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Autore: _laragazzadicarta_    30/10/2018    4 recensioni
Cinque sconosciuti con nulla in comune: un cervello, un atleta, una principessa, una disadattata e un criminale.
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E così io, Bulma Standish, finii nell’aula punitiva il sabato prima di Natale. Quello che mi stava guardando il culo era il signor Vegeta Bender, era un criminale. Aveva trascorso i sabato degli ultimi due anni nell’aula punitiva in completa solitudine e, un paio di volte, era perfino finito in caserma per possesso di sostanze stupefacenti. Si sentiva il capo del gruppo, in realtà era solo un gran cazzone. Quello che sta sottolineando il manuale di fisica è Cabba Johnson: lo studente più promettente dell'istituto, il classico nerd con problemi a relazionarsi con gli altri. Quello seduto nel banco accanto al mio è Goku Clark: il mio punto debole. Capitano della squadra di rugby è una specie di William Shakespeare dello sport, per tutte le altre cose della vita è come se fosse nato ieri. Lì infondo c’è ChiChi Reynolds, probabilmente è pazza, o forse solo una disadattata, ciò che è certo è che fa morire dalle risate.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Bulma, Chichi, Goku, Vegeta | Coppie: Bulma/Goku, Bulma/Vegeta, Chichi/Goku
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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Who you think you are?

Chapter One: Won't you come see about me?¹

2018 Mercoledì 19 dicembre, Bromley Pl, Northbrook, IL 60062.

Entrai di corsa nella villetta di mattoni rossi all'angolo con Chelsea Road fuggendo dal freddo pungente che la seconda metà di Dicembre aveva portato con sé ricoprendo velocemente di neve densa e sudicia i tetti della città, i camini - fino a quel momento in disuso - avevano ricominciato ad emanare mostruosi e immortali serpenti di fumo che si snodavano impudentemente sopra Northbrook, serpenti feroci e nitidi come quelli di Coketown descritti da Charles Dickens in “Hard Times”. Scavai con la mano destra, resa rigida e violacea dal freddo, nella tasca del mio cappotto cammello alla ricerca di quell'invito profumato che mi era stato recapitato la settimana precedente nel mio studio al settimo piano di uno dei più importanti grattacieli di Chicago, l'indirizzo preposto per quella rimpatriata che avevo tentato in tutti i modi di evitare: 895 Bromley Place. Guardai un attimo il mio riflesso nello specchio appannato accanto all'entrata: avevo le guance chiazzate per il freddo e gli occhi ancora rossi per il vento. Mi tolsi il cappello beige coordinato al cappotto e diedi una sistemata ai cortissimi ciuffi turchini spelacchiati che mi ricadevano sulla fronte lievemente madida di sudore a causa della moderata corsa che avevo inutilmente fatto per non arrivare in ritardo. Strano, non lo facevo mai. Non mi davo mai tanta pena per il mio aspetto, credevo che ciò rientrasse nello stereotipo di editrice squattrinata di libri di favole per bambini che mi avevano cucito addosso, non mi importava più da tempo cosa la gente potesse pensare di me guardandomi. Mi vestivo come capitava, non badavo mai ai miei capelli in disordine nascondendoli sotto un basco rosso in forte contrasto con il colore dei miei capelli, dicevo quello che mi passava per la testa senza pensarci troppo, senza filtri, senza moderazioni, venendo spesso e volentieri apostrofata come “vipera”, ma nemmeno di questo mi importava. Il mondo attorno a me era sospeso nella nebbia, le persone che lo abitavano non erano altro che ombre sbiadite, spettri di una realtà che non mi apparteneva, o forse non mi era mai appartenuta; le loro voci echi lontani che rare volte mi davo la pena di ascoltare, quasi mai. Lui era l'unico che era riuscito a superare la nebbia, l'unico che riuscivo che sentire con chiara ed estrema nitidezza vicino a me nonostante fosse ormai lontano nello spazio e nel tempo. Mi sentii assalire da un profondo senso di claustrofobia, sperai ingenuamente di essere la prima ad essere arrivata, che non ci fosse ancora nessuno se non gli ospitali padroni di casa, che soprattutto lui non fosse ancora arrivato, così non avrei dovuto sopportare i suoi occhi tetri posarsi su di me più del dovuto. Suonai il campanello che rintoccò all'interno dell’appartamento cinguettando una pomposa versione di “Jingle Bells” in perfetta sintonia con le decorazioni natalizie che costellavano l’ingresso altrimenti asettico e comune, sentii dei passi veloci e affannati venirmi incontro e tuonare sul pavimento, l’uscio di legno della porta verniciata di blu elettrico si spalancò rivelando un largo sorriso sincero. Non era cambiato poi così tanto, conservava quel sorriso ingenuo e tremendamente asfissiante, accogliente, rassicurante. Non ebbi il tempo di continuare la mia analisi metodica che inaspettatamente l’uomo dai capelli sbarazzini a forma di palma, infrangendo tutte le mie barriere difensive, si gettò al mio gracile collo abbracciandomi calorosamente, con poco entusiasmo ricambiai battendo ritmicamente sulla sua schiena muscolosa l’ossuto palmo della mia mano.
« Chi è arrivato, tesoro? » chiese con curiosità allarmante dall'interno dell’abitacolo la corvina trasportando una grande vassoio d’argento stracolmo di leccornie di ogni genere. Inaspettatamente fui inondata da una deliziosa fragranza di tacchino arrosto e un’accogliente atmosfera natalizia. Storsi il naso constatando la giovialità in cui quella dimora era immersa, io che da vent’anni trascorrevo il Natale da sola, seduta sul mio divano di pelle con indosso quello stupido pigiama in pile con un motivo a cuori rosa che odiavo, accompagnata nel mio viaggio verso il nuovo anno solo da una bottiglia di vodka cristallina. L’uomo sciolse l’abbraccio solo in quell’istante e, girandosi verso sua moglie, sorrise dicendo « È arrivata Bulma Standish ».
La corvina sorrise di sottecchi appoggiando il vassoio sul lungo tavolo imbandito del salone, poi ci raggiunse in corridoio dove, proprio mentre mi stavo privando del soprabito, mi abbracciò calorosamente cogliendomi di sorpresa come poc’anzi aveva fatto suo marito. Rimasi nuovamente spiazzata, ero intrappolata in una corrente di emozioni che non riconoscevo mie. Per me erano semplici conoscenti, vecchi compagni di scuola con cui avevo trascorso l’unico giorno entusiasmante della mia adolescenza, amici occasionali che con il tempo erano tornati ad essere estranei ai miei occhi, mi trovavo a constatare l’importanza che al contrario avevo io per quella coppia, il posto speciale che ricoprivo nei loro ricordi, improvvisamente mi riscoprii indegna di quell’affetto non corrisposto, fuori luogo in quell’atmosfera calda e accogliente.
« Non vorrei rovinare l’atmosfera ». La sua voce era lieve, nasale, imbarazzata, un sussurro impercettibile tra le risate felici dei due coniugi. Istintivamente ci voltammo tutti e tre verso il nuovo arrivato con un sorriso dolce che costrinse l’uomo a passarsi nervosamente una mano tra i capelli a spazzola neri come la pece. Indossava una giacca di velluto bordeaux, una camicia nera adornata da fenicotteri del medesimo colore e un semplice paio di pantaloni neri aderenti: sembrava appena uscito da una discoteca di periferia.
« Ci siamo tutti! » esultò l’uomo dai capelli a palma facendoci strada con un gesto teatrale verso l'ampio salone, mi voltai un attimo verso la porta ormai serrata alle nostre spalle: lui dov’era? Improvvisamente mi ritrovai a sentire la mancanza di quegli occhi tetri, spettrali e irriverenti, di quel sorriso sornione e a volte maligno che per due decenni avevo evitato a tutti i costi.
« Credo che lo scarico del tuo cesso sia andato a farsi fottere ». Il mio cuore perse un battito, il respiro divenne affannoso, le gambe iniziarono a tremare non appena quella voce raggiunse le mie orecchie. Mi riscoprii adolescente quella notte di mezzo inverno, per cinque minuti, forse solo per un attimo. Il tempo di prendere a braccetto il vento e arrampicarmi fino a una cara finestra nascosta dei miei ricordi: un bacio sotto la pioggia di dicembre e labbra vicine, unite insieme, indivisibili, mi ritrovai a confondere un perdifiato con un batticuore, esalare le sillabe d’un nome breve entro un odore metallico e fuligginoso che cospargeva l’aria inquinata dell'Illinois. Non mi voltai, ma rimasi ferma al centro del corridoio finché lui, dal bagno, non si diresse verso il salone superandomi con quella sua particolare andatura felina; mi sembrò quasi che, giunto accanto a me, avesse inspirato il mio profumo e si fosse lasciato scappare un sorriso malizioso nascosto dietro il palmo della mano che di era portato al mento.
« Ci accomodiamo? » chiese gentilmente la corvina che, senza che me ne accorgessi, era rimasta dietro di me ad osservare i miei movimenti come una madre protettiva che osserva la figlioletta da lontano andare in bicicletta per la prima volta. Ci accomodammo tutti intorno al lungo tavolo rettangolare velato con una stoffa cremisi decorata da piccole rose ricamate, sorvegliati dalla luce dei due candelabri anneriti che vibrava ad ogni piccolo spiffero di vento proveniente dalla finestra socchiusa. Improvvisamente soggiunse la consapevolezza che non avevamo nulla da dirci: eravamo cinque sconosciuti seduti ad un tavolo imbandito di prelibatezze che fingevano di essere amici da una vita; eppure, venti anni fa, avevamo compreso a nostre spese che è più facile confidarsi con un estraneo, chissà perché? Forse perché un estraneo ci vede come siamo realmente e non come vogliamo far credere di essere.

1998
Sabato 19 dicembre, Glenbrook North High School, Shermer, Illinois, 60062.

« Non posso credere che non puoi fare niente ». La mia voce era sconsolata, lagnosa, depressa, un sussurro strozzato nel vento gelido di dicembre. Odiavo me stessa per essermi fatta scoprire, odiavo il preside Freezer per avermi coinvolta in quella pazzia e ancora di più odiavo mio padre per averglielo permesso. Mio padre iniziò a pulirsi gli occhiali appannati con l’orlo dell'orribile maglione verde cetriolo intarsiato che mia madre gli aveva regalato lo scorso Natale, evidentemente avevano fatto di nuovo pace.
« Ma ti sembra giusto che io debba passare tutto il sabato lì dentro? » chiesi esasperata cercando di provocare una qualunque reazione in mio padre, ma lui fece finta di non ascoltarmi…come faceva sempre, d’altronde.
« Ho la faccia di una che non capisce? » continuai il mio monologo melodrammatico vagando con lo sguardo verso il profilo asettico e mal ridotto del mio liceo. Le vacanze di Natale erano iniziate il giorno precedente, subito dopo il suono dell’ultima campanella alle diciassette in punto. Le vacanze di Natale erano iniziate per tutti, tranne che per me e altri quattro sconosciuti disgraziati. Sarei dovuta essere al centro commerciale con la mia migliore amica, la biondissima Lazuli, immersa tra decine di pacchi variopinti di cartapesta incorniciati da nastrini argentati, sciocche compere natalizie, liste regalo infinite, vestiti costosi da sfoggiare per la festa di Capodanno che mia madre avrebbe organizzato nel nostro giardino come ogni anno; invece, ero lì, intenta a contrattare una libertà che mi era stata già da tempo negata.
« Dopo ti farò un bel regalo » rispose finalmente mio padre risistemando i suoi occhiali Armani sul naso che prepotentemente gli incorniciava il viso, poi raggiunse i sedili posteriori allungandosi con non poca fatica e mi porse la mia borsa rossa di Valentino ed una busta di carta riciclata che custodiva il mio pranzo, irata strappai malamente borsa e busta dalle sue mani callose e aprii la portiera della Mercedes grigio metallizzato.
« Ricorda: preferire lo shopping ad una lezione non significa che non capisci niente. Buona giornata, tesoro » disse posandomi paternamente una mano sulla spalla ossuta, velocemente mi divincolai dalla sua presa, uscii dall’auto e percorsi silenziosamente le scale che antecedevano l’entrata della scuola immersa nel freddo gelido di dicembre. Sarebbero state le nove ore più lunghe della mia vita.
Evitando un paio di maliziosi occhi color ardesia che si erano posati prepotentemente sul mio fondoschiena all’entrata, mi diressi velocemente verso l'Aula Magna in cui avremmo trascorso le successive nove ore sorvegliati dal preside Freezer in persona. Giunta nella grande sala arredata da mobili laccati di nero di seconda mano che custodivano al loro interno i successi scolastici e sportivi dei nostri predecessori, presi posto al centro della prima fila di banchi di legno sistemando intorno a me le mie borse in modo che nessuno di quegli sfigati potesse sedersi accanto a me. Ebbi appena il tempo di sistemare scrupolosamente sulle mie gambe snelle un libro appena comprato, “Il Lercio” di Irvine Welsh, che il signor Freezer, accerchiato dai miei quattro compagni di sventura, raggiunse l’aula. Il preside attese che tutti si fossero sistemati nei rispettivi banchi, poi posizionandosi davanti a noi e guardandoci scrupolosamente negli occhi, uno per uno, iniziò a parlare.
« Bene, bene. Eccoci qui. Voglio congratularmi con voi per essere arrivati in orario ». Sbuffando alzai una mano per richiedere la parola, il presidente Freezer alzò le sopracciglia profondamente annoiato e mi fece segno di parlare.
« Mi scusi, sir? Penso che ci sia un errore. So cos’è una punizione, ma…vede…ecco…non credo di appartenere a questo posto ». Una risata maligna e ovattata, proveniente dal ragazzo seduto alle mie spalle, giunse alle mie orecchie e mi convinse ancora di più a portare avanti il mio pensiero, quello era un posto per criminali di basso lignaggio, non certo per ragazze “per bene” come me. Stavo per continuare la mia teodicea, ma il preside mi fece segno di tacere prima di gettare uno sguardo veloce al Rolex che sporgeva dal suo polso.
« Sono le 7:06. Avete esattamente 8 ore e 54 minuti per pensare al perché vi troviate qui: per riflettere sugli errori che avete commesso ».
Di nuovo fu il ragazzo alle mie spalle ad attirare l’attenzione del preside, e dell’intera sala, su di sé sputando un denso rivolo di saliva provocato dal costante abuso di sigarette sul pavimento, mi voltai rivolgendogli uno sguardo disgustato che gli ispirò una nuova risata. Era quel genere di ragazzo che godeva degli sguardi torvi, delle occhiatacce, dell’odio delle persone perché, semplicemente, non pensava di poter ricevere altro, di meritare cose belle o di essere apprezzato per ciò che era veramente. Freezer, abituato a quell'atteggiamento supponente, lo ignorò e tornò a posare i suoi occhi violacei su di me « Non potete parlare... », poi posò il suo sguardo su un ragazzo mingherlino con gli occhi leggermente a mandorla seduto nella seconda fila di banchi «…Non potete alzarvi dai vostri banchi…», infine guardò il ragazzo dietro di me «…e soprattutto non potete dormire».
« Tutto chiaro, ragazzi? Inoltre, oggi proveremo qualcosa di diverso. Per la fine della giornata dovrete scrivere un saggio…non meno di mille parole…in cui mi descriverete chi pensate di essere » concluse l’uomo che, nonostante la bassa statura, appariva molto autoritario. Tutti lo temevano, tutti tranne lui, lui che si divertiva a provocarlo, deriderlo, umiliarlo davanti agli altri studenti.
« È un test? » sorrise il ragazzo dietro di me ghignando con derisione mentre si passava la mano, ricoperta da un guanto di pelle da motociclista risalente almeno al decennio precedente, tra i folti capelli corvini.
« Quando dico “saggio”, intendo “saggio”, non una singola parola ripetuta all'infinito. È chiaro, signor Bender? » chiese perentorio sporgendo il busto in avanti, il ragazzo incrociò le braccia al petto e sorrise rispondendo « Cristallino ».
« Bene, forse imparerai qualcosa su te stesso. Forse, e ce lo auguriamo tutti, deciderai perfino se tornare o meno qui » disse il preside a quello che in quel momento avevo scoperto chiamarsi Bender con tono di sfida, di nuovo seguì un ghigno di superiorità.
« Uh, sa…Io posso risponderle anche in questo momento, signore. Sa, la risposta è “no”. “No” per me, perché…» disse il ragazzo dagli occhi a mandorla in seconda fila alzandosi e disubbidendo agli ordini con voce tremante.
« Siediti, Johnson » lo rimproverò il preside passandosi una mano sulle tempie, il ragazzo ubbidì biascicando un « Grazie, sir ». Per un istante temetti che stesse per avere un infarto tanto tremava.
« Il mio ufficio è proprio di fronte quest'aula come tutti ben sapete – di nuovo il suo sguardo tornò su Bender -. Domande? »
« Sì, io ho una domanda ». Quella voce provocatoria, maliziosa, altezzosa…non sapevo quanto ancora sarei riuscita a sopportarla. « Mike Myers sa che ha derubato in suo guardaroba? » chiese riferendosi al taglio della giacca indossata dal signor Freezer tremendamente simile a quelle di Myers nei panno di Austin Powers, poi il ragazzo rincalcò la dose aggiungendo « Bella anche la decorazione in forfora sulle spalle, fa molto effetto neve e si sposa alla perfezione con l’atmosfera natalizia. La forfora l’ha comprata con la giacca o ci ha pensato lei? »
« Le darò la risposta alla sua domanda, signor Bender…il prossimo sabato » rispose il preside facendogli intendere che si era guadagnato un altro sabato di punizione avviandosi verso la porta, poi sull'uscio aggiunse « Non giocare con il fuoco, ragazzo, potresti bruciarti ».
« Quello è…un gran leccaculo » disse Bender indicando la porta d’ingresso tenuta aperta da una vita posta sull’angolo destro. Stavo per dedicarmi alla lettura quando, dal fondo della sala, un rumore attrasse la nostra attenzione. Una ragazza seduta in ultima fila, una di quelle strane post-punk con gonne tagliate, calze a rete strappate, trucco pesante ed incisivo sugli occhi, si stava rumorosamente mangiando le unghie laccate di nero.
« Se continui a mangiarti le unghie in quel modo, non avrai più fame a pranzo, Reynolds » ghignò Bender poggiando rumorosamente i suoi scarponi sul banco e guardando la ragazza che, di contro, gli sputò addosso un pezzo d’unghia.²

E così io, Bulma Standish, finii nell’aula punitiva il sabato prima di Natale. Quello che mi stava guardando il culo era il signor Vegeta Bender, era un criminale. Aveva trascorso i sabato degli ultimi due anni nell’aula punitiva in completa solitudine e, un paio di volte, era perfino finito in caserma per possesso di sostanze stupefacenti. Si sentiva il capo del gruppo, in realtà era solo un gran cazzone. Quello che sta sottolineando il manuale di fisica è Cabba Johnson: lo studente più promettente dell'istituto, il classico nerd con problemi a relazionarsi con gli altri. Quello seduto nel banco accanto al mio è Goku Clark: il mio punto debole. Capitano della squadra di rugby è una specie di William Shakespeare dello sport, per tutte le altre cose della vita è come se fosse nato ieri. Lì infondo c’è ChiChi Reynolds, probabilmente è pazza, o forse solo una disadattata, ciò che è certo è che fa morire dalle risate.³



¹ Don’t You (Forget About Me) dei Simple Minds. Il titolo di ogni capitolo sarà ripreso da una frase di questa canzone.
² I dialoghi sono presi dal film, tranne qualche adattamento. Nel film si fa riferimento a Barry Manilow, cantante degli anni 80, mentre io ho preferito citare Mike Myers dato che "Austin Powers-Il controspione" è del 1997, quindi più vicino ai ragazzi della mia storia.
³ La descrizione è ricalcata sul modello della descrizione che fa Tokyo dei suoi compagni ne "la casa de papel".
⁴ I cognomi dei ragazzi sono quelli dei protagonisti del film.
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Note:
So di avere due Fanfiction in sospeso, ma è stato più forte di me! Stamattina in bagno, prima di andare a scuola, girovagando su instagram, ho trovato un’adorabile fan art di @lem0urodraws (https://www.instagram.com/p/BpiGl_GBrPy/?utm_source=ig_share_sheet&igshid=1b6odxqc3le6r) ispirata al film “The Breakfast Club” che adoro! Per tutto il giorno ho pensato a questa cosa e non ho potuto non scrivere qualcosa. Sarà una Fanfiction breve, vorrei finirla in settimana. Come al solito vorrei un vostro parere!
Vit
   
 
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