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Autore: CHAOSevangeline    11/10/2018    4 recensioni
{ Soukoku | Hanahaki disease!AU }
Erano passati mesi dalla prima volta che quei maledetti petali si erano fatti vedere. Non avevano smesso di torturarlo, ma ormai riusciva a conviverci. Aveva scelto di farlo.
Spesso Chuuya tossiva e li vedeva. Rosso cremisi, dolorosi e bellissimi. Gli bruciavano i polmoni e la gola prima di mostrarsi in tutto il loro splendore.
Sapeva cosa volevano dire, ne conosceva la causa e con il tempo aveva compreso quando era più probabile ricomparissero.
Dipendeva da Dazai.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Chuuya Nakahara, Osamu Dazai
Note: AU | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Prima di lasciarvi alla lettura di questa storia a cui tengo molto, ci tenevo a fare delle premesse.
Questo racconto è nato come una one-shot che ho però deciso di dividere in due parti per ragioni di lunghezza.
Si tratta di un’AU, perché i personaggi si trovano in un mondo dove esiste l’hanahaki disease, la malattia dei fiori. Per chi non fosse pratico di questo universo alternativo, i personaggi che provano amore non corrisposto iniziano a tossire i fiori che sbocciano nei loro polmoni e che possono portare alla morte. Spero che la mia visione di questo AU vi piaccia!
In secondo luogo vi lascio il link di una canzone, My vampire heart di Tom McRae. L’ho ascoltata in diversi momenti della stesura e penso che possa dare un tocco in più all’atmosfera del racconto.
Spero la storia vi piaccia e di ritrovarvi nelle note finali o nelle recensioni.
Buona lettura!




A Rika, perché altrimenti non mi sarei innamorata di questa bellissima coppia. Non riesco a scrivere di loro senza cacciarci dentro qualche nostro headcanon, senza pensare a te dato quanto ci siamo affezionate.
Spero ti piaccia, nonostante la valanga di angst. Che è un altro dei motivi per cui ho pensato l’avresti apprezzata, in realtà, dato che me lo hai suggerito tu.




 
Kissing disease
 
 
“So I curse you
my heart
For letting me you love you
From the start”
 


I.

 
Chuuya avrebbe mentito nel difendere il suo corpo e i suoi sussulti. Avrebbe mentito negando Dazai come la causa. La sola ed unica, esclusiva.
Dazai lo era davvero, la causa della maggior parte delle sue reazioni: provocava la sua rabbia, i battiti accelerati del suo cuore, le fitte al petto non sempre dovute ai nervi, i mezzi sorrisi di scherno e quelli spontanei, sbocciati di nascosto, nascosti dalle consapevoli dita guantate di pelle. Era la causa delle farfalle nel suo stomaco.
Con la coda dell’occhio Chuuya intravide il suo impermeabile nero al proprio fianco.
Tum.
Il bianco delle bende.
Tum.
Il profilo deciso del suo viso e la curva delle labbra sorridenti. Quel sorriso intriso di una felicità che Dazai non sentiva, che significava tutto meno ciò che sembrava voler dire.
Un tuffo al cuore.
Chuuya sospirò, ma solo nella propria testa.
Dazai era la causa della maggior parte delle sue reazioni, ma non poteva ancora far venire meno il suo autocontrollo.
Chuuya non era un sentimentale, era una persona pratica: le farfalle nello stomaco erano indisposizione, così come lo era il nodo alla gola. Giustificava così anche il tamburo che sentiva nel petto. Una tachicardia immotivata, diceva. Peccato si risvegliasse solo accanto a Dazai.
Era indisposizione, una malattia.
Una malattia di cui conosceva il nome, l’aveva riconosciuto da tempo, ma che non osava pronunciare.
Per una volta non era orgoglio. Era paura.
« Chuuya! »
Di nuovo quella fitta, quella vibrazione profonda nelle corde del suo cuore.
Maledizione a lui.
« Che cosa vuoi? » biascicò scocciato. « E perché urli? Sono a meno di un metro da te. »
Aveva urlato davvero o era lui a sentire la sua voce amplificata?
Ne ho bisogno, dunque la percepisco di più.
Dio, doveva darci un taglio. Doveva riprendersi.
« Perché il Doppio nero è una delle migliori coppie della Port Mafia. »
Con una vittoria non indifferente alle spalle aveva ogni motivo per dirlo, ma nella mente di Chuuya assunse un significato diverso da quello a cui doveva aver pensato Dazai formulando la frase.
« Spero davvero che il boss ci faccia credito per molti più drink del solito, oggi. »
Dazai era una delle menti più brillanti della mafia, forse di Yokohama, del Giappone, del mondo: era in grado di svelare meccanismi complessi e raggiri geniali. Trascurava quanto di più elementare c’era al mondo, però. I sentimenti.
Era un suo limite, non riusciva a realizzarli, concepirli – o non voleva farlo?
Così, non si rendeva conto di cosa gli stava facendo. Di quanto a fondo stesse trascinando il suo partner.
« Non lo farà visto che quasi certamente ti metterai a molestare qualche cameriera chiedendole di suicidarsi con te », brontolò Chuuya.
Sarebbe bastato un no.
Un semplice « non mi importa delle cameriere per stasera, Chuuya ».
« Il doppio suicidio è il massimo gesto d’amore, Chuuya! » affermò Dazai. « Non posso certo perdere questa occasione, se mi si dovesse presentare. E poi sei tu quello che si ubriaca subito. »
Chuuya smise di camminare.
Ah, aveva senso sentirsi ferito? Era una delle sciocchezze di Dazai.
Una delle sciocchezze che però per lui era importante.
E se era importante per Dazai, Chuuya non poteva che percepirne il peso a propria volta.
Poteva anche trattarsi di discorsi macabri, di suicidi, di strane tecniche elencate nel libro che Dazai amava così tanto da sapere a memoria. Poteva anche essere una sciocchezza per tutti, ma non lo era per Dazai. Nemmeno per Chuuya, dunque.
Diceva che non era così, che non gli importava, ma mentiva a sé stesso.
Provò una sensazione strana all’altezza del petto, poi della gola.
Tossì, la pelle nera dei guanti contro le labbra, questa volta non per nascondere un sorriso di troppo.
Era a qualche passo di distanza, alle spalle di Dazai.
Era rimasto indietro, lui era andato avanti.
Osservò il palmo della propria mano e lo vide.
Un piccolo petalo rosso. Affusolato, carnoso, sottile.
Fragile.
Chuuya provò paura. Una paura strisciante che fece raggelare ogni porzione dei suoi nervi. Gli avvolse le ossa, bloccò i muscoli, congelò la pelle.
Rimase immobile a fissare quell’intruso.
Dazai si voltò verso di lui.
« Che c’è? » chiese.
Chuuya scosse il capo e portò le mani dietro la schiena.
« Pensavo che sei inquietante. »
Aprì le dita e il petalo cadde alle sue spalle, sulla scia dei suoi passi.
Leggiadro si posò sul pavimento.
Buffo.
Chuuya non si sentiva affatto leggero.

 
*
 

« Ah, ti è passata quella brutta tosse? »
Chuuya non stava pensando a nulla. Non pensava al lavoro, non lo disturbava cosa avrebbe dovuto fare il giorno dopo e nemmeno quella “brutta tosse”, come l’aveva definita Dazai.
Erano passati mesi dalla prima volta che quei maledetti petali si erano fatti vedere. Non avevano smesso di torturarlo, ma ormai riusciva a conviverci. Aveva scelto di farlo.
Spesso Chuuya tossiva e li vedeva. Rosso cremisi, dolorosi e bellissimi. Gli bruciavano i polmoni e la gola prima di mostrarsi in tutto il loro splendore.
Sapeva cosa volevano dire, ne conosceva la causa e con il tempo aveva compreso quando era più probabile ricomparissero.
Dipendeva da Dazai.
Chuuya aveva trascorso diverse notti insonni quando la solitudine si faceva lacerante. Le sue lenzuola si erano coperte di quei petali, il petto provato dal continuo tossire.
Sapeva cosa causava quel dolore e sapeva come avrebbe potuto liberarsene, curarsi.
Non temeva l’idea di prendere posizioni, ma in quel momento non ci riusciva. Non riusciva a pensare di prendere quella scelta e così, fino a che poteva, sceglieva la medicina dolceamara.
Quella che credeva gli facesse più bene.
Quella che assopiva il dolore, ma non estirpava il problema alla radice. Quella che non sradicava quei fiori dai suoi polmoni, ma gli dava un effimero sollievo.
Era sdraiato sul corpo di Dazai, gli occhi socchiusi e la guancia premuta sul suo petto.
Si trovavano nel suo studio.
Avrebbe dovuto ringraziare Mori per quella stanza dove potevano incontrarsi quando meglio credevano, un po’ meno per il divano di pelle scura che si incollava alla sua schiena quando, sotto Dazai, sentiva spingere il ragazzo dentro di sé.
Sapeva perché lo facevano, perché si incontravano: si fidavano l’uno dell’altro e sfogare i loro corpi con il sesso era più conveniente che non cercare un’avvenente compagnia comunque provvisoria fuori, in un mondo di cui non si fidavano.
Il problema di Chuuya era legato alla percezione che aveva di Dazai. Si era informato, aveva dovuto: non poteva chiedere a Dazai.
Riga dopo riga, scoperta dopo scoperta, il cuore di Chuuya era stato gravato dall’ansia.
Il tuo cuore decide, il tuo cuore risponde, Chuuya.
« Non sono un bambino, Dazai », ribatté Chuuya scocciato.
L’orecchio premuto sul petto di Dazai – sulle bende che fasciavano il petto di Dazai –, Chuuya poté godersi la vibrazione della risata che scosse il suo torace.
Rabbrividì.
« Ne sei sicuro? » domandò. « Ogni tanto credo tu abbia davvero bisogno di una persona che si occupi di te. »
Chuuya lo sentì. Sentì di essere sul punto di spezzarsi, di vanificare la riservatezza delle ricerche.
Sentì che Dazai gli stava tirando fuori una confessione, gliela stava strappando, ma senza i metodi brutali e dolorosi che gli aveva insegnato la Port Mafia, due dita delicate che gli estraevano dalla gola un petalo letale.
Chuuya fu sul punto di rivelargli ogni cosa, ma finì col trattenersi e per un motivo semplice e fatale: Orgoglio, si trattava di lui.
Alzò il capo, gli occhi cerulei puntati nell’unico visibile di Dazai. Gli sembrava volesse nascondere una parte di sé, con quelle bende.
Non si era mai chiesto cosa fossero lui e Dazai. Partner, un duo… ma oltre a questo?
Forse erano le persone che più sapevano l’uno dell’altro, all’interno della Port Mafia, che più riuscivano ad intuire su di sé a vicenda. Chuuya e Dazai conoscevano dell’altro il volto con cui affrontava la morte ogni volta che si presentava, per prendere i loro nemici o per tentare di prendere loro, e questa era, e ne erano consapevoli entrambi, la facciata più intima di un uomo. Ma non sapevano ogni cosa. Ed era anche colpa di Chuuya se era così, perché aveva scelto di avere dei segreti con Dazai.
A Chuuya, questo, faceva sia bene che male.
« Ah, quindi avrei bisogno di una balia? » domandò sorridendo sornione.
Il suo momentaneo disagio, il suo disturbo, era legato a doppio filo con la percezione delle cose. Quando Chuuya riusciva ad ingannare la propria mente e il proprio cuore convincendoli di essere almeno in parte amato. Lo faceva stare meglio. Ecco perché quei momenti con Dazai gli servivano. Erano come un antidolorifico: sopprimevano il problema per un po’.
« Vorresti occuparti di me, Dazai? Credi di esserne capace? »
I suoi occhi lo schernivano, il suo intero corpo lo faceva, con le mani sul petto di Dazai per tenersi sollevato e guardarlo da quella posizione favorita.
Non farmi male.
Era questa l’unica cosa che chiedeva Chuuya.
Dazai lo guardò. Gli stava leggendo dentro, o almeno ci stava provando.
Nascondeva quel tentativo dietro gli scherzi, le battute. Sorrideva, ma sapeva che qualcosa non andava.
Chuuya aveva capito cosa stava facendo. Conosceva Dazai e scorse nel suo sguardo l’incapacità di trovare tutto ciò che credeva di dover vedere. Dazai lo scrutava e non capiva, sentiva che per la prima volta Chuuya non era nel palmo della sua mano, gli sfuggiva più del dovuto, più quanto non glielo rendesse piacevolmente imprevedibile. Questo gli era sempre piaciuto di lui e questo stesso qualcosa, allora, era di troppo.
« Se non lo sa fare il tuo partner, chi può farlo? »
Nella lingua di Dazai, quello era un sì.
Chuuya si ritrovò ad accucciarsi ancora sul suo petto.
Prese un respiro a pieni polmoni. Ci riuscì.
« Fatti vedere per quella tosse », insistette Dazai, questa volta con tono più fermo.
Aveva la piena attenzione di Chuuya e lo sapeva.
« Sì. »
« Ottimo! » esclamò Dazai con fastidiosa esuberanza. « Se non dovessi farlo lo scoprirò! I partner non hanno segreti. »
A Chuuya, che un segreto lo custodiva, suonò come una minaccia.
Il rosso non osò guardarlo, timoroso che potesse scoprire in un istante la verità.
Quell’ipotesi lo umiliava.
« Sto già rimediando, smettila di fare il sentimentale. »
Non era una bugia, non del tutto almeno.
Chuuya si era scordato come respirare, ma Dazai era il suo ossigeno.


 
*
 

« Cos’è che vuoi fare tu?! »
La voce di Chuuya tremava. Lo faceva sempre, quando era arrabbiato.
Tremava e sembrava infuocarsi, infliggeva ferite non solo a chi ascoltava, ma anche a se stesso, la gola graffiata dalla violenza della sua voce.
Non che se ne stesse accorgendo.
« Non c’è bisogno che mi ripeta. »
« Invece credo proprio di sì, perché ti renderai conto che è una cazzata », ringhiò Chuuya.
Sentiva una morsa al petto, il fiato mancargli. Quanto avrebbe resistito prima di tossire?
Dazai teneva le braccia conserte, il pollice e l’indice a massaggiare gli occhi.
Erano gonfi, provati.
Chuuya sapeva perché. Era lui l’egoista in quella situazione, ma non era riuscito a comportarsi altrimenti. Si era lasciato andare senza controllo alcuno quando Dazai aveva confessato le proprie intenzioni per il futuro.
« Lascio la Port Mafia. »
L’aveva esalato quasi fosse stato l’ultimo respiro di una persona che, come Dazai, stava per rinascere.
Ma Chuuya? Cosa ne sarebbe stato di lui?
Aveva stretto Dazai fino a qualche attimo prima senza manifestare troppo affetto, a modo loro, un braccio intorno alle spalle e le dita intrecciate, la sua testa abbandonata sulla propria spalla. Per consolarlo, per farlo sentire al sicuro. Dazai era ancora seduto sul letto, ma Chuuya invece era schizzato via, troppo arrabbiato per rimanere fermo.
« Puoi rispettare almeno una mia decisione, per una volta? »
Sul volto di Chuuya comparve un sorriso sghembo, iracondo. Sembrava una maschera di pazzia più che un’espressione naturale. Le vene del collo erano gonfie d’ira.
« Oh, ne ho rispettate di tue decisioni, Dazai! »
« Mettiti nei miei panni », provò a convincerlo Dazai.
Non sapeva nemmeno perché stesse tentando. Non sapeva nemmeno perché tenesse tanto ad essere compreso dalla furia rossa di fronte a sé.
Non aveva bisogno di giustificazioni, ma una parte di lui voleva che Chuuya lo capisse.
« Se ti avessi chiesto io di farlo e se tu avessi pensato che fosse la cosa giusta, non ti saresti mosso allo stesso modo? »
Chuuya si era voltato, camminando nervosamente per la stanza.
Quelle parole furono un richiamo che lo fece arrestare.
La risposta non era un sì capace di metterlo nella posizione del giusto, ma non era questo che contava.
« E se ti avessi chiesto io di farlo mi avresti dato ascolto, Dazai?! »
Silenzio.
Vuoto.
Chuuya sapeva cosa significava l’assenza di risposte. Si era già convinto di cosa significasse: Dazai non aveva avuto il tempo materiale per rispondergli, ma quando aveva posto quella domanda non era per ottenere una vera risposta. Lui sapeva già. Era certo di sapere già.
« No, certo che no », si rispose.
« Vuoi almeno darmi il tempo di parlare? » lo rimproverò Dazai.
Da quanto non si pungevano in quel modo aggressivo, aspro? Era autentica cattiveria, un litigio.
« Molto probabilmente ti avrei ascoltato, Chuuya. »
« Molto probabilmente », ripeté sarcastico il rosso.
Si sentiva sempre peggio, sempre più male, sempre più oppresso.
C’era davvero aria in quella stanza? Perché a Chuuya non sembrava.
Gli sembrava una scatola le cui pareti si avvicinavano sempre di più per schiacciarlo e soffocarlo. Claustrofobia.
Per la prima volta Dazai non era più un appiglio a cui aggrapparsi. Era come se la trappola formata da quelle quattro mura si stesse riempiendo d’acqua, come se lui avesse sempre meno forza per evitare di affogare e gli rimanesse solo qualche centimetro per respirare vicino al soffitto.
Ma Dazai non era più la salvezza, la mano che lo avrebbe tratto in salvo, il volto fuori dall’acqua per riuscire a prendere una boccata d’aria.
Lo guardava, Dazai, da sopra il pavimento di vetro, una muraglia a dividerli. Lo osservava senza agire.
Questo logorava Chuuya, questo gli aveva impedito di agire lucidamente; in condizioni normali non se la sarebbe presa così tanto. Avrebbe lasciato andare Dazai, con la sola garanzia che non fosse un addio. Quello che provava Chuuya, tutta quella rabbia, scaturiva dall’istinto di sopravvivenza.
Se Dazai se ne fosse andato lui non sarebbe sopravvissuto a lungo.
Chuuya tossì, nervoso.
Maledizione, non ora!
« Non mi aspettavo che ne fossi felice », sibilò Dazai. « Ma Cristo, Chuuya, Oda è morto e tu non riesci a smettere di essere egoista! »
Sì, lo era. Lo era da morire. Era egoista e voleva che Dazai rimanesse con lui.
La Port Mafia era la sua piccola gabbia d’oro e non voleva uscirne per un vincolo di lealtà che si sentiva di dover mantenere.
Con Koyo, che l’aveva cresciuto.
Con Mori, che aveva riconosciuto il suo valore.
Ovviare al problema seguendo Dazai fuori da lì era un’opzione incapace anche solo di sfiorarlo. La Port Mafia poteva sbagliare, ma Chuuya sarebbe stato sbagliato con lei.
Non pensava che Dazai lo avrebbe voluto, che lo seguisse, o che ci avesse pensato. Lui pensava a tutto: lo avrebbe proposto per primo. Nemmeno lui aveva avuto la giusta lucidità per farlo, la freddezza necessaria.
Lo stava accusando di non pensare a come si sentiva lui. La cosa peggiore era che Dazai aveva ragione: Chuuya non era più riuscito a pensarci. Non era riuscito a consolarlo per la perdita di un caro amico, non era riuscito a rimanere calmo quando ce ne sarebbe stato bisogno in quel passo importante che il partner stava per compiere.
Chuuya ancora non lo sapeva, ma si sarebbe pentito.
« Avresti almeno potuto provare a trovare un modo per farmi capire! »
Gli occhi di Dazai parvero brillare di rosso, ma erano freddi.
Caos calmo.
Chuuya li sentì raffreddarsi come lava intorno al suo corpo. Facevano male, ma era un dolore diverso: latente, sotto la pelle. Bruciava come brucia qualcosa di troppo freddo, il ghiaccio.
Non ricordava da quanto ormai non lo guardasse così.
Non ricordava lo avesse mai guardato così.
Quello sguardo non era mai stato per lui.
« Non mi importava che tu capissi. »
Una doccia ghiacciata sul corpo di Chuuya. Non capiva, la paura lo rendeva insensibile, la pelle fredda e le dita tremanti.
« È una mia scelta e basta, devi accettarla così com’è. »
Doveva rispondere.
Non doveva farsi vedere smarrito, deluso. Ferito.
Vince il più forte, glielo aveva insegnato la vita. Non pensava valesse anche con Dazai.
Non l’aveva mai odiato davvero come diceva sempre, mai. Mai, mai, mai.
Non odiarmi tu.
Chuuya si tradì. Provò a farsi odiare per soffrire meno credendo, ingenuo, potesse funzionare.
« Fa quello che ti pare, ma non contare su di me. »
Chuuya si diresse verso la porta, le dita chiuse intorno alla maniglia.
« Non volevo nemmeno farlo. »
Ahi.
Era il suo cuore ad essersi appena lacerato, sbrindellato in mille stracci? Gli sembrava di aver udito vetri rotti sul pavimento.
Dazai nascondeva meglio di lui ciò che provava, o forse non aveva nulla da nascondere. Forse aveva sempre nascosto di non provare assolutamente nulla nei suoi confronti.
Forse aveva appena ricevuto risposta alla sua domanda, Chuuya: quanto siamo legati?
Non lo erano.
Chuuya poté sfogare tutta la rabbia solo chiudendo con furia la porta dietro di sé.
Dazai sospirò, Chuuya non lo sentì.
Voleva urlare, voleva distruggere qualsiasi cosa si parasse sulla sua strada.
Avrebbe usato quella maledetta abilità con cui era nato per sgretolare tutto ciò che aveva intorno. Anche se stesso, perché nessuno lo avrebbe fermato.
Non ci sarebbe stato Dazai, non gli importava.
I suoi muscoli stavano bruciando la rabbia come carburante, guidandolo in fondo al corridoio in falcate svelte.
Le dita di Chuuya aprirono il colletto della camicia, armeggiarono rabbiose sulla fibbia del choker aderente sulla sua gola.
Non respiro.
Lo gettò a terra.
Aiuto.
Graffiarsi la pelle era la cosa che meno contava per lui, non sentiva nemmeno il dolore.
Si aggrappò alla parete con una mano.
Non voleva nemmeno che Dazai lo sentisse. Non voleva che nessuno lo sentisse.
Aveva bisogno di chi non poteva avere.
I colpi di tosse si fecero abbaianti, quasi isterici, mentre il corpo di Chuuya si accartocciava sempre di più.
Le mani davanti alle labbra. Qualche petalo, un pistillo.
Le lacrime scendevano lungo le sue guance in risposta a quello sforzo doloroso. Sembrava quasi che una moltitudine di sadici coltelli stesse pugnalando il suo sterno più e più volte.
Quando Chuuya riuscì ad aprire gli occhi, la tosse finalmente calma senza che la sua gola si sentisse però davvero libera di afferrare aria quasi disperatamente, Chuuya lo vide.
Un crisantemo cremisi giaceva fra le sue mani.
Splendido, sembrava quasi sfidare il suo volto distrutto e provato.
Che ironia.
Il suo corpo stava cadendo a pezzi.
E così anche il suo mondo.
Ma non quel fiore.




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Scrivo brevemente delle note finali perché questa fanfiction è stata un’epopea. Ci ho lavorato a luglio e ricordo di averne cominciato la stesura però molto prima, in un periodo esattamente non molto felice e che si è riflettuto penso enormemente in questa storia. Per questo ci sono tanto affezionata e spero che vi piaccia.
Le ho dedicato questa storia, ma ci terrei a ringraziare Rika perché mi ha dato degli spunti – ma lei non se li ricorda per fortuna – e mi ha motivata a postare.
Come dicevo sono molto legata a questa storia, ma più sono legata ai racconti meno mi sento sicura siano un buon lavoro. Però mi sono stancata di farle fare la muffa in fondo alla cartella di BSD.
Per concluderla manca solo la parte due, che va solo ricontrollata e poi postata. Credo aspetterò qualche feedback a questa prima parte prima di pubblicare, quindi mi raccomando, se vi fa piacere lasciatemi anche un breve commento per farmi sapere le vostre impressioni!
È stato difficile scrivere di Chuuya innamorato, ma spero di aver fatto un buon lavoro!
Per dare i giusti meriti a chi di dovere vorrei lasciare il link ad un AMV Soukoku che ho trovato su youtube. Da lì ho conosciuto la canzone che come dicevo nelle note finali mi ha ispirato tanto nel corso della scrittura.
Spero ancora la storia vi sia piaciuta e di sentirvi nelle recensioni.
Al prossimo capitolo!
   
 
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