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Autore: LeaRachelBlackbird_et_Ann    20/10/2018    2 recensioni
Johnlock Omegaverse.
Potrebbe essere una vita in cui John diventa il compagno omega di Sherlock, dove la loro quotidianità è scandita da battibecchi e sguardi dolci.
Oppure... Oppure potrebbe essere una vita in cui di mezzo c'è stato Reichenbach.
Genere: Angst, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Mpreg, Spoiler!
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Premessa.
Questa "cosa" è nel mio pc da un anno e un po'... Mentre attendevo l'uscita della quarta stagione, cercavo di distrarmi lavorando su quel trauma galattico che è la fine della seconda. Mi sono dunque imbarcata per solcare questo mare di Angst, dilettandomi in un fandom in cui non ho mai scritto e in una ambientazione che, se gestita male, rischia di diventare uno scadente squallore.
Premetto che, per quanto ce l'abbia in testa, ancora non ho scritto il seguito per il semplice fatto che non ho idea se piacerà o meno. Caso mai dovessi avere un impensato riscontro positivo, potrei mettere giù il seguito.
Fosse stato per me sarebbe non solo rimasto incompleto, ma anche rinchiuso nei meandri del mio pc. Non vorrei farlo sembrare un ricatto, ma sì, diciamo che in buona parte dipende da voi (non odiatemi, ma non sono una di quelle appassionate della scrittura che lo farebbe solo per piacere personale).

Veniamo alla storia e alla specifica di alcuni disclaimer: la dicitura mpreg l'ho inserita perchè compare un personaggio di sesso maschile gravido, ma non solo non è un protagonista ma non ha nemmeno un nome. Così non vi fate aspettative errate (ma, in futuro, chi lo sa? -w-).
La dicitura spoiler è perché è pieno di citazioni, non della quarta ancora ma de "L'abominevole sposa" sì e, per non fare torto a nessuno, io avverto.
Per concludere, vi avverto che invece la dicitura Angst è più che motivata, se non vi piace il genere, sorry.
Per ultimo, il raiting è giallo perchè l'ambientazione e le situazioni sono pesanti, ma, nel caso io continuassi la storia, probabilmente il raiting salirebbe.
Bene, pippone finito. Buona lettura <3

 

Le conseguenze


John stirò la schiena portando le braccia sopra il capo, le giunture e la mente ancora intorpidite da una sonnolenza che quella mattina faticava ad abbandonarlo.

Riabbassò le braccia e si passò la lingua sulle labbra, sentiva la bocca pastosa e aveva sete. Corrugò la fronte e osservò la metà di letto vuota al suo fianco, storcendo il naso seccato scostò le coperte e fece scivolare le gambe fuori dalle lenzuola, rabbrividendo per il freddo improvviso e infilandosi in fretta le ciabatte per non gelarsi le dita dei piedi.

Una volta alzato non sprecò tempo, con rigorosi gesti militari riassettò le lenzuola e la trapunta, rimboccandole sotto al materasso come faceva con la branda in guerra, abitudine che Sherlock non era riuscito a fargli perdere, malgrado la profusione di lamentele - "John, trovo già difficile comprendere l'utilità del rifarsi il letto, ma mi spieghi perché dovresti rendere difficile il disfarlo, quando è stato fatto per quello?" -.

Solo dopo che il letto fu perfettamente rifatto e le imposte spalancate per lasciar entrare la lattiginosa luce invernale, John prese a scendere le scale stringendo la cintura della calda vestaglia in pile, sbadigliando sugli ultimi scalini a occhi stretti, la mano destra nascosta tra i capelli per grattarsi distrattamente la nuca.

Appena sceso in cucina venne investito dall'odore intenso del tè appena fatto e avvolto piacevolmente dal profumo caldo e forte del suo Alpha. Il suo Sherlock.

John si lasciò abbracciare da quella fragranza che sapeva di affetto, quotidianità, casa. Sherlock.

L'uomo dinoccolato gli dava le spalle, affaccendato ai fornelli e avvolto dalla sua vestaglia blu tutta stropicciata e che gli cadeva scompostamente da una spalla.

“Buongiorno,” finalmente Sherlock si voltò verso John che era invece rimasto sulla soglia a contemplare quello spettacolo arruffato e il Consulente si illuminò in un sorriso dei suoi, tutto denti, occhi stretti, rughette espressive in bella mostra e sbruffoneria.

“Tè?”

John ricambiò il sorriso, avvicinandosi al suo comagno che se lo strinse addosso e strofinò il naso contro il suo collo, aspirando forte e carezzando con il respiro quella parte delicata e sensibile dove si trovava la ghiandola dei feromoni Omega.

“Buongiorno, Sherlock. Il tè lo prendo volentieri.”

L'Alpha annuì piano, lasciandogli sulle labbra un bacio lieve e pruriginoso di barba non ancora fatta, poi si scostò per recuperare il bollitore dal fornello e riempire la tazza per John che la prese ringraziando.

Si sedette al tavolo invaso dagli alambicchi di Sherlock: “Greg si è fatto sentire?", chiese il soldato soffiando piano sulla bevanda. Sherlock accartocciò il viso, nascondendosi dietro la tazza dalla quale prese un lungo sorso di tè.

“No. Non credo che chiamerà, comunque.”

John alzò lo sguardo sul Consulente, corrucciando la fronte: “Lo hai fatto arrabbiare di nuovo? Cos'hai combinato questa volta?”

Sherlock abbassò la tazza, arricciando il naso con espressione teatralmente offesa.

“Io non ho fatto nulla, semplicemente Garretth non è importante.”

John sbatté le palpebre diverse volte, finendo poi con lo sbuffare.

“Greg, si chiama Greg e, per l'amor del cielo, smettila.”

Sherlock inclinò di lato il capo: “Di fare cosa?”

“Quella cosa!” esclamò l'Omega buttando le mani al cielo, “Il parlare per enigmi cosicché io sia costretto a chiederti spiegazioni, gonfiando il tuo già spropositato ego.”

Sherlock incrociò le braccia, stringendo la tazza per il manico sostenendola nel vuoto, sbilanciò poi il proprio baricentro all'indietro così da appoggiarsi con il bacino al bancone della cucina.

“Sei tu che mi fai parlare così John, io non centro proprio nulla.”

“Scusa?”

John con aria oltraggiata squadrò il compagno che invece gli restituì uno sguardo... Compassionevole.

Sherlock? Compassionevole?

“John, davvero non te ne sei accorto?”

“Sherlock, smettila e parla chiaro,” rimbrottò il soldato, agitandosi innervosito sulla sedia.

“Il tè, John. Gli odori.”

Il soldato abbassò lo sguardo sulla propria tazza.

“Cosa mi hai messo nel tè? Dovresti davvero smetterla di usarmi da cavia a mia insaputa.”

Sherlock sospirò.

“Io non ho messo nulla nel tuo tè. Tu guardi-”

“-ma non osservi. Grazie, lo hai già detto, più volte!”

“Vero. Ma, John, io non ti ho mai preparato il tè.”

John aggrottò la fronte, riflettendo. Non ci aveva pensato quando aveva trovato Sherlock in cucina, gli era sembrato un gesto così quotidiano e giusto... ma in effetti, se ci pensava davvero, non era mai accaduto prima.

“Emh... Grazie? Ti è venuto bene.”

“Diamine John, non te l'ho detto per farmi elogiare,” disse con tono lamentoso e infantile.

“... Io non capisco.”

Sherlock sospirò.

“John. Gli odori. Cosa senti?”

John inspirò a fondo, perplesso e insicuro.

“Il tuo odore, quello del tè, e... Sherlock, cosa stai facendo andare a male?”

“Concentrati sul mio odore, John.”

Quello era facile. Chiuse gli occhi e sorrise.

“Odori di buono. Di Alpha. Il mio Alpha.”

Sherlock rimase in silenzio, guardandolo intensamente.

“John, questo non è il mio odore. Tu non hai mai sentito il mio odore, hai sempre usato i soppressori.”

“Sherlock, cosa stai dicendo? Sono anni che non li uso.”

Sherlock si strofinò vigorosamente il viso con una mano, affranto.

“No, John, non hai mai smesso. Non mi hai mai rivelato d'essere un Omega.”

John si alzò in piedi, agitato, guardandosi attorno per capire se fosse tutto un brutto scherzo, se da dietro l'uscio sarebbe apparso Lestrade per deriderlo, o per qualche scommessa con Sherlock.

“Oh, John,” mormorò il consulente con tono triste per poi portarsi le mani giunte sotto al mento, come faceva quando entrava nel suo palazzo mentale e, per compiere questo gesto, lasciò la presa sul manico della tazza.

“Sherlock!” istintivamente John si lanciò in avanti nel tentativo di fermarne la caduta, ma a metà del movimento si bloccò... la tazza, a pochi centimetri da terra, si era fermata.

“Cosa-?”

Sherclock sospirò ancora.

“Il problema non è la caduta. Non è mai la caduta. È l'atterraggio. Lasciala andare, John. Lasciami andare.” [1]

John, a occhi sgranati, alzò lo sguardo sul suo Alpha che lo stava guardando in quel modo strano, compassionevole, uno sguardo così sbagliato.

“Sherlock, non sto capendo e mi stai spaventando.”

“Devi lasciarmi andare John, non puoi continuare così.”

“Basta Sherlock, mi sto arrabbiando. Smettila!”

“John lasciami andare. Non puoi cambiare le cose. Sono già atterrato, John. Mi dispiace. Non lo puoi fermare.”

“Sherlock?” la voce di John era insicura, traballante, tinta da una nota di panico quando fece un passo avanti verso il suo Alpha.

“John, resta dove sei. Esattamente dove sei. Ti prego.”

“Cosa-?”

Sherlock non era più di fronte a lui, ma lontano, non indossava più la vestaglia, ma era avvolto nel suo cappotto nero con il bavero e si ergeva in alto, in piedi sul cornicione del Barts.

Jonh sentì freddo, in piedi in mezzo alla strada, ora tra le mani non stringeva più la tazza ma il proprio cellulare, convulsamente, premuto contro l'orecchio.

“Mi dispiace, John.”

“SHERLOCK!” [2]

 


 

Si alzò a sedere di scatto, scalciando forte. Grondava sudore, sentiva il viso bagnato e il cotone del pigiama appiccicato alla schiena.

È l'atterraggio, John.”

No.

Il problema non è la caduta. Non è mai la caduta.”

No, non è vero.

È l'atterraggio, John. Lasciami andare.”

NO!

John nascose il volto nelle mani, il respiro grosso spezzato da rantoli soffocati.

“No. Nononono.”

Strofinò con energia il volto, come a voler spazzare via i pensieri, le lacrime, la pelle stessa.

 

È l'atterraggio, John.”

 

Abbandonò le mani facendole cadere in grembo e stringendo le lenzuola tra le dita. Di nuovo quel sogno...

Da mesi, quelle immagini lo perseguitavano.

L'incubo non era mai uguale, ma la dinamica sì: iniziava con quadretti domestici da libro Harmony mai accaduti, per poi ritrovarsi catapultato sotto al Barts, inerme nel guardare Sherlock spiccare il salto.

L'atterraggio però non lo sognava mai. Mai.

Lui non l'aveva nemmeno visto lo sfracellarsi del corpo di Sherlock contro l'asfalto, un ciclista di passaggio aveva scelto di privarlo di quella sfaccettatura.

John prese a stringersi forte le mani per fermare l'incontrollato tremore della sinistra e per tentare di cancellare la sensazione del sangue di Sherlock tra le dita.

Anche quella scena non la sognava mai, il... Dopo impatto. Il corpo di Sherlock scomposto come una bambola rotta, il liquido rosso scuro a imbrattare il marciapiede, la calca di persone terrorizzate tutt'intorno.

No, quella scena lo lasciava stare di notte perché lo perseguitava di giorno.

John scostò le lenzuola e buttò le gambe fuori dal letto, costretto a trascinare la destra tirando l'orlo del pantalone.

Si allungò a prendere il bastone posato accanto al comodino, poi dal cassetto estrasse un flacone arancione di pillole.

Se non si fosse sentito più vecchio, più stanco e dilaniato dal dolore, John si sarebbe potuto convincere di aver sognato gli ultimi due anni e d'essere appena tornato dall'Afghanistan.

Iraq o Afghanistan?” [3]

John strinse le palpebre trattenendo il magone e facendo forza, con fatica immane, per tirarsi in piedi.

Non aveva quarant'anni eppure sentiva il peso del tempo e delle membra come se ne avesse avuti il doppio.

Rifare il letto consistette in un gesto distratto che, almeno, portò le lenzuola a coprire sommariamente il materasso e parte del cuscino.

Lasciò le imposte chiuse, che erano tali da circa otto mesi, perché all'uomo sembrava troppo sbagliato lasciarsi circondare da luce e aria pulita.

Con lentezza esasperante John prese a scendere le scale, stringendo convulso il corrimano da una parte, il bastone dall'altra.

Un gradino alla volta.

Uno.

Alla.

Volta.

Eppure, malgrado la frustrazione e la stanchezza che questo rituale quotidiano richiedeva, John era rimasto nella sua vecchia stanza perché l'idea di prendere la camera di Sherlock, al piano inferiore, lo inorridiva. Non vi era più entrato e non aveva permesso a nessun altro di farlo, per cui era rimasta esattamente come era stata lasciata dal suo proprietario: la porta scostata, il letto sfatto, la vestaglia blu stropicciata e abbandonata a terra.

Come la camera, anche il resto dell'appartamento era rimasto quasi immutato: le due poltrone, lo smile sul muro, il teschio, il pugnale che teneva ferma posta di otto mesi prima, il violino sul davanzale della finestra, il microscopio in cucina.

Solo i pezzi di cadavere in freezer e la colonia di muffe sotto vetro erano spariti, probabilmente merito della signora Hudson, il cui zampino si poteva notare dalla mancanza di polvere sui mobili e dalla tazza di caffè ormai tiepido lasciato accanto alla poltrona di John, sulla quale il medico finalmente si sedette con un sospiro esausto, stanco; stanco come lo sarebbe stato dopo un caso da nove che aveva previsto almeno tre notti in bianco, un inseguimento e una colluttazione... Eppure, si era svegliato da nemmeno mezzora e già non ne poteva più.

Sorseggiò il caffè che era amaro e spiacevole sulla lingua, ma da quel giorno John aveva smesso di bere tè o di zuccherare il caffè.

 

Cos'è?”

Ti ho fatto il caffè.”

Non me l'hai mai fatto.”

Beh, l'ho fatto.”

Non devi continuare a scusarti.” [4]

 

John sospirò.

L'appartamento era diventato un mausoleo intoccabile, però la quotidianità di John era stata sfaldata: qualsiasi luogo, gesto o suono che potesse ricordargli Shelock era accuratamente evitato.

Una volta era scoppiato a piangere di fronte a un artista di strada che suonava il violino, anche piuttosto mediocremente a dire il vero, ma John non era riuscito a impedirsi di sognare, per pochi struggenti attimi, che da sotto quel cappello scuro comparissero due occhi chiari e un sorriso balordo.

Si sentiva morire ogni volta che pensava a Sherlock ma non poteva impedirsi di covare la segreta e delirante speranza che il consulente investigativo gli sarebbe comparso davanti un giorno, con il suo sorriso infame, insultandolo per la sua stupidità, probabilmente declamando un conciso: “Non sono morto." [5]

Avrebbe fatto un'entrata ad effetto da diva drammatica quale era, solo per stupirlo, perché Sherlock adorava stupire John.

 

Il medico strinse la presa sulla tazza e sul bastone, rendendo bianche le nocche.

Dopo altri due sorsi abbandonò il caffè sul tavolino, sgridandosi mentalmente per quel suo vizio d'indulgere in fantasie assurde e intossicanti.

Non gli faceva bene, lo diceva anche la sua analista.

Si alzò con fatica e si trascinò in bagno per lavarsi, vestirsi e, tentando di non sgozzarsi per colpa del tremore alle mani, radersi.

Riuscì a fare tutto nei tempi prestabiliti e senza ferirsi con il rasoio, piccoli segni che parevano preannunciare una giornata meno peggiore del solito.

Poté notare, dal finestrino del taxi che aveva fatto chiamare, che anche il cielo di Londra era meno.

Ormai era primavera.

 

✧»»———— ✼  ————««✧

 

Primavera, il che significava una lunga coda di pazienti con raffreddore da fieno. Una non troppo spiacevole variazione di tema rispetto i soliti problemi alla prostata o di emorroidi... Eppure non poteva lamentarsi troppo.

Che Sarah gli avesse fatto un ernome favore a riassumerlo in clinica era innegabile.

La giovane Beta gli aveva anche fatto l'immenso dono di fargli un contratto part-time ed era estremamente flessibile su orari, turni e assenze.

Il piccolo stipendio, unito alla pensione da vittima di dovere, gli permetteva di fare una vita decente.

Doveva anche ringraziare Mycroft che, senza dirgli nulla si era fatto carico della parte di affitto che sarebbe spettato a Sherlock, inoltre il servizio sanitario nazionale [6] gli passava i farmaci e quattro ore mensili dall'analista.

John non era sicuro che lo Stato fosse sempre così premuroso nei confronti dei suoi veterani feriti al fronte, ma il dottore aveva il sospetto che che ci fosse dietro lo zampino del maggiore dei fratelli Holmes, il quale era diventato inaspettatamente gentile - davvero inquietante, dal suo punto di vista.

Tutti erano, in realtà, inaspettatamente gentili con lui, cosa che lo mandava ai pazzi.

L'unica persona che non lo trattava come un fragile vaso di vetro era Mary, la nuova infermiera assistente della clinica.

La donna era un'A•lpha dalla parlantina sciolta ed efficace, era colei che aveva il colloquio preliminare con i pazienti, per poi indirizzarli dal medico giusto e si sorbiva tutte le beghe gestionali e la maggior parte delle lamentele dei malati, reali e immaginari. Con questi ultimi, aveva una vera e propria dote nell'inquadrarli e curarli magicamente, questo l'aveva resa la beniamina di tutti i dottori della clinica.

 

L'uomo di cinquantatré anni che aveva davanti, però, era un osso duro.

Era evidente che non avesse nulla di clinicamente dimostrabile, se non forse dello stress, ma aveva mandato Mary al diavolo in direttissima e si era infilato nel suo studio, lamentando dolori in posti impensati.

Era chiaramente un Beta con una certa insofferenza nei confronti degli Alpha, forse perché bistrattato sul posto di lavoro da colleghi di quel genere che approfittavano del loro status dominante, oppure figlio di un padre Alpha che per tutta a vita gli aveva rinfacciato che fosse nato Beta. Forse entrambe le cose, vista la sua cartella clinica.

Aveva fatto, in gioventù, un ragguardevole numero di visite al pronto soccorso per lesioni; tali visite erano iniziate dopo i quindici anni, età media in cui si rivela il genere di appartenenza.

Padre violento insoddisfatto del genere del figlio.

Le malattie immaginarie che stava sciorinando, invece, erano l'esempio lampante di come quell'uomo stesse disperatamente cercando una scusa per andare in malattia.

 

Ti ho insegnato bene, allora. [7]

 

John lo lasciò parlare, poi con tutta calma gli passò un biglietto da visita.

“Per i dolori alla testa, consiglio una buona dormita. E smetta immediatamente di bere caffè, il tremore alle mani inizia a essere preoccupante, rischia che diventi nevrosi.

Appena arriva a casa, chiami questo numero, è uno sportello di supporto per Beta e Omega che han difficoltà relazionali con gli Alpha. La indirizzeranno in maniera corretta su come gestire la situazione... Probabilmente la manderanno dal sindaca-”

Le parole del medico vennero interrotte da un vociare improvviso fuori dallo studio.

John, prima ancora che udirlo, lo percepì.

L'opprimente sensazione di ira gli fece scattare la testa verso la porta.

Alpha arrabbiato.

Alpha pericoloso.

Sottomettiti. Mostra il collo.

 

John sbatté le palpebre un paio di volte, scrollando le spalle per levarsi di dosso quella sensazione schiacciante.

Cosa stava succedendo?

Alzandosi in piedi, aprì la porta e la scena che aveva di fronte non era qualcosa che avrebbe voluto vedere.

Nella saletta principale della clinica, tutti i pazienti erano agitati e in piedi, schiacciati contro le pareti e si guardavano attorno in allerta.

Nel centro della stanza vi era una giovane coppia, un Alpha e un Omega, affiancati da Judith, la ginecologa dello studio.

La donna stava cercando di mettersi tra i due, strattonando la mano con la quale l'Apha stringeva un braccio del suo Omega che, a capo chino e collo proteso, piangeva in singhiozzi rumorosi.

 

“Dicevi che prendevi la pillola! Che non c'era pericolo!!”

 

L'Alpha nemmeno stava considerando di striscio la ginecologa, tutta la sua ira era diretta al compagno e urlava tanto forte da avere i tendini del collo tesi e il volto in fiamme, di un malsano colore rosso tendente al viola.

John si fece avanti immediatamente zoppicando appena, allontanando con ferma gentilezza Judith e parandosi di fronte all'Alpha.

“La prego di calmarsi.”

Il medico stringeva forte in una mano il bastone e nell'altra una spalla dell'uomo, in posa rigida e militare. Anche il tono usato era simile a un ordine impartito sul campo da guerra.

L'apha, però, un ragazzone molto ben piazzato, si innervosì maggiormente e, senza alcuna remora, gli assestò una sberla a mano aperta, che lo fece cadere violentemente di lato.

“Oddio!” urlò l'Omega, un lamento terrorizzato mentre fissava prima il dottore e poi la mano del compagno, la quale si era levata di nuovo in aria.

John, che non si era aspettato una reazione tanto violenta ed era stato colto impreparato, era intanto bocconi a terra, la gamba che doleva come non mai e la guancia in fiamme. Il caldo umidore ferroso che colava sul labbro superiore gli suggerì una generosa epistassi.

Allungò una mano verso il bastone, che era rotolato poco lontano, afferrandolo pronto per tirarsi di nuovo in piedi, l'adrenalina in circolo che sovrastava di gran lunga il dolore.

Eppure, non fece in tempo a mettersi a sedere in terra che venne presto affiancato dall'infervorato Alpha, che si ritrovò faccia a terra e un braccio piegato dolorosamente dietro la schiena.

Mary, china sull'uomo, lo teneva a terra efficacemente e gli stava sussurrando qualcosa all'orecchio.

L'uomo era sbiancato e, all'improvviso, tutta la tensione nella stanza scese.

Tutto fu silenzioso.

Mary lasciò andare l'uomo, che si rialzò lentamente massaggiandosi la spalla e a sguardo basso prese a scusarsi a mezza voce, mortificato.

Il compagno, che lo guardava con tanto d'occhi, se lo ritrovò in ginocchio di fronte, mentre lo abbracciava alla vita e implorava il suo perdono in lacrime.

L'Omega era evidentemente sorpreso, ma in breve tempo i due presero a tubare e se ne andarono dalla clinica confabulando di nomi da scegliere e colori per la cameretta da selezionare.

John, ancora a terra e completamente esterefatto si ritrovò una mano davanti al viso.

Alzando lo sguardo, ritrovò una sorridente Mary che, ammiccando, gli offriva aiuto per alzarsi.

John accettò con gratitudine, aiutandosi anche con il bastone raggiunse finalmente una posizione eretta.

Di nuovo in piedi, John battè velocemente le palpebre un paio di volte, guardandosi intorno con espressione confusa e Mary sostituì il sorriso con un cipiglio preoccupato.

“John, tutto bene?”

“Io... Io credo-”

“John!”

Grazie a dei buoni riflessi e alla stretta vicinanza, Mary afferrò l'ex militare prima che finisse di nuovo per terra a peso morto.

“Judith! Aiutami!”

Le due donne portarono di peso l'uomo svenuto dentro il suo studio, liquidando il malato immaginario che ancora stringeva il biglietto da vista, ora tutto stropicciato.

Sdraiarono John sul lettino per le visite, poi Mary mandò Judith a prendere una cioccolata per sé stessa e a rilassarsi dieci minuti: in quanto Omega, anche lei aveva avuto delle ripercussioni dopo quello che aveva appena vissuto, uno scontro tra Alpha era destabilizzante per un Omega non legato come lei.

Ascoltando la voce dei colleghi che, fuori dallo studio di John, riportavano l'ordine tra gli altri pazienti, si adoperò per cercare nei cassetti di John qualcosa per fermare il sangue che continuava a uscirgli dal naso, finché non gli capitò tra le mani un flacone arancione di pillole.

Con la fronte aggrottata ne lesse l'etichetta, poi sospirò: “Oh, John.”

 

 

[1] Questa frase è un miscuglio di roba che ho fatto io. Le frasi originali sarebbero:

“Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio” (apertura del film “La Haine”) e “Perché non è la caduta a uccidere, Sherlock. Voi più di ogni altro dovreste saperlo, non è la caduta. Non è mai la caduta. È l'atterraggio” (da “L'abominevole sposa.)

 

[2] Fedelmente riportata da “Le cascate di Reichenbach”

 

[3] Dubito fortemente ce ne sia bisogno ma, per amor di precisione, specifico che è la prima domanda che Sherlock rivolge a John in “Uno studio in Rosa”

 

[4] Questa scena arriva da “I mastini di Bskerville”, quando Sherlock usa John come cavia per vedere se era colpa dello zucchero nel caffè.

 

[5] Sì, sto deliberatamente citando la scena nel ristorante in cui effettivamente ricompare, all'inizio della terza serie.

 

[6] Non ho idea di come funzioni il servizio sanitario in Inghilterra, tanto meno come funzionino le pensioni d'invalidità o l'esercito... ho cercato un po' on line e ho messo insieme un paio di teorie. Spero di non essermi discostata eccessivamente dalla realtà.

 

[7] Purtroppo, quando scrissi questa citazione, non segnai quando viene detta e, porca miseria, adesso non me lo ricordo. Se qualcuno, con una memoria migliore della mia, dovesse ricordarselo, è caldamente invitato a farlo presente.

 
 
   
 
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