza sveglio da capire il movente di quel tentato suicidio verso l’albero.
Mentre Heiji, con orgoglio, continuava a fasciarsi e medicarsi da solo le ferite, Kazuha si era offerta di portargli lo zaino in camera.
Aprì la finestra per cercare di far arieggiare, sistemò le coperte e tolse i vestiti di ricambio poggiandoli sulla sedia. In fondo allo zaino, stropicciata e ingiallita dal tempo, stava una fotografia di loro due.
Lei stava seduta su un letto e sorrideva mostrando i denti, il piede fasciato e i guanti nelle mani ancora pieni di neve. Seduto con le ginocchia incrociate e un sorriso sornione, un ragazzino moro guardava l’obiettivo con gli occhi chiari.
Kazuha si sedette sul bordo del letto, persa con nostalgia tra i suoi ricordi.
 
«Toyama! Se me lo avessi detto prima ti avrei fasciato il piede già questa mattina!» La rimproverò il professore mentre girava una benda bianca attorno al piede pallido e livido di Kazuha.
«Mi scusi, pensavo non fosse nulla di grave» disse la ragazzina senza spostarsi nonostante la voglia matta di scendere giù e raccontare alla sua migliore amica come era arrivata all’hotel.
«Stupida, smettila di fare idiozie e riposa. Per oggi ti sei fatta notare abbastanza» sospirò Heiji buttandosi sul letto della sua amica.
«Non mi sono fatta notare! Non ti volevo lasciare…solo» sussurrò lei quasi con imbarazzo.
«Mi è toccato portarti sulla schiena fino a qui, e come se non bastasse il tuo piede non fa che gonfiarsi» esordì quasi frustato dal senso di colpa.
Era colpa sua se Kazuha non aveva riposato. Accidenti, doveva accorgersene prima!
Poi Chiyo, con un sorriso a trentadue denti, era entrata in camera con una macchina fotografica usa e getta, bianca a strisce nere, come la bandiera dei Big Osaka.
«Devo provare la fotocamera nuova! Mettetevi in posa e dite cheese».
 
«Quindi ha ricevuto una lettera minatoria?»  Ginshiro prendeva appunti, seduto accanto a sé stava un uomo sulla cinquantina. Era alto e aveva i capelli ormai bianchi, stringeva tra le dita della mano una fede nuziale d’argento.
Supponendo che si fosse sposato a vent’anni, e considerando venticinque anni di nozze d’argento, la moglie non doveva essere morta da molto tempo.
«E’ accaduto nel sonno, un ictus se l’è portata via. Da allora ho deciso di vendere la casa in città e di ritirarmi in questo bosco per potermi dedicare in piena solitudine ai miei romanzi. Ormai vivo di racconti e agrumi, e mi va bene così»
L’uomo guardò con occhi arrossati una foto appesa poco distante: una coppia felice si abbracciava con i tradizionali abiti shintoisti. Dietro di loro sorgeva una cattedrale francese chiamata Notre Dame.
«Lei e sua moglie vivevate spesso in questa casa nel bosco?» chiese ancora Ginshiro scribacchiando qualcosa su un taccuino.
«No. Ma molti anni fa, quando non eravamo ancora sposati, io e mia moglie non eravamo per nulla benestanti, anzi! Spesso ci capitava di patire la fame. Una tragedia ci colpì violentemente e mia moglie cadde in una forte depressione, decisi così di vendere questa casa e prendere in affitto quella in città. Sia io che lei trovammo così un buon lavoro e anche parecchi amici.»
Heiji, mentre ascoltava il racconto a singhiozzo dell’uomo, decise di alzarsi e curiosare per la casa. Aveva capito con gli anni che guardare la casa di una persona può rivelare molto più di un interrogatorio completo.
«Grazie a un progetto europeo, riuscì a ottenere miliardi di yen. Decidemmo così di ricomprare questa casa e di girare il mondo. Lei continuava a dipingere ciò che vedevamo, soprattutto albe e tramonti, mentre io cercavo di scrivere qualcosa nel tempo libero o di dedicarmi a qualche progetto lavorativo per i miei soci del business.»
Heiji notò parecchi quadri dalle sfumature rossastre e blu che si fondevano su una linea orizzontale: il mare.
«Cosa accadde?» chiese ancora l’ispettore senza smettere di scrivere.
«Mia moglie una notte cominciò ad accusare forti dolori al braccio. Non riuscii a portarla in tempo all’ospedale che era già morta di ictus. Il dolore è indescrivibile, non ho mangiato né parlato per mesi. Poi ho pensato che lei, con la sua allegria e la sua vitalità, avrebbe voluto che continuassi a vivere» L’uomo, troppo emozionato per continuare, si asciugò le lacrime.
«Ha deciso così di smettere di lavorare e di ritirarsi qui, dove vive dei risparmi degli anni d’oro della sua vita. Giusto?» L’uomo annuì gravemente, poi uscì una busta dalla giacca grigia, la portò sul tavolo e la aprì con grande disinvoltura, quasi conoscesse a memoria il suo contenuto.
«Un paio di giorni fa trovai questa busta nella buca lettere. Non ricevo spesso posta, se non bollette, e la pubblicità non arriva di certo qui. L’ho aperta e ho trovato una lettera indirizzata a me dove mi assicuravano che avrei raggiunto al più presto mia moglie. Come può ben immaginare non mi spaventa di certo raggiungere la mia ormai defunta moglie, ma c’è qualcosa in questa storia che non mi convince per nulla». Confidò l’uomo con grande agitazione, teneva le mani ancorate al tavolo e tentava in tutti i modi di non far notare quanto tremasse.
«Vuole per caso riposarsi e riprendere più tardi?»
L’altro annuì, annunciando che si sarebbe steso un’ora, giusto il tempo di calmarsi e riprendere le facoltà mentali per completare l’interrogatorio.
Ginshiro, passando in rassegna tutte le possibilità, chiamò dal telefono fisso – l’unico che prendeva bene- la questura e raccontò ad Heizo cosa aveva scoperto.
Heiji, ancora leggermente claudicante per le bende, continuava a girare per i corridoi guardando e analizzando quadri e sopramobili.
Mentre si avvicinava alla cucina notò, appoggiato a un muro con le braccia incrociate, Kei. Stava fermo a fissare una fotografia quasi fosse arrabbiato.
«Ho finito, ho finito» squillò una voce familiare dalla stanza accanto.
«Sei qua, ehi?» Kei mutò espressione ed entrò in una stanza, uscendone subito dopo.
Kazuha, con dei pantaloncini corti e una canotta colorata, uscì dalla stanza accanto ridendo e tendendo le braccia verso Kei. Lui le baciò leggermente la guancia  e poi la prese per un polso facendola correre per le scale.
«Vuole passare un po’ di tempo con me. Soli.» aveva detto quella mattina Kazuha, con un sorriso malizioso e le guance porpora.
Heiji, sentendosi ancora spaesato, decise di rimanere nei dintorni della casa.
Perché Kei stava fissando quella foto? Che gli ricordassero qualcuno o qualcosa?
Il sole cominciò lentamente a scivolare dietro i monti, gli aranci si tinsero prima di rosso, poi di viola e in fine sprofondarono nel buio della notte.
Heiji, ancora seduto sull’uscio della casa, cercava di rimettere a posto i suoi pensieri.
Perché Kazuha era così attaccata a quel tipo? Cosa ci trovava di così bello?
Eppure era stata chiara quella mattina.
 
«So che sono libera di fare ciò che voglio, quando come e con chi voglio…ma so anche che se non te lo dicessi ci rimarresti male. E sono tanti anni che ci vogliamo bene, così ho deciso di dirtelo comunque» Kazuha era poggiata al muro della palestra, teneva la cartella con le mani nervose e sudate, cercava di non guardare Heiji negli occhi e si sistemava il ciuffo in modo cadenzato ma frettoloso.
«Sai che non amo i giri di parole. La verità è una sola, dilla.» la invitò Heiji scuotendo una mano come per scacciare qualcosa di fastidioso.
Un chilo in più? Addirittura una taglia? O un brutto voto in arte?
«Mi sono fidanzata» 
Fu chiara, così chiara che sia la katana con la saya che il borsone, finirono a terra facendo un gran fracasso.
«Tu cosa?» chiese incredulo. Se non avesse avuto la carnagione mulatta, Kazuha avrebbe detto che lo aveva visto sbiancare. « Con chi? e da quando?»
«Si chiama Kei, è uscito due anni fa dalla scuola. Mi piace molto…è carino e mi dice cose così dolci…» Solo a parlarne, Kazuha sorrise in modo spontaneo.
Non che non avesse avuto altri amori. Anzi, ne aveva avuto uno, un amore spaventoso ed enorme. Forse troppo.
Aveva amato così tanto da dimenticarsi cosa significasse essere amata.
Heiji, mentre raccoglieva la sua roba, era indeciso se prenderla a colpi di katana in testa o se scuoterla fino a farla svegliare da quell’incubo.
Amava un ragazzo. E un tizio la amava.
Amare.
Qualcuno l’avrebbe protetta al suo posto, le avrebbe mandato il messaggio della buonanotte, avrebbe salutato i suoi genitori e le avrebbe fatto qualche sorpresa in camera in piena notte.
Al posto suo.
 
Dopo più di un mese, non si era ancora abituato a quell’estraneo nella sua vita. Ogni volta che lo guardava si sentiva messo davanti uno specchio degli opposti.
Kei era pallido, biondo ma con gli occhi castani, sembrava avere l’accento straniero e passava a prendere Kazuha con una macchina nera ultimo modello.
Da quando quei due stavano insieme, a volte aveva la sensazione di aver smarrito lo scopo della sua vita.
Ma la vedeva sorridere, e quel senso di angoscia che lo prendeva lo lasciava ogni volta tentennare per ore. La notte non gli regalava più sonni sereni.
«Heiji, sono già le otto. Dovremmo chiamare il signor Hinata, non pensi?»
Il detective annuì con la testa.
Così distratto dalla situazione sentimentale di Kazuha, si era dimenticato di ragionare sul caso.
 
Quando Ginshiro tornò in cucina con i guanti di lattice nelle mani e il telefonino tra la spalla e l’orecchio, non si stupì proprio per nulla.
Non sapeva perché, ma aveva la sensazione che la Morte fosse entrata in quella casa già cinque anni fa, e che non avrebbe più risparmiato nemmeno l’ultimo coniuge.
«Non riusciamo a individuare la causa del decesso» urlava Ginshiro al telefono. Evidentemente la linea doveva prendere veramente male.
Kazuha scese tranquillamente dalle scale, si era cambiata e ora era decisamente  più coperta di prima.
«E’ successo qualcosa?» chiese guardando incuriosita il padre che parlava al telefono. O meglio dire, urlava.
«Il signor Hinata è stato trovato morto nel suo letto poco fa. Sei contenta? Ti avevo detto di non venire! Ma tu no, sei testarda e hai deciso di venire comunque!» Heiji, ormai fuori di sé, guardava nuovamente Kazuha con gli occhi di fuoco.
«Si può sapere che diamine stai insinuando? Come se lo avessi ucciso io! Ma hai idea di quello che stai dicendo?» Urlò con le lacrime agli occhi.
Heiji, dando un pugno al muro, strinse i denti e sibilò piano «C’entri, molto più di quello che pensi!»
Si sentiva in colpa, era inevitabile, se non avesse pensato a Kazuha, avrebbe avuto più tempo per ragionare su quel caso, e magari sventare il piano malefico di quell’omicida.
«Insomma, smettetela di litigare voi due!» Kei, sbucato letteralmente dal nulla, passò un braccio attorno alla vita stretta di Kazuha e la allontanò da lì massaggiandole lentamente le spalle.
«Signor Toyama» esordì Heiji per cercare di concentrarsi sul caso «Non è entrato nessuno, e a parte noi quattro nessuno è entrato o uscito dalla casa. Cosa dobbiamo pensare?»
Ginshiro, togliendo i guanti dalle mani e buttandoli nella spazzatura, guardò distrattamente fuori.
Oltre lo spiazzale si stendevano solo file e file di agrumeti.
«Probabilmente l’assassino si nascondeva nel bosco, ha pensato che sia io che te non avremmo svegliato Hinata prima delle otto e ha deciso di attaccare. Probabilmente è entrato dalla finestra».
 
Passò la notte, lenta e terrificante.
Kazuha, sveglia dopo un incubo, scese lentamente le scale per andare a bere un bicchiere d’acqua. Suo padre riposava in una delle stanze adiacenti, sperando di recuperare il sonno perduto in precedenza per poi rimettersi a lavoro.
Nella cucina, illuminato da un neon bianco, stava Heiji. Era seduto, sembrava quasi addormentato tanto era concentrato a fissare la finestra davanti a sé.
«Non dormi?» chiese a bassa voce la ragazza mentre chiudeva la porta.
«Potrei chiederti la stessa cosa» rispose acido, senza scomporsi minimamente.
«Sono così tanti giorni che sei strano, Heiji…» cominciò quella avvicinandosi, nel riflesso del vetro si vedeva la figura tondeggiante del ragazzo seduto, e la sua ombra slanciata in alto.
«Kazuha, sto cercando di risolvere un caso»
«Perdonami. Se ho fatto qualcosa, Heiji, perdonami.»
Il ragazzo staccò gli occhi dall’orizzonte dietro la finestra, alzò lo sguardo verso il suo viso candido e incorniciato dai lunghi capelli castani. Pari a una dea, nel suo splendore.
Come poteva non perdonarla? Poi per che cosa, per essersi fidanzata con un deficiente pallone gonfiato?
«Va tutto bene, torna a letto» Riposò lo sguardo sull’orizzonte scuro, senza però staccarlo dalle loro ombre proiettate dal neon.
Lei, invece che allontanarsi, si avvicinò. Poggiò una mano fredda al viso spinoso di Heiji, piegò le ginocchia e si protese verso la sua guancia schioccandogli un bacio delicato.
Lungo.
Sapiente come pochi.
Quando il ragazzo riaprì gli occhi, lei era già andata via. Tanto da fargli dubitare dell’esistenza di quel bacio.
 
All’alba la casa era ormai piena di poliziotti e investigatori. Heiji gironzolava nel giardino circostante anche se soffiava il vento.
L’erba cresceva rigogliosa, stranamente rigogliosa…
“Dovrebbe essere calpestata”, anche le impronte erano solo di due persone: Kei e Kazuha.
La finestra, chiusa per come l’aveva lasciata, non era stata forzata né manomessa.
Fece il giro della casa, sul retro c’era solo un vecchio dondolo arrugginito dal tempo. Nessun indizio, come se l’omicidio non fosse mai avvenuto.
«Kazuha?» urlò qualcuno da dietro gli alberi. Biondo e slanciato come un modello, Kei sembrava molto indaffarato a urlare agli agrumeti.
«Non è che hai visto la mia ragazza?» chiese visibilmente scocciato, mentre incrociava le braccia e si poggiava stanco al tronco di un albero.
«Intendi Kazuha?» rispose l’altro mentre si avvicinava. Aveva uno strano prurito alle mani ogni volta che lo vedeva.
«Ti risulta che io sia fidanzato con qualcun altro? Che belle doti investigative, eh» sfottè quello concludendo con una grassa risata.
Si sollevò dal tronco dell’albero, puntò gli occhi scuri su quelli cristallini di Heiji.
«Ho visto come stai attaccato alla mia ragazza. Vedi di toglierti dai piedi, vorrei tanto che questa fosse l’ultima volta che ti metti in mezzo»
Heiji, preso dalla rabbia, lo afferrò per il bavero e lo sollevò davanti al suo viso.
«Non dirmi quello che devo e non devo fare. E chiama Kazuha con il suo nome. Lei ha un nome, capito?»
«Heiji, cosa stai facendo a Kei?» Strillò spaventata la ragazza, apparsa da dietro il muro della casa, corse verso i due e cercò di separarli pacificamente.
«Tranquilla piccola mia, stavamo solo discutendo di una cosa.» Kei la abbracciò teneramente e poi la baciò con trasporto. Quella, arrossita e imbarazzata per la presenza di un “terzo incomodo” si staccò subito dalle sue labbra.
Heiji, ancora basito per quel gesto, indietreggiò leggermente.
L’angoscia l’aveva sopraffatto nuovamente. Quel senso di smarrimento, come se la bussola si fosse rotta, lo aveva lasciato senza fiato.
«Era solo per ricordare a qualcuno che sei la mia ragazza».
 
«Probabilmente è passato dall’interno, ma anche questo non spiegherebbe di certo la mancanza di orme! Non ha lasciato segni, come ha fatto? Nessuna impronta di piedi, nessun segno di forzatura. Siamo sicuri che non si sia trattato di suicidio?» chiese una poliziotta mentre appuntava il tutto.
Ginshiro guardò Heiji, seduto accanto a sé. Dall’inizio della discussione era rimasto in silenzio a riflettere, e aveva passato tutta la notte a fissare l’esterno con aria assorta.
Davanti i suoi occhi, statico come lui, era poggiato un foglio che aveva richiesto dalla centrale.
«Dobbiamo scoprire qual è stata la tragedia che ha colpito i coniugi, e cosa ha debilitato così tanto la moglie. Solo in questo modo capiremo perché era così spaventato.»
Poi, come se fosse ovvio che avesse già la risposta, prese un respiro e poggiò le spalle alla sedia, si ravvivò i capelli in modo teatrale e con il suo accento del kansai cominciò a narrare.
«Ho scoperto che la tragedia di cui parlava era, nientedimeno, di un’adozione. Adozione del loro bambino, mandato in orfanotrofio perché troppo poveri per mantenerlo. Non riuscivano a trovare lavoro, vivevano allo stremo dei monti, erano soli» Guardò il giardino, il vento scuoteva le cime degli aranci, qualche foglia rotolava giù morbidamente.
«Credi che qualcuno abbia avuto dei risentimenti per questa adozione?»
«Sì, e magari questo qualcuno si era fatto vivo. Per questo il signor Hinata aveva tutta l’aria di sapere già chi fosse. Magari non lo aveva mai visto in faccia, ma sapeva cosa sarebbe successo».
Non appena Heiji disse l’ultima parola, una chiamata ruppe l’atmosfera tesa della cucina.
«Hanno rilevato la causa della morte. Ha ingerito una pillola di veleno, ma insieme ad esse sono state prese altre pillole, tra cui una per la glicemia e una per la pressione». Ginshiro scriveva tutto e commentava a bassa voce.
«Deve essere andata così» esordì improvvisamente «Qualcuno qui ha messo la pillola di veleno insieme a quelle che abitualmente prendeva il signor Hinata»
«Poi» continuò Heiji alzandosi dalla sedia «Si è assicurato che il signore fosse troppo sconvolto per far caso alle pillole da prendere. Ha aspettato che le ingerisse ed è scappato…o forse no. Magari è ancora qui»
Ginshiro, sollevando un sopraciglio, guardò malamente Heiji.
«Figliolo, non dire idiozie. Il tuo ragionamento fila, ma non c’è nessuno di sospettabile qui. Eravamo solo io, te, Kazuha e Kei» Aggiunse chiudendo il taccuino e guardando attentamente Heiji alla ricerca di possibili segni che prevedessero una deduzione.
Poi, come una lampadina, capì.
«Vuoi forse sospettare di Kei?» chiese a bassa voce, per non farsi sentire dalla poliziotta ancora al telefono e dagli altri ufficiali che parlottavano tra loro.
L’aria si fece densa tra loro. Heiji annuì, ripensando a quando avrebbe potuto mettere le pillole sul comodino.
«Di me? Veramente sospettate di me? Piuttosto tu potresti essere stato adottato, scuro come sei!» Kei entrò ridendo, dietro di sé Kazuha era assorta a guardare un quadro appeso.
Per un momento ci fu il totale silenzio. Erano tutti seduti a eccezione di Heiji e Kei, che si fissavano negli occhi intensamente.
«Mio nonno era scuro, quindi smettila tu di dire idiozie» sibilò a denti stretti. Ci mancava che cominciassero a sospettare di lui! «Piuttosto, perché non potresti essere stato tu ieri pomeriggio? Hai forse un alibi?»
Kazuha, entrando innocentemente e avendo ascoltato solo l’ultima frase, esordì sicura «E’ sempre stato con me, da dopo pranzo in poi è sempre rimasto con me nel bosco a passeggiare».
Questo, se possibile, fece innervosire Heiji ancora di più. Spintonò Kei per passare e corse verso il luogo del delitto.
«Heiji!» sussurrò convinta Kazuha mentre gli prendeva un polso. Tutti erano rimasti in cucina, a eccezione di loro due che ora erano nel corridoio, soli. «Ho notato che il signor Hinata era molto ordinato e ha appeso tutti i quadri della moglie. Io credo che abbia ancora le carte dell’adozione a portata di mano. Controlla nella scrivania, io farei così»
Heiji, sorpreso da quella confessione sussurrata, si sorprese e commosse allo stesso tempo. Gli mancavano le deduzioni ovvie a cui arrivava dopo lunghi ragionamenti, gli mancava vedere Kazuha che si applicava su qualche indovinello e che lo aiutava a ragionare.
Anche quella volta, nonostante l’amara promessa di non impicciarsi, aveva finito per mettere il naso.
“La solita Kazuha –pensò- che non si fa i fatti propri, a fin di bene.” Sorrise senza volerlo e annuì per andare nella camera da letto.
Il comodino incriminato era vicino alla porta della camera. Il primo pensiero che corse alla mente del detective, fu la facilità con cui dal corridoio si poteva poggiare la pillola.
Corse verso la scrivania impolverata e cominciò ad aprire i cassettoni uno ad uno.
Nel terzo, proprio come sospettato da Kazuha, c’era una cartella con tutti i documenti risalenti agli anni dell’adozione.
Non restava che determinare le prove e mettere in cella quel farabutto.
 
«Ecco, è scomparsa di nuovo!» urlava tra i corridoi il ragazzo biondo, sbuffava sonoramente e continuava a ciondolare con le mani nelle tasche della felpa blu.
«Ti dispiacerebbe fare silenzio? Stiamo cercando di risolvere un omicidio!» disse Heiji uscendo la testa dalla porta della cucina.
Era ormai sera, faceva abbastanza fresco e avevano acceso una piccola stufa per riscaldare l’ambiente. Heiji però, che mal sopportava il calore, era già in maniche corte e si sentiva il viso particolarmente scottante.
Uscendo dalla porta della cucina per rimproverare il ragazzo, si accorse del netto stacco di temperatura.
«Allora» continuò a voce più modulata «Si può sapere cosa hai perso?»
«La mia ragazza. E’ scomparsa di nuovo!» Continuava a sbuffare, e ciò non faceva che innervosire ancora di più Heiji.
Uscendo dalla stanza cercò di chiamarla invano. Il telefono squillava a vuoto.
«Si può sapere quando l’hai persa?» Heiji, in tanti anni di convivenza con Kazuha, aveva ormai imparato che spesso i guai non vengono mai da soli. Poi aveva imparato che se vicino i guai si trovava lei, allora i guai la prendevano. E aveva anche imparato che le sirene portano burroni, e i ragni ragnatele.
«E’ da un’ora che non risponde. Sono entrato in camera sua, ma non c’è. L’ho chiamata e non risponde» disse Kei alquanto preoccupato.
Qualcosa lo spaventava, ma non di certo la scomparsa di Kazuha.
«Cosa hai fatto fin ora?»
«Ho dormito nel mio letto, al piano di sopra»
Heiji, come colpito da un fulmine, salì fino al piano di sopra dicendo al ragazzo di aspettare giù. Entrò nella sua camera e toccò le coperte: fredde.
«Strano per uno che ha dormito fino a poco fa» sussurrò guardando poi sotto il letto.
Cercò attentamente anche nelle altre stanze, sia sotto i letti che dentro gli armadi, ma di Kazuha nemmeno l’ombra.
Poi, mentre cominciava a preoccuparsi seriamente, il telefono squillò.
«Pronto, Kazuha si può sapere dove sei?» Ma dall’altro capo del telefono si sentiva l’ululato del vento e una voce confusa, lontana.
«Aiutami» sembrava dire. Si sentiva un singhiozzo, poi un lamento e un “aiutami” più lontano.
Preso alla sprovvista e attaccato dal panico, Heiji si catapultò in cucina prendendo in disparte Ginshiro e spiegandogli molto brevemente la situazione mise il telefono in vivavoce in una delle stanze appartate della casa.
«Mi senti?» le diceva con tono severo «Kazuha dobbiamo sapere dove sei»
«Non so. Fuori» La voce era stanca, sofferente. Heiji sentì ancora la rabbia dentro il corpo, scorrergli tra le vene e bloccargli la mente. Era confuso e spaventato.
«Kazuha –esordì suo padre- vedi la luna a destra o a sinistra?»
«A sinistra» cominciò lei tossendo «Credo di non vedere la casa»
Heiji cominciò a riflettere. Il bosco attorno la casa era immenso, troppo vasto per cercarla orientandosi con la luna.
Poi si accese la lampadina. Un’idea gli trapassò la mente fulminea.
«Accendi il geolocalizzatore. Vengo a prenderti, okay?»
Un urlo, così forte da farli trasalire provenì dal telefono.
 
«Kazuha cosa è successo?» cominciò a chiedere Heiji, il panico che lo teneva ancora stretto a sé, in una sensazione di impotenza.
Nessun rumore, una notifica arrivò sul telefonino del detective che, senza preoccuparsi del vento e del freddo, uscì di corsa dalla casa seguendo il pallino pulsante sullo schermo.
L’aria gelida lo colpì in viso come uno schiaffo, ma il pensiero che quel pallino fosse il cuore di Kazuha, lo convinse a correre ancora più veloce.
Usando la torcia del telefono arrivò a destinazione in una manciata di minuti.
«Kazuha, parla, dimmi dove sei! Kazuha!»
Un urlo straziante, se possibile peggiore del primo, si diffuse alle sue spalle.
Era un grido disperato, doloroso a sentirsi. Come se delle lame ti trafiggessero il timpano, unghie che strisciano sulla lavagna. Mille lavagne contemporaneamente.
E poi, mentre ignorava il freddo e girava con la torcia, la vide.
Cadde in ginocchio carezzandole la fronte sudata, cercava parole adatte senza trovarle.
«Ci sono io –riuscì a dire- usciremo da questa situazione, va bene?»
Kazuha annuì. Aveva i polsi e le caviglie incatenati con trappole per animali selvatici. Lunghi spuntoni di ferro gli attanagliavano le carni facendo fuoriuscire così tanto sangue da creare delle pozze attorno a lei.
«Non riesco a muovermi» sussurrò piangendo, il petto si sollevava e si abbassava velocemente. Stava morendo dissanguata. «E’ stato lui, mi aveva convinta a venire qua, è stato lui Heiji…»
Il detective, nonostante fosse stordito dal panico, strinse una tagliola cercando di liberarla. Il sangue continuava a uscire dalle braccia.
«Devo dirti una cosa importante, avrei dovuto dirtela molto tempo fa…ma avevo paura» Kazuha parlava piano, con il respiro veloce e gli occhi velati. Tremava dal freddo e dalla paura, ma sembrava determinata a non cedere.
«Avrai altre occasioni per dirmelo, se è una cosa importante non dovresti dirmela ora» suggerì l’altro mentre le liberava il polso sinistro.
Un altro urlo si spanse per il bosco, Kazuha diede sfogo al suo dolore con una potenza inimmaginabile. Urlava così forte da temere di rimanere senza voce per sempre.
Tremava ancora di più mentre Heiji si toglieva la maglietta, la strappava e l’arrotolava per tamponare momentaneamente l’emorragia.
«Sta ferma, ho quasi finito Kazuha, ho quasi finito» Heiji sentiva il respiro accelerato e la pelle rabbrividire per il freddo e il vento, ma vedeva anche la sua amica lì, stesa nell’erba umida e attanagliata con trappole per animali. Come fosse un animale da caccia.
La sua Kazuha.
«Devo dirtelo Heiji, è troppo importante e sappiamo entrambi che io potrei non…»
«Zitta, non dirlo nemmeno. Stai zitta e stringi i denti, ti riporterò a casa hai capito? Io ti riporterò a casa!»
Continuava ad armeggiare con le catene, in lontananza sentiva un’eliambulanza arrivare, Ginshiro correva nella loro direzione.
Tolse la tagliola dal polso destro, il sangue scivolava tra il polso candido e l’erba umida, Heiji tamponò anche quella ferita con una fasciatura temporanea.
Prese la caviglia destra causandole altro dolore, ma la forza per urlare si era ormai esaurita.
«Heiji, ti prego ascoltami perché non ci riuscirò per molto» sussurrò stanca Kazuha, cercò di toccargli il braccio ma la fasciatura e la ferita avevano quasi annullato la sensibilità nella mano.
«Kazuha, ti ho detto che tornerai a casa, io-»
«No, ascoltami stupido! Devi ascoltarmi così avrò meno paura, okay?» Kazuha gli sfiorò il torso nudo e freddo e lui, quasi fosse un gesto automatico, si slanciò verso di lei avvicinando il viso al suo per sentire la sua voce, sempre più flebile.
«Mi piaci Heiji, e se mi sono fidanzata con Kei è solo perché sapevo che non ricambiavi  e non volevo rovinare tutto» prese un respiro lento, tremolante «Volevo dirtelo prima di…di...»
Ginshiro arrivò di corsa, si tolse la sciarpa e si inginocchiò davanti la figlia.
«Kazuha, mi senti? Adesso ti liberiamo, Kazuha? Kazuha?»
Ma lei, sfinita dalle ferite, dal freddo e dall’emozione, era già svenuta.
 
Il viaggio fu un incubo per te, Heiji
Guardasti Kazuha con occhi nuovi e ancor più spaventati
Lei provava ciò che provavi tu, e come due idioti avevate preferito non rischiare.
La coda di cavallo dondolava veloce, Ginshiro correva tenendola in braccio
I polsi penzolanti avevano le fasciature ormai rosse
Le caviglie cremisi
Vermiglio ovunque.
L’elisoccorso arrivò immediatamente all’ospedale più vicino
Il suo viso era pallido come quello di un morto
 
«Cosa significa che non posso entrare?»
«Signore, la ragazza non è abbastanza forte. Ha bisogno di riposare, la prego di non fare rumore»
La dottoressa chiuse la porta della stanza di Kazuha dove, lì dentro, era sdraiata su un letto e ricoperta di macchine.
«Ha bisogno di sapere che sono qua con lei, mi lasci entrare! Solo cinque minuti, devo solo dirle una cosa, la prego!» Heiji cercò di non urlare, rispettoso degli altri pazienti, ma era troppo agitato e spaventato per cogliere la ragione di quel diniego.
La sua Kazuha stava morendo, e probabilmente i medici avrebbero visto i suoi organi collassare uno ad uno per la mancanza di sangue.
«Signore, le ripeto che non possiamo fare eccezioni al protocollo. E’ già tanto che la stiamo facendo rimanere nel reparto, non è nemmeno suo parente!»
Si sedette, frustato, colpevole.
Ginshiro gli aveva chiesto di starle vicino, mentre lui sarebbe andato a catturare quel pezzente di Kei, che l’aveva quasi uccisa.
E non era sicuro del quasi.
 
«Non avete prove!» urlò Kei, seduto ancora sulla sedia della casa degli Hinata.
«Invece sì! Abbiamo la prova che tu sei il figlio del signor Hinata, e che guarda caso sei finito qui proprio il giorno del suo omicidio!»
Ginshiro, adirato come mai prima d’allora, era in piedi davanti a Kei e sbatteva i pugni sul tavolo.
La sua Kazuha, sua unica figlia, era stata presa in giro, usata e quasi uccisa per colpa di quel deficiente.
«Che prove avete? Provvederò a chiamare un avvocato, sono accuse senza fondo!»
Una poliziotta mostrò loro un foglio di nascita con il nome di Kei, c’era scritto anche il codice fiscale e corrispondevano. Era senza alcun dubbio il figlio che cercavano.
Heiji, in un colpo di genio prima di salire sull’elisoccorso, aveva detto a Ginshiro di aver capito quando le pillole erano state messe sul comodino.
«Quando Kazuha si stava cambiando- aveva detto- Kei ha sbagliato porta ed è entrato nella camera del signor Hinata. Ha richiuso subito la porta e prima di uscire nel cortile aveva aspettato che il padre andasse a dormire. Sapeva che prendeva le pillole a quell’ora, e che preso dall’angoscia dell’interrogatorio non avrebbe fatto caso al numero di farmaci».
Kei smise di urlare, incrociò le dita delle mani e si morse il labbro prima di parlare.
«Mi avevano abbandonato senza un valido motivo, dicendo che erano troppo poveri per avere un bambino. Come se i soldi fossero tutto. Poi, quando la fortuna li volle ricchi da far schifo, non si preoccuparono nemmeno del loro bambino.»
Kei si alzò in piedi, puntò gli occhi scuri a quelli di Ginshiro.
«Un padre che non si preoccupa del proprio figlio abbandonato, non è né un padre né un uomo».
«E se quell’uomo sapeva che vivevi in una famiglia felice, adesso, e che sarebbe stato inutile e dannoso strapparti alla tua nuova vita? Non lo hai pensato questo?» chiese un uomo entrando dalla porta principale. Era il suo padre adottivo.
«Mi spieghi perché hai quasi ucciso mia figlia? Ti voleva bene, probabilmente ti avrebbe perdonato qualsiasi cosa, spiegamelo!» esordì Ginshiro sbattendo ancora i pugni sul tavolo. L’aria era tesa.
«Volevo far pensare a un serial killer, così il sospetto del figlio adottato sarebbe caduto. Ma ho fatto male i conti con il sedativo, e Kazuha si è svegliata troppo presto, rovinando il mio piano geniale-»
«Folle!» urlò Ginshiro dando un pugno al ragazzo che finì a terra con il naso rotto.
Due poliziotti li separarono, il padre adottivo di Kei lo guardava con tristezza.
Come un padre che ha appena smarrito il proprio figlio.
 
«Sh, non lo dire a nessuno, va bene?» sussurrò Heiji sorridendo, richiuse la porta senza far rumore e si accovacciò accanto al letto. Kazuha dormiva, una macchina respirava per lei.
«Sono stato uno stupido anche io, mi dispiace piccola» mormorò piano spostandole il ciuffo dalla fronte. Con il pollice tracciò la linea della fronte e degli occhi, carezzandole lentamente la testa.
«Mi hai fatto preoccupare abbastanza per oggi, rompiscatole, vedi di riprenderti presto. O finirò per mangiare la scorta segreta di cioccolata che tieni dietro la scrivania, golosa!»
Cercava di smorzare l’ansia che ancora gli attanagliava il petto. Vederla piena di fasce e con i polsi e le caviglie steccate, lo rendeva particolarmente vulnerabile.
«Non pensare nemmeno per scherzo di lasciarmi così, Kazuha. Anche io devo dirti una cosa molto importante, e voglio che tu sia cosciente per sentirla bene, non la ripeterò due volte. Okay?»
Fece scivolare la sua mano scura lungo le bende bianche che nascondevano i punti dell’operazione.
E in silenzio, così come era entrato, uscì dalla stanza.
 
***
 
Kazuha aprì gli occhi il mattino dopo.
Quando le dissero tutto, di Kei e del tentativo di ucciderla, non riuscì a parlare né a piangere per intere ore.
Heiji rimase lì con lei, una mano sui suoi capelli ad accarezzarli.
Perché non l’avrebbe lasciata. Mai.
Mai più.
Nessuno, Mai, avrebbe più approfittato di quel piccolo cuore
Così debole
Così pieno d’amore.
Heiji le baciò la fronte teneramente, gli ricordò il suo bacio sulla guancia la notte in cui i neon proiettavano le loro ombre.
Sorrise, Kazuha non parlava ma respirava
« Heiji, ti prego avvicinati…»
« Sono qui, sono qui con te.»
La strinse a sé, rimasero così, abbracciati su un letto troppo piccolo.
 
   
 
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