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Autore: Koa__    09/10/2018    3 recensioni
Il principe Sherlock vive tutto il giorno tra le quattro mura del suo grande castello, senza mai uscire. Un giorno, però, poiché è troppo annoiato, decide di andare a vedere il mondo. Trascorsi tre giorni e passate tre notti, per nascondersi dai soldati Re Grasso che lo cercano ovunque, il principe annoiato si rifugia in casa di un uomo. Un soldato zoppo di nome John Watson.
Genere: Avventura, Fantasy, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Irene Adler, John Watson, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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III.





            Contrariamente a quanto i sudditi credevano, Re Mycroft non era arrabbiato, né furioso. O meglio, lo era stato nei giorni immediatamente successivi alla fuga di suo fratello dal palazzo reale. Ma, con il passare delle settimane, la collera aveva lasciato spazio all’agitazione. In verità era terribilmente preoccupato. Aveva ordinato ai soldati d’intensificare le perquisizioni, ma niente di ciò che aveva fatto era servito a tranquillizzarlo. Com’era possibile che fosse successa una cosa del genere? Aveva dedicato la vita a proteggere Sherlock, a cercare di tenerlo al sicuro dalla perfidia della corte, dalle brame dell’Incantatrice e anche da se stesso; adesso però non poteva più nulla. Non sapeva dove fosse, né se stesse bene. Era costantemente in agitazione, non c’era notte durante la quale non si domandasse se mai sarebbe tornato indietro. Neanche mangiava più con gusto, si nutriva a stento e unicamente per sostentarsi. Era dimagrito così tanto, che il principe avrebbe faticato a riconoscerlo. Senza di lui, il castello sembrava così vuoto…


 
          Fin dalla nascita, Sherlock era stato un entusiasta. Era curioso di ogni cosa e aveva un’enorme sete di conoscenza, oltre che tanta intelligenza. Aveva un carattere molto aperto ed espansivo, tanto spontaneo che non si tratteneva dal manifestare i propri sentimenti. Mycroft stesso era stato oggetto di abbracci e baci che il piccolo principino non disdegnava di donargli, le volte in cui capitava che si incontrassero nei corridoi. Il guaio era che non si tirava indietro nemmeno dal criticare o dal dire tutto ciò che gli passava per la mente. Era schietto e diretto, per lui esisteva unicamente la verità ed essa soltanto contava. A quindici anni era già sulla bocca dell’intera corte, detestato in gran segreto da ambasciatori e dignitari. Il re si era tormentato a lungo su quale fosse la maniera migliore per proteggerlo. E l’idea gli venne un bel giorno: lavorava a un preziosissimo trattato di pace con Re Magnussen e nel frattempo osservava Sherlock studiare quando capì che cosa doveva fare. Costui stava leggendo da uno dei tomi presi dalla biblioteca e non prestava attenzione a nient’altro. Ma un tale comportamento non era affatto una rarità. Suo fratello amava lo studio, trascorreva mattinate in giro per i boschi e pomeriggi interi a suonare il suo prezioso e delicato strumento. Dedicargli un’intera ala del castello e volgerla al suo personale utilizzo, era la cosa più saggia da fare. Là avrebbe potuto fare i suoi esperimenti senza che nessuno lo disturbasse e, soprattutto, sarebbe stato al sicuro. Alcuni dei membri della corte lo definivano uno strambo. Altri invece sostenevano che, al trono, sarebbe stato una sciagura per il reame intero. Costoro erano convinti che sarebbe stato saggio, per il bene del regno, se lo avessero rinchiuso in una delle segrete e quindi gettato via la chiave. Continuavano a ripetere che anima viva avrebbe mai dovuto averci a che fare. Per queste ragioni, nel corso degli anni era stato spesso in pericolo di vita, più di una volta aveva rischiato di essere assassinato. La corte era un luogo di perfidia e malignità, di spie bugiarde. Un’anima pura come suo fratello non era adatta a un luogo dove sarebbe stato più ragionevole aspettarsi un pugnale nella schiena, che una parola gentile. Quando aveva saputo che Sherlock era fuggito da palazzo, una parte di lui ne era stata persino contenta. Finalmente  sarebbe stato libero di fare ciò che voleva e di vedere quel mondo di cui tanto aveva letto nei libri. Allo stesso tempo però aveva paura che ne sarebbe rimasto deluso, che si accorgesse che le persone erano in realtà molto diverse da come si era immaginato. Come possono, contadini e bottegai, comprendere le sue passioni se non vi riuscivano nemmeno i nobili? E se Sherlock, nell’intento di dire la verità, si fosse ritrovato a offendere qualcuno? Cosa sarebbe potuto accadere? Avrebbero potuto picchiarlo o ucciderlo. Perciò voleva riportarlo al castello, averlo sotto al suo stesso tetto era certamente meglio che saperlo nelle mani di sconosciuti. Non si sarebbe mai rassegnato a ritrovarlo.
 


          Quella notte, Re Mycroft si era addormentato appena dopo il tramonto. Era crollato tra le sue morbide coltri come non gli succedeva da prima che il principe sparisse. Al mattino, dopo che si era svegliato, si era sentito riposato e in perfetta forma. È quel che mi ci voleva, pensò levandosi dal letto. Come mise i piedi a terra, però, una vocina attirò la sua attenzione. Non aveva ancora chiamato i servitori, ma chi poteva essere stato a rivolgersi a lui?
«Quaggiù, vostra maestà» disse costui. Abbassò il capo e, per la sorpresa, strabuzzò gli occhi e spalancò la bocca. Quelli erano gli stivali di Sherlock, li avrebbe riconosciuti tra altri mille poiché glieli aveva fatti commissionare lui stesso al ciabattino di corte, come regalo per il suo ventesimo compleanno.
«Tu hai parlato!» esclamò il sovrano, facendo un balzo indietro per la paura. «Che magia è mai questa? Si tratta dell’Incantatrice, non è vero? Che ha fatto a Sherlock?»
«Il vostro caro fratello è al sicuro, maestà» disse uno stivale, ma subito dopo l’altro lo rimbrottò.
«Ehi, se dici così gli fai credere che l’ha rapito la nostra signora, e non è così» specificò.
«E allora dov’è? Fatelo tornare qui!» ordinò con una determinazione che però non aveva e che era soppiantata dalla paura.
«Lo vedete quell’orologio che sta lassù?» chiese invece la scarpa destra, accennando alla piccola pendola che stava sopra a un grande camino.
«Non funziona» ribatté il re, piccato. Lo infastidiva sempre quando qualcuno faceva notare che quella pendola era rotta. Perciò l’aveva fatta portare nelle sue stanze, dove soltanto lui l’avrebbe potuta guardare. Neanche sapeva perché si ostinasse a tenerla, immaginava fosse una questione sentimentale. Era appartenuta a sua madre, la quale le aveva dedicato molta cura. Un giorno, però, questa aveva smesso di funzionare.
«Nessuno nel regno è in grado di ripararla, ma non capisco cosa c’entri con mio fratello.»
«Riprenderà a funzionare quando lui deciderà di tornare» disse, parlando in rima «soltanto allora la magia farà il proprio corso e aggiusterà il vostro orologio.»
«Lui dov’è? Sherlock dove si trova?»
«Vive molto lontano da qui. È fuggito col suo innamorato, un soldato zoppo valoroso e molto gentile. Ma non dovete temere, maestà, presto il principe sentirà la vostra mancanza e vorrà tornare indietro. Dovrete solo aspettare.»
«Lui h-ha un innamorato?» domandò esterrefatto «mio fratello ha trovato qualcuno che lo ama?»
«Proprio così» disse lo stivale sinistro mentre anche il destro annuiva.
«E chi è? Qual è il suo nome? Davvero lo rende felice? E costui è in grado di capire le esigenze di un principe o le sue strane passioni? Si tratta di un uomo perbene e ligio alle mie leggi? Sa come fare per tenerlo al sicuro dai maligni?»
«John Watson è il suo nome» rispose lo stivale destro con fare solenne «ha servito nel vostro esercito e ora, da zoppo, esercita la professione di medico. È dedito alle regole, ha una solida morale e ama profondamente il principe vostro fratello e le avventure nelle quali si vanno a cacciare. Capisce le sue esigenze e ama lui stesso le sue strane passioni. Non dovete temere, Sherlock adesso ha qualcuno che lo protegge.»
«Ma io devo trovarlo, io… desidero solo accertarmi che stia bene.»
«Bada alle mie parole, maestà» disse lo stivale sinistro, con serietà «se perseguirai nella volontà di ritrovarlo, un’orrenda malattia si abbatterà su di te. Se saprai aspettare, invece, starai bene e così sarà per tuo fratello.» Così avevano detto gli stivali incantati, prima di ricadere privi di vita sul pavimento. Sherlock aveva un innamorato, pensò Mycroft strabiliato dalla notizia. Ma era felice davvero? Si trovava realmente al sicuro? Aveva troppe domande e nessuna risposta. Farò così, si disse giungendo a un compromesso, lo scoverò e se sarà davvero in buona salute allora lo lascerò al suo destino, ma se così non sarà e se vorrà tornare, gli spalancherò le porte del mio castello. Così aveva deciso e così, il Re Grasso, avrebbe fatto. Ciò che non sapeva, era che l’Incantatrice altro non aspettava che questo. Era sicura che il re avrebbe disobbedito ai suoi ordini e che avrebbe comunque perseguito nel cercarlo.
 


          Martha Hudson era una madama buona e generosa. Da quando era rimasta vedova abitava in una zona molto remota del regno. Oltre le montagne e sulla riva di un placido fiume che scorreva lento e pigro, infatti, sorgeva il villaggio di Baker. Da brava donna qual era, di tanto in tanto affittava delle stanze della sua casa altrimenti vuota. Era sola da troppi anni e la vita iniziava a diventare noiosa, specialmente perché le capitava troppo spesso di dover dire addio ai viaggiatori che, da quelle parti, trascorrevano una o due notti. La compagnia di Madama Turner non era sufficiente ad allietare le sue giornate, le sarebbe piaciuto avere anche lei una coppia di giovanotti sposati dei quali prendersi cura. Quando quei due bei ragazzi avevano bussato alla sua porta, stanchi e infreddoliti, non era riuscita a trattenere la gioia.
«Ho un’altra camera al piano di sopra, se ne avete bisogno due» aveva detto mentre mostrava loro le stanze.
«Non sarà necessario» aveva risposto il soldato, senza imbarazzi di sorta. Non ho intenzione di dormire separato dal mio amato nemmeno per una notte, aveva pensato con un sorriso, proprio mentre iniziava a sistemarsi. Erano davvero molto stanchi, avevano cavalcato per più di due settimane, attraversando l’intero regno e facendo poche soste lungo il tragitto, e solo per dare riposo al cavallo e a loro stessi. Ma ne è valsa la pena, aveva pensato John lasciandosi cadere su una delle sedie della cucina. L’abitazione era molto accogliente, nemmeno troppo modesta e soprattutto pulita. C’era spazio a sufficienza per vivere adeguatamente e perché John svolgesse il suo lavoro di medico. Sherlock, poi, aveva già individuato il luogo adatto dove dedicarsi ai propri esperimenti di alchimia senza occupare l’intera casa. * La camera da letto era sufficientemente grande per entrambi e l’ampio camino li avrebbe scaldati dal freddo dell’inverno ormai alle porte. Avevano fatto proprio bene ad andarci.
 


          Proprio come aveva predetto l’Incantatrice, John aveva scoperto che nel villaggio di Baker poteva essere utile a tante persone. I suoi servigi di medico avevano già aiutato feriti e ammalati e, ogni mattina, ordinatamente in fila davanti alla sua porta, altri attendevano d’esser visitati. Il principe Sherlock, che annoiato non lo era più (non sempre almeno), trascorreva le proprie giornate a suonare il violino e a preparare maleodoranti intrugli. Fortunatamente nessuno aveva da ridire su questo, sebbene Madama Hudson si lamentasse volentieri del disordine della casa, mai qualcuno aveva bussato alla loro porta dicendo che la dovevano smettere con quei fastidiosi olezzi che provenivano da là sopra. Le volte in cui si prendeva del riposo dalle alchimie, egli si dedicava a risolvere piccoli misteri. Le prigioni del paese non erano mai state tanto piene come durante quei giorni. Faceva arrestare ladri e truffatori e, in un paio di occasioni, aveva fatto impiccare degli assassini. Da quando quei forestieri, come li avevano definiti inizialmente, erano arrivati nel villaggio di Baker tutti lì erano più felici. Madama Hudson si prendeva cura del principe e del soldato con gentilezza, rassettava le stanze (ricordando loro che non era la serva di nessuno) e preparava prelibatezze degne di un re. Nessuno sospettava che Sherlock fosse il fratello del re, perché l’Incantatrice aveva ragione: da quelle parti a malapena sapevano di avere un sovrano. E quasi nessuno, tra coloro che conoscevano Re Mycroft di fama, ricordava che avesse persino un fratello minore. Di certo, però, Madama Hudson doveva essere tra coloro che erano assolutamente certi di entrambe queste cose. Anzi, a un certo punto John si convinse che conoscesse le loro identità.
«Ti dico che lo sa» se ne uscì un giorno. Aveva aspettato che scendesse al piano di sotto e poi, sottovoce, aveva detto al suo principe ciò che pensava. Questi, al contrario, non pareva particolarmente interessato a discuterne. Sherlock già sapeva che la loro padrona di casa aveva dei poteri magici e che conosceva tutto del loro passato. Non capiva dove stesse la novità, né che cosa ci fosse da temere.
«Ma è ovvio che lo sa» ribatté con aria annoiata, sbocconcellando della focaccia appena sfornata. «Così come lo è il fatto che possiede la magia. Ricordi? Quando ci ha incontrati la prima volta ha fatto finta di nulla, ma già conosceva i nostri nomi.»
«E a te sta bene così?» sbottò John. La sua non era mancanza di fiducia, però stavano pur sempre parlando di una sconosciuta. E poi era troppo spaventato dalla prospettiva di poter avere di nuovo i soldati alle calcagna, per ragionare lucidamente. Avevano attraversato il regno per liberarsene e, se qualcuno li avesse scoperti, non aveva idea di che cosa sarebbe potuto accadere. Ciò che certamente sapeva era che non voleva finisse tutto in maniera tanto sciocca o per colpa di una leggerezza.
«Madama Hudson è una persona affidabile, non rivelerebbe mai a nessuno i nostri segreti. Anzi, dovremmo dirle tutto quanto, sebbene lo sappia già. Sarebbe… onesto da parte nostra. In fondo abitiamo in casa sua e lei ci prepara addirittura da mangiare. Servirebbe a tenerla buona.» Il soldato zoppo avrebbe avuto tanti argomenti con i quali ribattere, primo fra tutti non si fidava dell’Incantatrice e se questa donna era una sua alleata, allora non avrebbero dovuto fidarsi neanche di lei. John era ancora convinto che dietro al bel gesto di aiutarli ci fosse ben altro. L’Incantatrice doveva avere un piano, un qualcosa che si era guardata ben dal rivelare. Non potevano fidarsi di una donna del genere. Sherlock, al contrario, era sicuro che Madama Hudson fosse una delle poche persone degne di fiducia che esistessero al mondo e che, con l’Incantatrice, non avesse niente a che spartire. Fu affrontando l’argomento che John si rese conto che la ragione non stava dalla sua parte. Quando si decisero a dirle la verità su chi erano, l’anziana donna esplose in una grossa risata.
«Ma cari, io so già tutto quanto di voi» se ne uscì, divertita. Dopo qualche attimo però torno subito seria e puntò il dito contro entrambi, rimproverandoli. «E badate che non c’entro nulla con quell’Incantatrice. Sono una strega onesta, io. Anzi, fareste bene a non fidarvi mai più di lei e a non andarvene in giro per il bosco, invocando il suo aiuto. Principe annoiato, soldato zoppo, siete stati molto fortunati a trovarvi. Tenete così tanto l’uno all’altro e Dio solo sa se in questo benedetto regno non ci sia bisogno di un po’ più di amore.» Né Sherlock, né John capirono bene di che cosa stesse parlando, ma d’altronde, Madama Hudson diceva spesso cose del genere. Anche quella frase, così come molte altre, la addebitarono a un chiacchiericcio dei suoi soliti. Si amavano ed erano felici della vita che stavano conducendo, stava andando tutto quanto per il meglio.



          La notizia che il re era malato giunse al villaggio di Baker un mattino di primavera. A riferirlo a John fu il fornaio, il quale l’aveva sentito dire dal commerciante di farine che, a sua volta, l’aveva saputo in uno dei paesi vicini.
«Sembra che morirà presto» aveva detto mentre impastava il pane. Tutto attorno a loro si era radunata una frotta di curiosi, desiderosi di capire che cosa stesse succedendo nel lontano castello. Non che a quella gente importasse un granché del sovrano, era più che altro il desiderio di fare del pettegolezzo, a ingolosirli. Sapeva che non doveva dar troppo peso a quelle malignità, ma a John diede fastidio sentirli parlare a quel modo. E non soltanto perché la persona in questione era il fratello di Sherlock. Al contrario non aveva una gran considerazione di quell’uomo, ma quando aveva sentito dire che la malattia era una punizione divina, aveva sentito la rabbia montare dentro di sé. Quel regno era in pace e prolifico proprio grazie a Re Mycroft. Lui aveva scacciato l’esercito di Moriarty, aveva trattato una pace duratura con Re Magnussen, imponeva tassazioni giuste e non era un tiranno. Certo, era disinteressato alla gente comune e non si preoccupava delle dispute tra sudditi o di fatti pubblici, ma era comunque un re buono. Di sicuro non si era meritato quell’orrenda malattia, anzi, nessuno mai si meritava un destino simile.
«Ora che ne sarà di noi?» aveva detto il pescivendolo a un certo momento, riportando il soldato zoppo alla realtà.
«Re Moriarty ci invaderà senz’altro» aveva lamentato una donna di ritorno dal lavatoio. Era stato a quel punto che aveva lasciato gli acquisti ed era tornato a casa di corsa. Aveva così tanti pensieri per la testa che si sentiva confuso. Continuava a pensare all’Incantatrice e andava ripetendosi che la malattia del re non fosse una casualità. Ma in che modo poteva c’entrare lei in tutto questo? E soprattutto, Sherlock come l’avrebbe presa? Sapeva quanto gli volesse bene, nonostante si ostinasse ad affermare il contrario.
«Tuo fratello è in punto di morte» disse il dottore, irrompendo in casa. Non era stato pacato e nemmeno gentile come suo solito, lo aveva semplicemente detto. Era giunto sino al piano di sopra trafelato per la corsa, lì il principe e Madama Hudson lavoravano ognuno alle proprie faccende. Il baccano proveniente dal piano di sotto non li aveva allarmati troppo.
«Dimmi i dettagli» rispose il principe, levandosi in piedi e lasciando da parte tutti i suoi esperimenti.
«Dicono che è affetto da una grave malattia e che nessuno a corte è in grado di curarlo. Hanno mandato a chiamare un medico da un regno molto lontano, ma costui non è mai arrivato.»
«È l’Incantatrice!»
«Allora anche tu lo pensi» borbottò John, il quale era invece convinto che il suo amato si fidasse moltissimo di quella strega. «Avevo capito che ne eri affascinato, credevo pensassi che ci aveva aiutati senza secondo fine. Pensavo ti piacesse.»
«A me piaci tu, John. E no, non mi sono mai fidato. Neanche per un istante. Però è vero che i suoi poteri ci sono stati d’aiuto. Non so cos’abbia fatto mio fratello per attirare le sue ire, ma di qualsiasi cosa si tratti non pensare neanche per un istante che sia colpa tua, o mia. L’Incantatrice aveva gli occhi su mio fratello fin da quando è nato» disse infine Sherlock, stringendo le mani a pugni dalla tanta rabbia che provava.
«E quindi cosa farete?» intervenne Madama Hudson proprio in quel momento. Conosceva già la risposta  a quella domanda, lo aveva visto nitidamente in una visione. Ma ritenne comunque gentile intervenire nella conversazione. Oltretutto, il futuro non era mai ben chiaro: poteva cambiare in ogni istante. Se Sherlock e John avessero deciso di ignorare quella notizia, ritenendola una falsità per attirarlo nuovamente al castello, allora il re sarebbe morto per davvero.
«Io…»
«Devi tornare» annuì il soldato, tristemente. Sapeva bene che non c’era neanche da pensarci, non l’avrebbe mai fermato. Sarebbe stato egoista da parte sua pretendere che non si recasse sul letto di morte di suo fratello, e che non andasse per reclamare il trono che gli spettava. Il principe aveva un dovere nei confronti del regno e lui non aveva il diritto di trattenerlo. Per quanto lo volesse con sé.
«Devi andare, mio amato» aggiunse, visibilmente commosso. L’avrebbe sempre portato nel cuore, e aspettato. Un giorno ci ritroveremo, pensò trattenendo le lacrime. «È giusto che sia così. Mycroft ha bisogno di te e, adesso che lui è debole, il regno è in pericolo. In paese dicono che i confini del nord sono a rischio: Re Moriarty potrebbe oltrepassarli da un momento all’altro. Il nostro amore dovrà essere messo da parte, per il bene di tutti.» ** Re Moriarty si stava infatti preparando a invadere i territori oltre i suoi confini e a conquistare il trono. Il buon re, ammalato com’era, non avrebbe potuto contrastare la sua avanzata: la magia dell’Incantatrice e la decisone dei principe di andarsene dal castello, avevano spianato la strada per la conquista al loro peggiore nemico.
«Mi stai dicendo che non vuoi venire?»
«Venire?» rispose questi, sorpreso «tu vuoi che venga con te?»
«Pensi davvero che ci voglia andare da solo? In quell’orrendo covo di serpi? Ti voglio con me, John e non soltanto perché desidero che tu ti prenda cura di mio fratello, ma perché ti voglio accanto in ogni istante. Quel pomposo di Mycroft dovrà accettare le mie condizioni, altrimenti torneremo a vivere qui.»
«Quali condizioni?» chiese il soldato, in rimando. Davvero non capiva di cosa stesse parlando o come facesse a pensare a certe cose in un momento del genere.
«Voglio che faccia di te il medico reale e che mi dia un ruolo a corte. Non voglio più essere rinchiuso in un’ala del castello da solo. Questa volta mi ribellerò» annuì ed era proprio il suo soldato a dargli la forza per ribattere. Non gli era mai interessato troppo, a lui in fondo erano sempre bastati i suoi libri e la possibilità di fare tutto ciò che voleva senza essere disturbato. Si era lasciato andare troppo a se stesso, ma adesso invece c’era John. Con lui anche il noioso mondo cambiava di sfumature e diveniva più interessante.
«Che tipo di ruolo vorresti?»
«Oh, amerei tanto fare ciò che ho fatto qui per guadagnarmi da vivere: risolvere misteri, occuparmi di contese… a lui non è mai interessato tutto questo, dice che le persone lo annoiano.» A fronte di quel discorso, pronunciato con tanto entusiasmo, John si ritrovò confuso e felice. Si era convinto che la sua storia con Sherlock sarebbe finita. Ma ora che il re era malato e che il regno necessitava del principe, la sua presenza a palazzo non era più un capriccio del sovrano quanto un bisogno. Avrebbero dovuto affrontare le malignità della corte, sconfiggere certi pregiudizi e, in tutto questo, Sherlock lo voleva al suo fianco. Ma non solo, gli stava persino affidando la vita di suo fratello. Non c’era molto che potesse dire, quasi gli mancavano le parole. In tutta risposta, quindi, il soldato zoppo si lanciò tra le sua braccia e gli donò un bacio come ringraziamento.
«Madama Hudson, i vostri poteri e la vostra divinazione ci sarebbero molto d’aiuto per respingere il nemico che ci opprime e guarire la malattia di Mycroft. Se vi andasse di venire con noi, vi prometto che sarete libera di tornare nella vostra casa in qualsiasi momento e che mio fratello saprà ricompensarvi adeguatamente, dopo che l’avrete curato s’intende. Siete troppo preziosa perché io non tenti d’ingaggiarvi in questa avventura.»
«Oh, ma non devi nemmeno chiederlo, caro. Già ho fatto i bagagli.» E una volta che ebbe detto ciò, trotterellò al piano di sotto. Stava andando tutto esattamente come aveva previsto, si disse la donna. Il futuro si stava piegando nella giusta direzione. Ma ora non ci voleva pensare, aveva così tante cose da fare. Doveva preparare delle focacce, fare incetta di carne e pesce essiccati, trovare dei cavalli veloci e resistenti. Oh, aveva un gran da fare.



          Sherlock e John conoscevano bene i vantaggi dell’avere la magia dalla propria parte. Perciò avevano sperato che Madama Hudson incantasse i loro destrieri così da farli correre più velocemente o, almeno, dar loro maggiore resistenza. Purtroppo niente di quel che avevano sperato si avverò. Impiegarono due settimane per arrivare al castello, ma in compenso il viaggio fu molto confortevole. A ogni tramonto, quando si accampavano per la notte, Madama Hudson faceva apparire magicamente un bel fuoco scoppiettante, grandi tende e dei morbidi cuscini sopra ai quali riposare. Nelle bisacce della sella teneva nascoste una gran quantità di cibarie, tante da poterci sfamare un esercito. Quelle borse sono senz’altro incantate, aveva pensato John guardandole con diffidenza mentre Sherlock sottolineava l’ovvietà dell’affermazione. Grazie a tutte queste comodità, il viaggio era stato piacevole. Sarebbe stato anche più divertente, si era ripetuto John diverse volte, se il clima tra loro non fosse stato tanto pesante. Più andavano avanti e più venivano a conoscenza di ulteriori notizie riguardo al sovrano. Alcuni sostenevano che fosse già morto e che, dato che il principe era scomparso da molti mesi, tutto il regno fosse già tra le mani del perfido Re Moriarty. Altri erano invece convinti che quella malattia fosse un abile trucco per far tornare il giovane fratello perduto, ai propri doveri. Di fronte a una tale affermazione, John si era domandato che cosa Sherlock ne pensasse. Non mi farebbe mai una cosa simile, sentenziava spesso, come se tentasse di convincersi. La verità era che nessuno, tra le tante persone che avevano incontrato, era sicuro di che cosa stesse accadendo. Ciò che il soldato zoppo sapeva per certo era che l’umore del suo amato peggiorava di giorno in giorno. E il mattino in cui giunsero al castello ed entrambi si ritrovarono col naso puntato al grande ponte levatoio, John si rese conto che quasi stentava a riconoscere l’uomo del quale si era innamorato. È di certo la preoccupazione per la vita del re, si era ripetuto. Si era detto deciso a tranquillizzarlo, però non aveva avuto tempo per dire alcunché. Una voce lo aveva preceduto.
«Chi è là?» tuonò una guardia, che se ne stava appollaiata su una delle guglie.
«Sono il principe Sherlock e sono tornato per vedere mio fratello. Aprite» aveva detto, con voce solenne mentre le guardie, tutte affannate, si sbrigavano ad abbassare il ponte levatoio.
«Vostra altezza, chi c’è con voi?» aveva domandato loro un omone grosso e baffuto.
«Questa è Madama Hudson, possiede dei poteri magici che potranno aiutarci. L’altro invece è John Watson, un medico e mio futuro sposo.» La guardia passò la voce a tutte le altre e ben presto, il ponte fu abbassato. Il principe Sherlock fece il proprio ingresso trionfale. Indossava la mantella di stoffa pregiata c0n la quale era fuggito in quel giorno ormai lontano. Al dito teneva il suo prezioso anello con il sigillo reale che mostrava a chiunque gli si avvicinasse, e che era il segno distintivo della sua casata. Legato alla bisaccia, infine, c’era il suo amato violino. Per questo non uno di loro ebbe dei dubbi che si trattasse di lui in persona, nemmeno i dignitari della corte il quali lo accolsero con falsi salamelecchi.
«Devo vedere mio fratello» tuonò, ignorando ognuno di loro e passando oltre. Non aveva la minima intenzione di dar retta a quel manipolo di idioti. Lo avevano ricevuto con tutti gli onori, con inchini e parole di giubilo. Uno aveva addirittura detto che avrebbero dovuto festeggiare questo miracoloso ritorno. Sherlock non se ne preoccupò. Prese John per mano e lo condusse fino alla stanza reale. Là, steso su un letto, malato e sofferente, c’era suo fratello Mycroft.
 
 

 
 
Continua
 
 
 

*Ho preferito usare il termine alchimia invece che parlare di esperimenti scientifici, tenendo in considerazione alcuni fatti: l’alchimia aveva una connotazione anche di tipo esoterico (e quindi molto lontana da Sherlock Holmes). Sebbene non sia da considerarsi un’antenata della scienza in senso stretto, personaggi come Isaac Newton la praticavano quindi ho pensato che avesse senso. Considerato tutto questo e la presenza del violino ho deciso di collocarla temporalmente nel ‘600, ma è un’indicazione generica.
**Il bene dei molti conta più di quello dei pochi, concetto preso in prestito da Star Trek.
 
Note: Ringrazio di nuovo Nirvana_04 per la pazienza che sta mostrando (sto continuando ad allungare la storia sotto al suo naso e credo mi abbia già maledetta). Come avrete notato, infatti, non ho spuntato la casella “completa” e questo perché, scrivendo, mi sono resa conto che l’ultima parte sarebbe stata troppo sacrificata se concentrata in due paragrafi.
Grazie a tutti coloro che hanno letto e recensito fino a questo momento.
Koa
   
 
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