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Autore: ColdBlood     06/11/2018    1 recensioni
[Suburra]
A volte doveva trovare degli obiettivi, piccoli obiettivi, per darsi forza, per tirare avanti. Da qualche tempo a quella parte, da quando tutta quella storia era iniziata, il suo obiettivo era aspettare la prossima volta in cui avrebbe visto Aureliano Adami e sarebbe stato così ancora un’ultima volta.
Aureliano/Spadino
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Non sentiva Spadino da ormai qualche giorno. 
Si erano fatti dei nuovi numeri per comunicare, con dei vecchi telefoni che non avevano neanche la connessione ad internet. Li usavano per tenersi in contatto prima del loro incontro.
Aureliano non poteva semplicemente mollare tutto ed andarsene, non aveva più questo potere, come quando c’era sua sorella a tenere i conti in ordine, o quando, comunque, suo padre non aveva nessun intenzione di dargli delle responsabilità. 
Era circa mezzanotte quando Aureliano prese una strada secondaria lungo il litorale di Ostia e si avvicinò alla sua baracca sul mare. Era buio, non c’era nessuno nelle vicinanze, anche se qualche volta aveva beccato qualche ragazzino nascondersi vicino allo stabilimento, che sembrava abbandonato, per farsi una canna.
Ma c’era silenzio, con la sola eccezione del rumore delle onde.
Stava tornando dal ristorante, era lì che aveva spostato tutti i suoi affari. Non riusciva più a stare nella sua casa di famiglia, il ricordo di Isabelle e di sua sorella era ancora troppo nitido.
Per questo andava a dormire nella sua baracca sul mare, o meglio, quella di sua madre.
Era rimasta così com’era fuori, mentre dentro l’aveva fatta sistemare, per renderla leggermente abitabile. Ormai andava a dormire lì quasi tutte le sere, non c’era molto per vivere agiatamente, ma c’era il mare e quando Spadino andava a trovarlo, potevano stare tranquilli e tanto bastava.
Rallentò quando i suoi fari, invadendo lo spiazzale sporco di sabbia, illuminarono un’altra macchina.
Aveva ormai imparato a conoscerla, era la macchina di Spadino, e l’avrebbe riconosciuta tra mille. 
Poche persone a Roma avevano gusti pacchiani e kitch come quella del sinti.
Parcheggiò la macchina accanto all’altra, aspettandosi di trovare il ragazzo seduto al posto del guidatore, ma non c’era nessuno al suo interno. Forse lo aveva anticipato in casa, non si sarebbe stupito di trovarlo a rubargli birre dal minifrigo e svaccato sul suo nuovo letto Ikea.
Uscì dalla macchina e la chiuse a chiave, fece il giro dell’auto abbandonata nel suo parcheggio, illuminato dalla luce della luna e vide delle macchine nere a terra.
Accese la torcia del suo smartphone e la puntò sul pavimento.
Era sangue, sangue fresco e rosso.
Si guardò intorno preoccupato e prese a correre verso l’edificio, il telefono puntato a terra che faceva gradualmente luce su altre gocce di sangue, sempre più copiose. 
Mentre correva verso la porta cercò con lo sguardo in lungo in largo, aspettandosi di vedere la figura di Spadino stagliarsi contro la luce, ma lo vide soltanto arrivato davanti alla casa.
Spadino aveva aperto la piccola e insignificante porticina di legno del portico e si era accasciato a terra. Era privo di sensi, ferito e sanguinante.
Quella scena bloccò il cuore nel petto di Aureliano, la paura e la disperazione che si propagarono nel suo corpo quasi lo rese incapace di muoversi e di agire.
Alberto era lì, davanti a lui, la faccia completamente bianca, le occhiaie ancora più scure, gli occhi semichiusi. La sua espressione, il suo corpo inerme, gli diedero la forza che necessitava per muoversi.
Si precipitò su di lui e prese a schiaffeggiarlo, per riportarlo nel mondo dei vivi. Il suo stomaco stava sanguinando e tirando su la sua felpa ormai fradicia di sangue si rese conto che era una ferita d’arma da fuoco.
«Albè, Alberto te prego svejate!» gli urlò, disperato.
Il sangue ormai aveva sporcato quasi tutto il portico, e inginocchiandosi a terra anche i suoi jeans si erano macchiati. Era nel panico, non sapeva cosa fare, stava spingendo sulla ferita, ma non aveva la lucidità mentale per capire se stesse facendo o no la differenza.
«Spadì, te prego, te devi sveja!» urlò ancora, e questa volta Spadino sembrò sentirlo, mentre continuava a scuoterlo.
«Aurelià…» sussurrò senza voce il ragazzo e Aureliano fece un sospiro di sollievo.
«Che è successo? T’hanno sparato? Chi cazzo è stato?» lo inondò di domande, anche se sapeva che non avrebbero trovato risposta, non ancora.
Spadino era troppo debole, era stanco e aveva evidentemente perso troppo sangue.
«Aurelià…» disse ancora, con le ultime forze che gli rimanevano.
«Non te preoccupà, ce penso io, ce sto io.» Aureliano spingeva ancora sulla ferita, e con l’altra mano prese il suo telefono.
Sapeva chi chiamare: un medico di Ostia che, in cambio di un po’ di coca gratis si occupava di ricucire i suoi uomini se qualcosa andava storto.
Al telefono utilizzò la voce di Aureliano Adami, forte, sicura e minacciosa. Il medico arrivò nel giro di venti minuti, minuti che ad Aureliano sembrarono giorni. 
Aveva continuato a tener premuta la ferita, come anche il medico al telefono gli aveva raccomandato, ma Spadino continuava a perdere sangue e faceva avanti e indietro dal suo stato di incoscienza. Non aveva avuto il coraggio di spostarlo e Alberto iniziò a tremare dal freddo, mentre il sangue lasciava il suo corpo.
Quando rinveniva Aureliano continuava a parlargli, a fargli domande ma Spadino diceva cose senza senso. Aveva nominato sua madre, suo fratello e continuava a dire il suo nome, ancora ed ancora.
Ogni volta che nominava il suo nome si sentiva morire. Cosa poteva fare lui, per non farlo soffrire così tanto? Cosa poteva fare per farlo star meglio? Cosa avrebbe potuto fare per evitare che tutto questo accadesse?
Se solo avesse mantenuto la promessa, se solo lo avesse portato via subito da Roma, invece aveva preso tempo, ancora una volta, per evitare di far fronte a quei sentimenti, a quello che provava per quel ragazzo che ora rischiava di perdere per sempre. Di perdere come aveva perso Isabelle.

 

Il dottor De Rosa, un ortopedico che spesso lavorava al Gemelli di Roma, non era certo il medico consigliato in quelle situazioni, ma si era specializzato in ferite di coltelli e armi da fuoco, stando sotto il giogo della famiglia Adami.
Aveva un vizietto. Coca e mignotte, come nei migliori scandali della Capitale, e questo lo aveva portato ad accumulare un rispettoso gruzzoletto di debito nei confronti degli Adami.
30 pali di debito, che stava estinguendo poco alla volta, ma per tenere bassi gli interessi faceva quel genere di lavoretti.
Il dottore aiutò Aureliano a portare il ragazzo accasciato all’ingresso sul letto Ikea, e gli tolse i vari strati che aveva indosso. Quando si trovò faccia a faccia con la ferita si rese conto della gravità della situazione.
Il proiettile era evidentemente ancora all’interno, stava perdendo molto sangue dallo stomaco e lui non era lucido.
«Abbiamo bisogno di sangue. Ha perso troppo sangue!» esclamò, guardandolo con gli occhi sbarrati.
Aureliano Adami aveva una espressione che non gli aveva mai visto. Era terrorizzato e vegliava su quel ragazzo con un misto di rabbia e panico. Quando vide quell’espressione capì che, se quel ragazzo sul letto Ikea fosse morto, non avrebbe visto una nuova alba. 
Pronto per quei casi aveva due sacche di sangue universalmente compatibile che aveva rubato in ospedale e teneva per sicurezza nel suo ufficio, dentro un minifrigo. Li aveva portati con sé, ma due non sarebbero bastati.
«Voi fa qualcosa o te devo convince?!» urlò ad un certo punto Aureliano, infastidito dal fatto che il medico rimanesse ancora fermo a guardare la ferita di Spadino.
«Proverò a chiudere la ferita, ma dopo dovrò andare a prendere altro sangue. Non basterà quello che ho con me» disse il dottore.
«Vedi de sbrigatte, allora!»
Tirò fuori gli strumenti del mestiere dalla sua borsa di cuoio marrone e iniziò a disinfettare la ferita, sperando che una volta pulita dal sangue rappreso potesse avere una visuale più chiara della ferita e di dove si era fermato il proiettile.
Quando iniziò a toccare la sua ferita Spadino si riprese e urlò di dolore. Aureliano, d’istinto, gli afferrò la mano insanguinata. Erano entrambi coperti di sangue ormai.
«È tutto a posto. Tieni duro, stringime la mano.» coprì la sua mano con entrambe le sue e lo aiuto a stringere. Sentì la necessità di accarezzargli la fronte madida di sudore e i capelli bagnati, ma era un gesto così intimo e si sentì un verme quando si rese conto di starsi censurando davanti al medico.
«Non c’hai qualcosa da daje per il dolore?» sibilò verso il dottore, lasciando per dopo quelle imposizioni inutili.
De Rosa gli diede quel poco sedativo che aveva in borsa, ma tanto bastò a farlo ritornare nel limbo.
Pulì la ferita e, con non poche difficoltà date anche dagli occhi vigili e cerchiati di rosso di Aureliano fissi su di lui, riuscì a tirare fuori il proiettile. 
Aureliano lo volle avere, allungando la mano verso il medico e facendoselo lasciare tra le dita. Lo strinse forte e lo infilò nella tasca dei jeans. 
Cucire la ferita fu un procedimento doloroso e piuttosto confuso, certamente non ne sarebbe uscita una cicatrice fatta nel migliore dei modi, ma abbastanza per impedire a nuovo sangue di uscire e di dare inizio alla guarigione. Dopo aver sistemato la fasciatura e la sacca di sangue De Rosa fece per andare in ospedale a cercare di procurarsene altro.
Prima che riuscisse ad uscire dalla porta Aureliano gli afferrò il polso e lo strattonò verso di sé.
«Se torni strafatto te giuro su Dio che te faccio spellà vivo.» sibilò, gli occhi freddi come quelli di un serpente, il viso contratto, gli occhi cerchiati e umidi.
De Rosa non rispose, non ne ebbe il coraggio, fece solo segno di sì con la testa e corse via.


Aureliano rimase accanto a Spadino per non sapeva quanto tempo esattamente, ma la prima sacca di sangue era già finita e l’aveva sostituita con la seconda. Se quel cocainomane puttaniere non si dava una mossa gliel’avrebbe fatta pagare cara. 
Era preoccupato perché Spadino non aveva più ripreso i sensi, respirava in modo strano e il battito era evidentemente troppo lento. Lo capì mettendolo a paragone con il proprio.
«Daje Spadì, daje, svejate» sussurrò, come una litania, seduto su una vecchia sedia di legno posta accanto al letto. Stringeva ancora la sua mano nelle sue, e appoggiò per un attimo la fronte su quel groviglio di dita.
«Ti prego, svegliati, ti prego.» sussurrò. 
Lo guardò in volto: era bianco come un lenzuolo, sembrava ancora più minuto e rattrappito in quel letto, il viso era quello di un bambino. Il suo respiro non era costante, si chiese se c’era qualcosa che non andava con i suoi polmoni, se non avrebbe fatto meglio a portarlo in ospedale. Ma sapeva che avrebbero fatto domande e l’ultima cosa di cui Spadino aveva bisogno era coinvolgere le guardie. 
Aureliano Adami, che non era mai stato un credente, si trovò a pregare, anche se non sapeva chi stesse pregando. Pregava che quello che stavano facendo per salvarlo sarebbe bastato.


Il dottore finalmente fece ritorno e gli fece una nuova trasfusione, lasciò ad Aureliano della morfina per il dolore e gli antibiotici e gli spiegò come somministrarli. Controllò ancora la ferita e auscultò i suoi polmoni. Erano, fortunatamente, liberi.
«Tornerò domani dopo lo studio.» gli lasciò sul letto una busta bianca con dentro delle garze e del disinfettante. «Qui c’è il necessario per pulire la ferita, in caso dovesse tornare a sanguinare. Non si deve muovere, okay? E mi raccomando gli antibiotici. Dovrebbe riprendersi, ma devi fargli prendere gli antibiotici»
Se ne andò e rimasero nuovamente soli. Si chiese se non avrebbe fatto meglio a cucinare qualcosa, in caso Spadino si fosse svegliato affamato, ma lui non sapeva cucinare. 
Prese a fare avanti e indietro davanti al letto in cui Spadino era ancora privo di sensi e si rese conto che non aveva nessuno da chiamare, nessuno a cui chiedere aiuto, nessuno di cui potesse fidarsi. Forse l’unica persona di cui poteva fidarsi era stesa in quel letto.
Pensò di fare un po’ di pasta, l’unica cosa che riusciva a fare perché, in qualche modo, gli italiani nascevano con quella capacità insita nel sangue. Aveva quelle pennette nella dispensa da quando aveva fatto sistemare il capanno, ma dovevano essere ancora buone. 
Mentre osservava l’acqua nella pentola, aspettando di vederla bollire, sentì un lamento provenire dall’altra parte della stanza.
Corse verso il letto e Spadino stava combattendo per riuscire ad aprire gli occhi. Le prime cose che gli uscirono dalla bocca furono dei lamenti di dolore.
«Ehi Albè ci sei? Senti dolore?» esclamò Aureliano, in piedi accanto a letto, pronto a scattare, ma chinato su di lui.
«Mamma…»
«So Aureliano, Spadì. Me senti? Dimme che te serve!» si sentì stupido a cercare direttive da quel ragazzo moribondo sul letto, ma non aveva idea di come procedere.
«Mi dispiace…» uscì solo dalla bocca del ragazzo, era evidente che stesse delirando. Gli toccò la fronte e stava andando a fuoco. Si ricordò le raccomandazioni del dottore, doveva dargli gli antibiotici.
Prese dell’acqua e una di quelle pasticche giganti e afferrò il ragazzo da sotto le spalle, lui gemette per il dolore «Lo so che fa male, ma devi prende la medicina. Butta giù!» 
Facendo avanti e indietro dall’incoscienza Spadino riuscì a fatica a ingoiare la pillola, ma ce la fece e si lasciò andare di nuovo sul letto.
«Aurelià…» sussurrò ancora il ragazzo.
«Sto qua, dimme che te serve.»
«Me dispiace. Non sapevo dove andare.» per la prima volta lo stava guardando in faccia, con le palpebre a mezz’asta, combattendo per tenerli aperti.
Nel vederlo in quelle condizioni Aureliano provò un’ondata di rabbia verso quelli che lo avevano ridotto in quel modo.
«Devi dimme chi è stato. Te giuro che gliela faccio pagà cara.» ringhiò stringendogli l’avambraccio ancora sporco di sangue. Gli occhi gli si fecero lucidi. Per la rabbia nei confronti di quelli che gli avevano fatto del male e anche perché Alberto aveva sentito il bisogno di scusarsi, per aver pensato a lui nel momento del bisogno.
Spadino scosse la testa con forza, il viso che esprimeva un’estrema sofferenza, ma non era ben chiaro se fosse un dolore fisico o psicologico.
«Sono stati gli uomini di mio fratello. La mia famiglia.» sussurrò, scuotendo ancora la testa.
Aureliano strinse gli occhi, sapeva come sarebbe andata quella conversazione
«Chi ha dato l’ordine? Tuo fratello è in coma.» rispose e, guardandolo negli occhi, vide una lacrima scivolargli sul viso pallido. Lui non riuscì a fermarsi, e con un dito la raccolse dalla sua guancia.
«Mia madre» tirò fuori a fatica e poi ricascò nell’incoscienza.
Aureliano, sorpreso e confuso, provò a scuoterlo per risvegliarlo, ma non servì. La mancanza di sangue lo aveva probabilmente messo in risparmio energetico.

 

Non mangiò, Aureliano, né riuscì a dormire. Rimase tutta la notte facendo la spola da quella sedia di legno, al portico per respirare. Lui dormiva, il respiro si era regolarizzato e sembrava non sentire dolore. Ogni tanto scopriva il suo stomaco, per vedere se la benda fosse troppo sporca di sangue, ma sembrava andare tutto bene. 
Avrebbe voluto togliergli quei vestiti sporchi di sangue, strofinargli via dalla pelle quelle macchie scure, ma non voleva svegliarlo. Quando dormiva non soffriva, quindi andava bene così.


Spadino aprì gli occhi intorno alle sei di quella mattina, sembrava più lucido e anche il suo viso aveva ripreso colorito.
«Buongiorno» disse soltanto Aureliano, sempre sopra di lui come un gufo.
Il ragazzo provò ad alzarsi un po’, ma tornò velocemente giù con un gemito di dolore.
«Statte fermo, nun te move. Così fai saltà i punti.» lo rimproverò.
Spadino non parlava, si adagiò solo con la testa sul cuscino e fissò gli occhi, adesso tremendamente svegli, su di lui. «Me dispiace» disse ancora.
«Hai rotto er cazzo co sto me dispiace.» gli rispose sorridendo leggermente. «Non te devi scusà, hai fatto bene a venì» 
«Nun hai capito. Me verranno a cercà Aurelià, non è finita finché non moro.» Spadino scosse la testa. «Appena me rimetto in piedi me ne vado. Non voglio metterti in pericolo…io…» lasciò sottointeso quello che avrebbe voluto dire. “Non mi perdonerei mai se ti accadesse qualcosa”
«Non dì cazzate. Ce devono solo provà a venì da sta parte de Roma, avranno un bel benvenuto, te lo assicuro.» disse Aureliano. Si sedette su un angolino del letto accanto a lui e gli accarezzò i capelli, appoggiando poi la mano sul lato del suo viso. Alberto vi si appoggiò e chiuse gli occhi.
«Raccontami cosa è successo.»
Spadinò sbuffò fuori dell’aria, con un sorriso rassegnato «Quello che doveva succedere prima o poi. Mi hanno scoperto. Mi madre lo sapeva già. Ma quando l’hanno scoperto pure l’altri della famiglia…non poteva fare altro.» 
«Me so salvato solo perché Angelica m’ha avvertito prima dell’agguato. Gesù, spero stia bene...» appoggiò la sua mano su quella di Aureliano e la strinse.
«So sicuro che sta bene. Non le faranno nulla. » sospirò e strinse la presa sul suo viso.
«Dio, non sai che ho passato in ‘ste ore…» sospirò fuori.
Alberto lo guardò. «So vivo grazie a te. »
«E io so vivo grazie a te. Mi sa che stamo pari» gli sorrise, facendo riferimento a quando Spadino lo aveva salvato dalla furia vendicatrice della famiglia Anacleti.
Alberto gli sorrise, ma il suo sollievo durò poco «Mi cercheranno e mi troveranno.»
«Andremo via de qua.» disse lui, dopo qualche secondo di silenzio.
«Appena te poi move ce ne andiamo da Roma.» continuò, alzandosi da quella sedia e andando a prendere il necessario per cambiare il bendaggio. 
«Questa volta pe davvero, me devi crede. C’ho una casa, verso Sabaudia. In realtà l’ho requisita, ma va più che bene pe nascondersi un po’. Devi ave il tempo di guarì.»
Spadino rimase con la bocca socchiusa «Vieni co me?»
«Me pare ovvio, guarda come stai ridotto, me pari no zombie.» disse, volutamente giocoso, per spezzare il disagio che provavano entrambi. «Daje, te dovemo rende un minimo presentabile che tra un po’ viene il dottore cor vizietto» Spadino non capì il riferimento, ma era ormai troppo consapevole delle sue povere condizioni.
Gli cambiò le bende e l’imbarazzo era palpabile. Non avevano avuto granché tempo per superare quel loro imbarazzo fisico, anche se ogni volta che erano vicini potevano sentire l’attrazione e l’elettricità tra loro. Quello però non era proprio il momento.
Lo aiutò a cambiarsi, gli diede una sua vecchia t-shirt, e con un vecchio asciugamano da mare bagnato iniziò a lavargli via le macchie di sangue ormai secco dalla pelle.
Il ragazzino era seminudo davanti a lui, in imbarazzo, e sembrava così piccolo in quel letto. 
Una nuova ondata di rabbia lo travolte quando ripensò a quanto stava accadendo. Aureliano sapeva che sensazione si provava quando si veniva traditi da un familiare, poteva solo immaginare cosa voleva dire per Spadino sapere che la donna che lo aveva messo al mondo preferiva avere un figlio morto piuttosto che perdere la faccia davanti al clan.
Venne riportato sulla terra da un gemito di dolore di Spadino, evidentemente lo stava agitando troppo.
«Non devi farlo» lo sentì dire.
«Lo so bene.» rispose soltanto, continuando a sfregare la pelle delle sue braccia ed evitando con cura di incontrare i suoi occhi.
Alberto mise la mano sulla sua. «È tutto okay» disse, vedendolo visibilmente turbato.
Aureliano si fermò e sospirò «Avrei dovuto portarti via prima. Non dovevo prendere altro tempo. Se fossimo annati via quella notte tutta sta cosa nun sarebbe successa.»
«Su daje, non ho la forza di consolarti ora.» Alberto rise, facendo subito dopo un piccolo gemito di dolore, toccandosi la ferita. A quanto pare ridere era fuori questione. Aureliano alzò gli occhi allarmato, ma si tranquillizzò quando vide il suo volto sorridente.


Come aveva detto il dottore arrivò abbastanza puntuale e mentre medicava le ferite e faceva la sua roba, Aureliano ne approfittò per uscire sul portico e fare qualche telefonata.
L’odore del mare lo travolse e si trovò a respirare profondamente, per rigenerarsi. 
Prese il suo piccolo telefono cellulare vecchio quanto lui e chiamò Romoletto. Gli disse di tenere d’occhio chi entrava ed usciva da Ostia, che se vedevano dei zingari demmerda dove non dovevano essere lì, je dovevano fa assaggià l’asfalto. 
Probabilmente la famiglia di Spadino non ci sarebbe arrivata subito alla possibilità che si nascondesse nel territorio Adami, ma tanto valeva stare sul chi va là. Soprattutto pensando che avrebbero potuto chiedere aiuto ai mille occhi di Samurai. Lui era certamente più sveglio di tutta la famiglia Anacleti messa insieme. Era sempre stato lui quello da temere.


Quando rientrò il dottore sembrava preoccupato. O sarebbe stato meglio dire preoccupato per se stesso. Era un problema dei cocainomani, diventavano egoisti.
«Allora?» lo interpellò Aureliano.
«C’è una lesione al fegato. Il proiettile ci si è bloccato dentro, e quando è stato rimosso senza gli strumenti necessari…» si interruppe, cercando di evitare giochi di parole e andare dritto al sodo. «C’è un buco nel fegato» disse poi.
Spadino lo guardò con le sopracciglia sollevate. Non aveva idea di quello che voleva dire.
«E quindi che tocca fa?» chiese Aureliano.
«Io consiglierei di andare in ospedale. Il fegato potrebbe fare fatica a liberarsi delle tossine e delle medicine, potrebbe andare in sofferenza.» 
La risposta non gli piacque, tanto che mise su la sua espressione risentita. «Ah si? E come la spiegamo na ferita da arma da fuoco?» ringhiò «Famme riformulà la domanda: che devi fa tu pe risolve sta questione?»
Il dottore si agitò «C’è bisogno di esami specifici per dare una cura. Non posso fare niente senza delle analisi del sangue, dei tessuti…» si interruppe e finalmente respirò.
«Ma…potrebbe non essere necessario. Il fegato si rigenera da solo, se tutto va bene tra un mese sarà completamente risanato. Se i suoi occhi si fanno gialli, se ha la nausea o perdita d’appetito...non c’è niente che io possa fare. Devi portarlo in ospedale.» era la sua ultima parola.
Afferrò la sua borsa e lasciò un’altra busta di medicinali. Sulla via verso la porta si trovò faccia a faccia con Aureliano e sperò che lo avrebbe fatto passare, il ragazzo si spostò senza dire una parola.
«Forse ha ragione. Dovremmo andà in ospedale.» disse Aureliano, quando furono soli. «Possiamo provà a pagà qualcuno. Trovà un medico compiacente.»
Spadino scosse con forza la testa «Non se ne parla. Lo verrebbero a scoprire nel giro di ore. Abbiamo…hanno i loro contatti.» abbassò gli occhi sulla sua ferita e, facendo perno sulle mani, provò a tirarsi un po’ su. Gemette di dolore, mentre si tirava su le coperte. 
«Dovremmo andà via, de corsa. In quella casa che dicevi. Il prima possibile» il suo volto era seriamente preoccupato. Ma non perché il medico aveva appena detto che aveva un maledetto buco nel fegato, né per il fatto che era in pericolo di vita e non poteva andare in ospedale. Era preoccupato perché gli Anacleti stavano arrivando. Lo sentiva in fondo allo stomaco, lo sentiva come in quel film coi ragazzini e il gioco da tavola. Era come se sentisse i tamburi del cazzo. 
Stavano venendo per lui e avrebbero trovato anche Aureliano.
«Siamo al sicuro per ora. Non te poi move ancora, stai troppo male.» andò verso la cucina «Provamo a cucinà qualcosa de commestibile» disse poi. 
«Cazzo Aurelià, me devi da retta! Pe ‘na volta in vita tua, me devi da retta!» la reazione di Spadino fu inaspettata. Era evidente il panico nella sua voce e sul suo viso. Si lasciò cadere di nuovo sul letto per la stanchezza e il dolore.
Aureliano, riprendendosi dalla sorpresa della sfuriata, si avvicinò al letto, appoggiò una mano sulla testata di legno, avvicinando il viso al suo dall’alto.
«Sei tu che me devi da retta. Quando te dico che c’ho tutto sotto controllo è perché è vero. Tu devi solo pensà a riposà e a sta zitto.» era serio e leggermente incazzato.
Gli voltò le spalle, riprendendo il suo tragitto verso la cucina «Ce penso io a te.»
Spadino si mise entrambe le mani tra i capelli e sbuffò di frustrazione. Perché non riusciva a comprendere quanto si sentisse indifeso in quel letto di merda, scomodo e stretto? 
E se fosse successo qualcosa? E se Aureliano si sbagliava? Se fossero arrivati, tutti quanti, non avrebbero avuto scampo. Aureliano avrebbe pagato per quello schifo umano che si sentiva e che era?
Non riuscì a trovare le parole per ribattere, ma non ne ebbe neanche il tempo perché le medicine che gli aveva somministrato il dottore stavano facendo effetto. Si addormentò e tutto diventò buio. 
La cosa positiva era che gli antidolorifici non lo facevano sognare, ebbe un sonno tranquillo come ne non ne aveva da anni.

Spadino non teneva il conto dei giorni, in realtà se quella catapecchia non fosse stata piena di spifferi probabilmente non avrebbe neanche avuto la concezione del giorno e della notte. Non sapeva da quanto tempo era fermo in quel letto a farsi accudire, farsi cambiare, lavare e accompagnare al bagno da Aureliano Adami, quell’omaccione pieno de tatuaggi che ora era dall’altra parte della baracca a cucinare. Si chiese se qualcun altro lo avesse mai visto cucinare?
«Ma n’è che t’emo trovato un mestiere, eh, Aurelià?»
La prima cosa che aveva visto svegliandosi quella mattina era la stessa che vedeva da un numero imprecisato di giorni a quella parte. Aureliano. E doveva dire che ci si poteva pure abituare, se non fosse per tutto l’imbarazzo che provava. Come uomo e come criminale.
L’ironia era sempre stato lo scudo dietro il quale si nascondeva e gli veniva utile in momenti come quelli.
Aureliano fece una finta risata «Lo sai che me stai più simpatico quanno dormi?»
«Vedi de tiratte su che è pronto da magnà. Famme un po’ vede l’occhi?» diceva sempre quella frase, dopo le raccomandazioni del medico. 
«Stai bene. Se continui così er fine settimana se lo famo a Sabaudia come quelli de Roma Nord.» gli sorrise e, con un gesto completamente istintivo si spinse in avanti e gli lasciò un leggero bacio sull’angolo della bocca. Alberto rimase per un attimo sorpreso, solo un secondo, prima di sciogliersi in un sorriso.
Aureliano, senza guardarlo, si sedette accanto a lui sulla sedia, porgendogli prima il suo piatto di pasta e poi iniziando a mangiare dal suo.
Prima di assaggiare la prima forchettata Spadino si prese il tempo di guardarlo. La ricrescita scura dei capelli era evidente sul biondo ossigenato che continuava a farsi, e il suo viso era rilassato come probabilmente non l’aveva mai visto.
Scosse la testa per tornare sulla terra, l’ultima cosa che voleva era fissare Aureliano e farlo sentire a disagio. «C’ho una brutta notizia, ragazzì.» gli disse poi a bocca piena Aureliano. «La macchina tua l’ho dovuta fa sparì. Non penso che la rivedrai mai più. L’ho svuotata prima, ho un numero esagerato de spinelli da parte pe quando te sentirai meglio.»
Spadino sospirò. «Hai fatto bene. Nun passava certo inosservata.» sbuffò «Vaffanculo, la mia macchina.» appoggiò il piatto sulle sue gambe stese sotto la coperta e pensò ancora una po’ alla sua macchina persa per sempre.
«Ao, magna, nun te sta a preoccupà. Poi ne piamo un’altra de macchina. Pure più brutta de quella che c’avevi.» disse, chiudendo la frase con una risata.
Spadino lo guardò con le sopracciglia alzate. «Stronzo. Era perfetta, tutta accessoriata, tutta personalizzata…nun me ce fa pensà.» scosse un’ultima volta la testa e ubbidendo all’ordine di Aureliano ricominciò a mangiare.
Rimasero un po’ in silenzio a ruminare, dopo qualche minuto Spadino alzò gli occhi su di lui.
«Hai avuto notizie? Mi stanno cercando?»
Aureliano scosse la testa «No, non hanno sconfinato. Nun possono immaginà che tu stai qua. Devi sta tranquillo, agitatte nun te fa bene.»
Anche dopo quelle parole Spadino non sembrava affatto tranquillizzato, quindi Aureliano sospirò e lasciò da parte il suo piatto ormai quasi vuoto.
«Ao ma me voi da un po’ de fiducia? T’ho detto che sei al sicuro.» allungò una mano e toccò l’avambraccio del ragazzo, per poi spostarsi e stringere la sua mano. 
«È ora dell’antibiotico» puntuale come non era mai stato in vita sua gli andò a prendere la pasticca e angosciante come un infermiere da manicomio lo fissò mentre la mandava giù.

Le giornate di Spadino passavano così, si alzava, mangiava qualcosa con Aureliano, lo guardava allenarsi al sacco da boxe e, a volte, la notte lo osservava dormire su un divano letto improponibile che si era fatto portare da Romoletto. 
Aveva pensato di dirgli che potevano condividere il letto, ma sapeva anche che la casa era circondata dai suoi uomini e l’ultima cosa che voleva era che li scoprissero a dormire insieme. 
Sapeva che si stava abituando alla sua presenza. E sapeva anche che un giorno di quelli avrebbe dovuto spezzare quella routine per un futuro incerto. 
Ma vederlo costantemente, fare telefonate, seduto al tavolo, a cucinare, ad allenarsi, gli aveva fatto capire ancora di più quanto ci fosse dentro con tutte le scarpe.
Aureliano Adami era ancora l’uomo che gli aveva cambiato la vita, con l’aggiunta che ora era anche l’uomo che gliel’aveva salvata.

Spadino scoprì che era un venerdì perché Aureliano stava parlando al telefono con qualcuno ed era estremamente agitato. Si alzò a sedere sul letto, con un leggero gemito di dolore perché quei punti tiravano come dei maledetti, e vide Aureliano fare avanti ed indietro davanti a lui, prima di decidersi ad uscire fuori sulla veranda. Era evidente che non voleva che ascoltasse la conversazione.
Cercò di ascoltare, ma l’unica cosa che sentiva era il rumore del mare e il vento che fischiava, sospirò appoggiando la testa al muro.
Dopo qualche minuto Aureliano rientrò, e afferrò di fretta la sua giacca e le chiavi della macchina.
«Ch’è successo?» gli chiese allora.
«Tuo cugino è al ristorante.» i battiti del suo cuore impazzirono.
«Quale cugino Aurelià? So no zingaro, ce n’ho ottanta de cugini!» esclamò, e in altri casi Aureliano gli sarebbe scoppiato a ridere in faccia, ma Spadino era preoccupato e lo vedeva chiaramente.
«Un certo Rocco» gli rispose e l’altro sospirò passandosi una mano sul viso pallido.
«Stai attento, okay? È un figlio di puttana. Era ovvio che avrebbe preso il controllo.»
«Pensavo ci fosse tua madre.»
«Mia madre ha giurisdizione solo su de me. Gli uomini comandano, le donne movono solo i fili.»
Alberto si prese un attimo poi disse «Non ci andare. Non incontrarlo» era preoccupato e non lucido.
«Ma che stai a dì? Je faccio venì più dubbi se mi rifiuto de incontrallo, no? Daje su, ragiona!» gli disse, ma non voleva essere severo. Alberto sapeva benissimo che aveva ragione. Sospirò. 
«Nun te devi preoccupà. So come trattà sti ragazzini demmerda. Stanno venendo Cesare e Bruno, staranno qua fori, pe sicurezza. Se te serve qualcosa me chiami.»
Spadino non gli disse altro, ma si infilò sotto le coperte come un bambino spaventato. Non aveva intenzione di parlare con nessuno, né di farsi vedere da nessuno in quelle condizioni pietose.
Aureliano, prima di andare via, si chinò sulle ginocchia e appoggiò gli avambracci sul materasso.
«Mi sto quasi stancando di ripetertelo. Devi fidarti di me, okay?» gli strinse la mano.
«Mi fido.» disse solamente Alberto. L’ultima cosa che voleva era che Aureliano uscisse da quell’edificio non sapendo che lui era l’unica persona di cui si fidava.

Quando Aureliano arrivò al ristorante fu Romoletto ad accoglierlo. Gli disse che si erano presentati ad alcuni dei loro uomini e che si erano fatti accompagnare per poter parlare con lui.
Entrò nella sala, spingendo al centro delle due ante della porta per farle aprire entrambe. Faceva sempre quell’ingresso, tendeva a mettere a disagio gli ospiti.
«Scusatemi per l’attesa.» disse, con il suo sorriso migliore, andando verso Rocco Anacleti.
Lo riconobbe subito, lui era l’unico seduto, mentre due uomini stavano alle sue spalle.
«Aureliano Adami…è un piacere fare la tua conoscenza» la sua voce era strana, il suo scandire le parole era strano. Era evidente il suo tentativo di non cedere a cadenze dialettali.
Si strinsero la mano, ma Aureliano non ricambiò la cortesia della frase di circostanza.
«Perdonate i miei uomini per non avervi offerto da bere.» fece segno a Romoletto di versare qualcosa, mentre prendeva posto davanti a Rocco.
«Cosa cerca da me la famiglia Anacleti?» disse poi, senza perdersi in chiacchiere.
Rocco sorrise e finalmente Aureliano lo vide bene, con la luce del primo pomeriggio che lo illuminava.
Aveva la carnagione scura, più scura di Spadino, e non c’era assolutamente nessuna somiglianza fisica tra loro due. Rocco era imponente, alto sicuramente più di un metro e ottanta, aveva la pancia sporgente, ma un viso elegante. Aveva la barba folta, ma ben curata. Anche nella scelta dei vestiti sembrava essere meno pacchiano degli altri zingari che aveva conosciuto. A darlo via, solamente una catena d’oro al collo che si intravedeva da sotto la camicia bianca.
«Era importante per noi venire a parlare con la famiglia Adami. Ti faccio ancora le mie condoglianze per la perdita di tuo padre. Anche noi stiamo passando un periodo…un po’ particolare. Manfredi è ancora in ospedale, non so se hai sentito, e questo ha portato alla necessità di avere un nuovo leader.»
Aureliano non sapeva se avrebbe fatto meglio a tirare lui fuori la questione di Spadino, loro lo sapevano che avevano lavorato insieme? Il Samurai lo sapeva, ma aveva avuto la possibilità di dirlo a Manfredi? Decise di rimanere in silenzio.
«So che tu e mio cugino Alberto…tu lo conoscerai come Spadino, avevate degli accordi. È per questo che sono qui. Spadino non è più presente, quindi era mia intenzione farmi avanti e farti sapere che la nostra coalizione può ancora funzionare. Noi siamo per mantenere la pace, la guerra c’è stata e vogliamo lasciarcela alle spalle»
Lo aveva fissato Aureliano, per tutto il suo lungo discorso, cercando di non far trapelare nulla dal suo viso.
Era evidentemente una trappola.
«Io e Spadino non avevamo accordi. Ma so d’accordo co te quanno dici de mantenè la pace. Io so sempre pe la pace.» prese il bicchiere che Romoletto gli aveva portato silenziosamente e lo alzò a mezz’aria
«Gli affari vanno bene, lasciamo sta le questioni de orgoglio» 
Rocco ebbe un attimo di esitazione, ma poi prese il suo bicchiere e fecero un brindisi. 
Probabilmente pensava che avrebbe detto la cosa sbagliata? Aureliano non aveva colto al balzo le informazioni velate su Spadino e questo poteva significare due cose: o che non gliene importasse minimamente della sorte di Spadino, o che non gli serviva chiedere perché sapeva già tutto.
Doveva esporsi ancora un po’?
«Spadino ha delle questioni non risolte con la nostra famiglia. In caso uno dei tuoi uomini dovesse vederlo, apprezzerei molto una telefonata. La mia famiglia sa essere molto generosa con gli amici.»
Aureliano si alzò in piedi, un chiaro segno che la conversazione era finita e Rocco lo seguì, dopo aver lasciato il bicchiere intonso sulla tavola.
«Starò con gli occhi aperti.» gli disse soltanto, allungando una mano. Rocco Anacleti gliela strinse, prima di fare un leggero inchino con la testa e dirigersi verso l’uscita.

Aureliano tornò sulla spiaggia solo quella sera, dopo essersi fatto aggiornare su quanto successo nell’ultima settimana, da quando Spadino si era presentato sulla sua porta.
Era nervoso perché in tutto cinque persone sapevano di quello che era successo, ed erano già troppe per i suoi gusti.
Si girò verso Romoletto e gli diede le chiavi della sua Jeep.
«Trovame na macchina, qualcosa che passi inosservata. Faje il pieno, prendi un po’ de armi e contanti. Ah, e le chiavi della casa de Sabaudia.» 
«Vai via?»
«Porto Spadino in un posto sicuro. Lo devi sapè solo te, siamo d’accordo?»
«E se me chiedono do stai?»
Aureliano sbuffò «E che cazzo ne so, inventate qualcosa. Dije che so annato alla Spa. Che me servirebbe proprio un bel massaggio adesso.»
Si fece accompagnare allo stabilimento e mandò via i due uomini che erano rimasti fuori tutto il tempo.

Quando entrò in casa Spadino era in piedi davanti alla cucina.
«Ao, ma che cazzo stai a fa? Vatte a mette a letto, ma che te dice la capoccia?» il primo istinto fu quello di prenderlo per i fianchi e riportarlo a letto di perso ma Spadino si puntò con i piedi per terra e si tenne al bordo del vecchio piano da cucina.
«Sto bene, nun t’accollà. C’avevo fame.» la sua faccia era seria e preoccupata.
«Allora? Che t’ha detto mi cugino?»
«Te lo dico se te vai a mette a letto. Famme vede l’occhi.» gli prese il mento tra le mani, anche piuttosto bruscamente, e fissò i suoi occhi azzurri in quelli scuri di Spadino. Si fece riaccompagnare a letto come un povero vecchio e si vergognò nel provare sollievo una volta steso sul materasso.
«Era ‘na pagliacciata» gli disse poi Aureliano, andando verso la cucina per trovare qualcosa da mangiare.
«È venuto pè scoprì se sapevo dove stavi. Non ha capito un cazzo, ma non se fida di me, quello è evidente.»
«Nessuno se fida de te Aurelià.» si girò per un attimo verso di lui, piuttosto offeso, forse per vedere se diceva sul serio.
«Te si.» gli rispose solamente, mentre tirava fuori del pollo da minifrigo.
Spadino non rispose, ma era chiaro il suo malumore. 
«Comunque non me fido neanche io degli zingari, quindi stanotte se ne annamo. La macchina dovrebbe arrivà tra qualche ora. Riposati ora, non credo che riuscirai a farlo in macchina.»

Mentre Spadino riposava Aureliano si preoccupò di mettere tutte le medicine in una busta e infilarla nel borsone che aveva preparato. Spadino non aveva vestiti, quindi ne aveva presi alcuni dei suoi da casa, privilegiando tute, maglioni e t-shirt. Aveva preso i vestiti sporchi di sangue che indossava quando gli avevano sparato e li aveva bruciati sulla spiaggia.
Era circa l’una di notte quando arrivò la macchina. Non era la jeep di Aureliano, ovviamente, ma una Nissan Qashqai blu notte praticamente nuova.
Aureliano svegliò Spadino e gli fece infilare un suo vecchio maglione che gli stava esageratamente grande, tanto da coprirlo fino alle cosce. Sembrava minuscolo e se fosse stato lucido probabilmente avrebbe rifiutato di indossarlo.
Lo accompagnò verso la macchina, parcheggiata direttamente davanti alla porta, nella sabbia e aprì lo sportello posteriore. Gli sistemò un cuscino da una parte in modo che potesse utilizzarlo per stare più comodo.
Difficilmente riusciva a stare seduto, quindi si stese su un fianco, appoggiando la testa al cuscino.
Nel bagagliaio Romoletto, che aveva portato la macchina, aveva messo una vecchia borsa da palestra con dentro alcune armi, più o meno pesanti, e un fusto di carburante.
A parte gli diede una fascetta di banconote e le chiavi della casa. 
«Occhi aperti, va bene? Ho con me il cellulare.»
«Quanto starai via?»
Aureliano sospirò «Fino a quando non guarisce e se la po’ cava da solo.» stava per mettersi in macchina quando si rivolse di nuovo a lui.
«Mi raccomanno agli zingari, continueranno a rompe il cazzo.» 
Romoletto annuì e lui entrò finalmente in macchina e mise in moto.

Arrivarono a Sabaudia più o meno alle tre di notte. Aureliano ebbe qualche problema a riconoscere la casa, non ci andava da anni, la sorella la utilizzava molto più di lui, ma alla fine la riconobbe grazie al cancello rosso. Non era rosso come lo ricordava, stava pian piano sbiadendo, ma lo riconobbe.
Era alla fine di una lunga strada chiusa, l’ultima di una lunga serie di villette a schiera molto simile una all’altra, tutte in tufo bianco. L’interno era quello che nascondeva sorprese, erano infatti tutte case di vacanze della Roma Bene, la maggior parte costruire con i soldi rubati al fisco, dovevano sembrare spoglie e povere, mentre il loro interno era ricco ed esagerato. 
Spadino era nel dormiveglia, gli aveva dato dell’antidolorifico durante il viaggio, a causa dei balzi della macchina e sembrava più di la che di qua. 
Uscì dalla macchina e lo accolse una notte particolarmente fredda, al buio cercò di beccare la giusta chiave per il cancello. La serratura fece un po’ di capricci poi crollò.
Parcheggiò la macchina nel vialetto stretto e chiuse il cancello dietro di loro. 
Da fuori era una classica casa da mare, costruita in tufo bianco, con una fontanella in fondo al vialetto con cui lavarsi i piedi dalla sabbia prima di entrare in casa. Sembrava vecchia e esteticamente sommaria, niente di particolarmente attrattivo, solo molto spartana.
Prima di far scendere Spadino Aureliano accese i servizi, in modo da avere luce e acqua, e chiuse alle loro spalle il cancello, poi lo accompagnò fino alla porta tenendolo per la vita anche se era completamente in grado di camminare.
Dentro sembrava assolutamente un'altra casa. Il pavimento interno era di un costoso marmo Bardiglio, con striature bianche e grigie, che d’estate doveva essere meraviglioso sotto i piedi. Nel grande salone c’erano due lunghi divani da tre posti, sistemati in modo angolare e al centro un tavolino in vetro con una base in legno intarsiato a forma di cavallo rampante. Sul muro accanto all’entrata c’era attaccata una tv a schermo piatto, con accanto un mobiletto in cui erano stati sistemati il lettore dvd, alcuni film e qualche libro.
Sul lato sinistro dell’ingresso c’era invece il tavolo da pranzo, esattamente davanti all’ingresso della cucina, era in legno scuro, finemente intarsiato con ghirigori e una base possente per reggerne il peso. Al contrario la cucina era estremamente moderna, con tutti gli elettrodomestici del caso e un frigo a due ante con il dispensatore di ghiaccio.
L’appartamento era soppalcato, infatti in fondo all’open space si vedeva una larga scala in marmo che univa i due piani. Accanto alla scala un lungo corridoio che portava al bagno e a due camere da letto.
Spadino sbatté gli occhi per svegliarsi bene e fischiò. «Che casetta eh»
Aureliano non rispose, l’aveva già vista, non era una sorpresa per lui, e lo parcheggiò sul divano.
«Vado a prende la robba in macchina. Poi famo er letto.»
Spadino si stese sul letto e sbuffò «Hai guidato tutta la notte, ce occupamo domani de tutto. Sto divano è ‘na favola. Fatte un sonnellino.»
Aureliano si lasciò tentare, ma non prima di essere uscito a riprendere il borsone con denaro e armi dal bagagliaio della macchina. Rientrò e Spadino stava già russando beatamente, con una mano sempre poggiata sulla ferita fasciata. Gli passò accanto e non poté fare a meno di esitare qualche secondo e guardarlo. Gli passò leggermente la mano tra i capelli che stavano crescendo inesorabilmente. La cresta era ormai del tutto scomparsa e i capelli iniziavano, invece, ad andare verso il basso. 
Non voleva svegliarlo, in macchina aveva avuto un sonno agitato, quindi proseguì e si sdraiò sull’altro divano e si rese conto che era davvero una favola. Appena poggiò la testa sul piccolo cuscino, più estetico che funzionale, si addormentò.

Non fu una notte di sonno piena. Alberto si svegliò dolorante dopo un’oretta perché il divano era si comodo, ma per un sonnellino non per una notte intera.
Si rese conto, con frustrazione, che solo non sarebbe mai riuscito ad alzarsi. Il divano in pelle era semplicemente troppo basso e lui non poteva fare leva sugli addominali senza sentire la pelle tirare e la sensazione che avrebbe strappato i punti.
Si sentì bloccato ed era la sensazione più brutta del mondo, forse anche peggio di venir sparati, tanto che si sentì mancare il respiro. Il divano che prima era la superficie più comoda che avesse mai provato, ora era diventata una prigione.
Lo sentì arrivare e ne fu spaventato.
Ne aveva avuti altri in passato, ma fortunatamente solo in situazioni in cui era da solo e aveva tutto il tempo per riprendersi e continuare la sua vita.
Ora invece era lì, intrappolato in un divano, in una casa sconosciuta, con il terrore di strappare i punti e con Aureliano Adami, il suo Aureliano, a dormire nel divano accanto.
Sapeva che non poteva evitarlo però, non poteva fare più niente ormai.
Iniziò a respirare a fatica, sentiva la sensazione di una mano che spingeva contro la cassa toracica, impedendo la normale respirazione. Stava sudando, sentiva la t-shirt di Aureliano che, sotto il maglione, si attaccava alla sua pelle. Gli occhi si riempirono di lacrime e la sua vista si fece fumosa, così come la sua coscienza.
La sua mente glielo stava dicendo, gli stava urlando che la sua fine era arrivata, che stava davvero morendo ma lui si trovò a combattere contro se stesso, come aveva sempre fatto.
In un attimo di estrema disperazione, con il panico che prendeva il sopravvento, si spinse di lato. La ferita faceva male, malissimo, ma la sua mente era troppo occupata in quel momento.
Nell’incoscienza e nella follia più totale, stava cercando di non fare rumore per non svegliare Aureliano.
A svegliarlo ci pensò, però, il tonfo del suo corpo a terra.
Alberto poteva vederlo, Aureliano, alzarsi di scatto, con lo sguardo terrorizzato e completamente congelato vedendolo a terra in quel modo. Riusciva a vederlo ma non poteva parlare, gli mancava il respiro.
Aureliano gli stava dicendo qualcosa ma tutto era ovattato, sentiva solo un fischio nelle orecchie e il suo respiro affannoso. 
Aureliano lo prese di peso da terra, afferrandolo da sotto le braccia, e lo fece sedere sul divano.
Andò in cucina e prese dell’acqua dal lavandino e la poggiò a terra, a portata di mano.
Poi, velocissimamente, gli chiuse le narici con due pollice e indice della mano destra e usando la sinistra per tappargli la bocca.
Alberto era terrorizzato, era convinto, dentro di sé, che fosse un incubo e che si sarebbe presto svegliato nella sua camera da letto dorata, in quella che era stata per tanti anni la sua casa. Gli afferrò i polsi, cercando di togliersi le sue mani da dosso, ma Aureliano era forte. O forse lui era troppo debole.
Sorprendentemente, però, la mente iniziò a schiarirsi. Gli occhi iniziarono ad asciugarsi e poté vedere chiaramente Aureliano davanti a lui che studiava le sue espressione.
Finalmente lo sentì.
«Trattieni il respiro. Daje su, ancora qualche secondo.» lo sentì subito collaborare. 
Qualche secondo dopo fu tutto finito. 
Aureliano lo lasciò andare e lui si trovò a respirare normalmente, come se quel terrore che lo aveva pietrificato fosse stato tutto un sogno.
«Bevi» gli mise in mano il bicchiere e Alberto bevve senza parlare.
Si ritrovarono a guardarsi, senza dire una parola. Nessuno sapeva come affrontare il discorso, ma sapevano anche che non potevano fare finta che non fosse accaduto nulla.
«Te succede spesso?» chiese Aureliano, in piedi davanti a lui.
«Qualche volta. Negli ultimi mesi.» gli rispose, aggrappandosi a quel bicchiere d’acqua come se fosse il muro che lo separava dal resto del mondo.
«Come sapevi che fare?» 
Aureliano, ancora in piedi al centro della stanza sospirò poi fece spallucce.
«Ne ho avuto qualcuno da ragazzino. Mia sorella me ne tirava fori così.»
«Riposate n’attimo. Vado de sopra a preparà il letto. Starai mejo su.» e sparì con qualche salto su per le scale.
Vide la sua ombra muoversi agilmente al piano di sopra, mentre la vergogna lo assaliva.
Aveva appena avuto un attacco di panico davanti ad Aureliano. Se aveva ancora dubbi su quanto fosse debole, ora ogni dubbio era stato fugato. 
Mise via il bicchiere d’acqua, ormai finito, e si coprì gli occhi, segno evidente di una vergogna che forse si portava dietro da troppo tempo.
Poi si alzò la maglietta e vide che, fortunatamente, la fasciatura non era sporca di sangue, i punti erano ancora dove dovevano essere. Gli faceva giusto un po’ male il fondo schiena per la botta sul pavimento.
Dopo una mezz’ora in cui non si azzardò minimamente a muoversi da quel divano, Aureliano tornò giù e lo aiutò ad alzarsi. 
«Dormiremo su. Sarà più scomodo salire, ma se ci sarà bisogno di difendersi avremo qualche vantaggio.» gli disse, mettendogli il braccio intorno al busto.
Il piano superiore della casa era un open space, con un letto matrimoniale e un lettino singolo ai due estremi, con una portafinestra al centro, che dava su un piccolo balconcino. Poteva vedere attraverso il vetro che c’erano delle lunghe sdraie da mare, e uno stendino in ferro per lo più arrugginito. 
Vicino al muro che faceva confine con le scale c’era un’enorme scrivania in legno massiccio, con moltissimi libri accatastati e, infine, una solitaria poltrona di pelle marrone nell’angolo opposto della stanza.
Esattamente davanti al letto matrimoniale, c’era un bagno completamente a vista. Una vetrata in plexiglass mostrava l’interno del bagno: una doccia, un bagno idromassaggio e i sanitari.
Evidentemente a chi aveva voluto quel bagno non importava granché della privacy. 
Aureliano gli rimase dietro finché Spadino, con le sue gambe, non fu arrivato a qualche metro dal letto matrimoniale, l’unico coperto con un piumone.
Il ragazzo appoggiò un ginocchio a terra e gli tolse le scarpe mentre lui, da solo, si sfilava il maglione, rimanendo in tuta e t-shirt, con lo sguardo di Aureliano addosso.
Si girò e si mise a sedere, per poi stendersi piano sul letto, senza fare troppa forza sugli addominali, sentì comunque una fitta alla ferita.
«Sta attento» arrivò velocemente l’appunto di Aureliano.
Lui non gli rispose, ma gli lanciò un’occhiata mentre si metteva giù. 
«Dormi qui.» disse, mentre i suoi occhi facevano fatica a rimanere aperti. Non era una domanda, neanche una richiesta. Era un ordine. 
La risposta di Aureliano non arrivò, ma sentì il letto muoversi sotto il suo peso. Chiuse gli occhi, finalmente tranquillo e il sonno arrivò velocemente.

Erano le cinque quando si risvegliò. Sbatté le palpebre e vide la luce, che probabilmente lo aveva svegliato, entrare dalla porta finestre e illuminare la parte centrale della stanza.
Fu allora che si rese conto che c’era una persona accanto a sé. Aureliano dormiva su un fianco, con il corpo rivolto verso di lui. Lo guardò e provò nel petto una sensazione che, era sicuro, non aveva mai provato in vita sua. Era serenità, forse? O proprio felicità? Non ne sapeva abbastanza per darle un nome.
Si chiese se ci si sarebbe mai abituato, per il suo tempo di permanenza in quella casa, a vedere Aureliano tutti i giorni. Magari mentre dormiva, o cucinava, o usciva dal bagno dopo essersi fatto una doccia. 
Si trovò in difficoltà, ancora per nulla. Avrebbe dovuto svegliarlo? O era meglio far finta di dormire? Probabilmente la luce lo avrebbe comunque svegliato a momenti. Oppure Aureliano aveva il sonno pesante?
Dopo qualche minuto, in un modo che lo fece sentire il più stupido sulla faccia della terra, vide gli occhi di Aureliano muoversi, segno che stava per svegliarsi, e decise di far finta di dormire per evitare un ulteriore momento imbarazzante.
Lo sentì stiracchiarsi sul letto accanto a sé, poi sbadigliare.

Aureliano si tirò su un gomito, appoggiando la testa alla mano. Alberto stava dormendo accanto a lui e per un attimo si sentì sopraffatto. Si prese un attimo per ragionare, per mettere in ordine i pensieri e si rese conto che avevano il tempo ora, avevano il tempo e lo spazio, lontano dagli occhi indiscreti per poter finalmente capire cosa stesse succedendo tra di loro. 
Certo, non era andata come se lo era immaginato, ma aveva temporeggiato anche troppo a lungo.
Gli passò la mano tra i capelli e si scoprì ad adorare la sensazione. Appoggiò le dita sulla fronte per sentire la sua temperatura, che sembrava normale. 
Tirò via la mano perché non voleva svegliarlo, ma appena tornò a prestare attenzione al suo viso vide che i suoi occhi erano aperti. Per un attimo si comportò come un bambino che era stato trovato con le mani nel barattolo dei biscotti, ritirando la mano, ma subito dopo sorrise leggermente.
«Buongiorno» sussurrò.
«Buongiorno» rispose l’altro. Non disse niente sul contatto che avevano avuto, ma si allungo e posò le labbra sulle sue. 
Non erano più a Roma ora, non c’erano più i suoi uomini a circondare la casa, erano soli. 
Erano finalmente soli.
Aureliano passò la mano dietro la sua nuca e lo portò più vicino a sé, Alberto provò a girarsi per avvicinarlo ma il range di movimenti che poteva fare senza sentire i punti tirare sul suo stomaco era molto limitato.
Si lamentò e si allontanò un secondo da lui per riprendere fiato, mettendo una mano sulla ferita come se il contatto potesse farlo star meglio.
Non voleva mettere fine al contatto ma Aureliano ne approfittò per allontanarsi e alzarsi.
«Devi manga qualcosa.» disse, improvvisamente strano «Devi prende l’antibiotico.»
«Può aspettare, daje torna qua» gli rispose e si alzò a sedere con molta attenzione.
«Devi prende le medicine»
«Non me ne frega un cazzo. Devi venì qua. Non poi più scappà.» Alberto stava cercando di fronteggiarlo sul serio, di aprire un discorso che, se fosse stato per Aureliano, sarebbe rimasto implicito per sempre. Ma non voleva metterlo con le spalle al muro, perché la gente come Aureliano non reagisce bene quando non ha vie d’uscita. Quindi gli sorrise e, in modo giocoso, sbatté la mano sul letto per invitarlo.
Aureliano scosse la testa, reprimendo un sorriso e fece come gli era stato chiesto.
«Non vojo fatte agità.» disse poi, tornando a stendersi accanto a lui.
«So sempre agitato quanno sto co te. Dalla prima volta che t’ho visto» 
Aureliano non sapeva bene come rispondere, non era bravo con le parole, non era bravo con i sentimenti, figurati se sapeva rispondere ai sentimenti altrui.
Rimase in silenzio e abbassò lo sguardo sul copriletto color pesca.
«Nun te imbarazzà però. Parlame.» 
Spadino stava cercando in tutti i modi di creare un rapporto normale con Aureliano. Loro non erano mai stati abituati ad avere normali conversazioni, nessuno di loro due era stato cresciuto come un normale essere umano.
«Avevi ragione tu. Non so come gestilla sta cosa. Me dispiace.» disse, ad occhi ancora bassi.
Era lì ormai, e si era esposto alle intemperie. Tanto valeva dire la verità. Non era imbarazzo, aveva solo a che fare con qualcosa di tremendamente nuovo. 
Pensava che con Isabelle avrebbe potuto avere un rapporto normale, una vita normale, ma non gliene avevano dato la possibilità.
«E invece io so un sacco bene come gestitte, ve?» chiese, sarcastico «Lo vedi che orso che sei?»
Si mise a ridere e gli passò la mano tra i capelli ossigenati, che ormai erano arrivati a tre dita di ricrescita nera. Anche Aureliano rise, ma dopo qualche secondo ricercò le sue labbra. 
In un attimo, nella sua testa, ripercorse la loro storia. Dal momento in cui si erano conosciuti, a quando Spadino lo aveva baciato. 
Si sarebbe mai potuto rendere conto, all’epoca, di quello che sarebbe successo? Avrebbe mai potuto immaginare che qualche mese dopo si sarebbe trovato in quella situazione, a condividere il letto con Alberto Anacleti? A baciarlo? E ad immaginare il momento in cui sarebbero andati oltre?
Lo desiderava, era vero, ma una volta arrivati al momento, ce l’avrebbe fatta?
Le domande gli bombardavano la testa e sapeva benissimo che avrebbe dovuto parlarne con Alberto perché, insomma, chi più di lui poteva capirlo? Ma non ce la faceva. Non ce la faceva a mostrarsi così terrorizzato. 
Quando si allontanò lo guardò, dissimulando tutto dietro un sorriso ironico.
«Posso annà a fa la spesa adesso? Che sto frigo è peggio del Sahara?»

Alberto lo attese a letto, anche perché sapeva che se al suo ritorno lo avesse trovato alzato a gironzolare per casa lo avrebbe ripreso come un bambino, e lui odiava trovarsi in quella situazione.
Quando tornò lo sentì girare quattro volte la chiave nella porta, un eccesso di zelo per impedire ad altri di entrare ma anche a lui di uscire, visto che non aveva delle seconde chiavi di riserva.
Lo raggiunse, scendendo molto lentamente le scale di marmo e lo vide poggiare tre enormi buste della spesa sul tavolo, per poi uscire e andare a prendere due casse d’acqua dalla macchina.
«Siamo in due, Aurelià. Hai fatto spesa pe n’esercito.»
«Quello che serve, nun t’accollà» rispose l’altro, troppo impegnato a tirare fuori cibo dalle buste.
«Vatte a sedè.» gli disse poi, senza neanche guardarlo, mentre portava le prime cose nel frigo che finalmente aveva raggiunto la giusta temperatura.
« Posso cucinà io…» propose allora Alberto, seduto sul divano come gli era stato ordinato.
«Nah.» fu la risposta sommaria di Aureliano dalla cucina, prima che lo vedesse arrivare con latte freddo e biscotti. «Mangia. Devi prendere la pilloletta»
Alberto capì subito che, d’ora in poi, gli ordini saranno stati all’ordine del giorno.
Lo guardò e non riuscì a impedirsi di ridere «Si padrone» rispose, ironico.

Si accorsero, ben presto, che tenere due persone come loro in una casa, chiusi al mondo e, per di più, con il divieto assoluto per Spadino di uscire da casa anche solo per raggiungere il portico, sarebbe stato davvero difficile. Nel bene o nel male, la noia era uno stato d’animo che difficilmente avevano mai provato. La loro vita era troppo movimentata, imprevedibile e terrificante per essere considerata noiosa, ma abbastanza per essere considerata una routine.
Il pomeriggio del terzo giorno, Aureliano salì al secondo piano e trovò Alberto a leggere un vecchio libro trovato sulla pesante scrivania in legno.
«Non pensavo sapessi legge» gli disse, con un sorriso.
«Vaffanculo» fu la laconica risposta di Alberto che non alzò neanche gli occhi dal libro.
Aureliano rise liberamente e lo raggiunse sul letto. «Ci sono dei vecchi film giù, e un dvd. Credo de potello fa funzionà.»
«Che film?» chiese lui, finalmente interessato.
«Robba vecchia. Vacanza de Natale, Selvaggi…roba così.»
Aureliano si stupì guardando la sua faccia completamente ignara.
«Non li conosci?» chiese.
«No, mai sentiti.» 
«Dio, ma sei nato ieri? Annamo su, so cose che devi vedé»

Dopo aver perso quasi tre quarti d’ora a cercare di ricordare come funzionasse il lettore dvd, Alberto si sistemò sul divano vicino alla tv, rifiutandosi di stendersi ma raggomitolato sull’angolo. Aureliano era dietro di lui.
Alberto non aveva davvero mai visto quei film e Aureliano era sorpreso, divertito e a tratti intenerito a guardarlo ridere alle battute dei film con 20 anni di ritardo.
Lo lasciò li a ridere quando sentì il suo cellulare squillare. Era Romoletto.
«Romolè» rispose.
Dietro alle sue spalle sentì Spadino mettere in pausa il film.
«Dimmi»
«Dici sul serio?»
«Figli di puttana»
«Hanno piato qualcosa?»
«Perché non c’era nessuno de guardia?»
«Voglio che me metti sotto controllo lo stabilimento de mamma. Devi cancellà ogni prova che semo stati la. M’hai capito?»
«Qui è tutto apposto.»
«Si, chiamame se ce stanno novità.»


Quando concluse la telefonata, si rese conto che Alberto era in piedi dietro di lui.
«Che è successo?»
«Nun te sta a preoccupà.» gli rispose Aureliano, non c’era nessun motivo per cui era necessario che sapesse quello che era successo. Non era cambiato nulla, erano ancora la sicuro.
«Te prego non me trattà come un ragazzino. M’hanno sparato, non c’ho du anni.»
Aureliano lo guardò, lo sguardo del ragazzo era estremamente serio, un cambiamento totale da quando, pochi secondi prima, era seduto su quel divano a ridere.
Sospirò «So entrati dentro casa mia.»
«Pensi che siano stati loro?»
«Hanno fatto un macello ma non hanno preso nulla. Forse cercavano qualcosa.»
«Forse cercavano me.» Alberto sospirò e gli girò le spalle, tornando a raggomitolarsi sul divano, più serio che mai.
Aureliano gli andò vicino, mettendo le mani sulle sue ginocchia.
«Non t’hanno trovato lì e non te troveranno qua.» gli sorrise e si sedette accanto a lui, prendendo il telecomando e riavviando il film.
«Avanti, finisci sto corso de aggiornamento»


Le giornate iniziarono a passare una uguale all’altra. Durante la notte dormivano insieme, sempre più spesso abbracciati uno all’altro, ma il giorno erano due amici che cercavano di passare le giornate.
Alberto aveva cercato, fino ad allora, di non spingere le cose anche se la sensazione di urgenza, in fondo al suo stomaco, non era passata. Si chiedeva se quella sensazione lo avrebbe accompagnato per tutta la vita.
La sensazione di sentire che il suo tempo stava finendo, che la sua vita aveva una data di scadenza che si stava avvicinando.

 

Quella mattina Aureliano uscì mentre Alberto stava ancora dormendo e il ragazzo si svegliò quando lo sentì rientrare.
«Albè! Sei sveglio? » gli urlò dal piano di sotto.
Doveva essere sincero, era ancora strano sentire Aureliano chiamarlo con il suo nome di battesimo, anche se usava il suo nome e il suo soprannome allo stesso modo.
«Arrivo!» disse, con voce ancora impastata dal sonno e alzandosi a fatica dal letto.
Quando arrivò al piano di sotto vide un enorme busta di un negozio di elettronica e Aureliano sorrideva come un bambino. Doveva essere sincero ancora una volta, non si era ancora abituato a vedere Aureliano così sereno. 
«Che hai comprato?» Alberto avanzò, allungando le mani verso la busta ma Aureliano lo cacciò via.
«Fermo co ste mani piene de dita.» lo ammonì, poi iniziò lui stesso a trafficare nella busta.
«Ho preso degli altri DVD, ma il pezzo forte è questo…» tirò fuori una scatola nera con delle scritte verde.
«Una PS4?» esclamò Spadino riconoscendo la scatola.
«Almeno se trovamo da fa. Che ne dici?» disse, iniziando a tirarla fuori dalla scatola.
«Ho preso anche Fifa.» disse, indicando il mucchio di confezioni che aveva poggiato sul tavolo.
«Io odio il calcio Aurelià.» Aureliano lo guardò e rise. «Che rompi cojoni che sei...ma so previdente e ho preso pure qualche roba co gli zombie.» capì di aver colpito nel segno quando il ragazzo esclamò un “Daje forte” e si mise a cercare il videogioco nella pila.

Aureliano si mise a cucinare lasciando il ragazzo davanti alla televisione con i suoi cavi e le sue istruzioni. 
A volte se ne scordava, che Spadino era dopotutto un ragazzino. Cresciuto in fretta, sicuramente, che ne aveva viste esattamente quanto lui e che, come lui, non aveva conosciuto la sensazione di essere un ragazzo normale.
Fu quasi difficile convincerlo a mangiare, ma poi fece partire l’installazione del gioco e si lasciò la tv alle spalle mentre la barra del download iniziava lentamente a riempirsi.
«Figa la PS, Aurelià.» disse soltanto, come un grazie dissimulato, mentre si riempiva il bicchiere di acqua.
Avrebbe dovuto dirlo Aureliano, che adorava vederlo così spensierato? Come quando avevano fatto quel viaggio fuori Roma per riprendere il prete disperso e vederlo cantare in macchina lo aveva fatto ridere come non faceva da mesi.
Gli sorrise leggermente, ma non rispose. 
«Il dottore passa de qua tra un paio de giorni. Se se po’ te toje i punti.» disse poi. Aveva contattato il medico quella mattina e aveva organizzato il viaggio. Sarebbe stato accompagnato da Romoletto, bendato, in modo che non potesse rivelare la loro posizione. 
Non che l’avrebbe fatto, aveva troppa paura di Aureliano, ma era sempre meglio non fidarsi di un cocainomane, non sai mai cosa gli passa per la testa.
Suo padre gliel’aveva detto fin dall’inizio: se fosse diventato dipendente da quella roba il loro intero business sarebbe andato a puttane. Effettivamente suo padre non aveva mai fatto uso di droghe, ma a quanto pare non pensava lo stesso dell’abuso di alcool.
«Oh okay»
«Non sei contento? Così te potrai move meglio.»
Alberto era contento, si, certo. Ma questo voleva dire che si stava avvicinando il momento che temeva. Il momento in cui “sarebbe stato meglio” e avrebbe dovuto decidere cosa fare della sua vita. Certamente non poteva rimanere per sempre nascosto a Sabaudia.
«Si, certo. Finalmente.»
«Che c’hai?» insistette Aureliano, improvvisamente serio.
Alberto gli sorrise, reprimendo ogni pensiero nei meandri della sua mente. «Sto a pensà a quanto sarò figo con la cicatrice.»
«Se, me ‘mmagino» lo prese in giro Aureliano, ricominciando a mangiare.


Il pomeriggio lo passarono a giocare alla PS4. Avevano spostato il divano in modo da poter guardare direttamente lo schermo e aperto una busta di patatine che per ora era dimenticata accanto a loro. Aureliano era semplicemente terribile con il pad, non usandone uno da quando era un adolescente. 
Alberto ad un certo punto aveva iniziato a prenderlo in giro, ma il ragazzo non era andato sulla difensiva, rispondeva e faceva battute. 
Quindi era così Aureliano? Il vero Aureliano? Quello che non era pieno di rabbia ventiquattro ore su ventiquattro?
Lo stava fissando, mentre lui cercava di sopravvivere ad una missione che aveva ucciso il suo personaggio già tre volte, ed era sicuro di sembrare inquietante e assolutamente fuori luogo.
Non era una cosa scontata pensare e ripensare a quanto fosse bello? I suoi occhi, le sue labbra, la sua barba, il suo corpo. Non era scontato ormai dire che lo desiderava come l’aria che respirava, come la libertà? 
Gli prese il pad dalle mani, richiamando la sua attenzione su di sé, e lo mise di lato. «Ao!» esclamò solo Aureliano, prima di sentire la sua mano sul viso e le labbra sulle sue.
In un attimo Spadino salì a cavalcioni sulle sue gambe, stringendo il suo viso tra le mani e reprimendo un leggero gemito di dolore per il movimento brusco. 
Non aveva mai fatto una cosa del genere con Aureliano. Con nessuno in generale, se doveva essere sincero. Non avrebbe mai voluto forzarlo a fare cose che non sapeva neanche di volere , ma non voleva neanche rimanere lì ad aspettare, sapendo che il loro tempo insieme stava per scadere.
Aureliano gli prese il mento e l’allontanò «Albè»
Lo guardò, tutto quello che stava provando era scritto sulla sua faccia. Ansia, panico, paura, desiderio, preoccupazione. E diniego.
E doveva essere così anche per lui, perché Aureliano si accorse quanto si sentiva ferito da quel rifiuto.
Così come aveva trovato posto sulle gambe di Aureliano, altrettanto velocemente mise i piedi nudi a terra e si allontanò.
«Si, Albè.» ripeté, andando verso le scale.
Aureliano, scosso e con un buco al petto lo guardò salire le scale senza avere il coraggio di dire un’altra parola. Preso dall’urgenza cercò di andargli dietro, ma rimase fermo con un piede sul primo scalino e l’altro a terra. Strinse il corrimano in legno con le mani, tanto che le nocche gli divennero bianche. La rabbia, la frustrazione e l’odio che provava per se stesso riemersero con forza.
Perché non riusciva a lasciarsi andare? Perché non usciva le palle, invece di comportarsi come un ragazzino timoroso alla sua prima volta? Era diventato uno di quelli che lanciava il sasso e nascondeva la mano? Oltre che un vigliacco?
Ma tutto questo lo preoccupò solo per un attimo, il pensiero che più lo lasciava distrutto era sapere Alberto al piano di sopra, allontanato e rifiutato da lui per l’ennesima volta. 
Voleva salire, parlargli, ma non trovava neanche una parola da dirgli, un modo per scusarsi, per prendere ancora tempo. Ma lo sapeva anche lui, che il tempo stava per scadere.


Erano ormai le otto di sera quando Aureliano prese il coraggio di salire al piano di sopra. Prese due birre ghiacciate dal frigo e salì le scale in punta di piedi, come se avesse avuto paura che Spadino, sentendolo, avesse potuto far qualcosa per evitare il confronto.
Non lo vide immediatamente, pensò per un attimo che fosse al bagno, ma poi si rese conto che era sul balcone, su una delle vecchie sdraie da mare a righe bianche e blu.
Aprì la porta finestra con il gomito destro e, dopo aver fatto un profondo respiro, uscì fuori al fresco della sera. In realtà faceva quasi freddo, e lui aveva su solo una t-shirt.
Alberto, invece, era steso con una coperta di lana trovata in uno dei vecchi armadi, e la sua felpa.
«Ehi» 
«Ehi»
«Birra?» si sedette sulla sdraia gemella accanto a lui e gli allungò la bottiglia, come un segno di pace.
«Grazie.»
Ci fu un attimo di silenzio che ci pensò il ragazzo a rompere.
«Mi dispiace pe prima. So stato er solito cojone.» disse, prendendo il primo sorso gelato.
«Nun è vero. So io che so un cacasotto.» distolse lo sguardo verso la città.
Vedeva in lontananza le luci del centro di Sabaudia, il mare, purtroppo, era alle loro spalle e precluso alla loro vista. La luna era già visibile e illuminava molto di più dei poveri lampioni delle strade.
«Non dovevo comunque aggreditte così.» rise Alberto. Poi allungò la bottiglia verso di lui e attese che Aureliano la facesse scontrare con la sua, in un gesto che metteva fine alla questione.
Avrebbe voluto parlarne ancora, Alberto? Si.
Avrebbe voluto capire se avrebbero mai fatto sesso? Assolutamente si.
Voleva spaventare completamente Aureliano, più di quanto già non fosse? No, mai.
Aureliano avrebbe voluto chiedere scusa, ma era evidente che l’altro non voleva più parlarne di quello che era successo. Quanto doveva costare al suo orgoglio i rifiuti che continuava a collezionare da parte sua? 
L’ultima cosa che voleva era imbarazzarlo e ferirlo ancora. 
Provava per se stesso lo stesso odio che provava per chi gli aveva sparato. Semplicemente vederlo soffrire lo mandava su tutte le furie.
Si sdraiò anche lui e, un secondo dopo, Alberto gli passò la sua coperta, facendo segno alla sua felpa per dire che non ne aveva bisogno.
Rimasero a guardare il cielo, con le teste che continuavano a rimuginare, ma senza avere il coraggio di parlare.


Il Dottor De Rosa arrivò due giorni dopo. 
Alberto non lo vide entrare, ma lo sentì. Aureliano aveva ritirato fuori la voce autoritaria che aveva quando lo aveva conosciuto e che aveva ancora con le altre persone, fuori da quella casa.
Romoletto non entrò neanche nell’edificio, ma rimase fuori. 
Aureliano condusse il medico al piano di sopra, e lui fece appena in tempo a sedersi sul letto.
Il dottore lo salutò e notò il sollievo sul suo viso, nel vederlo così in salute.
«Hai una cera molto migliore dell’ultima volta che ti ho visto!» esclamò. Quelle poche volte che lo aveva visto era semplicemente nervoso e guardava sempre di sottecchi Aureliano.
«Sto bene.» disse semplicemente.
«Daje su, mettite giù» eccolo Aureliano, con la sua voce dura.
Alberto tirò su la maglietta e, da solo, iniziò a togliersi via il cerotto protettivo. La ferita era stata disinfettata il giorno prima con del betadine. 
All’inizio lo aveva fatto Aureliano per lui, ma dopo qualche giorno era stato in grado di disinfettarsi da solo. Avrebbe mentito se avesse detto che non gli faceva un certo effetto e che non fosse leggermente doloroso, motivo per cui preferiva farlo da solo.
«La vedo bene. Pulita.» disse il medico, guardando da vicino la ferita.
Aureliano si era andato a sedere dall’altra parte del letto matrimoniale. Sembrava un cane da guardia.
«Credo proprio di poter togliere i punti. Ma è importante che tu sappia che dentro non è completamente sanata ancora. C’è del gonfiore, l’ematoma è ancora presente.»
«È normale?» chiese Aureliano
«Si, certo. Gli hanno sparato, i tessuti ne hanno sofferto. Toglierò i punti, lasceremo respirare la cicatrice, ma ti consiglio del ghiaccio, un paio di volte al giorno, attutito da un panno sarebbe meglio. Così facendo l’ematoma si riassorbirà molto più velocemente» spiegò.
Alberto aveva sentito lontanamente le parole del medico, perché era rimasto bloccato alla questione dei punti. Si sentiva piuttosto delicato in quel momento, ogni volta che si toccava lo stomaco dei brividi gli correvano lungo la schiena. Aveva semplicemente paura di provare altro dolore, perché quando pensava a quello che aveva provato su quel portico, bagnato del suo sangue, in attesa di Aureliano gli veniva da vomitare.
«Io inizierei se sei pronto.» gli disse il medico, ad un certo punto, attirando la sua attenzione.
Guardò prima lui, poi girò la testa per guardare Aureliano, che probabilmente lesse tutto nei suoi occhi. Non disse nulla, ma gli fece un cenno con la testa.
«Annamo su, tojemose sto pensiero.» acconsentì e si sistemò il cuscino per stendersi il più possibile, poi girò la testa dall’altra parte mentre sentiva il medico armeggiare con la sua borsa.
Guardò Aureliano e continuò a guardarlo.
«Sto per iniziare. Non dovresti sentire nulla, rilassa l’addome.» gli disse il medico, e sentì la sua mano guantata appoggiarsi al centro della sua pancia. Al contatto, Alberto fece scattare la sua mano e afferrò il polso di Aureliano. Avrebbe voluto stringergli la mano, ma sapeva che lui non avrebbe voluto. 
Non sentì dolore al primo punto e questo gli permise di rilassarsi. Sentì i muscoli sciogliersi e mollò la presa. Sentì solamente la sensazione del filo di sutura venire via dalla sua pelle e il punto staccarsi, era come se sentisse quei rumori nello stomaco e nella testa.
Guardò il soffitto, distrattamente, mentre cercava invece di concentrarsi sulle sensazioni che sentiva e magari anche di sentirli venir via tutti.
In quel momento, con sorpresa, sentì la mano di Aureliano stringere la sua. Si girò verso di lui e lo trovò a fissarlo. «Va tutto bene?» gli chiese. Era serio e i suoi occhi erano limpidi. Lui annuì, prendendosi un attimo per guardare il palmo della sua mano sopra il proprio.
«Abbiamo quasi finito eh. La cicatrice sarà appena visibile se trattata nel modo giusto.» Il medico ruppe quel momento.
«Sarà figa no?» disse poi, ridendo.
«Oh si…molto figa.» rispose il medico, finalmente di buon umore. Se l’era giocata bene e forse Aureliano Adami adesso lo avrebbe lasciato andare o almeno avrebbe ridotto un po’ il suo debito.


Dopo avergli dato alcuni consigli su come trattare la cicatrice e l’ematoma il dottore fu nuovamente bendato e posizionato nei sedili posteriori della macchina di Romoletto.
Aureliano lo prese da parte dandogli delle indicazioni su come gestire la situazione senza di lui e gli chiese, ancora una volta, di tenerlo informato di ogni movimento che avveniva ad Ostia senza il suo permesso.
Romoletto, di risposta, gli diede un’altra vecchia borsa da palestra con altro contante, come gli era stato richiesto.
Quando partirono chiuse il cancello alle loro spalle e mise la catena, guardandosi intorno. Erano ancora lontani dal periodo estivo e le villette che costeggiavano la loro erano vuote. L’unico movimento era causato da un numero non indifferente di uomini indiani che, in bicicletta, facevano avanti ed indietro dalle serre di Sabaudia.
Rientrò in casa e tornò su da Alberto. Non lo trovò steso a letto ma, quando fece qualche passo verso il letto lo vide nel bagno. La porta era chiusa, ma essendo il muro di divisione completamente in plexiglass poteva vederlo chiaramente.
Era davanti allo specchio, con indosso solo uno dei boxer che Aureliano gli aveva prestato e che gli andava evidentemente troppo largo, e si stava passando una spugna insaponata sulla pelle. 
Rimase a guardarlo, per un attimo, i movimenti del suo corpo minuto, i capelli ormai troppo lunghi, le gambe sottili. Sentì qualcosa stringersi nello stomaco. La consapevolezza che erano nuovamente soli e che lo voleva. Lo voleva davvero.
Fece i pochi passi che lo allontanavano dal bagno e aprì la porta scorrevole. Spadino si girò verso di lui.
«Dici che me la posso fa ‘na doccia mo, no? Me so rotto de lavamme a sto modo.» 
Aureliano non rispose ma gli prese dalle mani la spugna gocciolante.
Appoggiò una mano sulla sua spalla e iniziò a lavargli la schiena.
«Mo so in grado de lavamme da solo, lo sai si?» gli disse, ridendo, ma smise nel secondo in cui Aureliano posò le labbra sul suo collo bagnato.
Si lasciò sfuggire un rumore patetico e chinò la testa di lato.
Sentiva ancora la spugna bagnata carezzargli la schiena, mentre gocce d’acqua scivolavano sul suo corpo e venivano assorbite dal bordo dei boxer.
Voleva lasciargli il suo tempo, non voleva mettergli fretta, quindi rimase lì a godersi le attenzioni di quell’uomo che aveva paura solo ad averlo vicino. 
Aureliano lasciò cadere la spugna bagnata nel lavandino e strinse le braccia intorno al suo corpo, accarezzandogli il ventre e il petto. Si lasciò andare contro di lui.
Lo girò, mettendogli le mani sui fianchi, e si trovò quasi aggredito dalle sue labbra. Ricambiò il bacio, ma poi gli prese il mento fra le mani e lo allontanò «Sicuro, si?» il cervello era annebbiato, ma gli sembrava sinceramente di camminare sulla lama di un rasoio.
Non rispose, ma lo prese per mano e, indietreggiando, lo portò verso il letto. 
Alberto si prese un attimo per cercare di decifrare il suo volto, ma ci lesse solo determinazione. Poté solo immaginare quello che gli passava per la mente. Si odiava, per dopo tutto quello che avevano passato insieme doveva ancora cacciare nei meandri della sua testa il pensiero che lo stava in qualche mondo traviando o corrompendo.
Ma non era così, Aureliano voleva stare con lui tanto quanto lo voleva lui. Decise quindi che gli avrebbe offerto la full experience, e Aureliano se la sarebbe goduta quanto lui. 
Lo lasciò sedersi sul letto e gli salì a cavalcioni sulle gambe, prendendo il controllo. Percepì della resistenza da parte sua, ma durò poco. Gli tolse la maglietta bagnata d’acqua e la lanciò lontano. Lo sentì respirare sempre più affannosamente e il suo sguardo farsi sempre più smarrito. Forse era pronto a lasciarsi andare?
Scivolò giù, poggiando silenziosamente le ginocchia a terra e slacciò l’elastico del pantalone della tuta che indossava. Sentì immediatamente le mani di Aureliano sulle sue «Albè.». Riusciva sempre a capire dall’intonazione in cui chiamava il suo nome che cosa stava provando e cosa volesse dire. 
«Chiudi gli occhi.» gli disse, guardandolo e continuando a spogliarlo. 
Aureliano si sentì un vigliacco a fare esattamente quello che Alberto gli aveva detto. Sapeva di non poter reggere la vista di lui, lì tra le sue gambe.
Non vide più niente, ma qualche attimo dopo sentì il calore della sua bocca circondarlo e lo stomaco si chiuse per il piacere. Non poté negare di aver sentito una punta di panico, insieme a tutte quelle sensazioni che lo stavano aggredendo.
Per la prima volta da molto tempo a quella parte la sua mente era vuota e presente. Non era chiusa nel passato, non era pronta il previsione del futuro. Era lì, con Alberto.


Quando Aureliano si svegliò era solo nel letto. Allungò una mano e toccò distrattamente le lenzuola ormai fredde accanto a lui.
Si prese ancora qualche minuto sdraiato a letto cercando di far svegliare la mente e tutto tornò alla memoria. La notte appena trascorsa sembrava un sogno, un qualcosa che aveva vissuto qualcun altro.
Ma non era così. Lui era stato presente, tutta la notte e ricordava ogni secondo e, anche se sembrava una cosa sdolcinata, si sentiva come se avrebbe ricordato ogni momento di quella notte per tutta la vita.
Si ritrovò a ripercorrere con la mente quello che avevano fatto e si trovò eccitato ed imbarazzato allo stesso tempo.
Anche Spadino si sentiva così? Per questo lo aveva lasciato solo nel letto?
Prese coraggio e si alzò, giusto in tempo per sentire un delizioso odore di caffè salire dal piano inferiore. 
Si infilò una t-shirt e il pantalone di tuta e scese le scale, lentamente, a piedi nudi. Vide Alberto in cucina e la tavola sistemata per la colazione. Per un attimo lo senti…canticchiare? Forse se lo stava immaginando.
«Albè…?»
«Te sei svejato finalmente. Caffè?»
«Ma che stai a fa?» Aureliano si appoggiò allo stipite della porta della cucina.
Alberto aveva un viso indecifrabile per lui. Un mix di varie emozioni che lui non era mai stato bravo a riconoscere.
«Ho fatto un sacco di cose. La lavatrice, ad esempio, che se stavo ad aspettà te rimanevano in mutande. Ho fatto i french toast ma…sono freddi ormai» guardò tristemente il piatto con i french toast abbandonati, totalmente intonsi.
«Vabbè, ce stanno i biscotti, se voi fa colazione. Io me sa che vado a stenne i panni.» cercò letteralmente di scappare via dalla stanza ma Aureliano glielo impedì.
«Che c’hai, Albè?» gli chiese, senza mezzi termini. Era evidente anche per lui che c’era qualcosa che non andava.
«Non ho nulla, tutto apposto. Mangia. Il caffè è appena fatto» disse, ma la sua espressione diceva il contrario.
Riuscì a sgusciare via e pochi secondi dopo lo vide salire al piano di sopra con una vecchia cesta scolorita piena di vestiti neri bagnati.
Rimase giù ancora qualche secondo prima di raggiungerlo.
Lo trovò fuori al balcone, ma la cesta di vestiti era abbandonata su una delle sdraie e lui era appoggiato al parapetto in cemento.
Quando uscì lo accolse una giornata di fine aprile particolarmente fredda e dei brividi gli percorsero le braccia nude, il marmo freddo sotto i piedi.
«Pensavo che sarei stato io a dà de matto dopo avè scopato…e invece» gli disse, sorridendo.
Alberto scoppiò a ridere e per un attimo si rilassò, ma tornò molto presto serio.
Si girò e tirò fuori uno spinello dalla tasca della felpa. Aveva trovato la scorta che Aureliano gli aveva messo da parte.
Chiuse gli occhi mentre prendeva il primo respiro.
«Me voi dì che c’hai?» provò ancora e fece qualche passo verso di lui nel minuscolo balconcino.
Alberto lo guardò per un attimo.
«Non ho dormito tutta la notte. Non riesco a smettere de pensacce…» sospirò. «Che succede adesso? Che famo?» 
Aureliano capì immediatamente che il momento di parlare era arrivato. Si scoprì deluso. Avrebbe voluto qualche giorno di pace. Avrebbe voluto godersi di più quel nuovo stato delle cose. 
«Lo sai già che succede adesso.» disse, mettendo le mani in tasca.
«No, nun lo so.» rispose l’altro, piccato, rimanendo con lo spinello a mezz’aria.
«Lo sai, invece, ma se voi che te lo dico ancora più chiaramente lo faccio…» fece un momento di pausa e si odiò per la sua durezza. «Quando te sentirai meglio, te ne vai. Te prendi la macchina qua fori, te do un po’ de sordi, un documento novo novo…e te ne vai da qua.»
Alberto non era ovviamente sorpreso da quella risposta, ma non rispondeva alle sue domande.
«E dove cazzo vado?» esclamò.
«Do te pare Albè! Sei libero, poi annà do te pare!»
Aureliano si trovò in difficoltà, quindi girò i tacchi e tornò in casa. Alberto fu dietro di lui in un attimo.
«E se volessi rimanè a Roma?» 
Non poté credere a quelle parole. Si girò per fronteggiarlo, ora sinceramente imbestialito.
«Ma te senti quanno parli? Ma che te dice la capoccia? Allora dillo che te voi fa ammazzà!» esclamò.
«Roma nun c’ha più niente pé te»
«Roma c’ha te.» la sua risposta la sentì forte come un pugno nello stomaco.
Alzò un dito come monito contro di lui. Il viso di Aureliano si era fatto pallido, mentre i suoi occhi azzurri si erano arrossati dalla rabbia. «Non devi dì più stronzate del genere, m’hai capito? Perché fidate quanno te dico che ce metto du minuti a mollatte!»
Ed era serio. Sapeva benissimo che se Alberto avesse deciso di non lasciare Roma per stare con lui, lo avrebbe lasciato su due piedi.
«Quindi hai già deciso tutto pe me? Nun c’ho voce in capitolo su de che morte devo morì?» rispose Alberto, profondamente triste.
Aureliano fece un profondo respiro, per calmarsi. «Albè, pensace. Hai la possibilità de fa quello che voi. De annà do te pare! Non hai ancora imparato la lezione? Un proiettile nun t’ha convinto?»
«Lo sai che cosa voglio.» lo guardava fisso, entrambi fermi al centro della stanza.
«Non hai neanche preso in considerazione la possibilità de venì via co me.» era un affermazione, non una domanda.
«Sai benissimo che non posso.»
«Non poi, o non voi?»
I tentativi di mantenersi calmo di Aureliano non diedero buoni frutti.
«Senti, vaffanculo ragazzino de merda. Io so la persona tra te e quelli che te vojono fa fori. Ho mollato tutto per venimme a nasconde qua co te, quindi vaffanculo n’artra vorta!»
I lineamenti di Alberto, sempre molto più bravo di lui a mantenere una faccia da poker, si fecero più duri.
«Non sono un ragazzino, me la so cavà da solo. L’ho sempre fatto!»
«Ah si? Vallo a dì a quello che è rimasto dieci ore svenuto nel mio letto co un buco ner fegato.»
Era un colpo basso, quello lo sapeva bene e si sentì uno schifo un secondo dopo aver finito la frase.
«Ascolta…lo so che sai cavartela da solo. Lo dovrai fa ancora. Ma un clan intero è contro de te Albè, e io so l’unica persona tra de voi.»
Alberto si prese un attimo per riflettere. 
Aveva ragione, Aureliano aveva sempre ragione. Ma in quel momento non voleva parlare con Aureliano Adami, il criminale, lo stratega, il cane pazzo che non sapeva gestire la sua rabbia.
Voleva parlare con l’Aureliano con cui aveva passato la notte. L’Aureliano che aveva osservato dormire tutta la notte, mentre pensava a come sarebbe stato vivere senza di lui.
«Quindi è finita…»
Aureliano sospirò. «Non ho detto questo.» rispose, severo.
«Io sto bene, Aurelià. So guarito. È inutile che continuamo a traccheggià…» 
Aureliano si passò una mano tra i capelli. «Non…» si interruppe, abbassando lo sguardo al pavimento. 
Avevano scopato, quella notte, e lui se ne stava ancora lì con la paura di dire ad Alberto quello che voleva.
«Non c’è fretta…» tirò fuori a fatica «Se potemo prende quarche altro giorno…nun te ne devi annà adesso.» disse, con estrema difficoltà.
«Prendite qualche giorno pe capì dove vuoi andà. Pensa se te serve qualcosa che te posso procurà.» disse poi, riportando la conversazioni in porti sicuri.
Alberto sospirò, le spalle contratte si sciolsero un po’. 
Aveva mille domande che gli occupavano il cervello. Si sarebbe mai sistemata quella situazione? Quando, e se, Spadino fosse stato fuori pericolo avrebbero avuto una chance per stare insieme? 
Non aveva le risposte a quelle domande, ma una cosa l’aveva: il qui e l’ora.
Si avvicinò a lui e appoggiò le mani sul suo petto, accarezzandolo, poi gli prese la mano e iniziò a indietreggiare verso il letto portandoselo dietro.
Aureliano sorrise. «Che stai a fa?» chiese.
«Sto pensando a dove me piacerebbe annà.» disse, sorridendo. «Per ora er letto è l’unica cosa che me viene in mente.» scherzò.


Si presero qualche giorno. Fu bello, ma non quanto avrebbe potuto essere. La spada di Damocle era sulla loro testa e nessuno dei due riusciva a far finta di niente.
Fu per questo motivo che quando una mattina Aureliano si svegliò e vide Alberto preparare il borsone sulla sua parte del letto non ne fu sorpreso.
«Scusami, non te volevo svejà.» disse Alberto, non riuscendo a reggere a lungo il suo sguardo assonnato.
«È arrivato, quindi.» Aureliano si alzò sui gomiti e lo guardò.
«Se non me ne vado adesso, nun me ne vado più Aurelià.» lo studiò per un attimo, ma poi continuò a sistemare vestiti che non erano neanche suoi nel borsone.
«Ti farò riavere i vestiti.» disse.
«Tienili.»
«E ti restituirò i soldi.»
«Non vojo che me ridai un cazzo.»
Aureliano si alzò e, ancora scalzo e con indosso solo dei boxer, scese al piano di sotto. 
Avrebbe voluto andargli dietro, ma sapeva che lui non avrebbe gradito. Aveva imparato a capire quando Aureliano Adami voleva stare per i cazzi suoi.

Quando scese anche lui al piano di sotto era pronto per la partenza. Aveva il suo borsone con i vestiti di Aureliano, per il viaggio aveva messo su la sua felpa e un paio di jeans che gli andavano un po’ grandi. Aveva anche preso dei libri dalla scrivania, dimenticati da anni. Non sapeva perché li aveva presi, forse perché immaginava che avrebbe avuto del tempo libero da occupare. 
Aveva sempre immaginato la libertà, ma l’unica cosa a cui riusciva a pensare è che lo aspettava una vita di solitudine. Forse i libri potevano aiutare.
Quando arrivò alla fine delle scale vide Aureliano seduto sul divano con una tazzina di caffè in mano. Si era messo addosso dei vestiti puliti ma non stirati.
«Io so pronto.»
Aureliano non lo guardò, ma annuì. Indicò un altro borsone nero abbandonato accanto alla porta.
«La dentro c’è quello che te po’ servì.» 
Alberto andò verso la porta e lasciò il suo borsone accanto all’altro e attese. 
«Nun me saluti?»
L’altro alzò lo sguardo. Aveva voglia di fare lo stronzo, Aureliano. Aveva voglia di sfogare su di lui la rabbia e l’altro accumulo di sentimenti senza nome che stava provando.
Ma sapeva che non ne aveva diritto. Non aveva il diritto di prendersela con lui, perché anche se non aveva altra scelta, si era rifiutato di andare via con lui.
«Si, certo.» si alzò e andò verso di lui, verso la porta.
Si mise le mani in tasca e tirò fuori la chiave della macchina. Gliela porse. «Non dimenticare queste.» «E nella borsa ci sono i documenti e il telefono.» 
«Lo so.» Alberto sospirò «Grazie de tutto.»
Aureliano annuì, ma non disse nulla.
Alberto a quel punto allungò una mano e afferrò la sua abbandonata lungo i fianchi.
«Aurelià io ti…»
«Shh. Zitto, statte zitto.» Aureliano, in uno scatto causato dal panico, gli tappò fisicamente la bocca con l’altra mano.
Alberto si liberò e lo guardò risentito «Sul serio?»
«La prossima volta.»
«Nun hai imparato un cazzo da sta storia? Potrebbe non esserci ‘na prossima vorta.»
Aureliano contrasse la mascella. «Certo che ce sarà.»

Alberto prese un profondo respiro e annuì. Si allungò e lo baciò sulle labbra, un bacio lungo ed immobile. Poi si girò, prese i suoi borsoni e aprì la porta d’ingresso.
Aureliano lo vide caricare tutto nel bagagliaio e lanciargli un ultimo sguardo prima di salire in macchina e mettere in modo.
Nel giro di qualche secondo la vide sparire dietro la curva.
Si chiuse la porta alle spalle e il suo sguardo si perse nella casa vuota.
  
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