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Autore: rainyblue    14/10/2018    1 recensioni
"Non ne poteva più tollerare un minuto. L'agonia che lo accompagnava da tutta la vita aveva finalmente fatto breccia nella sua razionalità disperata, suggerendo la soluzione che da sempre aleggiava nella sua testa. Basta. Era ora di smetterla di prendersi in giro, era ora di smetterla di lottare per una felicità che, lo sapeva, per lui non sarebbe mai esistita. Per tutta la vita aveva preso palliativi: la musica, gli amici, Roo, la sua famiglia. Erano solo serviti a farlo arrivare fin lì, sopportando e sperando disperatamente in un briciolo di gioia."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jonghyun, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Nota dell'autrice: ho scritto questo pezzo in un momento di profonda tristezza, per cercare di liberarmi la testa e di mettere in fila i pensieri, dando un senso alle cose. Mi rendo perfettamente conto che potrebbe disturbare qualcuno ed intristire, ma sento che, per me, questo sia uno sfogo necessario. Non voglio assolutamente provocare dolore a qualcuno, di conseguenza ti prego, non leggere se senti che il contenuto potrebbe ferirti. Ognuno elabora il lutto e reagisce in manier differente, e nessun modo è sbagliato, fintanto che porta a miglioramenti.
Spero tu possa essere felice.
 
*

Non ne poteva più tollerare un minuto. L'agonia che lo accompagnava da tutta la vita aveva finalmente fatto breccia nella sua razionalità disperata, suggerendo la soluzione che da sempre aleggiava nella sua testa. Basta. Era ora di smetterla di prendersi in giro, era ora di smetterla di lottare per una felicità che, lo sapeva, per lui non sarebbe mai esistita. Per tutta la vita aveva preso palliativi: la musica, gli amici, Roo, la sua famiglia. Erano solo serviti a farlo arrivare fin lì, sopportando e sperando disperatamente in un briciolo di gioia. 
Il turbinio di pensieri cupi lo aveva attanagliato da un paio di settimane, non riusciva a pensare ad altro che a smettere di soffrire. Aveva paura, ma ormai il dolore superava anche quella. Era tutta sua la colpa. Nessuno era responsabile: sentiva il peso della sua depressione sulle sue spalle, sulle sue e di nessun altro. A nulla erano serviti i tentativi di aiuto o, come li chiamava lui, le ore perse a sentirsi dire di "cambiare atteggiamento", di "essere propositivo". Ci aveva provato: aveva promesso a se stesso che sarebbe stato felice. Ma sapeva, giorno dopo giorno, di essersi mentito. Lui non era capace. Non da solo. E nessuno, davvero nessuno, sarebbe stato in grado di farlo uscire da quel pozzo pieno di catrame, nessuno sarebbe stato abbastanza paziente per star lì a tirare, tirare, tirare fallendo inesorabilmente. Non c'era modo per uscire. 
Un singhiozzo lo scosse mentre era seduto sul divano di pelle scura, lontano da casa. Era seduto sull'orlo del cuscino, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e le mani tra i capelli. Fissò il vuoto per un momento, inspirò rapidamente e si alzò di scatto, asciugandosi il naso con la manica della felpa. Fece la manciata di passi che lo separavano dal ripiano della cucina del bilocale, arrivò davanti ai fornelli e si rese conto che questa volta dipendeva tutto da lui. Per una volta, era tutto nelle sue mani e non in quelle del mostro che aveva in testa. Si voltò rapido, di colpo impaurito nuovamente dal gesto che progettava di compiere. Si accorse che le sue lacrime stavano bagnando il cappuccio della felpa, ne poteva sentire il sapore attraverso la bocca semiaperta. Di questo passo, non avrebbe fatto nulla. Non poteva permettersi di perdere la possibilità di essere sollevato dal suo incarico, dal destino buio e crudele a cui era stato condannato ogni giorno della sua vita. Tornò a fronteggiare il fornello, lo accese e ci sistemò sopra tutto. Si sentiva molto più tranquillo ora, percepiva di nuovo quel senso di potere decisionale che gli sembrava di non avere mai potuto avere. Diede un occhiata all'unica finestra della stanza, chiuse la porta del corridoio che portava alla camera da letto, in cui non era nemmeno entrato. Dal giorno precedente, quando aveva affittato l'appartamento, non aveva dormito. Prese in mano il telefono, Sodam lo fissava radiosa sullo schermo. Lo posò a faccia in giù sul divano, e si sedette sul tappeto che lo fronteggiava. Era rilassato, gli sembrava di essere in aeroporto, in attesa dell'apertura del gate. Cercò di liberare la mentre, ma al primo tentativo fu invaso dalla voce di Kibum. Era un ricordo, che aveva iniziato ad affiorare senza aver chiesto nulla a nessuno. 
"Hyung."
Kibum gli stava davanti, con le braccia abbandonate lungo il busto. 
"Ti prego, parlami. Non sopporto più vederti in questo stato. Mi logora."
Il cuore gli sobbalzò nel petto, ridestandolo dallo stato di calma appena conquistato. Avrebbe dovuto pensarci prima, tra tutte le cose da organizzare per la sua dipartita non aveva fatto i conti con i ricordi.
Kibummie. Il suo adorato Kibum. Non sarebbe durato così tanto se non fosse stato per lui e per la sua innata capacità di distrarlo e di capirlo. Kibum non era come lui, ma nonostante questo aveva riconosciuto il problema e cercato di aiutarlo. Ciò che Jonghyun non gli aveva mai menzionato era il fatto che i suoi tentativi di risollevarlo, seppur essenziali, non sarebbero mai stati abbastanza, sul lungo periodo. Non poteva sopportare l'idea di essere un peso ed un motivo di preoccupazione per le persone che gli stavano a cuore. 
Eccolo di nuovo.
Il senso di colpa lo travolse ancora, scosse la testa e alzò gli occhi verso il fornello acceso. Una leggera nebbiolina iniziava a salire dalla padella.
Bene.
I pensieri erano indomabili, i volti continuavano ad affiorare uno alla volta. Sodam, sua madre, Taeminnie, Jinki, Heeyeon, Minho, Taeyeon, ancora Kibum, i suoi amici d'infanzia. Era un turbinio di facce apprensive che, nella sua mente ormai pervasa dall'angoscia, si stavano tutte deformando in una smorfia di dolore. 
L'idea di lasciare un buco nelle loro vite lo dilaniava, ed era una delle ragioni per cui era rimasto in vita così a lungo. 
I singhiozzi lo scossero, tirò su col naso e si rese conto dell'odore pungente che stava via via permeando la stanza. Di nuovo, si afferrò i capelli candidi con le mani, tirando, tentando di allontanare i pensieri con il dolore fisico.
"Scusatemi, scusatemi, scusatemi. Non ce la faccio più. Non è più vita la mia, non sono più io, non ne posso più tollerare un attimo" sputò tra i denti, tra sé e sé, concitato. 
L'odore di bruciato iniziava a farsi più persistente.
Inspirò profondamente per tentare di fermare i singhiozzi, ma iniziò a tossire e ricominciò a piangere. Desiderava solo che tutto finisse.
Allungò la mano verso il cellulare, lo sbloccò e non riuscì a trattenere un gemito straziato quando vide di nuovo il volto della sorella. Aprì kakaotalk, cercò la sua chat e le scrisse un ultimo messaggio. Glielo doveva. Le lacrime caddero sullo schermo mentre digitava, lentamente, scosso da colpi di tosse.
Finì di scrivere e lanciò il telefono lontano.
L'aria era pesante e, tra il pianto e la tosse, la testa incominciò a dolergli. Gli mancava il respiro, l'istinto di aprire la finestra lo spinse ad alzarsi. Appena fu in piedi, cadde a terra nuovamente. 
Tramortito, si ritrovò a fissare il soffitto. Con gli occhi socchiusi e pieni di lacrime, si rese conto che quella visione sarebbe stata l'ultima della sua vita. Bianco. Finalmente il nero che lo soffocava dall'interno avrebbe lasciato posto al candore, all'assenza di dolore e di malessere costante. Nonostante tutto, si sentì improvvisamente sereno. "Ce l'hai fatta", pensò confusamente, "sei riuscito a liberarti di lei. È finita, puoi smettere di lottare, hai vinto. Per una volta, hai vinto tu."
Chiuse gli occhi.
   
 
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