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Autore: Luxie_Lisbon    23/10/2018    1 recensioni
Nella clinica psichiatrica di Empty Soul si intrecciano le vite di: medici, pazienti, infermieri. Yuu Shiroyama non ama il contatto fisico, non ama il contatto, umano. Eppure è uno psichiatra, molto famoso. Che cosa accadrà quando capirà di essere innamorato di un suo paziente?
Genere: Angst, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Yaoi
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Eccoci qui con il capitolo iniziale... è uguale a quello che avete già letto, spero che vi piaccia rileggere la storia, ma cercherò di aggiornare una volta a settimana per darvi nuovi capitoli che non avete mai letto :) Buona lettura
 
..01..
Muse - Isolated System
 
Yuu
(The Psychiatrist)
Che cosa spinge una persona a ricercare il benessere dopo istanti di dolore, in cui tutto quello che vorresti fare è far sparire tutto quello che non ti fa sentire... bene.
Che cosa spinge una persona a chiedere aiuto ad un'altra, senza soffermarsi sul fatto che forse, anche quel confidente scelto in un momento di assoluta debolezza è alla ricerca spasmodica di un paio di ali.
Che cosa spinge una persona a gridare le proprie pene ad un'altra, rivelandosi debole e incapace, nel momento in cui chi ti ascolta vorrebbe soltanto portarsi le mani alle orecchie e non udire.
Mi sono sempre chiesto se tutti gli esseri viventi siano a conoscenza del fatto che esiste la compassione, la sincerità.
Rimango sempre piacevolmente sorpreso difronte al sorriso falso di un'anima che si immobilizza davanti a me, e quando la sfioro e quella indietreggia, vorrei dolcemente assaporare i suoi pensieri, come se fossero di puro piacere.
So che non è così, la maggior parte dei pensieri delle persone sono impuri, nessuno si concede un attimo di purificazione, le menti altrui sono contaminate.
La mia?
La mia è soltanto contraffatta.
Mi alzai dalla sedia di plastica verde dove ho trascorso almeno venti minuti riempiendo i miei polmoni di fumo e quando un piccolo essere scheletrico mi passò affianco fui costretto a spostare lo sguardo alla mia destra.
Ma certo, era quel ragazzo condotto qui dai genitori a causa della sua propensione all'autolesionismo, un autolesionismo radicato e originato dalla scarsa attenzione che gli viene dedicata.
<< Dottore>> sibilò quella creatura, sistemando il piccolo corpo accanto al mio, sollevando lo sguardo e sorridendo con le labbra ma non con gli occhi.
<< Jacob, dimmi>> sussurrai inginocchiandomi difronte a lui, dopo aver spento la sigaretta nel posacenere di vetro.
<< Questa mattina verranno a trovarmi i miei amici, e il mio psichiatra mi ha detto che posso stare un po' fuori prima di vederli. Non voglio che vengano qui, non voglio che mi vedano rinchiuso. Mi capisce vero?>> mi disse dopo aver lanciato uno sguardo alle mie spalle.
<< Certo Jacob, ti capisco eccome. Nemmeno a me piace molto la compagnia, ma rivedere i tuoi amici ti farà bene, ti aiuterà, fidati di me>> cercai di rassicurarlo ma il ragazzo scosse la testa, nascondendo le braccia dietro alla schiena.
<< Dottore, lei mi ha sempre detto che fare quello che ci si sente è la cosa migliore, non è così?>> disse poi, serio.
Annuii.
<< Bene. Allora io non vedrò i miei amici. Preferisco tornare nella mia stanza e dormire. Posso?>>
<< Beh Jacob, io non sono il tuo psichiatra, devi sentire che cosa ne pensa lui prima, poi potrai scegliere. Sei grande, puoi anche non vedere i tuoi amici oggi se non te la senti. Ma è per il tuo bene>> riprovai, guardandolo negli occhi.
Jacob abbassò il suo sguardo poi mosse un braccio e la mano destra sfiorò il mio camice, facendomi indietreggiare.
<< No, io non li rivedrò mai più>> disse poco dopo, a seguito di un lungo e doloroso silenzio, e quando tornò a nascondere le braccia dietro la schiena mi sorrise, dandomi le spalle e allontanandosi da me.
Seguii il movimento del suo esile corpo per pochi secondi poi portai una mano alla tasca dei pantaloni, estraendo una seconda sigaretta e portandola alle labbra.
Jacob mi aveva sempre dato da pensare, era un ragazzo stranamente devoto, attaccato alla religione in modo morboso.
Non riesco a capire perché abbia iniziato ad incidere la pelle delle sue braccia, il suo psichiatra non ha mai rivelato niente ne' a me, ne' agli altri medici, l'unica cosa che so è che ha tentato il suicidio tre volte.
La prima volta all'età di quattordici anni, la seconda a sedici, la terza a diciannove.
Adesso di anni ne ha ventuno.
Li avrà per sempre, perché Jacob morirà dissanguato nella sua vasca da bagno, quel bagno della sua camera, quella sera stessa, dopo essersi svenato con un rasoio rubato al vicino di stanza.
Morire dissanguato è sempre stato il suo più grande sogno, me l'ha rivelato lui stesso il giorno del suo compleanno, almeno quattro o cinque giorni fa.
***
La clinica psichiatrica Empty Soul è la mia seconda casa da quando avevo ventiquattro anni. Mio padre mi ha iscritto ad un corso di medicina e ad uno di psichiatria contro la mia volontà, sostenendo che l'unico modo che avevo di creare un valido futuro che mi trasmettesse qualcosa di reale era quello di intraprendere la strada della cura per le malattie psichiche. Lui mi ha sempre detto che al mondo oramai ci sono sempre più schizzati, testuali parole, depressi e così via, e che dovevo ad ogni costo studiare per riuscire a dare un senso alle loro miserabili vite.
Niente di più vero.
Anche se mi duole ammetterlo, mio padre aveva ragione.
Mi sono laureato almeno mezzo secolo fa, e nonostante la mia scarsa propensione verso l'aiuto al prossimo, sono entrato nella clinica Empty Soul con lo scopo di aiutare le persone.
Sostenere che odio il mio lavoro è fin troppo ironico ed insufficiente, mentirei se vi dicessi che amo quello che faccio. La realtà in cui sono costretto a vivere da cinque anni mi fa pensare che ho sbagliato ogni cosa, che le mie scelte sono state dettate da una scarsa fiducia in me stesso, perché ho sempre fatto quello che hanno voluto i miei genitori.
Mia madre, prima di morire, mi disse che loro avevano agito per il mio bene, rivelando la più falsa delle bugie. Mentiva proprio perché non ha mai agito con un fine onesto, il suo era soltanto un modo per sbarazzarsi di me e trarre beneficio dal mio lavoro e dai soldi che portavo a casa ogni mese, per aiutare lei e mio padre con le spese.
C'è una sola cosa che mi rende davvero felice del mio lavoro, la possibilità di studiare la mente umana e comprendere al meglio se la persona che ho difronte mente o dice il vero, onde evitare spiacevoli incidenti di percorso.
Quando rientrai nella stanza destinata alle pause di noi medici, lanciando uno sguardo all'insieme sbuffai.
L'imponente figura del caposala offuscò per un attimo la luce che proveniva dalla finestra, poi l'uomo mi diede le spalle per prendere una cartella clinica.
<< Shiroyama, eccoti qui. La tua pausa pranzo è finita da almeno cinque minuti, devi tornare a lavoro>> disse sorridendo in modo ironico, facendomi vorticare la testa dal nervoso.
<< Certo>> dissi poco convinto, sistemandomi il camice e incrociando le braccia.
<< Hai la visita al paziente della 107>> disse l'uomo sedendosi alla sua scrivania, iniziando a battere a computer una delle sue tante tesi.
Quando udii quel maledetto numero lanciai la testa all'indietro, socchiudendo gli occhi.
Nella stanza 107 abitava nel vero senso della parola un depresso, un uomo di cinquant'anni che trascorreva la maggior parte delle ore della giornata o disteso a letto o seduto sul pavimento a fissare il muro.
<< Va bene>> dissi muovendomi lungo la stanza, dando le spalle al medico che sollevò la testa dalla tastiera per guardarmi uscire, poi tornò a scrivere una lunga lettera all'amante.
La scusa della tesi fregava sempre gli altri ma non me, un esperto del linguaggio del corpo.
Uscendo dalla 107 provai un crescente senso di sollievo, riflettendo sul fatto che non mi pagavano abbastanza per quel lavoro.
Chi mi assicurava che una volta uscito da lì avrei mantenuto la mia sanità mentale.
Avanti, non prendiamoci in giro, tutti i medici che hanno a che fare con casi psichiatrici alla lunga ne possono risentire, arrivando addirittura ad affezionarsi ad un paziente piuttosto che ad un altro, rivelando una debolezza di fondo, che non dovrebbe mai sorgere, non in circostanze come queste.
Quando superai il primo corridoio, svoltando poi a destra, mi soffermai a pensare che il mio turno non poteva ancora ritenersi concluso, c'era ancora un'ultima cosa da fare prima di staccare.
Dovevo controllare l'epilettico.
I pazienti che avevo in cura personalmente, sostenevano che il ragazzo rinchiuso nella stanza 103 fosse timido, impacciato e poco sicuro di se, e nonostante tutti i tentativi degli altri medici di farlo parlare, di permettergli di aprirsi con le altre persone, lui aveva sempre rifiutato qualsiasi contatto di ogni genere. L'unica persona con cui si confidava ero io, proprio perché dovevo ascoltare i suoi assurdi discorsi, le sue dicerie, le sue chiacchere senza senso, controllare che non avesse alcun attacco epilettico e riferire quello che mi aveva detto al suo psichiatra.
Quel ragazzo disturbava il mio essere, mi obbligava ad avere dei dubbi riguardo alla mia freddezza, al mio distacco, perché anche se faticavo ad ammetterlo a me stesso, quel ragazzo mi interessava.
Quando arrivai davanti alla porta della stanza numero 103, abbassai con decisione la maniglia, spingendo la porta e aprendola, cercandolo con lo sguardo.
Kouyou Takashima era comodamente seduto sul suo letto, le gambe incrociate, un libro tra le mani, un paio di occhiali da lettura. Quando avvertì il movimento distolse lo sguardo dalle pagine per indirizzarlo su di me.
<< Buon pomeriggio Takashima>> dissi senza sorridere, incrociando le braccia e guardando il suo corpo. Quel corpo che veniva sempre attraversato da continue scariche elettriche.
<< Buon pomeriggio dottore>> mi salutò lui tornando a leggere, ma captai, dal movimento del suo corpo un leggero nervosismo.
Quando mi mossi per andare verso di lui, Kouyou rabbrividì, restando per troppo tempo sulla stessa pagina.
<< Mi dispiace interromperti nella lettura, ma devo visitarti>> dissi scostando le tende grigie per far entrare un po' di luce del sole. Kouyou chiuse con uno scatto il libro, adagiandolo tra le lenzuola.
Nel leggere il titolo del volume sorrisi. "Il ritratto di Dorian Gray"
<< Le piace Wilde?>> chiesi senza pensare, portando le mani al collo e sfiorando lo stetoscopio che portavo sempre con me. Il ragazzo annuì, sorridendomi lievemente ma non aggiunse nulla, si limitò a darmi le spalle, sfilarsi la giacca nera per permettermi di visitarlo e tremare.
Nell'udire il battito del suo cuore avvertii una strana sensazione che mi fece provare vergogna nei confronti di me stesso e quando mi scostai da lui per prescrivere il suo abituale farmaco, Kouyou mi guardò a lungo, quasi volesse spogliarmi dei miei abiti con gli occhi.
Ci guardammo a lungo, nessuno dei due distolse lo sguardo, poi lentamente mi mossi lontano da lui, rimettendo lo strumento medico al suo posto, attorno al mio collo. Non so perché il pensiero mi attraversò la mente ma assomigliava un po' troppo ad un cappio.
<< Non ha più avuto attacchi vero signor Takashima?>> gli chiesi dandogli le spalle, scrivendo sul blocco che portavo sulla tasca davanti del camice alcuni appunti riguardo la visita.
<< Non che io ricordi dottore. L'ultimo attacco epilettico è stato quello di settembre>> mi disse Kouyou e avvertii il movimento del suo corpo. Nel voltarmi lo vidi in piedi davanti al letto, le dita intrecciate, gli occhiali adagiati sul naso. Stavano per scivolare così, senza pensare glieli sistemai, sfiorando la sua pelle.
Kouyou rabbrividì, restando immobile davanti a me e guardandomi negli occhi.
<< Molto bene. Dovrà assumere il farmaco che gli ho prescritto soltanto due volte al giorno. In caso di malessere potrà fissare un nuovo appuntamento con me e decideremo se continuare la cura o passare ad un farmaco più leggero>> dissi tornando a non guardarlo, anche se avrei voluto farlo con tutto me stesso.
Kouyou non disse una parola, si limitò ad annuire.
<< Bene signor Takashima. Adesso me ne vado. Sa dove trovarmi se dovesse aver bisogno di me>> dissi, per poi allontanarmi dal suo corpo.
Kouyou mi guardò a lungo, poi tornò a sedere sul letto, riprese il suo libro e tornò a leggere, nascondendo il volto dietro ai capelli castani e continuando a sistemarsi gli occhiali.
Il linguaggio del suo corpo mi dimostrò una teoria che non avrei mai voluto teorizzare.
Era a disagio.
Quel tipo di disagio, il disagio che si viene a creare quando una persona che ha catturato il tuo interesse, si allontana da te dopo averti dato il permesso di invaghirsi di lei.
L'unica cosa da fare in questi casi era stare lontano da quel paziente.
Avrei chiesto al suo psichiatra di occuparsi personalmente delle cure di Kouyou.
Takashima soffriva di epilessia, che l'aveva costretto a trasferirsi nella clinica per poter essere seguito 24h su 24h, 7 giorni su 7, a tempo pieno.
È un ragazzo fragile, ad ogni attacco epilettico il suo corpo si svota, l'anima si disintegra e trascorrere ore ed ore disteso sul pavimento, a fissare il nulla, dondolandosi avanti e indietro.
Lui è in grado di vedere cose che puntualmente racconta al suo psichiatra ma che nessun medico ne famigliare è tenuto a sapere, perché Takashima non vuole far sapere a nessuno che cosa si nasconde nella sua testa.
***
A fine giornata rientrai nel mio appartamento.
Noi medici avevamo la possibilità di abitare negli appartamenti poco lontani dalla clinica, e per comodità aveva scelto di usufruire della loro presenza.
Nel sfilarmi il maglione nero provai un senso di sollievo appagante, che mi fece sospirare con forza.
La mia maledetta giornata in mezzo al dolore altrui era finalmente giunta al termine, la mia piccola oasi di benessere poteva durare si e no qualche ora, dovevo trarne vantaggio.
Dopo una lunga doccia calda mi rifugiai in salotto e mi concessi una lunga sessione di addominali. Concentrato negli esercizi, nell'avvertire i muscoli contrarsi e allungarsi provai un dominante senso di appagamento, che mi permise di concentrarmi su me stesso.
Tutto quello che mi concedevo prima di dormire mi rendeva felice. Una doccia, una serie di addominali steso sul pavimento, una sigaretta seduto sul divano, un momento intimo dedicato alla masturbazione.
Nell'accarezzare il mio corpo la mia mente vagava, ripensando a tutte le donne con cui ero stato, a tutti i ragazzi che avevano gioito nel darmi piacere al tempo delle scuole superiori, ai mille orgasmi che avevo finto di avere per rendere più felice il mio partner di turno.
Per la prima volta, quando le mie dita sfiorarono il mio petto per poi scendere lungo l'inguine pensai al paziente della 103.
Sbattei più volte le palpebre, visualizzando davanti al volto i capelli castani di Kouyou, le sue labbra piene e le mani delicate, quelle mani ancorate ai capelli, le dita piegate in modo innaturale, simili ad artigli sulla schiena.
Non mi resi nemmeno conto del mio respiro, divenuto molto più irregolare, della mia mano che iniziava lentamente a scivolare sempre più in basso. Quando le mie dita indugiarono iniziai a pensare di essere uscito di senno. Non mi ero mai permesso di pensare a nessun'altra persona nella mia vita, non dopo essere stato tradito, ma il solo ripensare al volto di Kouyou distrusse per un attimo i miei ideali.
Decisi di non lasciarmi andare alla lussuria, lasciando ricadere la mano tra le lenzuola e chiudendo gli occhi, cercando in tutti i modi di non pensare.
Fu inutile perché nell'esatto momento in cui iniziai a perdere conoscenza, gli occhi di Takashima presero possesso del mio inconscio e sognai il suo volto per tutta la notte.
***
 
 Blue Foundation - Eyes On Fire

Il giorno dopo...

Akira
(The Unreal)
Dolci delicati istanti di realtà.
Mi mancano terribilmente.
Molti dicono che la mia testa abbia qualcosa di difettoso, qualcosa che mi spinge a considerare le pareti di una stanza inesistenti, o troppo allargate. È come se le persone che mi circondano fossero munite di fili, tanti piccoli fili che permettono loro di muoversi. Tutte le persone sono marionette, gusci vuoti, senza anima ne' cuore.
E tutto questo mi fa terribilmente paura.
Quella Paura, la paura dell'irrealtà.
È tutto così dannatamente ingiusto a questo mondo.
Avevo quattordici anni quando mi accorsi per la prima volta di vedere cose che gli altri ragazzi della mia età non erano in grado di vedere, cose che mi trasmisero un terrore recondito.
Era tutto così dannatamente sbagliato, io non avrei mai dovuto venire al mondo, non per essere poi rinchiuso.
Tracciai una linea netta sul nuovo foglio da disegno, lasciando che le mie gambe scivolassero nel vuoto. Lentamente portai la testa sul tronco dell'albero dove ero seduto, chiudendo gli occhi e cercando di ricordare che cosa fare nei momenti in cui tutto il mondo mi urlava contro la sua Ira.
Avvertivo nel petto la Paura, ma nell'esatto momento in cui ci pensai, provai un desiderio recondito di punirmi, perché il solo essere colpevole di provare paura non era sufficiente.
Provai di nuovo a mettere su carta quello che vedevo nella mia mente ma la graffite era troppo chiara, la luce era abbagliante e le immagini erano fin troppo distorte per essere rappresentate.
<< Akira >>
Qualcuno chiamò il mio nome, facendomi aprire gli occhi lentamente, adagiare il blocco sulle gambe e scendere con un balzo dall'albero.
Due infermieri mi aiutarono a raggiungere la porta d'ingresso, adagiando le dita delle mani sulle mie braccia.
Quando cercai di oppormi, l'infermiere più giovane le fece scivolare lontano da me, e subito dopo il suo collega lo imitò, staccandosi dal mio corpo.
Bastava così poco per porre fine a tutta la mia Paura, ma io non volevo rivivere quei momenti in cui la realtà mi abbagliava per pochi istanti, per poi lasciare spazio di nuovo all'irrealtà.
<< Oh, uno nuovo >> disse il ragazzo accanto a me, e quando non mi mossi, restando immobile a guardare quello che stava indicando sia a me che al collega, lui mi guardò, con attenzione.
Una macchina nera, lucente, quel tipo di luce buona, fece il suo ingresso nel giardino della clinica.
Silenziosa, sicura di se.
Quando accostò a fianco di un'ambulanza trattenni il fiato, cercando di muovermi per poter guardare meglio ma il mio corpo non obbediva alla mia testa, come tutte le volte che provavo a riflettere con la Paura nel petto.
La portiera del passeggero si spalancò e fu allora che una folata di vento gelido che potei avvertire soltanto io mi fece rabbrividire.
Prima che potessi impedirlo i due infermieri mi scortarono dentro alla clinica, non permettendomi di vedere al meglio. Tutto quello che vidi fu soltanto una testa piena di capelli biondi.
Quella testa però non faceva parte del gruppo di marionette manovrato dal Mondo esterno, non faceva parte dell'irrealtà.
Era Reale, reale quasi quanto me e quando mi resi conto dell'esistenza di quel pensiero mi sentii dannatamente colpevole, di nuovo.
Niente poteva annullare il muro d'irrealtà che mi opprimeva, in cui ero rinchiuso da anni, da quando tutto in me aveva subito modifiche, gettandomi in un costante sentimento di paura angosciosa. Una paura di una disgrazia, una disgrazia imminente, che non si era ancora manifestata.
Soltanto io avevo le risposte, cercavo da sempre di rendere partecipi gli altri della mia paura per sentirmi meno solo.
Perché nella mente di uno schizofrenico la non comprensione della paura aumenta la paura.
Nella mia mente di schizofrenico c'era soltanto... vuoto.
 
Bene, il capitolo è finito, abbiamo conosciuto i nostri personaggi principali, ma manca ancora qualcuno, lo so che sapete chi :P Spero che il capitolo vi sia piaciuto, mi era mancato postare le mie storie qui. Sto lavorando ad una storia inedita (anche se per ora è soltanto nella mia testa) che spero di postare molto presto :) Grazie di essere arrivate/i sino a qui, vi voglio bene <3
Vostra Luxie
  
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