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Autore: Shirokuro    03/11/2018    1 recensioni
{ levi pov; jack centric | one-shot di 1805 parole circa | angst; introspettivo }
Per definizione l’amore è effimero, per esperienza è fragile. Per esclusione, non è reale. Figurarsi se esiste, quindi, l’amore eterno.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jack Vessalius, Revis Baskerville
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Divinità a Sua immagine e somiglianza
 
Lo scriveva nei propri occhi, lo imprimeva nelle anime, lo scalpellava nella pioggia. Jack Vessalius, d’altronde, era un romantico ed un sognatore. Voleva, infatti, che il suo sentimento pervadesse il mondo e ne venisse contaminato.
   Sì, non saprei in che altro modo definire quel processo lento e lugubre: contaminazione. La pelle di Jack, infatti, da tempo ormai, aveva iniziato ad emanare un odore squallido, un orrido profumo di rose, mischiato allo sputo delle genti che non capivano la sua arte. Però io, da artista quale ero, della decomposizione del suo corpo me ne ero innamorato.
   La continua ricerca di una vita sfuggitagli dalla nascita fra le dita, l’infante sorriso illuminato dai raggi filtrati fra le tende, le mani di tante donne sulle sue guance nivee – prima di allora toccate da mille donne e mille uomini ancora. Del nobile Vessalius, dedito all’amore, non c’era nulla di prezioso. La sua tendenza a sporcarsi era ciò che ai miei occhi lo rendeva puro. D’altronde, si sa, l’inchiostro macchia il foglio bianco immacolato, non quello coperto di errori che più nero non può divenire.
   Il viso di Jack, in effetti, era scuro. Provato dalle emozioni, dalle esperienze, dagli incontri; nulla di lucente era sopravvissuto sul suo volto, tranne una strana e lucida scintilla nei suoi occhi. Lucida, si intende, nel senso che emanava una sinistra luce; la sua mente, paradossalmente, era tutto fuorché lucida. Ciò che con le sue iridi – muse di chissà quante canzoni e sospiri – osservavano, ciò che percepiva con la vista, tutto quanto gli giungeva quasi come una fastidiosa patina, un alone di sporcizia che gli impediva di rilassarsi nella sua depressione.
   Le sue forme delicate e gentili avevano ingannato tante personalità, gli avevano costruito una scala che lo aveva condotto fin al suo ultimo obiettivo, fino alla più alta onorificenza che poteva immaginare con la sua testolina da neonato, da inesperto navigatore di acque ridicolmente agitate – alle quali però era sempre riuscito a scampare.
   Jack Vessalius era sporco dentro e fuori e tutto ciò che lo circondava lo imitava e diveniva a sua volta più scuro. Mai quanto lui – non esisteva modo qualcosa raggiungesse quel livello di abissale e fine perdizione –, ma tentava. Però non era sempre stato così. Ho accennato al suo obiettivo, no?
   Questo, in realtà, non lo raggiunse mai. Nel passato, nel presente e nel futuro; quel suo obiettivo non esiste e basta. Sto parlando dell’amore eterno.
 
Per definizione l’amore è effimero, per esperienza è fragile. Per esclusione, non è reale. Figurarsi se esiste, quindi, l’amore eterno. Che concetto spaventoso. Un vortice di insicurezze e sforzi inutili mascherati dalla deliziosa degustazione di una vaga soddisfazione e un piacere che in realtà si presenta come dolore. Che masochista aspirerebbe a qualcosa del genere. Il terrore nella sua manifestazione più potente.
   Bisognava concedere al giovane nobile, e glielo concederò, che in qualche modo aveva sfiorato una realtà in cui questo mostro che lui bramava come nessuno era presente. Per poco, ma lo aveva fatto.
   Il suo mondo, per quell’istante di gioia, era stato bianco. Le sue lacrime erano cristalline. Il suo sangue sempre concentrato sulle guance, le sue orecchie impazienti di ascoltare una certa melodia, le sue mani – al contrario – pazienti, il suo cuore in pace, la sua bocca come di cera fissata in un vago sorriso, il suo sguardo perso nella immensità di un chiarore che qualcosa di infimo come lui non era in grado di comprendere.
   Nella confusione di un bambino che non sa gestire un problema per lui troppo grande, si era quindi aggrappato alle mie parole e aveva tentato di rifugiarsi nelle braccia che avevano conosciuto il calore e la carne del suo tanto proclamato amore. Credeva nella loro potenza, nella loro realtà, nel silenzio che diceva troppe cose che non voleva ascoltare ma che non poteva far altro di cercare nel buio in quanto unica vera salvezza della sua anima in questo mondo materiale che non aveva più nulla da offrirgli, secondo lui.
 
In qualche modo, tanto lo amo quanto lo disprezzo. Era il mio giocattolo preferito, la mia crepa meglio riuscita, il disastro meglio divulgato. Eppure, avevamo idee troppo diverse. Il suo stesso tentativo di crogiolarsi e fondersi alle bende che trattenevano le mie pelli non era altro che un cieco e misero atto di commiserazione per se stesso. Al contempo, la sua più grassa consolazione.
   Io avevo altre vette da scalare. Puntavo alla vera eternità. Miravo all’essere il padre di tutti i padri.
   Voi lo chiamereste Dio. Io la chiamo Volontà di Abyss.
   Abyss è il nostro Paradiso, Purgatorio e Inferno. Per questo, la sua capacità di volere è la mia divinità, che decide le sorti di tutti. Essere il genitore della capacità di esercitare fisicamente i suoi desideri mi rende allora qualcosa di indefinito ma grandioso. Sono il motivo per cui Dio è fra noi, ma sono al tempo stesso stato creato da lui. Un immenso paradosso che è destinato a protrarsi per sempre, all’infinito, in un susseguirsi di impossibili intrecci terreni e extrasensibili. Straordinario scherzo del Fato. Indescrivibile manipolazione della Natura. Io ambisco all’eterno reale, ad un’esistenza che non può mai sparire del tutto.
   Per questo, nonostante il mio giocattolo faccia ancora i suoi versetti e non si sia in alcun modo scolorito a causa del mio maneggiarlo senza cura alcuna, non riesco a trovare un motivo per non odiarlo.
 
Oh, ripeto, io lo amo. Io ho amato e amo tutt’ora Jack Vessalius. Non so per quanto ancora lo amerò, ma non smetterà mai di divertirmi ed intrattenermi. Jack Vessalius, d’altronde, è tutto ciò che veramente ho su quella terra.
 
I capelli biondi intrecciati dalle dame della casa sin dal mattino e la lingua tagliente che ingenuamente ferisce gli arti di chi lo incrocia per le strade sono caratteristiche affascinanti dell’uomo che nelle mie stanze ammirava la madre di tutte le madri. Era incantato, so per certo, dalle ombre delle sue forme concrete e per niente interessato a quelle astratte che però quella contenitrice alta e malinconica era riuscita a proiettare su di lui che era una mera vittima dei suoi capricci. Un autentico idiota, un folle.
   L’instabilità del pelo dell’acqua di un vaso che da tempo trabocca, ecco cos’era quella scintilla nei suoi occhi. Così assurdamente reale, così intrigantemente irrazionale.
   Coinvolgente, attraente. Ecco cos’era Jack, ecco come descriverei quella sua passione mai consumata. Quasi affascinante, commovente persino. Un miscuglio di desideri ed imbarazzanti sogni che insieme ricreavano e proponevano un’idea di sé che nemmeno lui riusciva ad afferrare con le dita affusolate e grattate dall’aria.
   Il legno dei braccioli della sedia ormai ridotto a polvere e ricordi. In quella casa, la casa della famiglia Baskerville, Jack aveva amato. Eppure aveva rispettato dei confini che lui stesso si era posto. Per lui, Lacie, era bianca.
   Era un’esistenza mai entrata in contatto con alcun peccato che lui riconoscesse come tale, come un’immensa forza che nessuno aveva mai scalfito nella sua totale e trasparente debolezza. La fede dell’uomo che mai aveva posto le sue labbra su altri cuori in quella donna era talmente grande che perfino io, per un secondo, ci ho creduto. Ho creduto nella giovinezza di un sentimento barbaro e sgradevole. Un acido che lo corrose lentamente, ma in profondità, lasciando intatte le delusioni e scorrendo fra le fratture dei suoi più profondi sentimenti.
   La sua figura che sprofondava in se stesso, la sua grandissima e incommensurabile speranza tinta di pazzia rossa e azzurra come i cieli che ammiravo – tutto risplendeva. Contro luce, contro ombra. Jack era in primo piano. Sempre. Al centro della mia visione e della visione di tutti.
   In qualche modo anche lui era divenuto eterno.
 
Pensava che respirando ciò che restava di lei fra le mie lenzuola si sarebbe avvicinato nel peccato che avevo commesso. Desiderava una grande punizione, che voleva infliggersi tramite la mia coscienza pulita di immensi errori.
   Eppure proprio quei suoi enormi inspiri, quei profumi che inalava, quel sudore che non c’era più, proprio loro erano stati complici del mio più grande trofeo.
   Respirava sopra e sotto di noi. Tirava i fili che lo rendevano triste. Piangeva i suoi vizi per distruggerci e pregava per la nostra morte. La gemella di Alice ci teneva tutti in pugno, eravamo alla sua mercé e lui nemmeno se ne interessava. La riteneva una delicata pedina da impiegare in uno schema triste e troppo complesso per lui, il quale ancora lacrimava le salate perle di chi non è abituato a perdere.
   Era entusiasmante vederlo lavorare al suo progetto, credersi più potente di Dio. Convinto di poter sovrastare gli schemi che io ho ricevuto in dono da una personalità fuori dagli schemi, che trascende spazio e tempo. Non dimentichiamoci che io, Levi, sono stato Glen Baskerville. Non esiste titolo meno umano, meno ancorato alla materialità delle acque che nessuno può imprigionare tra le mani pur essendo reale.
   Un illuso senza freni che nessuno provava a fermare e che anzi tutti spronammo a modo nostro, quasi nella speranza ci terminasse tutti. Eravamo tutti degli sprovveduti, lasciati ai nostri istinti che ci costringevano secondo specifiche leggi scientifiche e matematiche attorno al nobile.
   Straordinario, e nient’altro.
 
Avete mai visto gli occhi di chi cerca qualcuno che non esiste più? La delusione, il rammarico, la voglia, la necessità, la rassegnazione e la consapevolezza. Una sana perdita di senno. Ho osservato a lungo gli occhi dell’eroe della nostra storia. Colmi di domande delle quali già conosceva la crudele risposta, segreti che voleva condividere, piani che desiderava scrivere. Quante cose quegli occhi racchiudevano. Quante lacrime non avevano potuto versare. Quante emozioni trattenute. Quanti confronti evitati.
   Jack Vessalius aveva trascorso la vita compresa tra la morte di Lacie e la scoperta di Alice così. Cogli occhi. Con gli smeraldi che per qualche ironia del destino erano incastonati nel suo viso. Non aveva passeggiato, non aveva partecipato a nessun evento, a stento mangiava o beveva. Non trovava motivazione in nulla e non sapeva lamentarsene. Era incapace di esternare il dolore. Era incapace di riconoscerlo. La vita gli scivolava addosso, la sensazione di esistere era vaga. Boccheggiava inconsciamente. Tremava nel buio. Provava un freddo non reale.
   Una condizione che da esterno riesco a comprendere ed analizzare, ma della quale non vorrei mai ammalarmi. Non che sia in mio potere, inteso.
   Oserei dire, comunque, che forse Jack era davvero innamorato. Parlando di quell’amore per cui si farebbe di tutto, per cui nulla conta se non una persona che non sei tu, in cui tutto ruota attorno alla persona del proprio desiderio, che non ti permetti di sporcare con la tua passione e desideri vedere immacolata per sempre, libera da te o altri, un sentimento per cui tutto vacilla tra un idilliaco bene e un macabro male profondo. Certo, se l’amore è in grado di ridurti così magramente non saprei proprio come definirlo un’esperienza piacevole, ma apparentemente anche questa alienazione ne fa parte e viene lodata.


 
– soundtrack(s); about me (panaman), ranshou seimei (orangestar). chi non muore si rivede e purtroppo io non muoio mai.
non so nemmeno da dove iniziare, su questa one-shot vorrei dire tutto ma non c'è nulla da dire. la volevo scrivere dal lontano 2016 forse, se non addirittura prima, ma solo quest'estate sono riuscita a finirla, dopo bozze infinite; e invece di pubblicarla qua (perché onestamente pubblicare su efp mi fa tristezza ormai, ma non riesco a smettere del tutto) l'ho buttata su un blog, ma alla fine eccomi di ritorno.
sono estremamente legata a questa storia, perché è un po' il culmine della mia introspezione su jack, ma tramite gli occhi di levi (altro personaggio che amo da impazzire). quello di personaggio che narra l'interiorità di un altro era uno stratagemma che ho sempre voluto adoperare e sono soddisfatta del risultato alla fin fine, anche se inizialmente questa doveva essere una one-shot sulle manie di levi e non sull'ossessione morbosa di jack per lacie. e poi dopo letteralmente anni, non puoi che affezionartici ad una storia.
non mi fermerò a spiegare le ripetizioni o le figure retoriche, perché sono troppe e sono dell'impressione siano abbastanza assiomatiche, ma ci tengo a far notare che questa one-shot è intesa come un monologo che levi fa ad un pubblico, probabilmente il mondo intero, e che quindi per quanto possibile ho cercato di proporre un linguaggio evocativo tipico degli attori, senza distanziarmi però troppo dalla consapevolezza che questo è un testo scritto e sia stato pensato per essere letto e non recitato. così, spero di giustificare lo stile che ho adottato.
grazie di essere giunti fino a qua, spero sia stata una lettura gradita e che sia riuscita a riempire i 10 minuti che avete impiegato per leggere in maniera che non vi pentiate di aperto questa fan fiction, fra le altre.
   
 
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