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Autore: scarletRose88    08/10/2018    0 recensioni
In un’Europa devastata dalla guerra e dalle conseguenze del cambiamento climatico, la popolazione conta poche centinaia di migliaia di individui. Molte regioni sono scomparse perché sommerse dagli oceani o perché sepolte dalla sabbia del deserto. Da circa centocinquant’anni si è costituito l’Impero di Urbia - ispirato all’antico impero romano - che ha ereditato quel che resta della civiltà. Proprio al di là dei suoi confini, un giovane si risveglia dopo un lungo coma senza nome e identità, assumendo per questo il nome “Nemo”. Ad accompagnarlo nella solitudine della sua condizione c’è soltanto una canzone, che risuona confusamente nella sua testa al grido di “vendetta e libertà”. Quelle parole rappresentano per lui l’unica traccia di sé e da cui intende partire per iniziare un viaggio alla scoperta del suo passato.
Genere: Avventura, Drammatico, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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LE TERRE PERDUTE

I giorni trascorrevano lenti ma assai piacevolmente nel piccolo villaggio di Ribera. La presenza di Nemo sembrò condizionare la routine degli abitanti in maniera positiva. Quello “strano ragazzo”, come lo definiva qualcuno, si rendeva utile nella caccia, nelle ristrutturazioni, nella guardia, ma anche nei giochi con i bambini o nelle chiacchiere con gli anziani. Le donne si ritrovavano a bisbigliare negli angoli appartati mentre lo fissavano martellare una roccia sotto il sole cocente. Le più giovani e impudenti si avvicinavano per portargli un po’ d’acqua o per asciugargli il sudore. Si diceva che persino alcuni uomini andassero a spiarlo quando faceva il bagno al lago dell’Ebro una volta alla settimana. Nemo era arrivato all’improvviso, come la pioggia nel deserto delle Terre Aride. C’era però chi continuava a diffidare della sua spontaneità e, per quanto Don August sembrasse fidarsi dello straniero, il resto dei suoi consiglieri continuava a escluderlo dalle missioni più delicate.
Un giorno il piccolo Consiglio politico del villaggio stava discutendo sulla possibilità di intraprendere una spedizione molto rischiosa nelle Terre Perdute del nord. Secondo alcuni informatori, da quelle parti era possibile raccattare alcuni resti utili del passato bombardamento, come batterie, accendini, strumenti medici e armi. Non si erano mai spinti così lontano e tutti quelli che l’avevano fatto non erano mai tornati indietro. Il resto dell’ex provincia imperiale era ridotta a un deserto sconfinato, le rovine delle metropoli si ergevano meravigliose ma spettrali con i verdi rampicanti sulle facciate dei palazzi e la sabbia scintillante sull’asfalto. Le altre città erano scomparse dalle mappe, sommerse dall’Inondazione. E, per quanto fosse ancora possibile rimirare i resti monumentali dell’antica civiltà pre-imperiale, le comunità superstiti preferivano stare lontane dai vetusti centri urbani dacché le fatali pestilenze che avevano decimato la popolazione mondiale erano partite da lì.
«La presenza di Nemo può tornarci utile. È forte e motivato» disse uno.
«Ma non è uno di noi» replicò qualcun altro.
«È una buona occasione per metterlo alla prova» intervenne Don August. «Se tradirà, allora non avrete remore nell’ucciderlo».
«Se prima non ci fa tutti fuori» riprese quello che aveva parlato per primo.
Nemo non si mostrò sorpreso alla proposta di aiutare il villaggio con quella spedizione, e accettò subito, impaziente di mettersi in viaggio. Le donne accorsero numerose a salutarlo, ma Nemo non aveva occhi che per Bea, stranamente ansioso di lasciarla. Lei lo abbracciò dopo avergli legato al collo un fazzoletto rosso che custodiva molto gelosamente. Era appartenuto a suo padre. Nemo lo accettò a patto che avesse potuto restituirlo al suo ritorno. Era una promessa, ed era la prima da quando si era svegliato. Bea aveva un figlio ma non gli aveva mai raccontato del padre, probabilmente perché ciò le evocava ricordi spiacevoli. Una volta gli aveva confidato che avrebbe desiderato essere al suo posto, che avrebbe voluto perdere la memoria anche lei, per non soffrire più. Ma Nemo l’aveva dissuasa da quell’idea, spiegandole che non bisognava mai rinnegare il proprio passato, per quanto doloroso fosse.
«Preferirei piangere i miei ricordi, piuttosto che averli persi per sempre».
«Forse non li hai persi per sempre, forse li riacquisterai un giorno».
 
Partirono all’alba riunendosi in un gruppo di cinque uomini tra i più robusti del villaggio. Proseguivano alternandosi su una carrozza trascinata da un cavallo anziano e su un ronzino, figlio del primo. Inizialmente i cavalli erano quattro ma nel giro di un mese ne morirono due. Fortunatamente la femmina portava in grembo un puledro che si rivelò una manna dal cielo per il villaggio. Sperarono a quel punto che presto madre e figlio avessero concepito un altro cavallo dal momento che erano indispensabili e rari da quelle parti. Il clima arido tendeva ad allontanare gli animali verso nord, dove l’aria era più mite e la flora più sviluppata. Peccato che gran parte del nord fosse dominato dalle Terre Perdute, luoghi da decenni disabitati a causa di un bombardamento atomico da parte dell’Impero circa duecento anni prima. Gli uomini stavano alla larga da quel territorio, timorosi di imbattersi nelle scorie radioattive. La miseria aveva tuttavia spinto la comunità di Ribera a raggiungerlo, non avendo ormai più nulla da perdere. Proseguendo per una decina di ore al giorno avrebbero impiegato circa quindici giorni per arrivare nell’antica città di Notre Dame. La strada maestra era deserta e disseminata di cippi miliari.
Nemo era ansioso di conoscere nuove persone, nuovi posti e nuovi ricordi. Andare a cavallo non gli apparve un’esperienza nuova: guidare il ronzino, anticipare la piccola carovana, indicare la strada, correre al trotto… erano tutti gesti che aveva già compiuto, ne era certo. Dopo circa tre giorni di cammino si imbatterono tra le rovine di una città. Sulla Porta della cinta muraria era inciso il nome “Giano”. Nemo spalancò la bocca per lo stupore. «Non può essere lo stesso villaggio».
«Che intendi dire?» domandò Jacob.
«Il villaggio dove mi avete trovato… si chiamava Giano» precisò perplesso.
Paul, il capo missione, emise un sospiro indelicato e chiarì il malinteso: «Esistono diverse città con quel nome nelle Terre Aride. Probabilmente risalgono tutte al medesimo fondatore».
Nemo sbatté le palpebre sentendosi improvvisamente stupido di fronte alla spiegazione di Paul che, in ogni caso, aveva alimentato ulteriormente la sua curiosità: «E chi sarebbe questo fondatore? È vissuto prima o dopo i Secoli bui?»
«E come potremmo saperlo? Guarda questa città, non sono rimasti che polvere e silenzio. L’Impero e la fame hanno cancellato qualunque residuo di civiltà» intervenne Demeter asciugandosi la fronte con un fazzoletto.
Nemo abbassò lo sguardo, in imbarazzo. Certi discorsi sapevano suscitare il malumore tra gli abitanti di Ribera, anche tra quelli più mansueti. Scorse i volti dei suoi quattro compagni e sospirò, avrebbe evitato di porre altre domande per il resto del viaggio.
Più risalivano verso nord più cresceva la desolazione dell’ambiente circostante. Nelle antiche zone metropolitane erano accatastati resti di enormi edifici, il cemento si mescolava alla vegetazione che dominava incontrollata e grossi stormi di avvoltoi segnalavano la presenza di carcasse di animali. Paul percorse con un dito la mappa e scese da cavallo, gli altri fecero lo stesso senza commentare. Infine indicò un grosso palazzo che ancora integro si ergeva al centro della città: «Raggiungiamolo. Potrebbero esserci archivi o registri interessanti».
Demeter doveva aver letto la perplessità nello sguardo di Nemo poiché lo interpellò durante il tragitto tra i meandri del centro urbano: «Allora? Che ne pensi di questo posto? È molto diverso dai villaggi delle Terre Aride, eh?»
Non poté impedire alla propria voce di apparire incerta: «Sì, in effetti è molto diverso. Questo doveva essere un villaggio ben organizzato» commentò guardandosi intorno.
Il compagno ridacchiò ma aveva un’espressione amara sul volto: «Questo non era un villaggio, ma una metropoli. Guarda gli edifici, le strade, l’impianto elettrico, questo era ciò che l’Impero aveva ricostruito dopo i Secoli bui» concluse truce.
Nemo lo guardò accigliato: «Che cosa è successo?» abbassò la voce «Si sono ribellati?»
Demeter resse il suo sguardo e annuì: «Proprio così, sono stati i primi a farlo avendone i mezzi».
L’antico nome di quella città era Lyon, una delle più grandi della Gallia. L’ex provincia era stata per anni la più importante produttrice di armamenti pesanti dell’Impero, ma duecento anni fa aveva subito un pesante bombardamento dall’Esercito, che andò a colpire una delle sue industrie atomiche, per aver assecondato un movimento nascente di rivoluzionari cui erano stati attribuiti diversi attentati alle sedi dislocate del Governo. Almeno era quello che avevano letto sui giornali risalenti a quel periodo e che erano disseminati all’interno delle abitazioni private.
«Facciamo in fretta, non voglio restare in questo cimitero di radiazioni troppo a lungo» sollecitò Paul.
Il passato bombardamento aveva modificato l’ecosistema del territorio provocando l’estinzione di alcune specie di insetti e al contempo la mutazione di altre. Gli abitanti che riuscirono a sopravvivere al disastro tramandarono alla loro progenie numerose patologie e alterazioni genetiche. Intorno alla zona del bombardamento fu istituita una barricata per evacuare la popolazione locale e prevenire l'ingresso nell’area più fortemente contaminata. Se inizialmente il territorio era sorvegliato dai Vigilanti, a seguito dell’estromissione della Gallia dall’Impero, fu totalmente abbandonato. Esso si trovava in ogni caso fuori dalla portata dei viandanti, seppure la contaminazione apparisse abbastanza diseguale. Punti di elevata radioattività erano determinati non solo dal vento che aveva trasportato polvere tossica durante l'incidente, ma anche da numerosi interramenti di vario materiale ed attrezzature.
Raggiunsero indisturbati il palazzo e lo ispezionarono in fretta. Ad eccezione di qualche registro contabile, non trovarono niente di interessante. Scheletri umani giacevano abbandonati nelle stanze ammuffite, enormi graffiti decoravano il grigiore urbano con motti rivoluzionari e immagini provocatorie. Nemo li studiò, appuntandone qualcuno sul suo taccuino: “Verità o Morte”, “No all’Impero”, “Libertà e Vendetta”. Si arrestò sull’ultima parola, sua compagna fin dal risveglio, e immaginò di ascoltare ancora una volta quella canzone. Le note del flauto traverso accarezzarono le sue orecchie alleggerendogli il cuore.
«Nemo? Sei stato tu?»
Il giovane sobbalzò al richiamo di Jacob e si voltò a incontrare il suo sguardo.
«Sei stato tu a intonare la canzone?»
L’espressione si incupì: «No, io…» proprio allora si accorse che la canzone stava suonando davvero in mezzo a quelle rovine metropolitane. Senza pensarci troppo si mise a correre per raggiungere la sua fonte. Non potevano fermarlo neppure le urla dei suoi compagni e si precipitò nei pressi di un enorme cratere al di là del centro città. Sgranò gli occhi di fronte all’immagine di un uomo abbracciato a un enorme aggeggio di metallo e intento a canticchiare la canzone.
«Ehi!»
Non sembrava neppure essersi accorto della sua presenza. Decise di seguirlo al centro della voragine mentre sentiva che la sua squadra lo aveva raggiunto.
«Nemo! Che diavolo fai? Non avvicinarti, quella è una bomba!» urlò Paul sgomento esaminando la testata atomica confitta nel terreno fangoso.
«Ehi, dico a te! Questa canzone…» gli prese le spalle «come la conosci? Come la conosci?» Solo quando incrociò i suoi occhi si accorse della sua diversità. Era totalmente privo di capelli e sopracciglia, i bulbi oculari si stagliavano asimmetrici sulla testa deforme ed eccessivamente grossa. Balzò all’indietro, inorridito.
«Non temere, non sono un Vigilante, io» e scoppiò in una risata gutturale che si prolungò.
Deglutì imponendosi di non perdere il controllo: «Tu conosci quella canzone» insistette riacquistando fermezza.
Lo strano uomo lo fissò a lungo finché non scoppiò di nuovo a ridere e, quando decise di placarsi, la sua espressione si rabbuiò: «Hanno raso al suolo la nostra terra, hanno segnato la nostra esistenza con bombe, malattie, carestie, hanno cancellato ogni traccia della nostra civiltà… ma la nostra mente, i nostri ricordi, i nostri sentimenti non potranno mai sottrarceli».
Il discorso dello sconosciuto lo turbò tanto che non riuscì più a parlare, la sua anima si riscosse come la debole fiamma di una candela che si animava all’alitare di una brezza. Quella fiamma non si spense, però si agitò, oscillando, allungandosi e accorciandosi senza mai divampare. Restava lì, sul moccolo, nell’attesa che la cera si sciogliesse. A un certo punto, inspiegabilmente, la lingua iniziò a formulare parole nuove, svincolate dalla mente confusa, e dettate da un’emozione repressa, sconosciuta. «Ti sbagli, possono toglierti anche i ricordi, il tuo nome, la tua personalità. Possono privarti di tutto ciò che hai».
L’uomo deforme sbatté gli occhi sporgenti, abbandonando per la prima volta la stretta della bomba e la sua attrattiva verso la morte. «Quella canzone» disse estatico «è nostra compagna da più di novant’anni e come un’amante ci compiace, come una madre ci culla, come un’amica ci conforta…».
«…come una bandiera la sventoliamo, come una preghiera la recitiamo, e al suono di una parola la intoniamo: Vendetta» aggiunse Nemo meditabondo con gli occhi incollati al suolo.
I compagni in cima al cratere assistevano increduli. Lo sconosciuto afferrò le spalle di Nemo scuotendolo bruscamente: «Tu conosci l’Inno dei ribelli? Oh ti scongiuro, cantalo, cantalo per me» e iniziò a piangere.
Nemo apparve sorpreso almeno quanto lo erano i presenti. Aveva iniziato a recitare quelle parole senza pensare, come se fosse sotto l’effetto di un’ipnosi. La canzone dei ribelli lo aveva risvegliato dal suo torpore in quella grotta e lo aveva salvato dalla gente delle Terre Aride quando stavano per ucciderlo. Che cosa gli stava suggerendo stavolta? Perché lo aveva guidato da un uomo deforme e infelice che giaceva al fianco di una bomba inesplosa?
«Perdonami, non so che cosa mi abbia preso. Non volevo importunarti» si alzò per andarsene ma l’uomo lo fermò.
«No! Aspetta» supplicò in preda allo sconforto.
Nemo ribatté senza guardarlo: «Non siamo qui per te, abbiamo una missione da compiere a Notre Dame. Lasciami andare!»
Le pupille si dilatarono: «Notre Dame? No, non fatelo! Anche quella città è intrisa di radiazioni. Non c’è rimasto più nulla, a parte noi Mostri» si affrettò a spiegare.
«”Mostri” è il termine più appropriato per definirvi» soggiunse Demeter in un tono di disgusto.
Gli uomini deformi che abitavano le zone contaminate erano le vittime del disastro nucleare causato dall’opposizione dei ribelli. Duecento anni prima, Urbia punì l’avanzata dei ribelli devastando le due città più popolose della Gallia nella maniera più subdola. Con un solo tremendo gesto l’Impero dimostrò la propria superiorità eliminando la minaccia dei rivoluzionari e, al contempo, innescò il meccanismo del terrore. Da un giorno all’altro si acquietarono le minacce e le insurrezioni anche nelle altre province, nel timore che l’Impero potesse scagliare le sue micidiali armi anche laggiù. Le conseguenze di quella guerra si tramandarono per anni nei sopravvissuti colpiti dalle radiazioni e nei loro figli che, a causa della loro deformazione genetica, acquistarono la definizione di “Mostri”.
«Guardati intorno» sospirò Nemo «anche qui non c’è rimasto nulla. Solo polvere e silenzio» disse scambiando uno sguardo eloquente con Demeter.
«No! Non fatelo! Ascoltatemi!» riprese l’uomo singhiozzando. Si aggrappò a una gamba del ragazzo che allora lo guardò allibito. Si liberò dalla stretta con un certo sforzo e, dopo avergli rivolto un ultimo rammaricato sguardo, si allontanò trafitto dalle sue urla strazianti.
L’incontro con il Mostro sconvolse l’anima di Nemo, già profondamente tormentata dal giorno del suo risveglio. I compagni non fecero alcun commento sull’accaduto ma i loro volti erano cupi e sospettosi verso l’individuo che aveva recitato il testo di una canzone proibita con tale disinvoltura. Il ragazzo non solo li comprendeva ma condivideva persino i loro dubbi, neanche lui riusciva a fidarsi di se stesso. Stava iniziando a considerare l’idea di separarsi dal gruppo e di proseguire da solo. Insieme alla gente delle Terre Aride non aveva fatto progressi e anziché ottenere qualche indizio sul suo passato, finiva per cantare una canzone che non significava niente, eccetto che morte e sofferenza.
Sciolse il fazzoletto di Bea e lo annusò, perdendosi nel tappeto di stelle sopra di sé. Era il suo turno di guardia ma sapeva bene che qualcuno della squadra era vigile perché potesse sorvegliarlo. Forse Bea era stata l’unica a credere in lui, ma quella donna non era una ragione sufficiente perché dovesse andare avanti insieme al popolo di Ribera. Sentiva che non era quella la sua vera missione.
Il mattino seguente, Paul comunicò la loro posizione, informando i compagni che sarebbero giunti a Notre Dame entro la sera. Nemo decise di accompagnarli fino a destinazione, poi se ne sarebbe andato per la sua strada.
Come Lyon, anche la capitale dell’ex provincia si rivelò un cimitero di palazzi, priva di qualsiasi forma vivente. Il silenzio padroneggiava sulle strade polverose e tra le mura diroccate dei grattacieli. Il grigio pallido era il colore predominante e si rifletteva sulle guance smorte dei visitatori.
«Tenete gli occhi aperti, i Mostri abitano queste zone e possono essere pericolosi» li ravvisò Paul imbracciando l’arco.
Nemo lo guardò intristito. Come potevano quegli uomini infermi essere una minaccia? Non erano pericolosi perché deformi, erano pericolosi perché arrabbiati, e avevano tutte le ragioni per esserlo. L’Impero aveva tolto loro ogni bene, compreso l’aspetto umano, come potevano sopravvivere all’insegna della speranza?
«Il diario di Cristopher riferisce che il quartiere orientale è disseminato di mine e fortunatamente ci fornisce anche la loro posizione. Su, andiamo» riprese Paul determinato. Quel diario era uno dei “tesori” conquistati nelle missioni conseguite dagli abitanti di Ribera. Diari, registri contabili, giornali e almanacchi erano un mezzo per scovare magazzini di cibo abbandonati e vecchie armerie, o per evitare zone contaminate e aree sorvegliate dai Vigilanti. Restavano l’unico strumento per potersi districare in un mondo selvaggio.
Attraversarono un sentiero sterrato che conduceva a una vecchia zona di rifornimento di grano. Dopo il bombardamento i sopravvissuti cercarono di ricostruire la città ma l’aria era irrespirabile e la gente troppo debole per aiutare nei lavori. Lentamente ogni tentativo fu abbandonato e l’area si spopolò.
Una strana sensazione spinse Nemo a voltarsi verso un mucchietto di macerie a est dove per un istante credette di scorgere la sagoma di qualcuno. Immaginò che potesse essere qualcuno dei Mostri e istintivamente rafforzò la stretta sull’impugnatura del machete.
«Eccolo, è laggiù» Paul fece un cenno verso un enorme capannone ed esortò a proseguire secondo le sue indicazioni. Iniziò a camminare a zigzag evitando le mine sotterrate ad appena qualche metro dai suoi piedi, il volto era imperlato di sudore ma privo di incertezza. Al contrario, i compagni rimasero impalati nelle loro posizioni, incapaci di muoversi.
«Ehi, che cosa stiamo aspettando? Non andiamo?» disse Nemo attonito.
Emìle, il terzo compagno di squadra, quello che non aveva proferito una parola per l’intero viaggio, si mosse e imitò i passi di Paul senza paura. Jacob e Demeter rimasero a fissarsi inermi.
«Coraggio, dobbiamo andare» tornò a esortarli Nemo.
Nel frattempo, Paul ed Emile avevano raggiunto la stazione ma non appena posero una mano sui sacchi accatastati nello stand improvvisato, l’intera area saltò per aria. Jacob, Demeter e Nemo furono travolti dall’onda d’urto che li scaraventò duecento metri più lontano.
Il primo a riaversi fu Nemo che cercò faticosamente di sollevare la testa, pesantissima. Il paesaggio diroccato roteava intorno a lui inarrestabile e, nella speranza di riacquistare l’autocontrollo, coprì gli occhi distendendosi sul terreno oscillante. Tutto intorno a lui girava, si sentiva come intrappolato all’interno di una sfera rotolante su di un pendio. Iniziò a urlare ma non riusciva a sentire neppure la sua voce, allora aprì gli occhi e distinse una voluta di fumo nero espandersi a pochi metri da sé. Si voltò a guardare alla sua destra e si accorse del volto martoriato di qualcuno. Strisciò fino a poterlo toccare e lo riconobbe, era quello di Demeter. Il sangue si era rappreso su metà del viso e gli occhi immobili erano rivolti al cielo. Pian piano la sofferenza si stava insinuando in lui insieme alla padronanza delle membra scombussolate dal trauma. Pianse il compagno mentre si affrettava a rintracciare Jacob. Era indubbio che Paul ed Emile non ce l’avessero fatta. Lo chiamò a gran voce ma l’area era ricoperta di detriti e fumo. Rivolse lo sguardo all’orizzonte e scoprì la presenza di diversi individui sparpagliati intorno al luogo dell’incidente. La mano cercò il machete sul fianco ma la fodera era vuota. Ricordò che al momento dell’impatto lo stava impugnando, quindi doveva averlo perduto schiantandosi contro il terreno. Le figure scure in lontananza lo innervosivano e l’idea di restare da solo lo faceva impazzire. Improvvisamente udì un suono simile a un singulto. Arrancò in mezzo alla nube finché non inciampò su qualcosa, quindi cadde proprio al fianco di Jacob.
«Jacob! Sei vivo, resisti… adesso ce ne andiamo di qui. I Mostri ci hanno circondato» gli prese un braccio e lo appoggiò sulle proprie spalle, ma a quel punto i rantoli di Jacob si trasformarono in gemiti di dolore. Lo trascinò lontano dalla nube e solo allora si accorse della sua orrenda mutilazione: entrambe le gambe erano state recise e dallo squarcio fuoriusciva un fiume di sangue. Incrociò lo sguardo allucinato del compagno e lo riadagiò per terra. Rimase a guardarlo mentre moriva ascoltando il cuore che gli martellava nelle orecchie.
La sorte aveva deciso di risparmiare solo lui, sottraendogli tutti quelli che conosceva. Era rimasto solo, circondato da una massa di sconosciuti pronti a torturarlo. Per un istante avrebbe voluto morire, magari bastonato dagli stessi Mostri, per smettere di pensare, di soffrire, di sperare; tuttavia l’istinto della sopravvivenza lo spinse a sollevare lo sguardo dall’espressione morente di Jacob e di indirizzarlo a quelli che si stavano avvicinando. La nube provocata dall’esplosione si era quasi diradata e poté individuare il machete che scintillava a pochi metri. Dopo essersene riappropriato, lo puntò verso i nemici urlando: «Avvicinatevi, Mostri! Venite a finire il lavoro se avete il coraggio!»
Si fermarono a scrutare l’unico straniero sopravvissuto alla trappola. Aveva gli abiti stracciati, la pelle annerita, il volto contratto dalla disperazione. Ma non c’era alcuna macchia di sangue a imbrattare il suo corpo, né una ferita aperta. Seppur palesemente coinvolto nell’incidente non ne era stato vittima.
«Tu ci hai chiamato Mostri?» parlò uno del gruppo con voce grave.
Mentre si avvicinava, Nemo poté esaminare il volto privo di naso e labbra che lasciava scoperti i denti, conferendogli un’espressione perennemente minacciosa.
«E cosa saresti tu se non a tua volta un Mostro?» aggiunse fermandosi a pochi passi.
Il ragazzo, ancora scosso dagli avvenimenti degli ultimi minuti, non riusciva a smettere di tremare e si lasciò scivolare sulle ginocchia. «Siete stati voi a nascondere gli esplosivi nel grano. Siete degli assassini» farfugliò in lacrime.
«Anche voi ci avreste ucciso rubando il nostro cibo. Siamo tutti assassini… e mostri» replicò l’uomo.
Lo guardò negli occhi incollerito: «Io non ho mai ucciso nessuno!» urlò brandendo l’arma.
Lo sguardo dell’interlocutore si assottigliò: «È la prima volta in vita mia che incontro una persona cui sta tanto a cuore la purezza della propria condotta. Si uccide per sopravvivere, dunque se non hai mai ucciso vuol dire che hai sempre vissuto nella più totale serenità. Ma se ti trovi a rubare nelle zone contaminate delle Terre Perdute non hai poi vissuto tanto in pace».
Il discorso del Mostro lo annichilì sentendosi come un insetto appena calpestato. Non poteva difendersi, non poteva giustificare l’operato di un uomo di cui non conosceva il passato. Lasciò cadere il machete e si rannicchiò: «Uccidetemi» disse, stanco di combattere per qualcuno che non conosceva, per dei ricordi ormai svaniti, per un mondo vuoto e violento. «Uccidetemi» ripeté.
Il Mostro che gli aveva parlato si inginocchiò al suo fianco, parlandogli placido: «Ucciderti non ci aiuterebbe a sopravvivere, non sei una minaccia adesso» spiegò.
Nemo sollevò il capo mostrando le lacrime: «Che significa? Se non mi uccidete potrei rubare ancora nelle vostre terre o uccidere qualcuno dei vostri compagni! Io sono una minaccia» ribatté straziato e privo di qualunque credibilità.
Scosse la testa: «Anche volendo, non potremmo farlo».
«Cosa? Che significa?»
Si rialzò e parlò ai suoi uomini: «Legatelo, lo portiamo con noi».
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«Svegliati, straniero!»
Nemo riaprì gli occhi, scosso dal tocco gelido di una mano. C’era la fiamma di una candela semi consumata all’angolo di una stanza completamente spoglia. Avvertì la freschezza delle catene che gli circondavano i polsi e rammentò che i Mostri lo avevano preso prigioniero da un paio di giorni.
«Ti ho portato qualcosa da mangiare» e poggiò per terra una scodella colma di zuppa d’avena che, per quanto misera, salì alle narici di Nemo rinfrancandolo. Immerse la bocca nella poltiglia, divorandola in pochi minuti. Neanche ricordava quando era stata l’ultima volta che aveva mangiato.
«Il nostro capo vuole parlarti» riferì porgendogli anche un bicchiere d’acqua. «Fra un’ora verrò a prenderti».
Quel pasto frugale fu sufficiente a restituirgli la lucidità che aveva perduto dal giorno dell’esplosione, per cui si concesse qualche minuto per riflettere, giusto il tempo per non ricadere nel baratro della depressione. Perché i Mostri non lo avevano ucciso? Che cosa ci guadagnavano a tenerlo in vita e, soprattutto, perché lo avevano definito a sua volta un Mostro? Aveva paura, era terrorizzato e completamente solo in un territorio sconosciuto. Probabilmente la zuppa che aveva mangiato, così come l’acqua che aveva bevuto, erano contaminati dalle radiazioni. Il suo organismo era compromesso, tutto era compromesso.
Il sorvegliante giunse a liberarlo pochi minuti dopo. Immaginò che il capo della comunità fosse lo stesso Mostro dal volto scheletrico che gli aveva parlato la prima volta, e inspirò profondamente alla ricerca della compostezza. In realtà non sapeva che tipo di atteggiamento avesse dovuto mantenere in quella circostanza, allo stato delle cose non sapeva neppure se avesse preferito vivere o morire.
«Benvenuto, accomodati».
Era proprio lui, il capo dei Mostri.
«Il mio nome è Andegor e comando la contea di Notre Dame. Quelli che chiami “Mostri” sono coloro che abitano le zone contaminate, proteggendole dagli intrusi» esordì mettendo da parte una pila di scartoffie.
Era stato condotto all’interno di un ufficio illuminato da un candelabro e assurdamente tirato a lucido. La poltrona su cui sedeva era talmente comoda che stava meditando l’idea di non alzarsi più. Si sentiva come accoccolato su una nuvola dopo aver trascorso interminabili settimane a cavallo.
«Or dunque, qual è la tua origine, straniero?»
La garbata parlantina di Andegor, che evitava i fonemi labiali e fricativi, si adattava in maniera quasi paradossale alla sua espressione digrignata. Quell’uomo sarebbe stato l’individuo più educato e distinto che avesse mai conosciuto se non fosse stato per il suo aspetto decisamente discutibile.
«Ebbene, signore, deve sapere che non ho la più pallida idea di chi io sia. Mi sono risvegliato in una grotta delle Terre Aride, circa tre mesi fa, totalmente privo di memoria. Le persone che mi hanno trovato mi hanno assegnato il nome Nemo» raccontò e a quella rivelazione Andegor parve riscuotersi.
«Ho seguito quegli uomini fino a Notre Dame perché volevo rendermi utile nella loro comunità. So che può sembrare assurdo, ma è questa la verità» aggiunse tormentandosi le dita. Il pensiero di aver appena perduto le uniche persone che poteva reputare amiche lo angosciava.
L’uomo si portò le mani al mento informe riflettendo sulle sue prossime parole. «Ti credo, Nemo. Ma, dimmi, non sei riuscito a ricordare proprio nulla del tuo passato da quando ti sei svegliato? Un’immagine, per quanto sfuggevole, un suono indistinto, un profumo familiare, insomma qualcosa che, oltre all’istinto, ti abbia permesso di avere fede, di credere in te stesso».
Sollevò lo sguardo sul suo interlocutore esaminando le iridi castane, ovvero ciò che di più vicino all’essere umano offriva il suo aspetto, e rispose: «Sì, c’era qualcosa. Una canzone».
Andegor ascoltava senza perdersi un solo movimento delle sue labbra. «Ho scoperto che si tratta di una canzone proibita, nata tra i ribelli che si opponevano all’Impero. Io… ricordo ogni parola del testo» rivelò sottovoce.
Il capo dei Mostri apparve impietrito, le mani incollate sulla scrivania laccata, gli occhi spalancati. Neppure la bocca ringhiante poteva celare l’emozione che improvvisamente lo pervase. Emise un sospiro per placare l’agitazione e tornò a parlare: «Vorrei, vorrei che tu la scrivessi» e gli lanciò un’occhiata severa.
 
Da quel momento, Nemo fu liberato dalle catene e gli venne concesso il permesso di vagare per la zona contaminata dei Mostri purché all’ora del coprifuoco rincasasse nelle prigioni. Ancora una volta era stato salvato da quella canzone, ritrovandosi in mezzo a degli sconosciuti che, tra le altre cose, riportavano le deformazioni di un disastro nucleare. Li sentiva fischiettare la sua canzone o intonarne il testo con assoluta serenità, impavidi del pericolo che correvano divulgandola. Molti erano infermi, qualcuno aveva una sola gamba, qualcun altro ne aveva più di due. I più anziani riportavano estese dermatiti sul viso che dovevano dolere parecchio, tuttavia se ne stavano seduti tutto il tempo in silenzio, forse a pregare. Anche se il suo aspetto non lo dava a vedere, Andegor non aveva più di cinquant’anni. Era molto rispettato nella contea e, dopo aver perso sua moglie per una terribile malattia, si occupava a tempo pieno della comunità. Qualche anno fa i Vigilanti si erano introdotti nella zona contaminata per eliminare i Mostri, in quanto sapevano che abitavano quel territorio malgrado l’elevata radioattività, ma quel popolo coraggioso riuscì a difendersi interrando una fila di mine intorno al villaggio.
Seppure la loro esistenza fosse segnata dalla malattia e dalla miseria, i Mostri erano convinti di essere ricchi. Essi possedevano la conoscenza, bene che nessun altro nelle Terre Perdute, né tantomeno nelle Terre Aride, poteva vantare. I loro villaggi custodivano molti oggetti appartenuti all’Impero e diversi libri. La loro missione era quella di proteggere la cultura degli uomini. Nemo si era affezionato a quegli infelici individui, si sentiva più simile a loro di quanto non lo fosse stato tra gli uomini di Ribera, e non voleva metterli in pericolo con quella stupida canzone. Forse erano dei ribelli anche loro? Eppure sembravano vivere accettando quella condizione, dedicando il tempo alla loro missione. Di fatto erano immensamente colti, tutti sapevano leggere e molti componevano versi o si dedicavano all’astronomia. Erano affascinati dall’ignoto e da tutto ciò cui non riuscivano ad attribuire una spiegazione razionale.
«Dimmi, Nemo, secondo te che cosa ti è accaduto? Te lo sei mai chiesto?» gli domandò un giorno Andegor mentre pranzavano sulla veranda della sua abitazione. I Mostri risiedevano nei casolari di campagna, appena fuori dalla zona metropolitana di Notre Dame. Lì era tornata a crescere la vegetazione e si erano trasferiti molti animali provenienti da sud. Il clima era decisamente più fresco rispetto a quello delle Terre Aride.
«Me lo chiedo ogni giorno, ma non riesco a darmi una risposta. Ero un ribelle? Un prigioniero dell’Impero? Ho persino creduto di essere un disertore dei Vigilanti» rispose fissando il proprio piatto.
«La canzone non fa di te un Vigilante, ma potrebbe averti reso un partigiano» suggerì imboccando un tozzo di pane. «Sai, l’Inno dei ribelli risale alla rivolta che insorse contro l’Impero in queste terre circa un secolo fa. Anche quando la guerra era finita, molti giovani continuarono a combattere portando avanti la causa per anni».
Rimase in silenzio, gli occhi ancora puntati sul piatto. Come poteva condizionarlo l’essere stato un Vigilante o un partigiano? Per lui non contavano niente, non aveva sofferto la fame o pagato tasse esorbitanti che l’avevano spinto a opporsi all’Impero, né aveva servito fra i ranghi dei funzionari di Stato per salvaguardare l’onore di Urbia contro chi cercava di calpestarlo. Era come un soldato incapace di distinguere i colori del proprio vessillo. «Non ha importanza ormai, oggi sono semplicemente Nemo» disse in un sospiro.
Andegor esaminò la sua espressione scuotendo la testa: «Impara, Nemo, per quanto tu non riesca a rammentarlo, dal passato non puoi scappare. Fa parte di te». Sospirò prima di riprendere: «Sarai sorpreso di sapere che non sei l’unico».
«Come?» trasalì.
«Vieni con me e lo vedrai».
Lo guidò nel quartiere nord-orientale di Notre Dame, dove la devastazione sembrava essersi dispiegata anche nel sottosuolo. C’erano resti di bombardieri, impalcature crollate, strade interrotte. A un certo punto, nel silenzio tombale della città, si udì il riverbero di un suono e Nemo prese a guardarsi intorno. Andegor indicò l’uomo che stava spalando vicino a un cumulo di terra.
«Oh, Andegor. Che ci fai da queste parti?» domandò gentilmente. Era un giovane sui trent’anni, molto alto e possente, il corpo madido di sudore rivelava una costellazione di cicatrici.
«Nemo, ti presento Virgil».
Il ragazzo tese la mano e Nemo la strinse pieno di imbarazzo. Perché Andegor gli aveva presentato quel tipo? Che aveva di tanto speciale?
«Vedi, Virgil ci sta aiutando a ripulire la zona contaminata. Se non fosse stato per lui non ce l’avremmo mai fatta da soli. Rimane solo questo quartiere, poi potremo passare alla città di Lyon» spiegò allargando le braccia al paesaggio per mostrare l’operato del compagno.
«Io… io credo di non capire, signore. In che modo vi sta aiutando?» domandò scambiando una fugace occhiata con Virgil che appariva assurdamente divertito dalla situazione.
«Devi sapere, mio caro Nemo, che Virgil ha ben centoventuno anni».
«Eh?!» impallidì voltandosi a guardare con un nuovo interesse l’uomo che aveva di fronte.
Andegor scoppiò a ridere imitato da Virgil.
«Come è possibile? Tu non invecchi?» furono le sue prime parole.
«Beh, no, direi di no» rispose riacquistando compostezza.
«Ma come è possibile?»
Si sostenne al badile serrando i denti, ci mise un po’ a rispondere e Andegor attese i suoi tempi con tacito rispetto. «È stata Urbia. Più di cento anni fa sono stato condannato per un reato, scontando una pena di cinque anni. Poiché avevo perduto tutti i miei beni, ero risultato un cittadino inutile per lo Stato che, a quel punto, ha pensato di usarmi per compiere esperimenti».
«Esperimenti?» i battiti del cuore accelerarono impetuosamente.
«Non so bene di cosa si sia trattato ma le conseguenze di quei trattamenti mi hanno reso forte e sano, cosicché mi hanno destinato all’Esercito».
Andegor sospirò abbandonando lo sguardo all’orizzonte ingrigito.
«Mi è capitato di compiere missioni di istanza in queste aree insieme alle mie truppe. Io stesso ho puntato l’arma contro gli abitanti delle zone contaminate per sterminarli… ed è per questo che mi trovo qui» rivelò sommesso.
Nemo indietreggiò rivolgendo la mente offuscata alle macerie di Notre Dame, le lacrime gli punsero gli occhi.
«Ho giurato a me stesso che avrei messo la mia virtù al servizio del bene, d’altronde erano anni che speravo di liberarmi di quelle sanguisughe» aggiunse incattivito.
«Ma non sono venuti a cercarti?»
«Certo che l’hanno fatto» ridacchiò «ma non mi hanno mai trovato. Avranno creduto che fossi morto».
«Dunque hai preferito vivere con i ribelli piuttosto che con i tuoi concittadini?» domandò sempre più incredulo.
«Persino la morte è un luogo preferibile per me. Insieme ad Andegor sono libero adesso» disse poggiando una mano sulla spalla del Mostro.
Nemo osservò perplesso quel gesto: «Ma tu hai contribuito alla distruzione di questa provincia! Hai messo a repentaglio la loro sopravvivenza!» urlò fuori di sé.
Andegor si allarmò di fronte a quella reazione inaspettata e cercò di calmarlo: «No, Nemo, no. Non è stata colpa sua e poi ha già espiato i suoi peccati aiutandoci a ripulire la città».
«Se il suo esercito non avesse scagliato le bombe contro la città non avrebbe avuto bisogno di ripulirla!» replicò più aggressivo.
Virgil assisteva sgomento, dalle mani scivolò il badile.
«Nemo, ascoltami, non è colpa di Virgil, non capisci? Lui è semplicemente una vittima del sistema! E anche tu lo sei! Anche tu!»
Quelle parole lo riportarono alla realtà e la collera si affievolì senza però abbandonare le sue membra.
«Vuoi sapere cosa penso io?» riprese afferrandogli le spalle. «Io penso che anche tu sia stato una vittima di Urbia. Non so in che modo ma certamente hanno manipolato la tua mente, cancellando ogni tuo ricordo».
«Si chiama Damnatio memoriae» intervenne Virgil attirando l’attenzione di Nemo. «È un lungo processo di tortura. Riducono il cervello del soggetto simile a quello di un bambino».
Sì, era proprio così che si sentiva, come un bambino.
«I ricordi vengono cancellati» continuò, «spesso avviene allo scopo di annientare dei segreti di Stato, come accade con i super soldati, altre volte per dare vita a dei servitori perfetti. Nessuno schiavo potrebbe ribellarsi al proprio padrone se non ha una ragione per farlo. La privazione della memoria è l’annichilimento dell’essere umano».
Le mani di Nemo tremavano e gli occhi irroravano lacrime di rabbia. Rimase in silenzio qualche minuto meditando di scappare, ma prima di andarsene in un filo di voce domandò: «È un processo irreversibile?»
Andegor rivolse un’occhiata affranta all’amico che si preparò a riferire l’amara risposta: «Non conosco l’esatta procedura ma… sì, lo è».
A quel punto cominciò a correre senza più voltarsi indietro.
«Forse non avrei dovuto portarlo qui» commentò il capo della comunità amareggiato.
Virgil rafforzò la stretta sulla sua spalla: «Ha sempre vissuto nel buio e tu gli hai illuminato il cammino. Non abbiamo la certezza che sia stato un esperimento di Urbia ma non c’è dubbio sul fatto che non appartenga a queste terre».
Annuì: «Quando l’ho visto rialzarsi dalle macerie dell’esplosione perfettamente illeso, ho capito che Nemo non è uno qualunque. E se Urbia ha pensato di cancellare i suoi ricordi significa che lo temeva profondamente».
«E se era tanto temuto noi lo aiuteremo a tornare in auge» aggiunse inarcando la bocca.
Andegor non poteva sorridere ma se avesse potuto la sua espressione sarebbe rassomigliata a quella del compagno.
 
Nemo si precipitò nelle prigioni, quasi volesse marcire volontariamente lì dentro per sempre. Improvvisamente fu colto dall’atroce timore che anche lui come Virgil non invecchiasse e allora la prigionia sarebbe stata la peggiore delle condanne. Iniziò a colpire la parete di pietra, una, due, tre, dieci volte ma la sua mano non mostrava alcun segno di frattura. Urlò disperato e prese a percuotere anche la testa, avvertiva il dolore sulla fronte ma nessuna ferita si apriva per sanguinare.
«Perché?! Perché?!» si gettò sulle ginocchia osservando le proprie mani. Ora comprendeva le parole che Andegor gli rivolse la prima volta che si era incontrati.
«E cosa saresti tu se non a tua volta un Mostro?»
Riprese a piangere affondando la faccia sulle cosce e stringendo le mani nei pugni. Che ne era di lui adesso? Qual era il suo posto? Forse doveva affiancare Virgil nei suoi lavori forzati per redimersi di un passato che non conosceva? Un processo irreversibile… che senso aveva vivere come un’ombra, un fantasma che attraversava luoghi e conosceva gente senza mai potersi materializzare? Si sentiva come un viandante, un uomo che viveva sempre di passaggio, sfuggente, irraggiungibile. Ripensò a Bea, alla loro promessa, alla loro amicizia, così vera, così tremendamente vera che temeva di non averla mai vissuta e strinse il fazzoletto ­ miracolosamente scampato all’esplosione ­ per ravvivare il ricordo dell’amica. Che cosa pensava Bea di Nemo? Nemo era nessuno, era un’ombra, un uomo di passaggio.
«Nemo».
Di colpo quel nome fu proferito da qualcuno, relegandogli una consistenza, la parvenza di un significato.
«Nemo?»
Si destò bruscamente mentre lo sentiva pronunciare di nuovo e si voltò verso l’uscio su cui si stagliava la figura orripilante ma rasserenante di Andegor.
«Ascoltami, Nemo, so che sei sconvolto». Si avvicinò alla luce della candela rivelando l’espressione minacciosa che però apparteneva a un uomo saggio e mansueto. «Il mio intento non era quello di convincerti che sei una cavia di Urbia, di questo non possiamo esserne certi. Il punto è che voglio indicarti la via».
Quell’uomo era troppo intelligente e indubbiamente sprecato per un’esistenza atta a ripulire una zona contaminata dalle radiazioni di un’esplosione nucleare.
«Se non puoi riappropriarti dei tuoi ricordi, allora basa la tua vita sull’esperienza che hai vissuto fino a oggi. Concentrati sulle sensazioni che hai provato, impara dalle persone che hai conosciuto. Se decidiamo di prescindere la tua esistenza dalla memoria perduta, quale sarebbe il tuo scopo al momento? Non c’è un desiderio che infiamma la tua anima?»
Ci fu una lunga pausa. Come sempre Andegor rispettò le tacite riflessioni del compagno con placida pazienza.
«Sì, c’è qualcosa… c’è qualcosa» mormorò quasi a se stesso.
«Bene, Nemo, di che si tratta? Dimmelo e io ti aiuterò a ottenerla».
«È la vendetta».
  
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