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Autore: Blackvirgo    09/10/2018    3 recensioni
Una città scelta come un nuovo inizio, una visita inaspettata e l'ennesimo infortunio. Perché non c'è nulla da fare: la sfiga non è mai disposta a farsi da parte.
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Collocata qualche mese dopo "L'arcobaleno di una notte".
partecipa al writober di fanfic.it, prompt 8. hurt/comfort
Serie 'What a Wonderful World'
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gino Hernandez, Salvatore Gentile
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'What a Wonderful World'
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“Si può sapere che diavolo hai combinato, Hernandez?”
Gino aprì gli occhi, stralunato. “Che c’è?” chiese infastidito, stropicciandosi il viso con il dorso della mano. Si guardò attorno, rintronato. Le sue retine, offuscate di sonno, parevano assorbire le immagini al rallentatore, finendo per creare una confusa sovrapposizione di quello che aveva visto e di quello che stava cercando di mettere a fuoco. Un po’ come troppe fotografie scattate sullo stesso frammento di un rullino bloccato. Pure la sua fantasia doveva averci messo lo zampino dato che, per un momento, avrebbe giurato di aver visto la faccia severa e minacciosa di Salvatore Gentile che lo squadrava dall’alto in basso. Ma, dalla sua vista era già sparito, come se non ci fosse mai stato. Eppure la sensazione della sua mano che gli stringeva la spalla e lo scuoteva era ancora lì, come un marchio caldo sulla pelle. “Ahia!” gemette, quando il sole spazzò via la penombra dalla stanza senza preavviso, costringendolo a strizzare le palpebre. Per poi rabbrividire appena una corrente di aria fresca e frizzante gli accarezzò l’epidermide assieme alla luce. “Fa freddo!” si lamentò.
“C’è puzza,” fu il commento acido di Gentile.
Gino si mise a sedere per identificare la direzione da cui proveniva la sua voce – doveva aver aperto la porta finestra per far entrare il giorno –, ma venne improvvisamente colto da una vertigine e da una vampata di nausea. “Che ci fai tu, qui?” volle sapere, realizzando che Gentile era una presenza concreta nel suo appartamento e non solo un riflesso della sua mente.
“Cosa ci faccio io qui?” Salvatore girò attorno al divano e fu di nuovo di fronte a lui. Aveva gli occhi fuori dalle orbite e il dito, accusatorio, puntato contro il suo petto. “Cosa ci fa tu, ridotto in queste condizioni?”
Gino si lasciò andare contro lo schienale del divano, ogni velleità di alzarsi sparita. Era ridotto uno straccio. Non era abituato all’alcol e, probabilmente, se quello era il dopo sbornia, di lì in poi non avrebbe mai più tentato di affogarci le sue sfighe.
“Spiegami perché ho dovuto saperlo dalla tivù,” lo attaccò di nuovo Salvatore. “Perché non mi hai chiamato? Perché non hai risposto a una sola dannata telefonata delle mille che ti ho fatto?”
Gino si passò di nuovo una mano sugli occhi. “Non avevo voglia di parlare con nessuno.”
Aveva lasciato il telefono dentro il borsone, dopo la partita. Era andato in ospedale per una prima valutazione della caviglia su cui un attaccante aveva pensato di atterrare con un ginocchio e tutto il suo dolce peso. Quindi se n’era tornato a casa. Non aveva voluto nessuna compagnia, nessuna falsa consolazione. L’unica cosa reale era che si era fatto male un’altra volta. Già se li vedeva i titoli sui giornali sportivi: carriera finita, l’ennesimo infortunio per Gino Hernandez. Aveva sperato di ricominciare, lì a Valencia, di essersi lasciato dietro le spalle la sfiga che lo aveva perseguitato in Italia e invece, rapida e fuori luogo come la morte, lo aveva raggiunto. E falciato.
“Neanche con me?”
Gino si alzò in piedi. Con un enorme sforzo di volontà ignorò il dolore lancinante della caviglia malandata e raddrizzò le spalle e il collo, nonostante la testa pesasse tanto da chiedersi se il suo cervello si fosse mutato in piombo. Si piazzò con le gambe larghe, il peso sbilanciato a sinistra per combattere il capogiro che lo colse non appena assunse la posizione verticale e ingoiò l’acido che voleva tornargli su dallo stomaco con un profondo respiro.
“Perché avrei dovuto aver voglia di parlare con te?”
Vide le sue parole colpire Gentile come uno schiaffo e zittirlo.
“Chi cazzo sei te, per piombare in casa mia e venirmi a fare la predica?” Fece un passo avanti, trascinandosi la gamba dolorante. “Che cazzo serve parlarne? Perché l’ho fatto, sai? Parlare e buttare fuori paure e speranze e alla fine sai a cosa è servito?” Lo guardò con un risolino isterico sulle labbra che tremavano. “A un cazzo!” urlò. Chinò il capo e si arruffò i capelli già scompigliati dalla nottataccia. “Che cazzo ne sai di come mi sento o di come dovrei affrontare anche questo? Ogni volta che mi illudo di ricominciare, che mi illudo che le cose possano andare bene, arriva qualcuno a segarmi le gambe.” Si rese conto di quanto fossero sbagliate quelle parole man mano che le riascoltava attraverso le proprie orecchie, ma qualche interruttore dei suoi sistemi neuronali doveva essere andato a puttane, perché non era in grado di fermarsi. Forse era l’alcol ancora in circolo che continuava a disinibirlo più del dovuto o forse era saltata la valvola di sicurezza delle sue emozioni e il circuito era esploso, incapace di trattenere oltre rabbia, frustrazione e amarezza. “Che cazzo nei sai tu?”
“Niente,” mormorò Gentile tra i denti. Si sentiva impotente di fronte a quella furia bionda e scarmigliata, e interdetto, perché non riusciva a riconoscerlo. Abbassò lo sguardo sulla caviglia coperta da una fasciatura elastica; non riusciva a rendersi conto se fosse gonfia o meno. “Per cominciare, potresti smettere di sforzarla.” Cercò di fare appello alla ragione e gli offrì un braccio per dargli un sostegno.
Gino non lo guardò neanche. “Ti è mai successo qualcosa di abbastanza grave da tenerti lontano dal campo da calcio per mesi e, una volta rientrato, di dover lottare con le unghie e con i denti per riconquistare il tuo posto?” E, a volte, senza riuscirci.
Salvatore scosse il capo: no, non aveva mai vissuto niente del genere. Era sempre stato un titolare fisso, da quando aveva esordito in prima squadra. E se aveva guardato delle partite dalla panchina, era stato per scontare un cartellino di troppo o per un turno di riposo.
Gino si accorse dell’incertezza negli occhi del difensore. “Chi cazzo sei tu per venire a farmi una scenata?” ripeté. Gli occhi azzurri, di solito limpidi e sereni come il cielo d’estate, parevano sbiaditi, ghiacciati. Persino cattivi.
“Uno che ci tiene abbastanza da salire sul primo aereo per vedere come stai,” sibilò Gentile, incapace di trattenersi oltre.
Gino non seppe spiegarsi perché, ma quelle parole, pacate e ferite, aggiunsero sale alle sue ferite. Con una spallata, superò Gentile che pareva essersi cristallizzato sulla mattonella del salotto, e zoppicò, incurante della caviglia dolorante, verso il bagno.
Si sentiva una merda: per quello che gli era successo e per quello che aveva appena combinato. Non sapeva se era stato l’alcol a fare da carburante per la rabbia che lo stava devastando, che si era impossessato di lui e lo faceva agire come se fosse un’altra persona. O se quello era il vero Gino Hernandez, quello che era diventato. E che gli faceva schifo.
In quel momento ce l’aveva a morte anche con Gentile. In fin dei conti era solo l’ennesima persona che era entrata nella sua vita a gamba tesa e che, senza chiedergli il permesso, si era ritagliato uno spazio tutto suo. E così facendo, la stravolgeva, gli toglieva il controllo che aveva inseguito per tanto tempo. Perché Gentile non era uno di quelli che si faceva remore a essere invadente. Era una persona capace di arrivare a casa sua senza neppure avvertirlo, disposto a piegarsi ai suoi impegni pur di passare un po’ di tempo assieme. Per toccare con mano il suo stato, perché il telefono sapeva essere un bastardo capace di far percepire tutta la distanza che separava due interlocutori invece di colmarla. Soprattutto quando veniva abbandonato in mezzo a una divisa sporca e agli scarpini infangati.
Sussultò quando sentì la porta di ingresso chiudersi con veemenza. La caviglia dolente, questa volta, non resse il peso dell’ennesimo tentativo di negare l’infortunio: Gino sarebbe caduto se non si fosse aggrappato allo stipite. Ma, con le mani occupate, non poté evitare di trattenere il suo cuore e impedirgli di infrangersi a terra. Soffocò in gola un singhiozzo che premeva di uscire, non poté strozzare anche il secondo. Era un perfetto idiota: quando non era la vita a fargli lo sgambetto, ci pensava da solo a distruggere quello che aveva di buono. Se era vero che ognuno raccoglieva ciò che seminava, forse doveva porsi qualche domanda se si ritrovava sempre con qualche articolazione mal funzionante e il cuore spezzato.
Si sfregò gli occhi con il dorso della mano: anche loro bruciavano, ma erano solo un dolore in più in mezzo alla sofferenza che gli attanagliava l’anima. Si sbarazzò della tuta che aveva addosso dal giorno prima, entrò nella doccia e lasciò che l’acqua calda gli lavasse via i postumi della notte, che diluisse le lacrime e attutisse i singhiozzi e i pugni contro una parete che non aveva nessuna colpa. Peccato non fosse in grado di togliergli dalla bocca il sapore di marcio. Se fosse causato dai suoi succhi gastrici o dalle parole che aveva vomitato, non lo sapeva.
Si infilò l’accappatoio, prese due aspirine dall’armadietto dei medicinali e le ingoiò con un sorso d’acqua. Si diresse in camera e si lasciò cadere di traverso sul letto, a pancia sotto. Dormire per il resto della giornata – o della sua vita – gli pareva un’ottima soluzione. Almeno non avrebbe combinato altri danni. Il pensiero di Salvatore però gli si era conficcato in testa, più caparbio della cefalea che neanche le aspirine parevano in grado combattere. Ormai sarà metà strada verso l’aeroporto, data l’accoglienza di merda che gli ho riservato. Sospirò: Gentile gli aveva fatto scoprire i lati bui del suo carattere, la parte torbida della sua anima che aveva sempre preferito ignorare. Gli aveva fatto cadere maschera dopo maschera, anche quella del bravo ragazzo della porta accanto. Ma quegli aspetti facevano parte di lui e, a Salvatore, addirittura piacevano: gli diceva che lo rendevano più umano, più interessante. Che lo sapeva che dietro ai suoi lineamenti angelici doveva nascondersi qualcosa di dannatamente umano. Qualcosa che voleva conoscere.
Ora l’aveva fatto e, probabilmente, se ne era anche pentito.
Gino si passò la mano sul viso. Non voleva scaricare su Gentile colpe che erano solo sue, ma l’aggressività con cui l’aveva svegliato e ripreso lo aveva punto sul vivo.
Era preoccupato per te, gli suggerì la sua insopportabile coscienza.
Ma vaffanculo, le rispose Gino, voltandosi a pancia in su. Quando era bambino, la brutta fine del grillo parlante gli aveva fatto pena, ma in quei momenti avrebbe voluto anche lui un martello per spiaccicare quella vocetta odiosa. O per sbatterselo violentemente in testa e risolvere i problemi una volta per tutte.
Smettila di dire cazzate e inizia a comportarti da persona adulta, reiterò l’oggetto del suo malumore.
Gino si tirò seduto. Era inutile girarci intorno: si vergognava di sé stesso. Era la prima volta che, dopo un infortunio, si sbronzava come l’ultimo dei beoni. Solo che, la sera prima, i nervi gli erano ceduti. Le ossessioni, le paure, gli incubi che credeva di aver lasciato nella sua vecchia casa – nella sua vecchia vita –, la paura del fallimento che gli segava le gambe ogni volta gli pareva di essere un passo dall’ottenere quello che voleva… erano ricomparsi all’improvviso, tutti insieme, come nel peggiore degli incubi. Aveva sentito la necessità impellente di chiudersi in un guscio dove gli sguardi preoccupati e pieni di compassione degli altri non avrebbero potuto raggiungerlo. Né le loro parole piene di buone intenzioni, ma vuote nella sostanza. Aveva sentito la necessità di anestetizzare il dolore – non quello alla caviglia, per quello sarebbe stato sufficiente uno stupido analgesico –. E farsi scoprire in quel momento di debolezza, di vulnerabilità, e sentirsi riprendere anche per quello… no, non ci aveva più visto.
“Non volevo ferirlo,” sospirò. Non avrebbe voluto neppure che se ne andasse. Perché per quanto Salvatore si fosse infilato nelle pieghe della sua vita senza chiedergli alcun permesso, lui non aveva fatto niente per impedirglielo. Non aveva declinato i suoi inviti che alla fine terminavano sempre nello stesso posto, ossia il suo letto. Non lo aveva fermato quando aveva cominciato a fare delle capatine a Valencia, giusto per vedersi, per un pomeriggio insieme. All’inizio aveva pensato a quei momenti come a un piacevole diversivo senza nessun coinvolgimento e poi, un giorno, aveva cominciato a aspettarli con trepidazione.
Le bugie hanno le gambe corte, sembrò canzonarlo la sua malefica coscienza. Che pareva non essere in grado di dargli buoni consigli, quanto di umiliarlo ogni volta che poteva. Di rinfacciargli ogni tentennamento, ogni errore commesso, ogni scelta che faceva. Cosa che Salvatore non aveva fatto, ma che lui aveva voluto sentire lo stesso.
Sei tu che non ascolti, ragazzo mio.
Gino si alzò in piedi, la caviglia che lo insultava ogni volta che appoggiava il piede a terra. Fottiti, rispose.
Saltellò sul piede buono, aggrappandosi dove poteva ai mobili e ai muri, fino al disimpegno che dava sulla porta d’ingresso. Si sedette per terra, accanto al borsone che aveva abbandonato lì la sera prima e iniziò a rovistare per recuperare il cellulare. Come si era aspettato, la batteria era completamente scarica. Maledetto, pensò. Sei sempre inutile quando ne ho bisogno.
Si rialzò in piedi e, con un’imprecazione a ogni passo, arrivò fino al salotto. Devo recuperare un paio di stampelle, pensò.
Rabbrividì: addosso aveva solo l’accappatoio umido e si era dimenticato della finestra aperta, ma non la chiuse. Il clima, in quel fine inverno, era comunque mite rispetto a Milano, ma la brezza continuava a essere pungente. Ma il bisogno di aria pulita era più impellente del freddo che gli increspava la pelle.
Accese il telefono, in fase di ricarica, e non riuscì a contare quanti messaggi e telefonate perse ci fossero dalla sera precedente: dal richiamaci appena puoi di Luca e Serena che ormai avevano capito che, in certi momenti, era meglio lasciarlo in pace, a quelli decisamente più coloriti dei suoi compagni di squadra, attuali o passati. Più della metà erano di Salvatore.
Digitò il suo numero, indeciso se avviare o meno la chiamata. Gentile aveva tutti i diritti di essere incazzato come una pantera e lui poteva solo accettare le conseguenze di quello che aveva fatto. Si morse il labbro e premette il tasto: il telefono suonò a vuoto. Forse il silenzio è la peggiore delle punizioni.
 
***
 
Salvatore uscì di passo spedito, un caos di emozioni in cui un unico barlume di razionalità gli avevano fatto optare per un giro a piedi invece che balzare al collo di Hernandez. L’unica cosa su cui non era ancora sicuro era se ce l’avesse più con Gino o con sé stesso. Era andato lì per stargli vicino e, invece, aveva solo ottenuto il risultato di allontanarlo. Come se Hernandez fosse stato uno facile da avvicinare! Oddio, Gino era sempre stato il suo sogno erotico, sin da quando erano ragazzini: guardarlo – anche di sottecchi, nello spogliatoio – era sempre stato un piacere per gli occhi. Un piacere da prendere a piccole dosi, pena rischiare di palesare il proprio interesse in una maniera non consona. Ma anche un piccolo vizio a cui non riusciva sottrarsi. Portarselo a letto era sempre stato il sogno proibito, una fantasia che aveva accompagnato meravigliosi momenti di sesso in solitaria. Poi era riuscito ad averlo davvero, in carne e ossa, e non era più riuscito a farne a meno. Fate attenzione ai sogni, dicevano. Potrebbero avverarsi.
Già, sorrise il difensore, le mani in tasca e il viso chino in avanti, troppo immerso nelle sue riflessioni per interessarsi a quello che aveva attorno. Il sogno si è avverato e le conseguenze sono state più grandi del previsto. Come il fatto che non aveva mai provato per nessuno niente che potesse anche solo vagamente assomigliare a quello che sentiva per lui, tanto da voler chiudere gli occhi di fronte al fatto che Hernandez non faceva nulla per allontanarlo e, allo stesso tempo, non aveva mai fatto un solo passo per avvicinarsi lui. E l’aggressività con cui gli aveva risposto, quella mattina, gli aveva fatto male: gli aveva ribadito che lui poteva arrivare solo fino a un certo punto – una piacevole chiacchierata, una scopata da urlo – e stop. Gli aveva mostrato il limite che non doveva oltrepassare.
Rimaneva il fatto che era preoccupato marcio. Anche se Gino non ne aveva voluto parlare, i suoi infortuni nel tempo erano noti a tutti, se non altro perché rimaneva il miglior portiere italiano sulla piazza e qualunque commissario tecnico della nazionale aveva sempre avuto un occhio di riguardo nei suoi confronti. E la fascia da capitano pronta da affidargli. Avrebbe potuto diventare il migliore, se non avesse trascorso metà della sua carriera sportiva in convalescenza, era la frase che campeggiava sulla bocca di qualche opinionista e sull’articolo della Gazzetta ogni volta che il problema si ripresentava. È fragile, è imprudente, è sfortunato. E ogni volta che rientrava in campo, qualcuno aveva sempre la bella idea di chiedersi: quanto durerà stavolta?
Per lui, quelle parole, erano solo stronzate che servivano a riempire la colonna di un giornale o la giustificazione a pagare qualche idiota in televisione. Non erano certo sufficienti a mettere in ombra le sue capacità che, conosceva bene, per averci giocato insieme tante volte. Ma non aveva mai capito quanto quegli infortuni gli avessero fatto male all’anima, quanto lo avessero consumato.
Alzò gli occhi e si rese conto di essere arrivato fino quasi al mare. Bastava solo attraversare la strada. Aspettò che apparisse l’omino verde sul semaforo e riprese a camminare.
La spiaggia era deserta, i raggi caldi del sole e l’aria fredda di un inverno che non se ne voleva andare creavano sensazioni discordanti sulla pelle. Improvvisamente credette di capire perché Valencia. Si era chiesto tante volte il motivo di quella scelta: la squadra di calcio era certamente in crescita, come mostravano i piazzamenti in Liga degli ultimi anni, ma la sua qualità era tutt’al più di medio livello. Certo che, con dei colossi come il Barcellona e il Real Madrid, c’era poco da fare. Ma la città, affacciata sul mare attraversata da ampi spazi verdi, era a misura di uomo. E forse, prima ancora che la squadra di calcio, Hernandez aveva cercato una città in cui vivere bene.
Inspirò profondamente l’aria salmastra che parve sciogliere quel nodo di amarezza che gli si era piazzato nel petto. Voleva liberarsi il cuore e la mente dalla cattiveria che Gino gli aveva vomitato addosso e dalle risposte taglienti che gli erano salite alle labbra in rapida successione appena il portiere si era levato dalla sua vista. Meglio che non abbiano preso la consistenza delle parole, si disse. Erano già volate troppe cazzate.
Fece qualche passo sulla rena, fino alla battigia dove un’onda ardita minacciò di lambirgli le scarpe.
Non sapeva decidere se lo avesse colpito di più vederlo conciato così, col puzzo di alcol addosso, il colorito grigiastro e gli occhi lucidi e arrossati oppure le sue parole rancorose, la mancanza di fiducia nei suoi confronti, la distanza tra di loro.
Cosa potevo pretendere da un rapporto a distanza fatto di ottime scopate e niente di più? Salvatore piegò appena le labbra in una smorfia triste. Forse aveva preteso troppo da loro. Forse anche i sogni avevano bisogno di tempo per sbocciare. Va sempre a finire che è colpa mia.
 
***
 
Gino tese l’orecchio. Rimase con il fiato sospeso mentre ascoltava il rumore della serratura che scattava al girar della chiave, mentre sentiva la porta aprirsi e chiudersi. Sentì i passi nel disimpegno e poi lungo il corridoio fino a vederlo apparire sulla porta. Lasciò andare un lungo sospiro mentre gli occhi gli si inumidirono di commozione. Era tornato.
Sentì lo sguardo di Salvatore addosso mentre lui stringeva il telefono tra le mani. “Ti stavo chiamando,” si giustificò.
Salvatore annuì. Sparì dalla soglia del salotto e Gino immaginò che fosse per appoggiare sul ripiano della cucina la busta di carta che reggeva tra le mani. Doveva aver fatto spesa. E, probabilmente, non aveva risposto perché il telefono aveva squillato mentre stava armeggiando per entrare in casa.
Il difensore riapparve a breve e si avvicinò a lui. “Forse dovremmo ricominciare da capo,” mormorò. “Come stai?”
“Di merda, grazie,” gli rispose Gino, sincero. “Ho combinato un disastro dopo l’altro, da ieri.” Abbassò gli occhi. “Siediti,” gli chiese indicando il posto accanto al suo, sul divano.
Gentile obbedì. Forse era la prima volta da quando era cominciata quella specie di relazione che Hernandez gli chiedeva di stargli vicino.
Gino alzò lo sguardo per cercare quello del difensore. “Mi dispiace,” mormorò. Gli accarezzò una mano per poi portarsela alle labbra e posarvi sopra un bacio. E trattenerla, le dita incrociate con le sue.
Era sleale, Hernandez, quando faceva così, pensò Salvatore. Maledettamente sleale. Perché, con unico gesto, frantumava tutti i dubbi che i suoi gesti e le sue parole foraggiavano, e gli lasciava solo la voglia di rimanergli accanto.
“Sono crollato come un sacco vuoto.”
“Sei umano. Non puoi pretendere di essere sempre forte.” Nella sua mente si disegnò l’immagine di Gino in nazionale, quando diventava il confessionale di ogni problema e lo sfogatoio personale di ognuno di loro. “Ogni tanto anche il capitano avrà pur bisogno di una spalla su cui piangere!” Gli indicò la propria, casomai volesse accomodarsi.
Gino accettò l’invito. Era comoda e la pelle di Gentile aveva un buon profumo, tanto da attirarsi un bacio leggero dietro l’orecchio. “Ti è mai capitato?” mormorò.
“Cosa?” Gentile scalciò via le scarpe da ginnastica e si voltò di tre quarti, così da poter accogliere Gino fra le sue braccia. Gli sembrava fragile come un cristallo raro, e altrettanto prezioso. Aveva bisogno di difenderlo, di dargli un luogo in cui stare in pace. Di essere lui la sua Valencia. “Di crollare come una tessera del domino?”
Gino annuì.
Salvatore gli passò le dita tra i capelli ancora umidi. “Più volte di quanto tu creda.”
“Non si direbbe a guardarti.”
“Non si direbbe neanche di te, fidati.” Gli sorrise. “Forse è per questo che ho avuto una reazione esagerata. Non me l’aspettavo.”
“Anch’io ho esagerato. Non era con te che ce l’avevo.”
Gentile sorrise: ora aveva capito. Finiva sempre che le persone se la prendevano con chi sentivano più vicine. Perché erano le stesse pronte a comprenderci prima che a giudicarci. “Lo so.”
“Come fai a sapere sempre tutto?”
Salvatore non rispose. Gli sollevò il viso e si avvicinò per baciarlo, ma Gino lo fermò. “Temo di non avere un buon sapore.”
Non era abbastanza per dissuadere il difensore. Appoggiò le labbra sulle sue e le assaporò lentamente. Gli piacevano da morire questi baci che iniziavano come una carezza e finivano per portarlo altrove. C’era il sapore di dentifricio che nascondeva, senza riuscirci, quello di Gino, ma nient’altro. Gli slacciò la cintura dell’accappatoio e infilò le mani sotto, per sentire la sua pelle, i suoi brividi, il suo piacere.
“Andiamo di là,” mugugnò Gino. “A te piace stare comodo, no?”
“Vuoi che ti porti in braccio?”
“Non provare neanche a pensarlo!”, lo minacciò Gino, di nuovo un barlume di serenità negli occhi.
 
***
 
“Pensavo di ripartire domattina presto.” Aveva incrociato le mani sotto la nuca e guardava il soffitto.
La mano di Gino, che fino a quel momento aveva percorso distrattamente le linee del suo torace, si fermò all’improvviso. Era normale che dovesse tornare alla sua vita, pensò con il cuore pesante. Quello a cui non riusciva a dare una risposta era: “Perché sei corso qui quando hai saputo? Non sei stato l’unico a cui non ho risposto al telefono, ma nessuno si è precipitato qua.”
Gentile voltò il viso verso di lui. Lo sai, pensò. “Non credo sia il momento giusto per parlarne.”
Gino annuì: era meglio procedere a un passo per volta. “Domani ho la vista medica.” Cambiò argomento per avventurarsi in un percorso più concreto, più vicino. E, forse, meno insidioso. “Ho paura.”
“Mi dispiace non poterti accompagnare.”
Il portiere sorrise. “Non importa. La radiografia di ieri ha mostrato che non è rotta, ma ci sono millemila tendini e legamenti che una cazzo di radiografia non vede e che possono essere andati a puttane singolarmente o tutti quanti insieme.”
Salvatore si sentì impotente. Forse era quella la sensazione che aveva devastato Gino ancora più della sbornia: il fatto di non avere niente sotto controllo, solo diagnosi e prognosi e terapie a cui adeguarsi. “Ti chiamo, ok?”
Gino scosse il capo. “Facciamo che ti chiamo io appena ho finito.”
Salvatore annuì. “Mangiamo qualcosa?”
 
***
 
Black-notes:
  • Questa storia partecipa al writober di fanfic.it con il prompt 8: hurt/comfort. Finalmente tanto, tanto angst condito con un po’ di fluff!
  • Avviso OOC perché il Gino che conosciamo nel manga non ce lo vedo proprio a comportarsi così. Il fatto è che, nella mia testa, la sua evoluzione da ragazzo solare e ottimista a uomo troppo spesso sconfitto nella vita è chiara, lampante e pure coerente. Un po’ perché le persone crescono e, loro malgrado, vengono plasmate dai fatti della vita, un po’ perché un “lato oscuro” ce l’abbiamo tutti, anche le persone più positive. E se in Anteros, il lato oscuro in cui sguazzo appartiene a Salvatore, qui ho invertito la situazione. E ci sto anche prendendo gusto! D’altronde Salvatore l’ho fatto crescere sulla linea dell’arroganza che aveva da adolescente portandolo a essere un uomo estremamente sicuro di sé, ma più consapevole di quanto l’apparenza stia a indicare. Tornando al discorso OOC, dato che questa è una raccolta di one-shot e chiunque potrebbe approcciarsi a leggere solo questa… un avviso in più non ha mai ammazzato nessuno, giusto?
  • Un grandissimo ringraziamento a Sanae77 per la lettura estemporanea e a Melanto e Kara per i preziosi consigli!
 
Un abbraccio a chi legge!
   
 
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