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Autore: The Custodian ofthe Doors    30/10/2018    5 recensioni
[Storia interattiva| Deathfic!| Ready? Start!| Iscrizioni chiuse]
In un epoca sorprendentemente di pace, quando nulla turba l'equilibrio del mondo e dell'umanità, il pericolo più grande non è altro che la noia di coloro che hanno e possono tutto.
*
“ Problemi in Paradiso?”.
*
Il foglio volteggiò lento nell'aria densa delle Praterie degli Asfodeli, lì dove sorgeva il muro che li divideva dai Campi di Pena.
L'anima guardò altri fogli colorati svolazzare oltre quelle alte mura scure, caduti dal cielo, forse da quello vero e non dalla volta rocciosa che faceva loro da soffitto.
*
E se è la vita dei loro figli quella che gli dei vogliono veder in gioco, non vi sarà nessuno che potrà impedirlo.
*
“Riuscirai a “sopravvivere”? Sarai in grado di ingannare Thanatos?
Questa è la sfida della morte.
Questa è la Death Race.”
Genere: Avventura, Azione, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Altro personaggio, Gli Dèi, Nuova generazione di Semidei, Semidei Fanfiction Interattive
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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III- Ticket.

 

 

 

C'era una piccola folla di anime che si agitavano inquiete ed emozionate davanti ai portoni chiusi dei Capi Elisi.
Se in quel luogo di pace fosse sorto e tramontato il sole tutti avrebbero saputo che ben cinque giorni erano passati da quando degli spiriti al servizio di Ade avevano lasciato cadere come pioggia i volantini in giro per l'Inferno.
Tra tutti i presenti vi era chi avrebbe partecipato alla Death Race e chi invece era solo lì per augurare buona fortuna ad amici e cari e sbirciare un po' di quel mondo fumoso che si nascondeva dietro i portoni e che molti di loro neanche ricordavano più.
Di solito erano solo le entrate laterali quelle che venivano aperte, ma per la grande occasione sarebbe stato spalancato il cancello centrale.
O almeno così si credeva.
Davanti al gabbiotto del venerabile Shilon Yu la lunga fila dei partecipanti procedeva a rilento, mentre al suo interno l'anima dell'ex Guardia Imperiale controllava nomi, arrivi, morti e cause di queste. A quanto pareva ai Campi Elisi era stato assegnato un solo controllore, ma si vociferava che per le Praterie erano stati chiamati figli di Ade stesso passati a miglior vita, uniche anime in grado di muoversi in mezzo a quei luoghi di perdizione senza dimenticare a loro volta chi si era. Loro o figli di altri Dei che con la morte avevano fin troppo a ché fare.
Certo, c'era chi giustamente si domandava in quanti nelle Praterie avrebbero accettato la sfida: non ricordavano neanche il loro nome, come potevano decidere di tornare a vivere? Per cosa lo facevano? Non avevano più neanche uno straccio di memoria.
Ma se in tanti si chiedevano ciò, molti altri erano interessati a tutti coloro che invece erano relegati entro delle mura proprio come loro. Solo che le mura in questione erano nere, grezze, minacciose e sormontate da filo spinato e le anime che vi abitavano si erano macchiate delle peggiori nefandezze. Alcuni credevano che chi si trovasse lì dentro non meritasse un'opportunità del genere ma c'era chi ribatteva dicendo che, infatti, a presiedere le iscrizioni nei Campi di Pena sarebbe stata proprio una divinità.
Le scommesse erano aperte ed i più gettonati erano: Ade stesso, per cui si avevano dei dubbi perché al dio non piaceva sporcarsi le mani. Thanatos, ma essendo il dio della Morte magari era un po' occupato a gestire tutta la gara per potersi mettere a controllare una ad una le anime. Ipnos anche era in lizza, solo che con lui le anime temevano che le iscrizioni sarebbero andate all'infinito.
Magari avrebbero chiamato altri semidei, magari quel sadico di Ares, speravano tutti di no o il dio della Guerra avrebbe selezionato solo i più terribili ed efferati criminali della storia del mondo. Ci sarebbe stato di che divertirsi, su questo non c'era dubbio, ma sarebbe stato uno scontro un tantino troppo cruento.
Su chi potessero essere i primi giudici, quindi c'era un gran parlare a tutti aspettavano il momento in cui sarebbero arrivati i primi risultati della convocazione.
Quali erano poi i requisiti per poter esser ammessi? Da quel che diceva il volantino tutti potevano partecipare ad eccezione fatta di chi risiedeva nelle Isole dei Beati. Si presupponeva quindi che le liste sarebbero servite solo ed unicamente per avere un conto e un nome da associare ad ogni singola anima.

Uno dei due portoni laterali cigolò aprendosi lentamente e vi entrò un intero squadrone di scheletri vestiti da operai, con tanto di caschetto giallo e simbolo di Ade stampato in fronte. Sulle loro salopette nere la scritta bianca “ SPIRA”, ovvero Stazione Principale Iris-Radiofonica dell'Ade.
Gli scheletri trasportarono nei Campi Elisi grandi travi scure e pacchi trascinati su carrelli automatizzati Efesto ep, l'industria primaria di automi e marchingegni divini.
Qualche tempo prima anche Apollo aveva cercato di metter su la sua impresa di costruzioni, di mezzi veloci per la precisione, ma tutte le macchine da lui prodotte avevano il brutto vizio di prendere fuoco e puntare dritte verso il Sole, oltre che seguire la sua orbita.
Quell'anno sciagurato i mortali avevano dato fuori di testa, terrorizzati dallo sciame di meteore che si stavano abbattendo sul pianeta. Chissà come l'avrebbero presa se avessero saputo che i loro terribili frammenti rocciosi spaziali erano in realtà costose autovetture mal programmate.
Probabilmente non molto bene.
Le anime lì riunite osservarono con interesse il montaggio di quello che, apparentemente, sarebbe stato un enorme schermo che avrebbe permesso di seguire la gara in diretta costante.
Ùranus fissò gli scheletri discutere muti, vedeva le loro mascelle aprirsi e chiudersi, cigolare come se stessero parlando davvero, muovere le bianche ossa con veemenza l'uno contro l'altro quando si intralciavano a vicenda o rimanevano ingarbugliati nei fili che uno scheletro dall'enorme pettinatura afro stava stendendo a terra, del tutto incurante del disturbo creato ed isolato dal resto del mondo da delle enormi cuffie arancioni.
La prima domanda che gli sorgeva spontanea era: Ma uno scheletro può sentire la musica?
La seconda: Quindi quelle sono le famose “cuffie”?
E per finire: ma a che servono quei fili?
Probabilmente se fosse riuscito a beccare qualcuno dei suoi vicini di casa, di quelli nati negli ultimi decenni, o almeno nel secolo passato, si sarebbe potuto far spiegare molte cose, ma al momento l'unica cosa che riusciva a fare era osservare quegli individui – poteva chiamarli così?- montare una lastra nera gigante su delle travi così grandi da poter sorreggere il cancello d'entrata dei Campi.
La fila davanti a lui era ancora lunghissima, forse avrebbe dovuto decidersi prima ad andare al punto di ritrovo, ma aveva avuto molto di cui pensare.
Si voltò alle sue spalle per scorgere la fine di quella fiumana di anime che come lui attendevano, alcuni calmi nella loro morte, altri impazienti nel tentare di tornare in vita.
Ci stava riflettendo ancora, ad onor del vero, su cosa lo avesse spinto a presentarsi, a credere che potesse esser lui il fortunato vincitore di quella gara. La verità, purtroppo, era che ancora non lo sapeva e vedere così tante persone decisamente più sicure e agguerrite di lui lo metteva leggermente in ansia.
Una strana sensazione si fece spazio nel suo inesistente corpo, come un vecchio ricordo, un eco lontano che gli suggeriva cosa stesse succedendo.
Ùranus si mosse a disagio sui piedi malfermi, mentre quello stato di turbamento si faceva largo in lui sino a straripare dagli argini come una diga.
Vicino a lui anche le altre anime cominciarono a guardarsi attorno come alla ricerca di qualcosa, le vedeva battere le palpebre e cercare di mettere a fuoco, scuotere la testa e tornare a concentrarsi sull'attesa che lì aveva impegnati sino ad ora. Ma erano inquiete tanto quanto lo era lui, forse riuscivano a sentire la sua ansia, forse riuscivano a fiutarla come un potente feromone, come animali a caccia.
Deglutì a disagio, torturandosi le mani e giocando con le pellicine che gli si erano alzate attorno al pollice. Un morto poteva aver problemi di cuticole? Evidentemente sì perché lui ne aveva eccome.
Fissò quei piccoli brandelli di pelle, ostinandosi a non alzare la testa e controllare se qualcuno lo stesse fissando, se se ne fossero accorti oppure no. Probabilmente sì, decisamente sì. Sentiva lo sguardo di quelle anime su di lui, che lo fissavano e non voleva, non voleva proprio vedere i loro volti.
Qualcuno uscì dalla fila, sentì un paio di anime borbottare qualcosa ai loro conoscenti, giustificazioni per andarsene di lì perché stavano aspettando troppo, perché alla fin fine non erano dei combattenti e sapevano di non potercela fare, perché al massimo sarebbero rinati proprio e poi lì non si stava così male. C'erano squittii sorpresi, altri sconcertati, gente che sudava freddo ed Ùranus lo sapeva, lo sentiva.

<< Tutto bene?>> la voce delicata e tentennante di una donna lo costrinse a voltarsi.
Dietro di lui, avanzando forse per via di quelle anime che avevano dato forfait, c'era una giovane di forse una ventina d'anni. La carnagione olivastra era sbiadita dalla morte, da quel velo fumoso che avvolgeva un po' tutti loro e rendeva ogni colore più delicato, meno violento, come se fossero costantemente immersi nella calura estiva. Persino gli occhi verdi della ragazza parevano troppo chiari, tendenti ad una sfumatura che Ùranus aveva scorto solo di sfuggita nelle pietre incastonate nei preziosi gioielli di ricche nobildonne.
Aveva un aspetto grazioso, pareva una persona buona a primo sguardo ed i capelli biondi, corti sino alle guance le davano un'aria sbarazzina. Ad essere onesti li teneva in un taglio molto strano, pareva quasi che un tempo fossero stati più corti e che poi la ragazza li avesse lasciati crescere così, come capitava, un po' come faceva spesso lui in vita, prima che sua madre lo acciuffasse e gli desse una sistemata.
Quel vago ricordo lo fece sorridere, sentì la tensione allentarsi dentro il suo corpo, la schiena rilassarsi e quel groviglio di muscoli tesi sciogliersi.
Annuì educato e si schiarì la voce.
<< Sì, solo un po' d'ansia. Come tutti… credo.>> finì tentennante.
La giovane continuò a guardarlo con attenzione, quelle iridi sbiadite come le acquamarina di un diadema visto una vita fa lo scrutavano in cerca di qualcosa che Ùranus non poteva vedere.

Ringraziando il cielo.

<< E... mh, voi? State bene?>> maledisse quel tono incerto che gli era uscito fuori, mentre l'altra si scuoteva dal suo torpore e s'affrettava a restituirgli il sorriso.
<< Oh sì, perdonami. Solo che per un attimo… ti sembrerà assurdo, ma per un attimo ti ho scambiato per una mia vecchia conoscenza.>>
Il ragazzo annuì tirato. << Capita quando c'è una tale fiumana di anime.>> intrattenere conversazioni non era mai stato un problema prima d'ora, era pur sempre una persona educata, eppure si sentiva a disagio a parlare con quella giovane, forse perché temeva di sapere per quale motivo l'avesse scambiato per qualcun altro e se ne dispiaceva non poco.
Si mise dritto con la schiena, schiarendosi la voce e porgendole la mano.
<< Il mio nome è Ùranus, posso chiedere il vostro?>>
Gli occhi della ragazza scintillarono divertiti. << Piacere di conoscerti, Ùranus. Io sono Elena, ma se sarai così gentile da darmi del tu preferirei essere chiamata solo Lea.>>
Sorrise imbarazzato. << Come preferite, signorina Lea.>>
 

 

Elena guardò il giovane davanti a lei e decise che doveva aver all'incirca la sua stessa età, anche se con quell'espressione bonaria e spaurita lo avrebbe potuto tranquillamente classificare come più piccolo.
Povero ragazzo, chissà com'era morto… non si azzardò comunque a chiederlo, aveva imparato che molte anime, malgrado si meritassero a pieno diritto i Campi Elisi, fossero estremamente suscettibili sulle cause e le modalità della propria morte.
Anche se aveva un così alto livello di sensibilità verso quei suoi pari, Lea non era proprio riuscita a far a meno di avvicinarsi ad Ùranus – ironia della sorte?- e chiedergli se stesse bene.
Le anime di solito di questi problemi non ne avevano, o lei a quell'ora non avrebbe preso in considerazione l'idea di partecipare da una “Gara della morte” per poter tornare indietro ed avere un'altra possibilità, sarebbe stata completamente appagata dal suo lavoro.
Dopotutto erano già morti, non poteva mica perder qualcuno.
Ma così non era stato, si era dovuta metter in coda ad attendere il suo turno da Shilon Yu e quando aveva cominciato a veder le persone allontanarsi dalla fila, accampando scuse di ogni genere, si era incuriosita, aveva allungato il collo e maledetto quei capelli mal tagliati che si ritrovava per tutte le volte che gli andavano a finire davanti agli occhi. Così si imparava a tagliarseli da sola, c'erano centinaia di esperti in quelle mura e lei si improvvisava barbiere e faceva i danni che aveva fatto. Era stata solo una fregatura ed una noia e poi aveva trovato ciocche di capelli sparsi per la casa per giorni.

E lei lo sapeva quanti giorni erano passati perché andava all'entrata a chiederlo ogni singolo giorno.

Poi, mentre si lamentava tra sé e sé dalla sua geniale idea e di come le sarebbero ricresciuti male, un paio d'anime davanti a lei si erano spostate e tra di loro, in uno squarcio tra i corpi dei due, aveva intravisto qualcosa che l'aveva fatta raggelare.
Era di spalle ma non aveva avuto il minimo dubbio su chi fosse, aveva chiesto permesso e si era introdotta a forza tra i suoi predecessori. Questi non avevano fatto la minima replica, anzi, se ne erano andati anche loro, pallidi ed inquieti più di quanto la morte non li avessi sempre resi.
Non si era neanche accorta di aver marciato verso di lui e poi… poi arrivata lì le era bastato un battito di ciglia e la capigliatura nera che aveva avvistato si era palesata come una massa di fili ramati, lunghi e mossi, tenuti legati in un codino di fortuna dietro la nuca.
Si era resa conto che quelle spalle erano troppo ampie e quelle braccia troppo muscolose. Tutta la fisionomia era sbagliata eppure quel gigante che tanto l'aveva allarmata pareva del tutto inoffensivo, mentre a testa bassa si massacrava le mani grattandosi le pellicine con le unghie corte e mangiucchiate.
Aveva scorto la fronte alta coperta da qualche ciuffo scappato alla coda, le sopracciglia chiare, rossicce come la barba che sfiorava gli zigomi, come le leggere efelidi che gli coprivano il naso dritto. Gli occhi azzurri erano stati l'ultima conferma e Lea si era data della stupida.
Non era lui, ovvio che non lo fosse.
Se avesse dovuto dire cosa aveva provato nel fare quella realizzazione non avrebbe saputo dar risposta: da un lato il sollievo, l'immagine orribile cancellata dalla sua mente; dall'altra la delusione di non averlo rivisto entro quelle mura.
Si era riscossa da quei pensieri e non era riuscita a non intervenire, a non mettere un freno a quella tortura apparentemente ingiustificata. Va bene l'ansia e tutto, ma alla fine erano morti, cosa gli sarebbe potuto succedere se non avesse vinto? Cosa aveva da temere quel giovane?
A parlarci, ora come ora, si ripeteva che era stata davvero sciocca a scambiarlo per qualcun altro e che trovava molto divertente il suo modo di parlare.
Riconosceva un vago accento del nord, no, non il suo nord, era lei il suo nord; quello che Lea riconosceva era un timbro anglosassone, lontano miglia e miglia dalla sua città, ma anche lontano da quella Londra che le era sempre parsa irraggiungibile. Era un accento più cupo, più aggressivo, sebbene proferito da quelle labbra non sembrasse altro che la voce di un orso che tenta di parlar educatamente.
Sì, l'anima davanti a lei doveva essere Britannica, forse persino Scozzese. Anche se lei uno scozzese lo aveva incontrato e forse neanche quella era la patria giusta del giovane.
Gli sorrise ugualmente e accettò la sua mano, per poi tenergliela stretta e chiedergli con gentilezza:

<< Posso?>>
Il ragazzo la fissò senza capire e Lea gli sorrise divertita.
Tenne la grande mano dell'altro nella sua, piccola e delicata a confronto, e vi passò l'altra sopra, con attenzione, mormorando parole provenienti da una vita prima, così lontana che credeva persino di aver dimenticato.
Non vi furono scintille o luci colorate, Ùranus avvertì sicuramente il leggero calore che quella presa emanava e Lea si ritrovò a sorrider ancora di più, soddisfatta dello sguardo stupido con cui il ragazzo fissò la sua mano.
Le pellicine e le cuticole maltrattate erano ora nuovamente al proprio posto e Lea sentì una botta d'orgoglio gonfiarle il petto: da quanto tempo era che non aiutava più nessuno? Davvero molto, troppo.

<< Così non va meglio? A me le pellicine bruciano parecchio. O almeno lo facevano quando ne avevo. Bruciano ora?>>
 

Ùranus batté le palpebre sorpreso: lo aveva davvero curato? I morti potevano essere curati? Come aveva fatto? Quella era magia… la ragazza era forse come lui?
Annuì comunque, sorridendole timido. << Sì, vi ringrazio molto.>>
La ragazza sbuffò ed una ciocca bionda le saltellò sul volto. << Non avevo detto di darmi del tu?>>
Un calore molto simile a quello che aveva sentito prima sulla pelle lo colse questa volta sulle guance. Diamine, stava arrossendo? Continuava a farlo anche da morto?
Sua madre gli diceva sempre di comportarsi bene, di aver rispetto delle altre persone e anche delle loro parole, specie se si trattava di signorine. Così, esattamente come la donna gli aveva insegnato, sorrise ed annuì.
<< Giusto. Chiedo scusa, Lea, e grazie per avermi aiutato.>>
L'espressione della ragazza valse quel piccolo sforzo di darle del tu, anche se per tutta la vita era stato abituato a parlare diversamente.
<< Anche v- anche tu vuoi tornare in vita o sei qui solo per supporto?>> le chiese cercando di continuare quella conversazione. Parlare con la signorina Lea lo stava distraendo fin troppo bene.
Lei alzò un sopracciglio. << Intendi supporto morale e tecnico? No, non sono qui per curare le mani mangiucchiate di tutte le anime in ansia.>> gli fece l'occhiolino. << Sono qui per gareggiare come tutti gli altri, attendo il mio turno ma pare che lo stessi facendo molto più tranquillamente di te.>>
Ùranus deglutì a disagio.

Magnifico, aveva appena detto che lo stava distraendo? Non lo stava più facendo.

<< Sì, uhg, ecco… non sono proprio in ansia per la gara in sé, sono tutte queste anime che mi preoccupano, se già noi siamo così tanti non oso immaginare quanti saremo in tutto, quando tutti e tre i domini saranno riuniti.>>
Lea lo guardò sorpresa, poi annuì. << Capisco, in effetti sono davvero molte persone in fila, ma guarda il lato positivo: dalle Praterie degli Asfodeli non potranno venir troppe persone, non si ricordano nulla della loro vita passata.>>
<< Potrebbero esser figli di Dei...>> borbottò senza pensarci.
La ragazza si voltò di scatto verso di lui, guardandolo con gli occhi sgranati. << Cosa hai detto, scusa?>>
Ùranus non c'aveva pensato troppo nel dirlo, credeva che da morti, quando si scopriva tutto l'Inferno e ciò che conteneva, chi lo aveva creato soprattutto, si venisse anche a conoscenza delle dinamiche tra divinità e umanità. Aveva dato per scontato che Lea sapesse dell'esistenza dei semidei, che lo fosse lei stessa, specie dopo la prova di cura “magica” che aveva appena sostenuto. Trovarla così sorpresa ad un'affermazione del genere lo confuse leggermente: non sapeva che alcuni semidei potevano mantenere i loro ricordi anche nelle Praterie?
Si apprestò comunque a spiegarle ciò che intendeva dire. << Dalle Praterie degli Asfodeli potrebbero venir figli di Dei. Le divinità dell'Olimpo spesso hanno figli con mortali e questi- >>
<< So cosa sono i semidei, lo sono anche io. Solo non avevo pensato che loro, noi, potessimo ricordare lì. >>
Il ragazzo sospirò. << Dipende da chi sia il suo genitore divino. Credo che un figlio di Ade potrebbe ricordare, così come uno di Thanatos, magari uno di Ecate o persino di Ipnos.>>
Lei annuì. << Mh, non posso che darti ragione. Sembri piuttosto esperto sotto questo punto di vista.>> gli disse interessata. Non aveva mai conosciuto molti semidei, se non si contava suo fratello e coloro a cui prestavano aiuto, chissà se invece l'altro non fosse addirittura andato al famoso Campo Mezzosangue del suo paese.
O magari era più corretto dire “della sua epoca”.
Ùranus intanto continuò a parlare senza neanche immaginare i ragionamenti dell'altra.
<< Non proprio, ma mio padre mi ha spiegato un po' di cose, ad esser onesti credo di dover a lui e mia madre tutto ciò che so.>>
Il sorriso gentile e nostalgico che gli incurvò la bocca incuriosì ancor di più Lea.
<< Beh, visto che pare dovremmo attendere ancora molto, perché non spieghi “un po' di cose” anche a me? Se per te non è di disturbo, certo. Sotto questo punto di vista sono un po' ignorante, lo ammetto.>>

 

 

 

*

 

 

La fila.
Stava facendo la fila.
Una cazzo di fila.
Da morto.
Nathan grugnì infastidito come lo era sempre da tutto e tutti ma in quel momento avrebbe volentieri preso a pugni qualcosa. Com'era possibile che si ritrovasse a fare una dannatissima fila come se si trovasse alle poste? Gli sembrava di star andando a pagare una bolletta scaduta, la voglia di girare i tacchi ed andarsene era la stessa ma questa volta il pagamento l'avrebbero fatto a lui e non il contrario.
Rimaneva il fatto che da morto, dopo anni di onorata e onorevole morte, doveva stare in fila come un'anima qualunque ad attendere il suo turno, come se non avesse aspettato abbastanza a suo tempo per quel cazzo di giudizio infernale.
Se li ricordava ancora perfettamente, quei tre seduti su dei troni giganteschi, individui di cui tutti conoscevano il nome a che, ugualmente, si ostinavano a tener il volto coperto. Che cazzo ti coprivi a fare se tutti sapevano chi eri?
Non gli interessava davvero, aveva solo trovato irritante che coloro che avrebbero dovuto giudicarlo non avevano la decenza di guardarlo in faccia o che comunque lo facessero da dietro una dorata protezione.
Quelle maschere non li facevano sembrare più minacciosi, mistici o quel che volevano sembrare. Parevano solo tre deficienti con una stupida maschera d'oro in faccia. Punto.
A suo tempo lo avevano fatto attendere un bel po', come se il suo curriculum non fosse abbastanza per fargli guadagnate un biglietto di sola andata per i Campi Elisi. Era stato nell'esercito, aveva combattuto con onore, era stato riconosciuto da suo padre e aveva avuto la sua benedizione, era morto come un vero eroe e loro cosa facevano? Discutevano del suo temperamento e del suo carattere.
Nathan non li aveva mandati a quel paese solo perché alla fine gli era stata data una buona educazione, se no li avrebbe presi a calci in culo sino alla fine dell'Ade.
Scivolare lungo quella specie di tubo aperto fatto di roccia levigata, dove per altro dietro di te scivolava altra gente se era stata smistata velocemente, era stato quasi più fastidioso di sentir quei tre cretini discutere, ma almeno gli aveva dato la possibilità di ammirare in tutto e per tutto quell'immenso mondo sotterraneo che erano gli Inferi. Aveva subito scorto le immense Praterie degli Asfodeli, l'erba nera e quella costante nebbiolina che vi sostava sopra, mossa dalle pigre anime smemorate di chi non aveva fatto né il bene né il male nella vita, che non era stato abbastanza per meritarsi una qualunque fine sensata. A quel punto, invece di lasciarli a marcire per sempre in un luogo dimenticato dagli Dei, potevano disintegrare le loro anime, darle in pasto a qualche mostro o farci sacrifici a divinità sanguinarie e crudeli. Abbandonarle a sé stesse, senza neanche l'ombra di un ricordo era ancora più terribile secondo lui.
Era riuscito poi a vedere, in lontananza, le alte mura blindate dei Campi di Pena, non sapeva per quanto si estendessero e non aveva neanche mai avuto occasione di informasi, il suo “corridoio” si dirigeva dalla parte opposta e Nathan non aveva potuto far altro che fissarlo da lontano e chiedersi, con un fondo di curiosità ed orgoglio, se lì non vi fossero anche i bastardi che aveva fatto fuori nel corso della sua vita.
Poi una curva a gomito lo aveva sballottato lungo una discesa ad elica e gli aveva fatto perdere un po' l'orientamento. Subito dopo si era trovato davanti alle mura bianche dei Campi Elisi ed una delle porte secondarie si erano aperte per farlo entrare, lì dove Shilon Yu lo attendeva per registrarlo ed indicargli dove dovesse andare, quale fosse casa sua.
Con un sorriso sprezzante Nathan si rese conto che era da un po' che non vedeva la vecchia guardia imperiale. Quell'uomo, tra tutti quelli che gli era capitato di incontrare lì, era senza ombra di dubbio una delle persone che gli andavano più a genio.
Non lo aveva mai visto piegare il capo se non in ossequiosi saluti dettati dalla sua cultura ed educazione. L'aveva visto riprendere anime troppo vanitose e ricordar loro che stare nei Campi Elisi non significava che non potessero uscirne, che solo i meritevoli potevano dimorare in quelle mura e che lui non si sarebbe fatto scrupoli a fargli sapere cosa lì attendesse fuori di lì.
Si diceva che l'uomo avesse tenuto legate nelle Praterie, proprio davanti ai Campi, decine di anime che avevano fatto del bene ma che si erano poi montate la testa nella morte.
Era un nemico da non sottovalutare ed un alleato prezioso, dopotutto era stato a capo di uno dei sistemi di guardia, difesa ed attacco più potenti e ben organizzati del mondo e Nathan apprezzava sempre un buon militare, un infaticabile combattente.
Probabilmente il momento in cui sarebbe toccato a lui gli sarebbe convenuto togliersi quella faccia scocciata o Shilon Yu avrebbe trovato un modo per far passargli passar avanti altri finché non lo avrebbe giudicato “abbastanza calmo” per poter affrontare l'iscrizione.
Non aveva dubbi che avrebbe legato anche lui se ne fosse stato necessario e non aveva la minima intenzione di iniziare così la Death Race.
Riusciva a vedere il gabbiotto del “custode” di quel luogo, la sua voce pacata non si poteva udire sopra il concitato ciarlare di tutti coloro che gli erano attorno e Nathan stava quasi per girarsi e dire a tutti quelli in fila dietro di lui di chiudere la dannatissima bocca quando i toni di quelle conversazioni mutarono.
Aggrottò le sopracciglia sorpreso, che il suo fastidio fosse così palese che tutti quegli aspiranti partecipanti si fossero zittiti? No, non stavano zitti, erano più… inquieti?
Voltò il capo per cercare di capire cosa stesse succedendo, la sua altezza aiutava sicuramente, facendolo svettare sopra a molti e permettendogli così di avere un ampia veduta della situazione: Le anime si muovevano sui loro posti a scatti, alcune si erano bloccate, lo sguardo fisso in una direzione precisa.
Seguì le occhiate sbieche che tutti lanciavano dietro le proprie spalle, tutti più o meno curiosi, più o meno increduli e Nathan non ne capiva davvero il motivo, finché non incontrò due sfavillanti iridi verdi.
Il sangue gli gelò in corpo, non riuscì a batter le palpebre, non riuscì a muoversi.
Quegli occhi così limpidi appartenevano ad una giovane donna che, a sua volta, lo fissava intensamente, una linea scura a delinearne la curva dello zigomo sino al meno.
Che diamine stava succedendo? Perché Lei era lì? Non doveva esserci, non poteva, no, assolutamente no.
Fece per muovere un passo in avanti ma un uomo sulla quarantina, sorprendentemente più alto di lui, gli si parò davanti mentre cercavi di uscire dalla fila.

<< Scusa ragazzo.>> gli disse sbrigativo poggiandogli una mano sulla spalla e scansandolo.
Nathan non gli rispose male solo perché colto di sorpresa, il ché era tutto dire, ma non appena riuscì ad avere di nuovo la visuale libera la donna non c'era più.
Tra le altre anime due giovani ragazze parlottavano tra di loro, un ragazzone di colore se ne stava rigido a fissare il vuoto ed un gruppo di vecchietti discorrevano concitati di qualcosa, mentre alle loro spalle una ragazzina bionda e minuta teneva le mani ad un ragazzo pallido, alto e rosso di capelli.
Una smorfia infastidita gli contrasse il volto: la donna era sparita nel nulla e per di più aveva anche visto quell'altra. Sperava vivamente che quella spina nel fianco non volesse partecipare, non sapeva come si sarebbero svolte le sfide ma se avessero dovuto affrontarle divisi per “luoghi”, sopportare quella rompipalle biondiccia era l'ultima delle cose che voleva fare.


<< Il prossimo.>>
La voce di Shilon Yu lo riportò alla realtà: come poteva essere già il suo turno? C'erano decine di persone prima di… lui.
Davanti a sé non vi era più nessuno, spariti come la donna dagli occhi verdi, dissolti come la nebbia delle Praterie degli Asfodeli.
Schiarendosi la voce con un colpo di tosse il giovane si fece avanti sino a poggiare entrambe le mani sul bordo del finestrone da cui si affacciava la guardia reale.

<< Salve, Wright-san, mi stavo giusto domandando quando si sarebbe presentato.>> lo salutò con educazione formale l'uomo.
Nathan si lasciò scappare un sorriso strafottente, il ricordo della donna dagli occhi verdi già lontano, accantonato in un angolo della sua mente.
<< Ho lasciato un po' di vantaggio a tutti quegli altri sfigati.>> affermò con arroganza.
Gli occhi di Shilon Yu erano neri come la pece, non vi si poteva distinguere iride e pupilla, parevano duri e levigati come la pietra, come il marmo pregiato nei luoghi di culto, freddi come quello stesso materiale ma attenti e pungenti. Bastò quel solo sguardo e Nathan si ricordò a scoppio ritardato di ciò che si era detto prima.
<< Allora, Wright-san, si metta pure da parte e lascia altro vantaggio a chi la segue. Dopotutto ha saltato una considerevole parte di fila.>> e così dicendo gli indicò con la mano la sua destra.
L'altro guardò la lunga manica rossa ondeggiare ma ebbe il buon gusto di starsi zitto o presto quella veste avrebbe volteggiato in aria per poterlo legare come un salame, e per quanto gli bruciasse dirlo Nathan non era mia riuscito a sciogliere quegli infernali nodi fatti da quel muso giallo davanti a lui.
Con un grugnito infastidito si spostò di lato, si poggiò con la schiena al muro del gabbiotto e incrociò le braccia al petto, mettendo su la sua miglior espressione incazzata.

Sua madre glielo aveva sempre detto che quella boccaccia, prima o poi, sarebbe stata la fonte di tutti i suoi guai.

 

 

*

 

 

Non aveva capito cosa fosse effettivamente successo: un momento prima la fila era enorme, una fiumana infinita di gente chiassosa, allegra, emozionata… l'attimo dopo mormorii inquieti e fuga generale di almeno un buon quaranta percento di quella porzione di coda.
Eppure, per quanto cercasse di capire dove fosse il problema, cosa avesse spinto tanti alla ritirata prima ancora d'iscriversi, Eliza non ne veniva a capo.
Non c'erano stati avvistamenti di mostri, nessun' anima che sapesse con precisione cosa avrebbero dovuto affrontare, quali pericoli, quanti guerrieri, nulla. Si era solo alzato un vento freddo, assurdo per quel luogo, e poi molti avevano gettato la spugna.
Stringendosi nelle spalle la ragazza sbuffò, molleggiando sui pedi e sorridendo senza accorgersene al suono della pelle conciata che si piegava e distendeva. Quello era il rumore dell'attesa, dell'attimo prima della partenza e non c'era nulla di più bello di quel senso d'aspettativa che ti gonfiava il petto e al contempo ti stringeva i polmoni. Non chiedeva altro, Eliza, che sentir quella sensazione per sempre, come l'aveva avvertita quando usciva di casa per le sue “passeggiate” o quando si allenava; quel groviglio di sentimenti che la facevano sentire diversa, migliore, completa.
Si portò una mano al petto, dove adagiato tra le clavicole sporgenti vi era un ciondolo composto da due specie di virgole saldate sulle loro curve, legate da una corta catenella dai riflessi caldi.
Quando le era stata regalata non era comune a tutti poter sfoggiare gioielli del genere, era un lusso riservato a poche donne agiate, a pochissimi suoi compagni, ma la maggior parte di loro non solo non potevano permetterselo, rischiavano anche di perdere il monile in un qualunque momento, o che questo divenisse motivo di ritorsione, di lotte, di morte.
Per Eliza ormai era solo parte di sé, qualcosa da tenere vicino, tanto nella vita quanto nella morte. Probabilmente se se lo fosse perso avrebbe seriamente rischiato di dare di matto, specie per ciò che rappresentava.
Come una freccia scoccata con precisione un'idea le solleticò la mente, un rivolo di vento che la spinse a voltarsi e fissare il viale che scompariva tra le prime costruzioni. Lì, da qualche parte, a casa loro, suo padre riposava, finalmente, dopo una vita di continue battaglie.
Non si era presentato Philip, non aveva neanche preso in considerazione la gara, ne avevano parlato ed ipotizzato con serietà le prove, ma nulla di più. Aveva vissuto la sua vita, così le aveva detto, ed ora voleva solo godersi la sua meritata pace, senza dover tornare a combattere quotidianamente, che fosse per riuscire ad integrarsi o per andar avanti con la vita, per seguire il progresso che in quegli ultimi decenni sembrava impazzito.
Le aveva ugualmente augurato ogni bene, l'aveva guardata con gli occhi carichi d'orgoglio paterno e le aveva confessato che non si sarebbe aspettato nulla di diverso da lei.

<< Vai e vinci, Elizabeth, sei una guerriera e ciò che le guerriere fanno è proprio questo: combattere e vincere. Hai tutte le capacità per ambire al premio.>>

Quel vago luccichio negli occhi scoloriti di suo padre le aveva dato una marcia in più.
Lui l'avrebbe attesa lì, alla fine di quella prima vita che non era riuscita a completare.
Strinse la mano attorno al ciondolo, concentrata sulle parole che l'uomo le aveva detto, quando un movimento, una macchia di colore ad esser onesti, non le scivolò vicino.
Eliza si voltò di colpo verso i partecipanti in fila ed una smorfia infastidita prese il posto di quella orgogliosa che aveva sfoggiato sino a poco tempo prima.
Davanti a lei, spuntato da chissà dove, se ne stava un ragazzo alto, le spalle larghe parevano rilassate sotto il tessuto spesso della giacca che indossava, scolorito e danneggiato su più punti ma rattoppato con attenzione. Doveva essere un oggetto a lui molto caro, specie quella forma amorfa che vi era ricamata sul risvolto del colletto.
Di lui aveva una visuale a tre quarti, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni usurati come la giacca, il peso poggiato sulla gamba destra, il collo leggermente reclinato all'indietro e lo sguardo smeraldino perso tra la vegetazione circostante: tutto di quel giovane gridava “tranquillità”, come se quello fosse il posto in cui doveva stare.

Peccato che prima tu non ci fossi, ragazzino, e che mi sei bellamente passato avanti.

Oh, ma quel pel di carota non aveva la più pallida idea di cos'aveva fatto, non aveva mica superato una ragazza come tante, che non si sarebbe resa conto della cosa o che non avrebbe avuto il coraggio di affrontarlo su due piedi. Stavano per iscriversi ad una gara in cui avrebbero gareggiato sino alla vita, figurarsi se la spaventava far notare ad un deficiente qualunque che avesse saltato la fila. Fosse pure un solo posto, e non lo era visto che alle sue spalle Eliza aveva ancora la stessa anima, era un questione di principio: non si prendono scorciatoie, di nessun tipo, mai.
Senza il minimo tentennamento la ragazza batté energicamente la mano sulla spalla del tipo e lo guardò in cagnesco.

<< Scusa? Credo proprio che tu debba fare la fila come tutti gli altri comuni mortali.>>

 

 

Quando era vivo la fila l'aveva fatta pochissime volte, la maggior parte di queste quando, in coda dietro ai suoi compagni, attendeva il momento buono per agire. Ma star fermo a girarsi i pollici, consapevole di avere almeno più un centinaio d'anime davanti a lui e che tutti queste dovevano essere esaminate da un solo uomo, gli faceva venire una gran voglia di tornarsene a casa, farsi un goccio o superare bellamente tutti quanti, approfittando di quell'improvvisa brezza fredda che si era alzata e che aveva catalizzato l'attenzione di tutti.
Con la fluidità e la rapidità che gli erano sempre stati caratteristici, Cade aveva superato un gruppo di soldati, qualche coppia, dei trii forse e molte anime che conversavano tranquille tra di loro.
Il trucco stava tutto nel fingersi perfettamente a proprio agio, come se ciò che stesse facendo fosse la cosa giusta, proprio quello che andava fatto. Se non hai una faccia colpevole allora non sei colpevole, questa era una grande massima della sua vita.
Si era passato una mano tra i corti capelli rossi, sorridendo affabile ad un paio di ragazze e facendo anche loro un inchino irriverente, scatenando risolini e sguardi divertiti, superandole di posizione e facendo lo stesso con chi le precedeva.
Aveva infilato le mani nelle tasche dei pantaloni, toccando con la punta delle dita il manico del suo coltellino tascabile e giocherellandoci senza attenzione, scivolando davanti ad una ragazza mora che fissava la prima fila di case, forse indecisa sino in fondo se iscriversi o meno alla gara.
In fin dei conti nessuno sapeva cosa sarebbe successo ai perdenti, se sarebbero tornati al loro posto o se sarebbero finiti al “livello inferiore”, quindi ci stava che una ragazza di- quanto? Vent'anni? Sì, forse venti, poveraccia chissà che aveva fatto per morire a quell'età… non che lui avesse tanto di che parlare eh, ma in ogni caso capiva che qualcuno della loro età potesse essere ancora indeciso.
Peccato che la ragazza non fosse minimamente indecisa.

Sentendosi chiamare con qui colpi secchi ed apostrofare con un “pel di carota”, Cade si voltò per fronteggiare la giovane.
Aveva visto giusto, doveva avere una ventina d'anni, ma aveva un volto serio, un'espressione dura che non prometteva nulla di buono. Era il classico aspetto di chi era dovuto crescere troppo in fretta, di chi si era fatto carico di problemi e battaglie non sue. Era lo stesso aspetto che avevano molti suoi compagni, alcuni dei quali rivisti tra quelle mura, altri mai arrivati, ma tutti con lo stesso sguardo sprezzante e duro. Quella ragazza poi aveva anche una cicatrice che si intravedeva sulla mano sinistra, sotto la manica della camicia candida, stretta in una giubba blu con una linea bianca a dividerle il busto.
I capelli corti alla mascella, scuri e lisci, le davano un aspetto battagliero quasi quanto lo facevano le sopracciglia aggrottate e lo sguardo verde e scintillante che gli rivolse.
Con un pensiero del tutto scollegato dalla situazione Cade si disse che quel colore era molto simile al suo e che forse la cosa poteva volgere al suo vantaggio.
Sorrise ammiccante com'era solito fare, inclinando il capo e lasciando che qualche ciuffo si muovesse liberamente sulla fronte, dandogli un'aria sbarazzina che di solito le ragazze adoravano.

<< Ed in fatti io non sono un comune mortale.>> iniziò affabile, << Sono un semid- >>
<< Non mi importa un accidenti di chi sei figlio, fosse anche Zeus, la fila la devi fare e sono sicura che non eri davanti a me.>> Senza farsi minimamente fregare la ragazza portò le mani sui fianchi e lo squadrò con occhio critico.
Il sorriso di Cade non vacillò neanche un secondo. << Oh, così mi ferisci, come hai fatto a non accorgerti di me? Ho forse perso il mio fa- >>
<< Non mi sono accorta di te perché non c'eri. È l'uomo davanti a te il mio predecessore, non tu.>>

Uhg, osso duro.

<< Beh forse eri troppo intenta a riflettere sulla gara, ma ti assi- >>
<< Quando sono arrivata, e non c'era nessuno dietro di me, tu non c'eri.>> insistette lei.
Okay, non era una che si faceva fregare facilmente, ma se lo avesse di nuovo interrotto-
<< Quindi ti conviene tornare indietro e fare la fila come tutti i comuni mortali ed i comuni “semimmortali” se preferisci il termine. Stiamo tutti aspettando, tu non sei speciale.>>
Cade la fissò sorpreso, quindi aveva capito che era un semidio e la cosa non la toccava minimamente?

Uhg di nuovo, una cugina alla lontana? Tanto sono tutti imparentati lì no?

<< E se ti dicessi che mio padre è un dio importante?>> la sfidò cercando di recuperare la verve di prima.
<< Quindi oltre ad essere un baro sei anche sordo?>> la mora alzò un sopracciglio scettica, << Non mi importa nulla: rispetta-la-fila.>>
<< Insulti tutti quelli che conosci per la prima volta? Non sei molto educata.>>
<< Credimi, se ti stessi insultando te ne saresti accorto, e per inciso, il maleducato sei tu che ti credi superiore agli altri.>>
<< La fila è noiosa e poi mi pare che nessuno si sia lamentato, ragazzina.>>
<< Oh, non ti azzardare a chiamarmi ragazzina, moccioso, potrei essere tua madre!>>
<< Mia madre era molto più bella e gentile di te!>>
<< Ma come ti permetti!>>

 

 

 

 

<< Wrigth- san?>>

Nathan saltò sul posto nel sentire il suo nome. Si voltò svelto verso il finestrone, cercando con lo sguardo un rotolo su cui avrebbe firmato la sua iscrizione, ma tra le mani callose e pulite dell'ex guardia vi era solo un pennino che l'anima davanti a lui gli aveva appena riconsegnato.

<< È il mio turno?>> chiese con una punta di speranza ben nascosta nell'impazienza.
L'altro però scosse la testa in un unico cenno negativo.

<< Non ancora, Wrigth-san, ma potresti aver dei compagni nella tua attesa. Saresti così gentile da farmi un favore?>>

 

 


 

<< Sei davvero scorbutica per essere una donna, scommetto che il tuo promesso sposo ti ha mollata all'altare.>> frecciò con sguardo assottigliato Cade, studiando con attenzione la sfumatura rossastra che stava prendendo il volto della ragazza.
Ma un morto poteva avere un attacco di cuore, o magari di pressione? Perché certo quello sul volto della giovane non era imbarazzo, ma decisamente furia omicida repressa.
<< Non ho bisogno di un uomo per essere felice, ragazzino, e se sei convinto che una donna abbia un pessimo carattere solo perché non ha al suo fianco un uomo ti sbagli di grosso!>>
<< Avresti i nervi molto più distesi però, non so se mi spiego… >> Cade ammiccò divertito.
Sì, insomma, quella aveva l'aria di una che avrebbe potuto ucciderlo una seconda volta ma, primo: era già morto; secondo: importunare la gente era divertente; terzo: non lo faceva da troppo tempo ormai e dar sfogo a tutto il suo animo più irriverente era qualcosa di catartico per lui.
Evidentemente però la ragazza, Elsa, o qualcosa del genere, non la pensava come lui, per lo meno lo deduceva dalla foga con cui controbatteva, parole concise ma taglienti.
<< Questo lo pensate voi uomini, che non riuscita a far ragionamenti più impegnati di quelli di cui necessitate per calarvi le braghe. >>

Ohc! Questo era un bel colpo.

<< Questo lo dici perché non hai mai provato.>>
<< Questo l- >>

<< Che succede qui?>>

 

 

Cade ed Eliza, e anche buona parte di quelle anime che si trovavano nelle vicinanze e stavano assistendo al battibecco, si voltarono all'indirizzo di una voce profonda, roca e spazientita.
Non era neanche arrivato da quei due imbecilli, ma a Nathan quella situazione già aveva stancato.
Perché doveva aver grane con i mocciosi anche da morto? Non aveva fatto la sua parte tempo addietro?
Squadrò con sufficienza prima la ragazza e poi il ragazzo.
Dall'alto del suo metro e ottanta Nathan grugnì un insulto non ben definito verso Shilon Yu e le sue stupide idee di calma e di rispetto, se il giovane avesse potuto far di testa sua avrebbe già appeso entrambi al primo muro disponibile, con tutti il rispetto per la giovane e nel pieno di quello per la parità di diritti.
L'educazione ricevuta da sua madre però e la richiesta neanche poi così velata del cinese di comportarsi da persona “saggia” - leggasi “civile”, le so leggere le cose tra parentesi, sì- lo costrinsero a volarsi per prima cosa verso la ragazza e chiederle, forse con un tono un po' troppo burbero, se ci fosse qualche problema.
La mora parve sorpresa da quella domanda, ma Nathan non poté non notare quella scintilla infastidita che le era brillata negli occhi e che lui conosceva fin troppo bene: l'aveva vista negli occhi di Alexia tanto quanto in quelli di molte sue colleghe, di commilitoni e donne di guerra.

Un militare.

<< Il rosso qui ha fatto qualche danno, soldato?>> gli venne naturale dire.

Eliza guardò l'uomo davanti a lei con un velo di sorpresa.
L'aveva riconosciuta come un soldato e non aveva avuto problemi a chiamarcela, come se fosse normale che anche una donna vestisse la divisa militare. Probabilmente era un soldato anche lui, sicuramente proveniente da un'epoca più recente della sua.
In ogni caso quell'appellativo, quel modo rigido e dritto di tenere le spalle, le mani legate assieme dietro la schiena e lo sguardo attento che aveva gettato a lei e al pel di carota prima di intervenire, glielo fecero andare in un qualche modo a genio.
C'era qualcosa nell'aria, come un odore latente, una sensazione, che le dicevano di potersi fidare di quell'uomo, che le sarebbe andato a genio.

<< Nessuno materiale, in realtà, ha solo pensato fosse giusto saltare la fila.>> si affrettò a dire con tono neutro.
Aveva accettato in un qualche modo l'aiuto che il nuovo arrivato le stava dando, ma non avrebbe mai ammasso di aver bisogno di quello stesso aiuto, anche perché non era così, Eliza era abituata a trattare con uomini di ogni genere.

<< Ehi! Non ho saltato un bel niente! Se la gente se ne va vuol dire che ha lasciato dei posti liberi no? Quindi ho solo occupato un posto vacante.>> si giustificò il ragazzo sorridendo anche all'uomo.
Non era molto imponente fisicamente, ma era comunque minaccioso, con quei capelli biondi tagliati corti che gli gettavano ombre sulla fronte e sugli occhi blu scuro. C'era da dire che non pareva molto contento di trovarsi lì a far da pacere ed il ghigno che gli si dipinse sul volto al sentire le sue parole non lo rincuorò per nulla, ma di certo glielo fece apparire più simpatico.

Temo sia masochismo questo.

<< Salti la fila quindi? Bene, allora porterò tutti e due incredibilmente più vicini alla meta.>>
Nathan si voltò e fece loro cenno di seguirlo, senza neanche controllare che lo stessero effettivamente facendo.
Shilon Yu gli aveva detto di comportarsi da saggio e di riportare la calma nell'attesa e lui l'avrebbe ascoltato, per una volta.
Dopotutto, se lui per aver fatto un po' lo spaccone, con tutto il diritto per altro visto che lì in mezzo era il più dotato e quotato di tutte le anime, era stato “condannato” ad aspettare lì vicino alla linea di partenza finché il vecchio muso giallo non lo avesse reputato abbastanza tranquillo, allora l'avrebbero fatto anche quegli altri due che si erano messi a discutere per delle bazzecole.
Col cazzo che ci sarebbe rimasto da solo, lì come un deficiente ad aspettare.
<< Vedrete che ne avrete di tempo per chiarire il punto.>>

 

 

 

*

 

 

 

Nelle Praterie le ombre erano bianche come le nubi vaporose e basse che carezzavano l'erba nera.
Non vi era luce così come non vi era oscurità, nel Limbo neanche questo era concesso a delle anime che non potevano ricordare neanche di esser tali.
Era la pena che dovevano scontare tutti coloro che si erano astenuti dal prendere una posizione, tutti coloro che avevano vissuto la propria vita solo per dovere, che non avevano mai fatto nulla di più che sopravvivere seguendo il percorso già scelto per loro da delle implacabili filatrici, senza cercare di discostarvisi, senza provare a fare di meglio, a fare la differenza. Per loro e per tutti quegli impazienti e per i codardi che non avevano avuto il coraggio di attendere il divin giudizio.
La tristezza latente che si impossessava delle membra morte di chi veniva brutalmente scaricato nell'immensa prateria era la stessa che si ripercuoteva su coloro che vi entravano per un motivo qualunque. La cosa peggiore era che ad un'anima senziente le Praterie degli Asfodeli toglievano quasi la voglia di vivere, rubando pensieri e ricordi, uno dopo l'altro, inesorabilmente, senza che nessuno se ne rendesse conto.

Avvolto nella sua palandrana nera, con il sigaro stretto trai denti, l'uomo osservava il fumo dell'involto mischiarsi a quello già presente nell'aria, lasciando correre i proprio pensieri ovunque volessero, persi per i meandri di ragionamenti che di solito si imponeva di non fare.
Gli pareva di risentire suoni uditi una vita fa, lontano da tutto e tutti, la voce di una ragazzina che lo chiamava per le strette stradine su cui torreggiavano palazzi scrostati dall'umidità e dal caldo.
Non c'era più, lei, ovviamente. Come non c'erano più quelle giornate passate a camminare tra i vicoli ombreggiati, parlando di senso dell'orientamento, di zanzare e di acqua. Non c'era più nessun sorriso accecante a salutarlo, non ve ne erano di piccole copie ad emularlo. Non vi era più nessuna minuta mano paffuta da stringere, da recuperare dopo una corsa a perdifiato per recuperarla.
C'era solo il fumo, l'erba nera e le bianche anime che vi camminavano sopra ignorando tutto, comprese loro stesse.
Sapeva perfettamente che non avrebbe trovato code infinite di nostalgici della propria passata vita, era ironico che di fatto loro sarebbero invece stati quelli che più avrebbero avuto da guadagnarci in questa gara.
Ma per ora, di nostalgico, c'era solo l'aria ed i suoi pensieri.
Inspirò una grande boccata di fumo e lo trattenne nei polmoni finché non cominciarono a bruciargli, finché la lingua non si intorpidì e gli occhi pizzicarono, fino a quando il diaframma non gli diede una poderosa spinta e gli ricordò di non giocare a quello stupido gioco.
Espirò l'aria soffiandola dal naso, assaporando la consistenza del fumo, il retrogusto che gli lasciò appiccicato alle mucose come l'odore sui suoi vestiti. Quante volte gli avevano detto che puzzava di fumo? Quante volte qualcuno aveva preso le sue difese dicendo che quell'odore, invece, era buonissimo perché proprio suo?
La nuvola biancastra scivolò a terra come se avesse un peso maggiore, afflosciandosi sull'erba e poi rialzandosi. La osservò divenir consistente, strutturata, finché un bambino di non più di tre anni non prese vita davanti a lui.
L'ombra biancastra si voltò e gli sorrise come aveva fatto un tempo, ma senza la luminosità della vita che aveva animato quel volto e quelle labbra.
Mulinò le braccia, girò su sé stesso e poi corse via, lontano da lui.

Ancora.

Fu un attimo, meno di un attimo.
Nelle Praterie degli Asfodeli balenò uno scintillio dorato, per un secondo la fitta nebbia si diradò e milioni di anime si poterono guardare le une con le altre in uno spaccato di lucidità che non bastò che per far ricordare loro qualcosa di caro, qualcosa di perso.
Il bambino tornò indietro, come risucchiato da un vortice. La sua figura si fece incerta e tremante e con un sibilo basso rientrò veloce nel petto dell'uomo.

I ricordi erano ciò che di più importante restava ad uno come lui.

 

 

 

 

Non se lo era immaginata, non poteva essere.
Per un momento le Praterie erano brillate di una luce metallica, come polvere d'oro sparsa nell'aria. La mente affaticata di Jane aveva respirato una boccata d'aria come non faceva da quando era morta, come non poteva prenderne sotterrata centinaia di metri sotto il suolo.
Tutto le era stato chiaro, non c'era più la continua lotta contro quella malefica nebbia, contro la foschia, che la costringeva ad aggrapparsi ad ogni più oscuro pensiero per non cadere oltre il baratro ed entrare a far parte a tutti gli effetti di quell'infinita schiera di anime vaganti e ignare, sole seppur tra migliaia e milioni di altre anime esattamente uguali a loro.
Quanto poteva esser terribile? Come si poteva stare tra tutti coloro che nulla ricordavano? Che ti ignoravano e ignoravano anche sé stesse?
Jane c'era passata anche da viva, quando lentamente si era ritrovata dispersa e desolata in una landa piena di vita, di persone, di popoli.

Di paure, di ipocrisia, di pregiudizi…

Si rimise in piedi a fatica, l'onda dorata le aveva ridato la chiarezza per poi togliergliela con prepotenza, lasciandola sfiancata a terra.
Di cosa potesse trattarsi non ne aveva idea, non aveva mai incontrato anime così potenti da ridare lucidità agli abitanti delle Praterie e questo significava solo una cosa: doveva esserci un dio o un semidio anche lì, qualcuno venuto per controllare se anche in un disperso come quello vi erano anime che volessero voler partecipare alla gara della morte.
Alzò la mano per cacciare indietro qualche ciocca unticcia, incurante delle condizioni in cui versavano tanto i suoi capelli quanto tutta la sua persona. Non c'erano pozzi d'acqua in quel luogo, non vi erano laghi in cui specchiarsi e gli unici fiumi che serpeggiavano infidi tra le collinette scure non erano assolutamente da prendere in considerazione. Era riuscita a mantenere i suoi ricordi fino a quel momento, le mancava solo un bagno nel Lete e allora sì che sarebbe stata a posto.
Aveva camminato per tantissimo tempo, malgrado non fosse in grado di percepirlo e quantificarlo, alla ricerca di qualcuno che le potesse indicare il luogo di “iscrizione”. Apparentemente stava procedendo nella direzione sbagliata.
O almeno così pensava finché non vide un piccolo gruppo di anime camminare concitate verso la sua destra.
Jane alzò un sopracciglio spaesata: da quando le anime si muovevano assieme? Le era capitato di vedere una coppia, massimo un trio, ma… sette? Sette anime tutte assieme no, mai.
Erano ragazzi giovani, portavano delle sporche maglie di uno sbiadito color arancio, proprio come i frutti che crescevano vicino alla sua vecchia scuola. I loro abiti, a dir il vero, non somigliavano a nessuno di quelli che Jane aveva visto in vita e ciò la spinse a pensare che forse dovevano essere morti dopo di lei. Dalle gambe scoperte di una delle ragazze, che indossava pantaloni azzurrognoli lunghi a mala pena sino al ginocchio, quel “dopo” doveva essere davvero lontano.
Un altro invece teneva una lunga lama attaccata alla cinta dei pantaloni, un suo compagno arco e faretra in spalla, una seconda ragazza maneggiava sicura una lunga lancia.
Non erano soldati, questo era poco ma sicuro visto che uomini e donne indossavano la stessa sudicia maglia, visto che la ragazza con la lancia portava fiori tra i capelli e pittura sui pantaloni e che uno dei suoi compagni invece teneva calato in testa un curioso copricapo con solo una piccola porzione di falda. Anche loro dovevano provenire da epoche diverse e sempre distanti dalla sua, ma se impugnavano armi e camminavano sicuri per le Praterie nere, significava che in loro vi era qualcosa di forte che li rendeva immuni al dimenticare.

<< Semidei… >> sussurrò a mala pena.
La sua voce era uscita gracchiante e stonata, era così tanto tempo che non parlava più che forse si era persino dimenticata come fare. E dire che una volta non era mai stata zitta…


<< Lo sono, in effetti.>>

Jane si volse di scatto verso il lato opposto a quello in cui si erano incamminati i ragazzi.
Affianco a lei, ritto in piedi tra le nuvole bianche delle esalazioni terrene, vi era un uomo avvolto in un lungo cappotto nero, con le mani in tasca e lo sguardo distante, puntato vero i giovani ma senza vederli davvero.
Sembrava presente a sé tanto quanto lei, ma Jane non poteva assicurare nulla sulla sanità mentale di quell'uomo di cui non riusciva neanche a stabilire l'età.
Forse non superava i quarant'anni, o non avrebbe avuto quella folta chioma scura, portata pettinata all'indietro, gonfia e apparentemente morbida e compatta.
Sul suo volto le rughe d'espressione non erano molto marcate, pareva una statua di quelle che aveva visto di sfuggita sull'enorme libro che la Suora superiora aveva fatto veder a lei ed altri bambini durante le messe, una statua antica e sorridente, ma fredda e lontana come quel giorno.
Non riusciva ad intravedere il colore dei suoi occhi, che comunque reputò scuro, per lo meno in base ai suoi capelli, alla sua pelle ed a ciò che poteva scorgere.
Certo era strano che un uomo del genere si trovasse lì, che fosse apparso come per magia e che si rivolgesse proprio a lei.

Chi era?
 

<< Come fate a saperlo?>> chiese maledicendo il suo che produsse, come vetri rotti trascinati su di un pavimento di pietra.
L'uomo le lanciò un'occhiata valutativa ed inclinò le labbra in un sorriso storto. << La loro maglia.>> disse solo.
Jane alzò un sopracciglio ed il sorriso dell'altro si allargò.
<< Indossano tutti la maglia arancione del Campo Mezzosangue. Provengono da decadi diverse ma tutti dallo stesso luogo.>> spiegò lui.
<< Campo… Mezzosangue? Cosa sarebbe?>> Quel nome non le piaceva, le pareva dispregiativo ed offensivo. Un modo in cui alcune persone del suo paese erano solite usare per indicare i bastardi.
L'uomo parve quasi leggerle nel pensiero perché scosse la tesa e sbuffò, tornando a guardare i giovani che si allontanavano.
<< Non è male. Non lo era neanche ai loro tempi. È il posto dove vengono portati i figli degli Dei. Quando viene individuato un semidio viene mandato un satiro a prelevarlo e portarlo al Campo, incolume possibilmente. Incolumi entrambi. >> poi sorrise. << Ma credo che al tuo tempo non fosse ancora propriamente attivo. O forse eri solo troppo distante.>>
Jane non gli staccò gli occhi di dosso neanche per un secondo, ascoltando con attenzione tutto ciò che diceva e studiandolo apertamente.
Sapeva chi era? Come l'aveva capito? Probabilmente dal fatto che fosse lucida e viva.
<< Perché stanno assieme se vengono da anni differenti? I- i semidei vengono presi e portati al Campo sin da piccoli?>> domandò ancora.
Quello scosse la testa. << Non si riescono ad identificare immediatamente, alle volte lo si fa prima ancora che nascano e le madri vengono messe sotto protezione. Per i padri si aspetta che il dio di turno scarichi il bambino e poi li si protegge entrambi come si può. Altri vengono individuati solo da grandi, adolescenti, dodici-tredici anni, alle volte prima, altre volte dopo. Dipende molto da come e quando si manifestano i tratti divini, di che divinità. Altri ancora non vengono mai trovati, nessuno sa che esistono e se la devono cavare da soli contro dei mostri che solo loro vedono, mentre il resto del mondo li crede folli.>>
Parlò con una nota tetra nella voce, una scia che Jane non comprese e non interpretò.
<< Come fate a saperlo?>> chiese per la seconda volta, sperando di ricevere una risposta esaustiva anche su quel fronte. Non le era mai capitato di incontrare qualcuno che sapesse così tanto sulla sua gente, non poteva sprecare quell'occasione.
Ma l'uomo si strinse solo nelle spalle. << Si imparano tante cose con il tempo.>>
<< Ve ne è servito molto?>>
<< Più di quanto si possa immaginare e meno di quanto ci sarebbe stato necessario.>>
I ragazzi ormai erano scomparsi dalla loro visuale, spariti nel bianco candore della nebbia.
<< Se stai cercando un posto per iscriverti alla gara della morte devi prendere la loro stessa direzione.>> disse l'uomo di punto in bianco. << Da quella parte, nord-ovest.>>
<< Perché sanno dove andare, loro?>>
<< Perché sanno dove si trova il Palazzo di Ade.>> la guardò con la coda dell'occhio, senza voltarsi. << Quello è un ottimo punto da cui partire, alla fine le iscrizioni arrivano tutte lì.>>
<< Chi glielo ha detto?>>
<< Lo hanno studiato al Campo.>> sorrise. << Sono cose che ogni semidio ben o male sa. O almeno così dicono.>>
Jane annuì con una smorfia sarcastica. << Ovviamente tutti tranne me.>>
<< E tutti coloro che sono morti senza sapere chi erano.>>
Quella risposta la sorprese e la spinse a cercare ancora lo sguardo scuro di quell'uomo sconosciuto che pareva aver voglia di parlare con lei.
Perché proprio con lei?
<< Siete anche voi un anima delle Praterie? Anche voi volete partecipare alla gara?>> s'azzardò a chiedere in fine.
L'uomo non si mosse per del tempo, poi scosse la testa, i capelli neri si spostarono appena.
<< No, non sono qui per partecipare.>>
<< E non siete di qui.>> precisò la ragazza.
Quello sorrise. << Diciamo che sono di queste parti, ma non proprio di qui, no.>>
Il suo sorriso era un taglio obliquo sulla pelle olivastra, qualcosa di canzonatorio e pericoloso al contempo.
Senza volerlo Jane si ritrasse un poco, cercando qualunque segno che le avrebbe potuto indicare le cattive intenzioni di quell'uomo. Poi si diede della stupida: cosa poteva farle? Lei era morta.
<< Se tu invece vuoi partecipare ti conviene muoverti.>> Si voltò finalmente verso di lei e Jane rimase imbambolata a fissarlo dritto negli occhi.

Non erano certo neri.

L'uomo frugò un po' nelle tasche e poi ne estrasse un rotolo piccolo e scintillante come l'oro, come l'onda che aveva scosso le Praterie prima.
Prese l'estremità del rotolo e tirò via un frammento di questo, un rettangolo luminoso che brillava come il metallo levigato.
Sopra vi erano delle scritte in nero, in bianco ed in rosso, ma Jane non ci fece molto caso, un po' perché non comprendeva quelle parole, un po' perché tutta la sua attenzione si focalizzò sull'enorme “1” che vi spiccava al centro.
Non si accorse neanche delle pacche che l'uomo le diede sulla spalla dopo averle infilato il biglietto tra le mani sporche e screpolate.
<< Le iscrizioni sono aperte ma gli Dei vogliono cominciare al più presto. Buona fortuna per le prove, ma forse a te non serve, vero ladybug?>>

Così com'era arrivato se ne andò silenziosamente, con il suo rotolo di biglietti in tasca ed un sorriso come uno squarcio sul volto di pietra.
Così come non si era accorta della sua venuta, Jane non si accorse neanche della sua scomparsa, finché il suo cervello non processò ciò che l'uomo le aveva detto.
 

Ladybug?

 

 

 

 

*

 

 

 

 

Tra le mura oscure non vi era mai stato così tanto fermento, neanche all'arrivo delle anime più nefaste, quelle che neanche meritavano di esistere dopo, si era mai scatenato così tanto rumore.
Sui gradoni ciclopici, tra le nere trincee, le anime incatenate alzavano il capo per poter respirare, per poter uscire per un momento da quel mefistofelico gas che le terre brulle esalavano e poter cercare colui che avrebbe permesso loro di uscire di lì.
Quando i volantini si erano sparsi per i Campi di Pena molti avevano creduto ad un crudele scherzo: perché gli Dei avrebbero dovuto concedere anche a loro il privilegio di poter tornare in vita? Specie a tutti coloro a cui la “rinascita” era stata proibita.
Tra le loro fila vi erano esseri così rivoltanti, che avevano fatto cose così terribili, che nessuno sano di mente avrebbe permesso che un'anima del genere tornasse sulla Terra: né facendosi un bagno nel Lete né tanto meno con la coscienza di sé stessi.
Era folle, semplicemente folle e incosciente lasciare che un criminale, un mostro, tornasse a calpestare il suolo dei mortali ricordando ciò che era stato di lui in precedenza, il numero di ritorsioni, di omicidi per vendetta, di violenze, sarebbe cresciuto in modo esponenziale.
O almeno questo era quello che tutti quei diavoli torturatori bisbigliavano, quello che pazzi scienziati con menti brillanti e distruttive, che geni del crimine e maniaci complottisti avevano ipotizzato leggendo le “regole”, scorgendo come unica restrizione il divieto alle anime nelle Isole dei Beati di iscriversi.

È pure follia!”
“ Perché ci hanno rinchiusi qui a soffrire se ora ci danno l'opportunità di tornare a far ciò che facevamo prima?”
“ Dov'è la fregatura? Sono sicuro che c'è!”
“ Quali stolte menti hanno redatto questo bando? Se tornassi in vita, alla mia nobile vita, la prima cosa che farei sarebbe cercar vendetta contro quei vili che mi tradirono e mi fecero giustiziare. Dovessi pur andar a ballar sulle loro tombe e deturpane le pietre!”

Tacete, compagni! Se così sciocchi son stati gli Dei non siamo noi a doverli informare!”

 

Aveva sentito quei discorsi per tutto il tempo -quanto?- che era intercorso tra la caduta dei fogli, che a quanto pareva era cartaccia scadente malgrado Cicno ignorasse ancora cosa fosse la carta, e l'arrivo del capo dei secondini che aveva confermato il tutto: Sì, era stata indetta una gara per poter tornare in vita, alla propria vita, e anche loro potevano partecipare.
Cosa avessero detto ai gradoni più bassi, se avesse affermato alla spazzatura della società umana che anche loro potevano partecipare, non gli interessava minimamente.
Il giovane tenne gli occhi ben aperti, senza batter ciglio, come congelato nella sua posa.
Nessuno “Beato” avrebbe partecipato, ma certo ci sarebbero stati moltissimi “Elisii” e qualche poveraccio degli Asfodeli. Sempre che riuscissero a ricordarsi chi erano in tempo per iscriversi.
Era ovvio per chiunque che tutti i prigionieri delle Mura Nere avrebbero partecipato, anche solo per allontanarsi un po' da quelle torture a cui erano condannati da sempre e per l'eternità.
Sarebbero scesi in campo ladri, bari, bugiardi, codardi e insensibili. Criminali di ogni sorta, torturatori e aguzzini al pari se non superiori ai loro, assassini, traditori, tiranni, stupratori, sadici e pazzi.
La cloaca dell'umanità si sarebbe riversata fuori dai cancelli scuri, risalito i gradini monolitici che li dividevano gli uni dagli altri come coltivazioni parassite e malate, superato gradi di dolore, profondità e tormento, oltre il filo spinato e le fruste uncinate dei loro controllori.
Per la seconda volta Pandora avrebbe aperto il suo vaso, ma invece di ogni male del mondo, di ogni sentimento negativo e malattia, sarebbero fuoriuscite le evoluzioni di quelle terribili maledizioni che avevano messo in ginocchio il pianeta millenni fa e che tuttora lasciavano la loro scia tossica, i loro strascichi melmosi, dietro di sé.
Le voci concitate che lo circondavano non erano che un sottofondo lontano, Cicno non le ascoltava davvero, non gli interessava nulla. Potevano uscire le bestie peggiori, le anime più sudice, ma sarebbe stato lui a vincere, lui a tornare in vita, lui a meritarlo più di tutti.
Si sarebbe goduto un poco quella nuova società, poi si sarebbe armato di tutto punto e sarebbe andato a vendicarsi, avrebbe detto a tutti la verità, si sarebbe eretto davanti a uomini e Dei e avrebbe parlato.
Tutti dovevano sapere, tutti dovevano vedere quelle bestie così come riusciva a vederle lui.
Quando si mosse le catene legate ai suoi polsi tintinnarono lugubri, come ogni dannata così lì dentro, ma per una volta non vi sentì peso, non provò sollievo nel sentire il metallo freddo contro le abrasioni sulla sua pelle, nulla. La sua mente ed il suo corpo erano protratti verso un'unica cosa: l'arrivo dei giudici.
Alla fin fine non era poi così in fondo al cratere dei Campi, si trovava all'incirca a metà, forse qualcosa di più, non lo sapeva. Il “crimine” di cui si era macchiato non era così grave, almeno secondo sua opinione, la terrazza in cui era costretto da secoli portava il suo stesso nome: Il livello dei Crudeli, eppure Cicno non comprendeva come si potessero riunire tutte quelle anime sotto un solo vessillo. C'erano centinaia di migliaia di modi di esser crudeli, in ogni situazione. Se tutti coloro che si erano dimostrati “crudeli” durante la vita si sarebbero dovuti riunire lì, allora non sarebbero esistiti né altri gradoni né altri Campi, altre Praterie.
L'uomo era crudele di natura, lo era spontaneamente, ce lo aveva nel sangue.
Se avessero chiesto a lui il suo girone sarebbe stato il primo, proprio davanti ai cancelli, perché tutti nella vita peccano di crudeltà.
Lui ne aveva fatto un po' il suo fiore all'occhiello forse, ma c'era da dire che veniva da un'epoca spietata.
Rimaneva il fatto che i giudici sarebbero arrivati in ordine discendente, dai meno ai più “pericolosi”, che il suo crimine non era suo e non così grave e che i dannati controllori non erano ancora giunti da lui.
Gli venne quasi il dubbio di potersi trovare più in profondità di quanto non credesse, ma scacciò via l'idea non appena il trambusto aumentò e una cupa processione discendere dalle scale che li collegavano alla terrazza superiore.
In poco tempo un capannello di anime tormentate si riunì vicino ai nuovi arrivati e le guardie scheletriche si schierarono attorno a loro come un bianco cordone di sicurezza.
Qualcuno urlò di star indietro ma Cicno non comprese chi di quei teschi l'avesse fatto, non gli interessava ammassarsi come bestiame, mescolarsi a quei suoi compagni di tortura. Avrebbe aspettato, Cicno era bravo a farlo, ad attendere pazientemente che la gente venisse da lui, che esaudisse i suoi desideri o che morisse tentando. Anche quella volta avrebbe atteso che la feccia si stancasse, che i più forti lasciassero cadere le armi, avrebbe atteso che i morti addetti venissero da lui e che gli chiedessero se volesse partecipare.
In breve quattro figure incappucciate si schierarono una di fianco all'altra, mentre le guardie si dividevano tra l'arginare i dannati e il montare banchetti di legno.
Con molta difficoltà riuscirono a far mettere in fila tutte le anime presenti, che spintonandosi a vicenda ed urlando cercavano di superarsi a vicenda per poter essere i primi ad iscriversi, i primi a lasciare quel posto.
Cicno si sedette mollemente a terra, incrociando le magre gambe e storcendo il naso davanti alle penose condizioni della sua veste. Un tempo era stata bianca e pura, giallo come lo zafferano e rossa come le terre. Un tempo la purezza, il sole ed il sangue erano brillati su di lui come ormai non facevano più.
Intento a tirare i fili di quel brandello di stoffa sfibrato Cicno non si rese conto che la più alta figura dei nuovi arrivati si fosse staccata dal gruppo. Un'anima si scostò dalla fila per cerare di trattenerla ma a quella bastò uno sguardo da sotto il nero cappuccio per farla desistere. Tutti gli altri si ritrassero al suo passaggio, tutti tranne il concentrato e infastidito Cicno, che ancora rimuginava su quanto sarebbe stato deplorevole presentarsi davanti a tutti quei morti conciato in quel modo. E dire che era sempre stato tanto bello e in ordine.
 

<< Non scalpiti all'idea di iscriverti, ragazzo?>>
 

Il biondo alzò la testa con lentezza, folgorato dal ricordo di quella voce bassa e vibrante, bella come nulla, seconda solo all'aspetto di quel tetro figuro che ora lo fissava dall'alto.
Sotto il bordo del pesante cappuccio il volto perfetto di una statua d'onice brillava di cupa luce nell'ancor più cupa ombra.
Com'era possibile che nel buio altro buio risaltasse? Eppure era così, nessun miraggio, nessuna magia, solo la realtà.
Quell'uomo era la persona più bella che mai avesse calcato quelle terre e tutte quelle che li circondavano, dalle profondità del pianeta alle alte volte celesti.
Bello più del Sole, più degli astri e delle stelle. Bello più dei liberi venti, della rigogliosa terra e dei cieli suoi sposi. Più bello dell'amore, della vita. Più della morte.

Bello da morire.
 

<< Thanatos… >> disse Cicno umettandosi le labbra secche e spaccate ma ancora piene e rosse come il sangue che più non scorreva in lui.
Erano secoli che non lo vedeva ma non avrebbe mai potuto dimenticarsi della sua voce di seta, morbida come il manto piumato di un angelo, come l'acqua fresca di una sorgente vergine e melodiosa come la risacca del mare ed i canti delle fronde.
Non avrebbe mai potuto dimenticare il suo viso perfetto, la sua pelle nera più della notte, figlia della notte stessa.
Si diceva che Nyx fosse splendida, che in lei brillassero le galassie ed il mistero dell'oscurità, dell'infinito. Thanatos ne era degno e magnifico erede, bello da togliere il fiato, la vita, così come la sua nera madre.

<< È passato molto tempo da quando ci incontrammo, Cicno.>>
<< Non chiedete a me quanto sia, non concepisco più lo scorrere implacabile del volere di Crono ormai.>> rispose amaramente il giovane, senza riuscire a staccare gli occhi da quelli profondi del dio.
<< Millenni, letteralmente millenni.>> soffiò con voce pacata, delicata come una carezza.
Cicno annuì a mala pena, poi sorrise con una punta di sarcasmo. << Mi perdonerete se non sono nelle migliori condizioni per incontrare una divinità, se avessi saputo che sareste venuto voi stesso mi sarei presentato al meglio.>>
<< Noto che il tuo temperamento non è cambiato molto.>>
<< Potevo soccombere alle torture ed impazzire o rimanere fedele a me. Cosa avreste fatto voi?>>
Il dio non cambiò minimamente espressione. << Probabilmente non lo sapremo mai. Non ti iscriverai?>> insistette.
Il ragazzo tirò su le braccia mostrando le pesanti catene al dio. << È faticoso star in piedi con questi addosso, sto solo aspettando che la fila si sfoltisca. Per ora lascio che su quei registri non vi sia ancora il nome del futuro vincitore.>> disse più sicuro.
<< Credi di vincere quindi.>>
<< Ne sono certo.>> Lo sguardo ceruleo dell'anima risplendette nell'aria densa, una scintilla di vita che ancora rimaneva ancorata a quello spirito, che ancora lottava.

Probabilmente il dio non si sarebbe aspettato nulla di diverso da lui, lo ricordava fin troppo bene.
Thanatos ricordava tutti fin troppo bene, era la sua condanna: sarebbe vissuto in eterno per togliere agli altri quella vita che in lui era innata ed immortale e avrebbe ricordato tutti, uno per uno, senza possibilità di scelta.
Certo, alcuni si rendevano più facili da ricordare, come il giovane semidio davanti a lui, ma ben o male tutti i figli degli Dei erano facilmente riconoscibili, avevano sempre fatto qualcosa di particolare per morire: che scadesse nella banalità più assoluta o nel mito.
Cicno, Cicno il crudele, era uno di quelli che si rendevano facili da ricordare per le sue gesta, non per l'assenza di queste.
Thanatos lo scrutò con attenzione, era anche a persone come lui che stavano dando l'opportunità di tornare in vita, era a persone peggiori di lui che stavano dando questa opportunità.
Era giusto?

<< Credi di meritartelo?>> domandò in fine il dio, fissandolo serio.
Il ragazzo lo guardò senza esitazione, aveva imparato in vita a non abbassare il capo davanti a nessuno, non l'avrebbe fatto certo da morto.
<< Sì. È giunto il momento che anche io faccia risentire la mia voce, specie a coloro che l'hanno dimenticata.>>
L'uomo nero non si espresse in nessuna particolare espressione, portò semplicemente una mano davanti a lui e schioccò le dita. Le pesanti catene si aprirono e caddero a terra con un tonfo sordo, sciogliendosi come ghiaccio e poi risalendo verso l'alto come un fluido denso. S'arrotolò su sé stesso sino a creare una lunga corda di ferro che andò a legarsi gentile e leggera attorno al polso scorticato di Cicno, come un bracciale delicato ed elegante, un anello di scintillante ferro dello Stigie.
Girò il polso in un movimento circolare chiudendo la mano a pugno, poi la riaprì con il palmo verso l'alto. Sulla pelle nera di vera un biglietto dorato che il dio porse all'anima.

<< Allora dimostralo.>>

 

 

 

*

 

 

Le anime lo guardavano curiose, domandandosi forse cosa ci facesse ancora lì dopo che gli scheletri esaminatori erano passati al gradone successivo, ma a lui non è che interessasse più di tanto.
Camminando ad agio sulla terra battuta, un uomo vestito da una lunga cappa nera, pareva quasi fluttuare, coperto da un buffo cappello a falde larghe su cui era appuntato un papavero, unica macchia di colore in quel curioso figuro.
Si muoveva ondeggiando, camminando un po' di qua e un po' di là, voltando la testa ma senza lasciar intravedere i proprio volto.
Con la tranquillità di una passeggiata si guardava attorno alla ricerca di qualcosa finché non lo individuò.
Seduto su di una roccia, con il suo scintillante collare stretto alla gola, Jonas teneva la testa bassa, cercando di non guardarsi attorno, tormentato da qualcosa che sperava non si ripercuotesse su ciò che lo circondava.
L'uomo saltellò sul posto felice di averlo scorto, poi gli si avvicinò veloce come un uccello in picchiata, il bordo della cappa che sfiorava a mala pena il terreno, le punte delle scarpe che vi disegnavano sopra una scia dritta e appena accennata.
Le altre anime lo guardarono sconcertate, nessuno aveva il permesso di volare lì, solo i demoni alati potevano permetterselo, persino gli Dei camminavano.
Dopotutto nel dominio di Ade non ci si poteva muovere come si faceva nelle terre di suo fratello. Di nessuno dei due.

<< Ehi! Ragazzo!>> la voce squillante dell'uomo fece sussultare Jonas, che si volse a guardarlo con una nota di terrore negli occhi.
Ne incontrò un paio scuri e densi, lucidi e al contempo profondi, parevano risucchiare tutta la flebile luce che c'era in quel luogo.
Il ragazzo non si mosse, non parlò, conscio che quello davanti a lui non poteva essere un morto qualunque, che non era proprio morto, che poteva essere solo un essere superiore.

Un dio.

<< Ah, sì! Sei proprio tu quello che cercavo. Non è difficile in effetti trovarti, sei l'unico con un giogo anche al collo!>> disse quello con tono leggero. << Però sai che non è male? I punk li apprezzavano tanto i collari e pare che stiano tornando di moda anche ora, o a breve, le Parche dicono che andranno alla grande tra qualche anno, mai quanto l'idromassaggio, ma non si può competere con quello. Certo, non è proprio un collare come si deve il tuo, ma il sunto è sempre quello, no?>> sorrise al ragazzo e si lasciò cadere nel nulla.
Jonas ebbe quasi paura che avesse calcolato male le distanze e credesse di starsi sedendo su qualcosa, si protese anche in avanti per afferrarlo e non farlo rovinare a terra, ma non successe nulla. La cappa si tirò attorno alle gambe incrociate dell'uomo, sollevandosi ulteriormente dal suolo e mostrando null'altro che l'aria sotto di lui.
Stava fluttuando.
<< Oh, tranquillo, non cado, non cado. Anche mio fratello si preoccupa sempre, come se non lo sapesse che sono capace a farlo, neanche a dire che mi conosce da una vita. Ed è mio fratello gemello, ci credi?>>
Jonas deglutì, la gola secca e la mente vuota.
Che voleva da lui?
<< Sei di poche parole? Guarda che anche se sono vecchio di anni sono giovane di spirito, non devi morderti la lingua con me!>>
L'uomo probabilmente gli sorrise ma Jonas non poteva saperlo, non vedeva il suo volto ma solo una striscia di un bianco accecante, chiaro più della luna, su cui spiccavano quei due pozzi neri e null'altro. Persino le sopracciglia erano coperte del bordo del cappello.
Che razza di dio era? Pareva una caricatura di un giornaletto. Non che glielo avrebbe mai detto, certo, lui portava rispetto verso le persone più grandi ed importanti, era quello che gli era sempre stato insegnato, ma… come avrebbe dovuto rispondergli?
Si schiarì la voce, dovendo fare un paio di tentativi prima di riuscire a parlare in modo quanto meno decente.
<< Mi scusi… cosa- cosa posso fare per lei?>> chiese gracchiante.
Il dio, perché su questo non c'erano dubbi, doveva esserlo per forza, saltò sul posto, rimbalzando nell'aria, e batté le pallide mani in uno schiocco sonoro.
<< Non darmi del lei! Mi fai sentire vecchio! Ho solo un- ugh, okay, no, battuta sbagliata. Non sono così vecchio, c'è gente più vecchia di me. Come Gea! Lei sì che è vecchia, io a confronto sono un giovincello!>> disse allegro.
Il ragazzo fece per riproporgli la domanda diversamente allora, ma l'altro lo interruppe.
<< Sono venuto a cercarti perché non hai preso il tuo biglietto! Te lo sei dimenticato? Non si può partecipare senza, non lo sapevi?>>
Jonas inclinò la testa confuso: il suo biglietto?
<< Ma io non ho nessun biglietto.>> soffiò flebile.
L'altro annuì. << Infatti! Sono qui per consegnartelo!>> come per magia, tra le sue mani apparve un rettangolino lucido e dorato che l'uomo porse a Jonas.
Lui l'afferrò con dita tremanti, rigirandosi il cartoncino tra le mani, osservandolo da ogni angolazione. Al centro vi era un numero composto da troppe cifre per esser letto, Jonas neanche ci provò, mentre focalizzò la propria attenzione su quelle lettere che, roteando e scambiandosi di posto, si tramutarono in una frase in perfetto tedesco.

 

Death Race Ticket
Campi di Pena
Ottava terrazza
- Codardi -

N° xxx xxx xxx

anima partecipante

Buona fortuna”

 

<< M-ma… non capisco… io non mi sono ancora iscritto. Come può essere- >>
<< Oh, ma si che ti sei iscritto, non ricordi? Hai deciso che avresti riaffrontato la vita, che saresti tornato sulla terra anche solo per assicurati che i tuoi cari avessero ricevuto degna sepoltura. È il tuo sogno, no?>>
Jonas guardò il dio davanti a lui senza sapere cosa dire.
<< Come fa a saperlo?>> chiese tentennante.
Il bavero alto parve aprirsi per un secondo, tutto ciò che servì a Jonas per vedere il sorriso accecante dell'uomo o forse per immaginarlo.
<< Non saremo il Dio misericordioso che hai conosciuto in vita, ragazzo, ma siamo comunque divinità. Noi sappiamo, anche più di ciò che sarebbe corretto sapere. Ignoriamo anche molto altro, ma questa volta non lo faremo, non possiamo, non io. Hai l'opportunità di lottare ancora, una seconda opportunità che nessuno ha mai avuto fino ad ora. Eri una persona contraddittoria, Jonas Friedrich, ma forse è giunto il momento di diventare la migliore versione di te stesso, non credi?>> Il dio distese le gambe verso il basso, ma i suoi piedi e la sua veste non toccarono terra.
Si sistemò il cappello con un gesto distratto della mano, prendendo il papavero che vi era appuntato sopra ed offrendolo al ragazzo. Quando lui lo prese allungò ancora la mano e gli sfiorò il volto, facendo scivolare le dita sul collo esile, sino al collare argentato. Il metallo si piegò sotto quei pallidi polpastrelli, più chiari della pelle dell'anima davanti a lui, assottigliandosi ed accartocciandosi su sé stesso sino a diventare una morbida collana dalle fattezze di un lucido e raffinato filo spinato.
<< Il vostro Salvatore ne portò una in testa, forse ti aiuterà a non dimenticare e a lottare con ancora più forza.>> il suo sguardo si addolcì. << Che la cieca Tiche ti assista.>>
Gli posò un'ultima carezza sulla gota e poi si voltò, fluttuando via con un fantasma, pallido e nero al contempo, contraddittorio proprio come aveva accusato Jonas di essere stato.
Il biondo lo fissò senza parole, uno strano calore gli avvolgeva le membra morte, come l'eco di un ricordo lontano, di un sogno.
<< Aspetta!>> urlò d'improvviso, quando la divinità era quasi giunta alle scale che lo avrebbero ricondotto verso la parte più alta dell'Ade.
Quello si voltò, inclinando la testa in una muta domanda.
<< Chi sei?>> gli chiese a voce alta, ritrovando un briciolo di quella sicurezza che un tempo era stata ballerina ed altalenante in lui.
Non poté vederlo ma ancora una volta ebbe l'impressione di averlo fatto: l'uomo sorrise dietro all'alto bavero, i suoi occhi assorbirono la luce che loro stessi producevano.

<< Il mio nome è Ipnos e sono il dio del Sonno.>>
<< E perché ti interessi a me?>>
La figura ebbe un sussulto, forse aveva alzato le spalle ma da quella distanza non si poteva dire.
<< Perché non dovrei? Le sfide sono interessanti se ci partecipano tutti, se no poi è una noia.>>
<< Credi che cambierà qualcosa se gareggerò o meno?>>
<< Ma come!>> esclamò quello, un secondo ed era di nuovo davanti a lui. << Credevo che qualcuno proveniente dalla tua epoca sapesse perfettamente quanto nessuno sia indispensabile ma tutti possano far la differenza.>> il suo sguardo penetrante lo inchiodò sul posto e Jonas non riuscì a replicare. << Anche un singolo uomo può far qualcosa di buono, che magari non cambierà il mondo, ma di sicuro sarà importante per qualcuno, magari anche solo per sé stesso, per le sue convinzioni, i suoi ideali. Non credi che sia importante battersi per ciò che ci sta a cuore? Molti prima e dopo di te l'hanno fatto e ad oggi le loro battaglie hanno ispirato altri ad issarsi in piedi e alzare la testa, non rimanere succubi di situazioni e tiranni. Perché non dovrei dare a qualcuno la possibilità di farlo? Di essere un altro volto alto e fiero che fissa il sole e non si nasconde nell'ombra della propria stanza? Pensaci e nel frattempo dirigiti verso i cancelli dei Campi di Pena, ci rimarrei davvero male se non ti vedessi durante la prima prova.>>Gli tolse il papavero di mano e glielo appuntò dietro l'orecchio. << Questo è un fiore molto particolare, con un significato particolare. Spero ti aiuti.>>
Un ultimo e definitivo cenno e questa volta il dio scomparve davanti ai suoi occhi, disperdendosi come fumo nero, risucchiato in un tunnel oscuro che si era aperto vorticando dietro di lui.
Jonas rimase solo in quello spazio roccioso, con un biglietto stretto in mano ed un fiore tra i capelli, senza sapere cosa fare, come fare, con quella voce e quelle parole appena udite che si rincorrevano prepotenti ed infinite nella sua mente.

Colpito ed affondato.

Allungò la mano e sfiorò i petali fragili e sgualciti del fiore.
Una voce lontana, persa nell'aria pesante dei Campi, una voce femminile che mai aveva udito, gli suggerì che quello spartano fiorellino fosse molto più di quanto apparisse.

 

Papavero, oblio, sonno eterno, immaginazione, consolazione.
Crescono tra le terre brulle e dissestante. Sono vita e morte.
Sopiti per anni ed anni, nascono e germogliano nei suoli poveri e dimenticati, nei campi di battaglia di cui nessuno più osa calcare il suolo.
Rossi come il sangue che bagnò la terra in cui nacquero.”

 

 

Jonas alzò allora il capo verso il cielo, alla volta cavernosa dell'Ade e si chiese, in silenzio, se sulle loro teste vi fossero ormai solo sterminati campi di papaveri.

 

 

*

 

 

<< “E lontano e ovunque, come una marea scarlatta,
si propaga il falò dei papaveri.”
Bayard Taylor.>>

<< È bellissima, Gio, ma così triste.>>
<< Lo so, ma questo purtroppo è il ruolo del papavero: rosso e sciupato ricordo di campi di guerra.>>

 















 

   
 
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