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Autore: hikaru83    16/10/2018    4 recensioni
Di Sherlock, per quanto non ami parlare di sé, sappiamo più di quello che ci si aspetterebbe da una persona tanto riservata. Abbiamo conosciuto i suoi genitori, suo fratello, sua sorella. Sappiamo che da bambino amava giocare ai pirati, sorrideva tanto, avrebbe voluto avere un cucciolo, aveva almeno un amico e probabilmente era quello più “normale” della famiglia. A detta sua sappiamo che “le donne non sono proprio il suo campo” e a noi va benissimo. Abbiamo persino imparato a comprendere il suo carattere. Insomma ad osservarlo bene, e a non soffermarsi sulla prima impressione, di Sherlock sappiamo molto. Ma di John? Del caro e buon John? Dell’onesto, irreprensibile, coraggioso, corretto John? Sappiamo che è stato un soldato, un capitano per di più, sappiamo che è medico, ha studiato con Mike, che ha una sorella lesbica alcolista con cui non è in buoni rapporti. Non conosciamo nulla della sua famiglia, non niente del suo passato. Nessuno si è presentato al suo matrimonio, andato a trovarlo dopo la nascita di Rosie o per il suo battesimo, nessuno è andato al funerale di Mary. Sembra quasi che il “prima di Sherlock” non sia per nulla importante. Ma sarà davvero così? Non ci tocca che scoprirlo.
[Johnlock]
Genere: Angst, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harriet Watson, John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Ed eccomi anche per questo penultimo capitolo, scusate il ritardo ma tutto sotto controllo. Come sempre (spero) buona lettura! 




Io&Sherlock



Capitolo 3

 

Il risveglio tra le sue braccia mi fa iniziare la giornata nel migliore dei modi. Non so cosa avessi nella testa all’inizio per credere davvero alla stronzata del sociopatico. Sherlock potrà non essere la persona più cordiale di questo mondo, ma se si tratta delle persone a cui tiene dà tutto se stesso.

«Buongiorno, John!»

Mi volto nel suo abbraccio per guardarlo negli occhi. «’Giorno, Sherlock. Da quanto sei sveglio?» bofonchio con la voce ancora impastata dal sonno.

«Un po’, ma mi piace guardarti dormire,» rivela innocentemente.

«Ti piace guardarmi dormire?» chiedo tra l’imbarazzato e l’intenerito.

«Sì, quando stai con me gli incubi che avevi quando stavi da solo non arrivano mai,» rivela felice.

Sussulto. Sa degli incubi? «Come fai a sapere degli incubi?» chiedo un po’ nervoso.

«Sei un ex soldato, John, e io non ho mai usato la notte per dormire come gli altri esseri viventi. Anche se avevi la tua stanza al piano di sopra era impossibile non sentirti nel silenzio della notte.»

«Non me l’hai mai detto,» borbotto.

«Non volevo sembrarti troppo invadente, e poi non è più capitato da quando condividiamo lo stesso letto. Al massimo ti stringi più a me, e mi piace. Per una volta sono io quello che sostiene l’altro,» mi risponde con un sorriso dolce sulle labbra.

«Cosa dici, Sherlock? Tu mi sostieni sempre,» replico concitato. Se non fosse per lui sarei crollato appena sceso dal treno! Anzi, sarei crollato molti anni fa.

«Lo fai tu, John, ogni giorno, anche quando mi sembra di annegare in tutti i miei pensieri... So che se solo cerco il tuo sguardo tu sei lì accanto a me, e se non trovo la forza per farlo la tua mano stringe la mia spalla, la tua voce accarezza il mio orecchio e tutto torna al posto giusto. Tu mi salvi ogni giorno, e sapere di riuscirci io la notte con te, mi fa stare bene.»

«Diciamo che ci salviamo a vicenda,» gli concedo, anche se rimango convinto di essere io quello che ci guadagna di più ad averlo al mio fianco.

«In un modo o nell’altro lo abbiamo sempre fatto.»

Lo bacio. Ho bisogno di fare mie quelle labbra. Non riesco a trovare le parole giuste per dirgli quanto l’amore per lui cresca ogni giorno. Una volta avevo letto che più grande è l’amore, meno si è in grado di dirlo. Credo di aver capito solo ora quanto sia vera questa frase.

 
***
 

Scendiamo per la colazione. Dalla mia famiglia ancora nessun segno. Sospiro e prendo la mia decisione. «Sherlock, ti va se torniamo a casa?»

«Perché non gli dai ancora un po’ di tempo?»

«Perché ho paura che se aspetto ancora il mio cuore si sbriciolerà definitivamente.»

«Facciamo così: oggi andiamo a zonzo senza una meta precisa, chiami tuo zio e vediamo se domani in mattinata possiamo passare a trovarli. Dopo prendiamo il treno e torniamo a casa, che ne dici?»

«Un altro giorno?»

«Sì, solo un altro giorno. Ti prometto che non permetterò al tuo cuore di sbriciolarsi.»

Mi trovo ad annuire.

Decido di portarlo a Samphire Hoe, l’area protetta, una riserva naturale dove poter goderci le bellezze del paesaggio e pensare solo a noi. Percorriamo viottoli di terra battuta circondati da erba alta. Davanti a noi il mare, in lontananza le scogliere. Arriviamo a una spiaggia sassosa dove troviamo una zona su cui l’ombra della rupe scoscesa dietro di noi si proietta proteggendoci dai raggi solari. Sistemo una coperta che ho chiesto alla proprietaria del B&B e ci accomodiamo ispirando l’aria calma e profumata.

«Da casa la notte si vedono un sacco di stelle,» gli dico indicando la zona dove so che sorge casa dei miei, anche se da qui non si vede.

«Immagino che tu le sappia riconoscere, al contrario mio.»

«Sono stato in missione in un cazzo di deserto, Sherlock. Se fosse successo anche a te sapresti riconoscere ogni fottutissimo puntino luminoso.»

«Ma le sapevi riconoscere anche prima, vero?»

«Già. Se vuoi, questa sera ti porto in un posto dove ti sembra di essere solo al mondo. Il cielo di notte è così nero che la più minuscola stella risplende con forza.»

«Mi piacerebbe.»

«D’estate tutti passano almeno una notte fuori con il naso all’insù. Ma è l’inverno il momento in cui le stelle risplendono con la loro forza massima.»

«D’inverno però rischi di congelarti se stai fuori a guardare il cielo.»

«Oh, beh, le stelle ti fanno compagnia. Anche se hai un freddo boia, se sei in grado di riconoscerle, ti cantano le loro storie e la notte passa.»

«Sembra che tu l’abbia fatto.»

«Sai com’è stato essere il figlio di un militare tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, Sherlock?» cambio argomento sorprendendolo.

«No, John, com’è stato?»

«Uno schifo, anche se allo schifo ci avevo fatto il callo,» dico mestamente.

«Perché?»

«Perché era uno schifo? Vuoi sapere questo? Perché dopo il racconto di ieri immagino che il motivo per cui allo schifo ci avevo fatto il callo sia evidente.»

Rimane in silenzio osservandomi. Immagino quante domande affollano il suo cervello, e so quanto sia difficile non farmele, avido di conoscenza com’è.

Apprezzando la sua discrezione, decido di spiegarmi meglio: «I ragazzini della scuola erano tutti dei piccoli teppisti. Imitavano i fratelli maggiori punk e ribelli. Questo faceva sì che i i figli dei militari, dei poliziotti o di chiunque indossasse una divisa, erano le vittime che preferivano torturare.»

Ricordo le prese in giro, le spintonate, le risse in cui venivamo messi in mezzo senza che avessimo fatto niente. Ricordo il muoversi sempre in gruppo, perché gli altri lo erano sempre e se ti beccavano solo eri spacciato. Ricordo il sapore della terra e del sangue, le nocche sbucciate e il bruciore delle lacrime e dei disinfettanti quando correvo dallo zio prima di tornare a casa. Perché gli occhi di mio padre quando tornavo dopo una rissa a cui non avrei mai partecipato se avessi potuto evitarla, quegli occhi, mi mettevano paura.

Mi portava a casa lo zio, dopo che mi aveva curato le ferite, fisiche e non, meglio che poteva e rimaneva a casa con noi fino a quando era sicuro che papà non avrebbe aggiunto altra paura nei miei occhi. Lo zio non sapeva che molti di quei lividi, di quelle ferite non me li causavano quei teppistelli. Ancora non avevo trovato il coraggio di parlagli.

«Dove sei, John?»

Sobbalzo. La voce di Sherlock mi riporta sulla spiaggia mentre la mia mente fugge dalla prigionia di un passato a cui non davo ascolto da tanto tempo. «Qui, Sherlock, sono qui.»

«Il tuo corpo è qui, John. Ma la tua mente è da un’altra parte. E io non voglio che sia così lontana da me, lì dove non posso fare niente per farti stare meglio.»

Il mio Sherlock... Lo abbraccio di slancio. Non mi importa un’accidenti se c’è qualcuno in giro che possa avere da ridire.

Lui, preso alla sprovvista, rimane immobile per pochi istanti prima di risponde al mio abbraccio. Le sue braccia mi avvolgono, le sue mani mi accarezzano la schiena. Dio! Come potrei affrontare questa cosa senza di lui?

«Una sera, avevo fatto un po’ più tardi,» riprendo a raccontare con un mormorio. «Dovevo recuperare un compito che a causa dell’influenza non avevo potuto fare. Così quando mi misi in cammino per arrivare a casa, ero solo. Pedalavo sulla vecchia bicicletta un po’ troppo grande per me ma a cui mi ero abituato e pensavo solo a non arrivare tardi a casa. Avevo detto a papà del compito da recuperare e lui mi aveva “concesso” di arrivare a casa un’ora dopo il coprifuoco.» Quando vedo che fa per dire qualcosa, lo anticipo: «Sì, Sherlock, ci aveva messo degli orari a cui dovevamo attenerci rigorosamente: la sveglia la mattina, sia se c’era scuola o meno, l’orario dei pasti, quello in cui dovevamo essere a casa. Era difficile ma il dottore ci aveva spiegato che per lui rispettare degli orari precisi e rigorosi era molto importante. Dopo il trauma subito, il controllo era diventato essenziale per lui. Era l’unico modo in cui ci sapeva al sicuro. Ovviamente poco alla volta si sarebbe dovuto allentare un po’ fino a tornare ad avere una vita normale. Per il momento però dovevamo adattarci. E sinceramente, avere degli orari precisi non è che mi desse particolare fastidio. E sembrava davvero funzionare con papà. Era sempre silenzioso e nervoso, ma riusciva ad ascoltarci parlare della giornata trascorsa e a volte persino a sorridere di qualche battuta. Non beveva neanche più come prima. Non che avesse smesso, ma almeno non lo trovavamo sprofondato nella poltrona circondato da lattine e bottiglie, quasi svenuto per colpa di quello che si era scolato tutto il giorno. Ed era già una cosa bella, Sher.»

«Aveva... Lui... Insomma, ti aveva ancora colpito?» domandò lui circospetto.

«Ogni tanto capitava.» Alzai le spalle quasi indifferente, come se ciò che avevo appena detto fosse una cosa del tutto naturale.

«Perché tua madre o tuo zio non lo fermavano?»

«Perché non lo sapevano.»

«Ma i lividi?»

«Mi picchiavano spesso a scuola, Sherlock, e giocavo anche a rugby. Sarebbe stato strano se non ne avessi avuti.»

«Perché non l’hai detto a nessuno?»

«Perché era mio padre.» Mi appoggio ancora a lui e Sherlock mi accoglie senza dire altro. «Era il mio papà, l’uomo che mi portava sulle spalle, quello che mi aveva insegnato a nuotare, quello che giocava con me sulla spiaggia. Perché ogni volta che con un filo di voce mi chiedeva scusa e mi prometteva che non sarebbe più successo, che non voleva farlo, io gli credevo. Perché medicava ogni ferita con la morte nel cuore. Perché dopo ogni volta piangeva stringendomi forte.»

«Eri solo un bambino, John.»

«Credevo di poterlo salvare. Credevo che sotto sotto ci fosse ancora il mio papà.» Chissà quando ho smesso di crederlo. Quando ho deciso che dovevo andarmene, che non c’era nulla che potessi fare. Chissà quando mi sono arreso e ho gettato la spugna...

Dopo qualche minuto di silenzio decido di continuare il mio racconto: «Sulla via del ritorno, quella sera, venni avvicinato da un gruppo di teppisti della mia scuola. Erano evidentemente sbronzi, convinti di essere dei miti e di avere il potere di decidere della vita degli altri. Mi sbarrarono la strada e mi fecero cadere dalla bici. Cominciarono a picchiarmi, minacciandomi, insultandomi e sputandomi addosso. Cercai di difendermi, ma erano in troppi. Smisero solo quando svenni.» Non avrei mai creduto che avrei raccontato questa storia a qualcuno. E invece eccomi, tra le sue braccia, sulla spiaggia, a raccontare cose che credevo dimenticate per sempre. «Rinvenni dopo non so quanto. Oramai era buio pesto. Mi alzai a fatica. Avevo un dolore sordo all’addome, una spalla probabilmente slogata, lividi e graffi ovunque. Grazie al cielo le gambe mi reggevano e riuscii – anche se – a fatica a trascinarmi verso casa. La bici abbandonata con una ruota storta al limite della strada. Ci misi parecchio tempo ad arrivare davanti alla porta di casa, ma quando bussai nessuno rispose. Sapevo che mi avevano sentito, che mi avevano visto. L’ombra alla finestra era quella di mio padre. Ma non mi aprirono. Io bussavo, piangevo, ma non mi apriva nessuno. A un certo punto sentii mamma implorare mio padre di farmi entrare, ma la risposta di papà era sempre la stessa “Doveva essere qui ore fa. Sapeva a cosa andava incontro se avesse disobbedito”. Mamma gridava, pregava, piangeva... Ma nulla smuoveva papà. Avevo paura che si sarebbe arrabbiato al punto da picchiarla, e allora dissi che capivo, che avevo sbagliato, che sarei rimasto fuori, sul portico, che non faceva tanto freddo. Era gennaio inoltrato, il vento soffiava forte, ma volevo solo che mamma smettesse di piangere. Guardai il cielo ed era limpido e perfetto. Cercai di ricordarmi qualche storia di quegli eroi che erano diventati costellazioni e riuscii persino a non sentire le ore che passavano. Fino a quando la luce di due fari non mi colpì. Erano zio Larry con la moglie. Mi sollevarono, lasciando un biglietto sulla porta di casa, e mi misero in macchina con il riscaldamento al massimo, portandomi a casa loro. La mattina dopo scoprii che mia sorella era riuscita a sgattaiolare di nascosto fino al telefono e li aveva chiamati.»

«Quanto tempo sei stato dai tuoi zii?»

«Un po’. Non ricordo con precisione, in realtà. Ma un giorno mio padre venne a prendermi. So che litigarono tanto lui e lo zio. Non so cosa si dissero, ma alla fine tornai a casa con papà.»

«Tornasti a casa per non lasciare sole tua madre e tua sorella?»

«Forse, ma forse perché sapevo di dover rimanere lì, sentivo che era la cosa giusta. E del resto papà mi ha insegnato un sacco di cose, a modo suo.»

«Davvero? Il vostro rapporto è migliorato, dopo?»

«Lo zio passava parecchio tempo con noi. Veniva a casa e trascinava me e papà in giro a fare “cose da uomini”. Andavamo in campeggio e mi insegnavano i metodi di sopravvivenza. A sedici anni ero in grado di sopravvivere in natura usando uno di quei coltellini multifunzione. A quattordici sapevo già sparare. Quando sono entrato nell’esercito ero già un cecchino.»

«Hai scelto l’esercito per rendere orgoglioso tuo padre, medicina per fare felice tua madre... Ma per te? Hai mai fatto qualcosa solo per te?»

«Ho scelto di essere il dottor John Hamish Watson, Capitano del Quinto Fucilieri, collega, amico e amante dello straordinario – nonché unico – consulente investigativo al mondo Sherlock Holmes.»

«Una scelta piuttosto impegnativa,» ridacchia lui.

«La migliore decisione presa in vita mia.»

La natura intorno a noi ci riempie di calma. Sto raccontando cose di me che non credevo avrei neanche ricordato. E se anche non è facile farlo, so di fare bene a parlare. Non temo che mi giudichi, non mi preoccupo di ferirlo con alcuni dei miei ricordi. Questo non perché non provo dolore a ferirlo, o perché credo che queste cose non lo feriscano, ma solo perché so che per lui non sapere è di quanto più difficile possa esistere. Impazzisce se non ha tutti i riferimenti. E io voglio che mi capisca, non ho paura che possa ferirmi anche se le armi per farlo gliele sto porgendo su un piatto d’argento. So che piuttosto di ferirmi si ucciderebbe, lo ha fatto davvero per proteggermi del resto – o meglio, ha fatto in modo di farlo credere – così come si è letteralmente gettato nel fuoco per salvarmi. Spesso si sentono frasi romantiche di persone che promettono il mondo, che dicono si butterebbero nel fuoco per l’altro, che darebbero la vita. Io ho la certezza che lo farebbe per me, perché lo ha già fatto.

«Il rapporto con tua sorella sembra però che nonostante tutto rimanesse saldo... Cos’è successo per separarvi al punto di non accettare il suo aiuto una volta tornato dalla guerra?» La domanda di Sherlock mi strappa ai miei pensieri.

«L’alcool ha rovinato ogni cosa. Papà, anche se non lo faceva più davanti a noi, beveva tantissimo, e anche io ho avuto i miei problemi. A volte aiuta a non pensare e c’erano un sacco di cose che urlavano nella mia testa, cose che dovevo assolutamente zittire. Ma in un certo senso io e lui riuscivamo a smettere, a fermarci. Dopo l’episodio in cui mi ha preso per il collo non aveva mai bevuto al punto di non rendersi conto di ciò che faceva; non che questo gli abbia impedito di picchiarmi quando perdeva la pazienza, ma almeno si accorgeva quando esagerava. E persino io sapevo quando avevo bevuto a sufficienza. Tra l’altro non era mai il caso di non rendermi conto di quello che mi accadeva. Insomma, era meglio che mi accorgessi di ciò che mi circondava. Ma lei... Per lei è stato diverso. Forse si sentiva esclusa... Non lo so davvero, Sher. So solo che fino al giorno prima era la mia sorellina che cercava di aiutarmi come poteva, il giorno dopo era una donna arrabbiata con il mondo, con seri problemi d’alcool che ci incolpava di ogni cosa. E sai, forse non aveva tutti i torti.»

Lo vedo osservarmi. Strizza un po’ gli occhi, come per mettermi a fuoco. Probabilmente lo fa solo perché è in disaccordo con ciò che ho appena detto e si sta mordendo la lingua per non dirmi quanto sia stupido a pensare una cosa del genere. Ma non dice nulla, sa che sarebbe inutile ora come ora, quindi mi osserva e mi stringe a sé senza dire una parola.
 

*** 

Dopo la mattinata alla riserva e un pranzo in un ristorantino affacciato sul mare, decido che questa sera lo porterò nel mio posto preferito da dove le mie scogliere si vedono ancora meglio. È un po’ vicino a casa dei miei, ma non temo certo di incontrarli. Dopo pranzo però gli faccio fare un mini tour della città, lo porto alla mia vecchia scuola, visitiamo il museo, St. Mary Church e uno dei fari più recenti ma comunque molto caratteristici.

Passiamo una bella giornata, ridendo al telefono ai racconti di Mrs. Hudson sulle avventure di Mycroft e Greg alle prese con Rosie e parlando di cose lievi, felici e divertenti delle nostre infanzie. Ho anche dei ricordi così, ed è strano che mi vengano in mente solo ora, ma forse non dovrei sorprendermi. Forse lasciarmi andare – raccontare momenti cancellati e nascosti – mi ha fatto bene, mi ha permesso di ricordare momenti che altrimenti avrei perso per sempre. Compriamo dei sandwich e delle bibite da mangiare per cena, prendiamo un taxi che ci conduce vicino al belvedere e concordiamo con il tassista di venirci a prendere per le dieci.

Appena il taxi si allontana, prendo Sherlock per mano e lo allontano dal muretto di protezione.

«Vieni con me.»

Lui non domanda nulla, si lascia condurre in totale fiducia.

Prendiamo un piccolo sentiero che scende un po’ verso la costa. Arrivati a un grosso albero cavo volto a sinistra e superiamo un passaggio del tutto invisibile se non sai che esiste. Ed ecco, un piccolo spiazzo, che si affaccia direttamente sul mare, sulle scogliere e, grazie alla luce ancora abbastanza forte, intravedo anche la casa dei miei.

«Ecco il mio posto segreto! Ne avevi uno anche tu da piccolo?»

«Sì, e anche dal mio si vedeva il mare.»

«Non avevo dubbi in proposito.»

«Venivi spesso qui?»

«Quando volevo stare per i fatti miei, sì. Sai, quando dovevo prendere decisioni importanti.»

«Tipo arruolarti?»

«Sì, ma anche quando ho deciso di diventare medico, o quando lasciai il rugby.»

«Come mai lo lasciasti?»

«Per entrare a medicina dovevo studiare un sacco di ore. Certo, mamma mi aiutava, ma avere mamma come insegnante non rendeva le cose più semplici. Pretendeva il massimo, niente di meno. E poi,» aggiunsi cercando di nascondere un sorriso, «sinceramente, resistere al ritmo serrato di tutte quelle ragazze era davvero troppo. Non gli bastava mai! Non trovavo il tempo di studiare, davvero.»

«Il ritmo serrato di tutte quelle ragazze?» domanda, mortalmente serio.

«Già. Una faticaccia.»

«John, ti ho mai detto quanti modi conosco per uccidere un uomo senza lasciare alcun segno evidente?»

«E io ti ho mai detto quanto amo vederti geloso?»

«Sei decisamente molto crudele.»

«Crudele? Non sono io che ho usato quella suoneria più del dovuto solo per vederti impazzire a ogni maledetto messaggio.»

«Non me la farai mai passare liscia per quella storia, vero?»

«No, per nulla,» ribatto deciso, mentre lo vedo scuotere la testa con un mezzo sorriso. «Ma oltre a farti ingelosire, credo che troverò anche altri modi per farti capire quanto tu appartenga esclusivamente a me.»

I suoi occhi improvvisamente attenti si fissano nei miei. «Davvero, caro dottore?»

«Davvero, caro consulente investigativo.» Lo prendo per il bavero e lo trascino verso di me. Il bacio è violento, possessivo. Una rivendicazione urlata a cui risponde nel medesimo modo.

Rimaniamo abbracciati per un po’, poi mangiamo guadando il paesaggio davanti a noi.

«Lo sai che hanno trovato polvere di stelle sulle scogliere? È per questo che sono così bianche che quasi risplendono alla luce della luna.»

«Sul serio?» domanda sorpreso.

Annuisco sorridendogli per poi tornare a osservare le scogliere, il mare e le stelle.

Dopo pochi istanti riesco a riconoscere alcune delle costellazioni. Ecco il triangolo estivo, formato dal Cigno, la Lira e l’Aquila.

«Vedi quella?» dico indicando una stella molto luminosa. Lo vedo annuire accanto a me e quindi continuo: «Quella è Vega. È una delle stelle più luminose del cielo estivo e si pensa che fra dodicimila anni diverrà la prossima stella polare. L’intera costellazione le ruota intorno. Quella è la costellazione della Lira, poi c’è l’Aquila e il Cigno.» Sposto l’indice cercando di fargli identificare le forme.

«Bisogna ammettere che la gente per riconoscere certe forme ha una bella fantasia.»

«Beh, è come quando da piccoli si trova la forma nelle nuvole. Alla fine è la stessa cosa, l’unica differenza è che le costellazioni sembrano immobili ed eterne, anche se non è così. Ma la vita di un uomo non è nulla rispetto ai minimi cambiamenti dell’universo. Il cielo che vediamo oggi non è lo stesso di quello di migliaia di anni fa, così come non lo sarà tra migliaia di anni. La Terra stessa non è la stessa né lo sarà, ma per noi rimane immutabile.»

«Come siamo filosofici, John,» mi prende bonariamente in giro. Gli do una spallata ridendo mentre lui mi chiede: «Come fai a ricordarti delle costellazioni?»

«Ogni costellazione, addirittura ogni stella, ha una storia. Ad esempio la costellazione della Lira ha preso il suo nome dallo strumento musicale costruito dal giovane Mercurio sul monte Cirene, tendendo budella di mucca sopra un guscio di tartaruga attraverso corna di ariete. Il suo suono era talmente dolce che riusciva a calmare chiunque, compreso Apollo al quale Mercurio rubò il bestiame e la cui ira fu placata proprio ricevendo in cambio lo strumento. Le sue corde secondo il mito erano sette, come il numero delle Pleiadi. Apollo a sua volta donò la Lira a suo figlio Orfeo, nato dall' unione con la musa Calliope, con la quale accompagnava il suo splendido canto, in grado di far commuovere anche le pietre. Orfeo discese poi negli Inferi per ritrovare la sua sposa, la ninfa Euridice, uccisa dal morso di una vipera. Plutone, sovrano del mondo sotterraneo e Persefone, sua sposa, si mossero a compassione grazie alla musica di Orfeo e della sua lira, così il sovrano gli restituì l'amata, ma gli intimò di non girarsi indietro a guardarla finché non fossero usciti dagli Inferi. Una volta alla luce del sole Orfeo non resistette più, voleva rivedere la sua amata ed era convinto che oramai fosse il tempo, quindi si voltò verso Euridice. Ma lei era ancora nel passaggio tra Inferi e Terra e per questo la perse per sempre.»

«Beffarda fine.»

«Già, in realtà la fine è ancora peggio. Diciamo solo che alla fine Giove, commosso dall’intera vicenda, decise di creare la costellazione della Lira. La prima volta che sentii la storia di Orfeo e Euridice ci rimasi malissimo, ma del resto molti miti greci sono delle vere e proprie tragedie; quasi a voler affermare che si può combattere quanto si vuole, ma se il Destino è avverso prima o poi pagherai pegno.»

«A volte sarà andata bene però, almeno spero.»

«Sì, a volte è andata bene. Amore e Psiche per esempio.»

«Questa me la dovrai raccontare, prima o poi.»

«Lo farò. Promesso!»

«Queste storie te le ha insegnate tuo padre, vero?»

«Sì. Era un bravo papà prima di perdersi nella guerra.»

«Tu sei andato in guerra, sei stato ferito, sei stato anche...» Prende fiato prima di continuare, come se la cosa gli facesse male: «catturato e torturato. Eppure sei tornato indietro e sei un ottimo papà.»

«A volte ho paura di sbagliare tutto con Rosie. Non so se sarò mai all’altezza di un regalo così grande.»

«Rosie è la bambina più fortunata al mondo ad avere te come papà.»

«È fortunata ad avere noi.» Da quando siamo a Dover il desiderio di poterlo stringere ogni volta che mi pare e piace è aumentato. Non passa un minuto senza che le nostre mani si stringano, i nostri corpi si cerchino, i nostri sguardi si sfiorino. Una danza che ci porta inevitabilmente vicini.

Mangiamo i nostri sandwich mentre gli racconto altri aneddoti divertenti del mio passato, poi telefono a zio Larry chiedendogli se l’indomani possiamo passare a salutarli ricevendo un: «Che domande! Certo! Anzi, vi va di fermavi a pranzo? Ti prego, dimmi di sì... Mia moglie mi sta guardando malissimo.» Ovviamente non ho potuto fare altro che rispondere di sì sghignazzando.

Quando l’ora concordata con il tassista si avvicina, risaliamo il sentiero grazie a una torcia che avevo acquistato in un negozietto nel pomeriggio, e arriviamo alla piazzola pochi istanti prima che i fari del taxi si avvicinino nella notte.

Ci riporta al B&B, avvisiamo la proprietaria che sta guardando la tv nella sala comune che l’indomani saremmo partiti, e lei ci assicura che ci farà trovare il conto pronto. «Spero vi siate trovati bene,» aggiunge alla fine

«Molto bene, sì. Ma Londra ci reclama,» rispondo sorridendole.

Saliamo in camera e una volta chiusa la porta della stanza osservo Sherlock muoversi al buio, illuminato solo dalla luce della luna. La pelle lattea, i ricci morbidi, quelle labbra da baciare. La mia àncora di salvezza, la mia isola dove nulla può ferirmi. È un attimo. Mi avvicino mettendogli la mano su una spalla e facendolo voltare. Lui rimane sorpreso e interrompo ogni sua domanda baciandolo possessivamente. Quest’uomo meraviglioso, che ha scelto me per fidarsi di qualcuno, ha scelto me come compagno, ha scelto me dall’inizio, quando ancora non sapevo, non capivo; ha scelto me aspettando tutto il tempo del mondo per permettermi di accettare. Ha scelto me, e io non capirò mai come posso essere tanto fortunato.
 

...«Tu mi ami?» gli avevo chiesto all’improvviso. Eravamo seduti sulle nostre poltrone dopo un caso piuttosto complicato. Stavamo discutendo su qualcosa, non ricordo più cosa. Rosie si era addormentata da poco e l’avevamo sistemata nel suo lettino. Non so cosa esattamente fosse accaduto, più cerco di ricordarmelo meno ci riesco. Ma all’improvviso ebbi quella consapevolezza e non riuscii a tenermela per me. Lo vidi cambiare espressione, dopo la mia affermazione travestita da domanda. Il suo sguardo addolcirsi, e un sorriso che non gli avevo mai visto prima nacque sulle sue labbra.

«Da una vita, John,» mi rispose solamente.

«Perché non me lo hai mai detto?»

«Dovevi capirlo da solo.»

«Tu... Lo sai che sono lento su certe cose... Su parecchie cose... E non mi hai detto nulla perché io dovevo capirlo da solo?»

«Esatto.»

«Ti dovrei strozzare per questo.»

«Che ne dici di baciarmi, invece?»

«Dico che sono così arrabbiato con te che non te lo meriteresti, ma...»

«Ma?»

«Ti voglio troppo per aspettare un secondo di più.»

Un altro sorriso che dovetti assolutamente divorare con le mie labbra...

 
Assaggiare Sherlock quella volta fu come tornare a casa. La sensazione era quella: tornare a casa ed essere felice dopo un sacco di tempo.

Baciare Sherlock adesso è questo, ed è anche di più.

Trema sotto di me lasciandomi tutte le libertà che voglio. Lecco, mordo, bacio tutto; la pelle, la carne, tutto Sherlock facendolo tremare, ansimare, gemere.
«John... Il mio John...» geme.

Il mio John.

Ogni volta che mi sento chiamare così una parte del mio cuore si accende e riscalda. Ora però, sentire il mio nome sulle sue labbra, l’unica cosa di senso compiuto che riesce a dire, mi riempie di calore anche in altre parti.
Sapere di essere l’unico pensiero che riempie la sua mente è forse una delle cose più erotiche a cui posso pensare. Riempio Sherlock nel cuore, nella mente e fra poco anche nel corpo.



 Continua...


Note: ok giuro il dolore verso John è finito...mi pare... LOL. A settimana prossima per l'ultimo capitolo XD
  
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