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Autore: Florence    07/11/2018    2 recensioni
Scoprirsi, perdersi e ritrovarsi oltre il tempo, oltre il dolore, oltre una lontananza che strappa l'anima.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Adrien Agreste/Chat Noir, Marinette Dupain-Cheng/Ladybug, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO 28 - CACCIA



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Vi ricordate dove avevamo lasciato Marinette nella parte del “6 anni dopo”? Bene, ve lo rammento io qua sotto e vi comunico che… Eccoci tornati nel loro presente!!!
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Non aveva percorso neanche un centinaio di metri che un’auto si affiancò a lei, procedendo a passo d’uomo. Un brivido le percorse la schiena. Cosa volevano da lei? Marinette accelerò: la metropolitana era ormai a pochissimi passi, là dentro sarebbe stata al sicuro. Avrebbe potuto correre e trasformarsi e tutte le sue paure sarebbero state dissolte.

Udì il leggero soffio del finestrino che si abbassava, le ruote schiacciavano le foglie cadute ai lati della strada, facendole crepitare tetramente.

Sentiva degli occhi puntati su di lei, ma non aveva il coraggio di voltarsi. Notò con la coda dell’occhio che si trattava di una coupé scura e, dal leggero ruggito del motore a bassi giri, doveva trattarsi di un modello molto costoso.

Procedette per gli ultimi metri e svoltò oltre l’ingresso in stile Art Nouveau della stazione, sparendo per le scale. Si affrettò a scendere gli scalini e trasse un sospiro di sollievo, percependo lo spostamento d’aria che annunciava l’arrivo imminente del treno. Vi balzò dentro a corsa, udendo in lontananza passi affrettati che provenivano dalle scale. Qualcuno era dietro di lei. Pregò perché le porte si chiudessero e, quando avvenne, finalmente riprese a respirare, le mani attaccate al vetro e gli occhi in cerca del suo cacciatore.

Fu una frazione di secondo soltanto, ma per quell’attimo, prima che il treno perdesse la visuale della stazione curvando in galleria, le parve di intravedere un uomo alto, con i capelli biondi, giunto in banchina un attimo troppo tardi.


Tutto il mondo le cadde addosso.



La metro si fermò alla stazione di Chemin-Vert, la voce sintetizzata avvertì i passeggeri di prestare attenzione nello scendere dalla carrozza. Marinette si destò appena in tempo per gettarsi tra le porte che stavano richiudendosi e barcollò arrestando la sua corsa sulle mattonelle luride della banchina. Si guardò attorno, come se l’uomo che aveva visto in un’altra stazione a chilometri di distanza avrebbe potuto essere lì ad attenderla. Nessuno: la stazione era deserta; un neon lampeggiava in un angolo, producendo uno strano ronzio che lei udì non appena il treno fu lontano.

La ragazza si sforzò di restare calma, in fondo l’uomo che aveva visto poteva essere chiunque. Si era messa in salvo da un probabile molestatore, ecco cos’era successo, ecco perché avrebbe dovuto essere sollevata invece di lasciare che il tarlo del dubbio le scavasse la testa in cerca di un falla nel suo ragionamento. Era rimasta immobile attaccata al vetro del treno per minuti in cui avrebbe potuto dubitare che il suo cuore avesse battuto: negli occhi solo l’immagine sfuggente di un uomo alto, con i capelli biondi e un giubbotto di pelle nera, che guardava il treno andar via. Un braccio teso verso il convoglio, le gambe in tensione. Avrebbe potuto giurare di aver udito il suo nome gridato disperatamente, se non fosse stato solo il frutto della sua fervida immaginazione: il frastuono del treno che sfondava il muro d’aria, entrando in galleria, aveva infatti coperto ogni altro rumore.

Poi, piano piano, aveva preso coscienza che il suo battito c’era ed era debole e veloce. Come il fruscio d’ali di un uccellino che prova a volare.


Non poteva essere lui, in nessun modo. Marinette aprì la borsetta e due piccoli occhi blu la fissarono silenziosi. Se fosse stato lui, forse Tikki avrebbe sentito la presenza di Plagg e glielo avrebbe detto. O forse la kwami si sentiva ancora vincolata al giuramento che le aveva fatto tanti anni prima.

Sarebbe bastato chiedere, ma Marinette non lo fece. Abbassò lo sguardo, inalò una boccata d’aria puzzolente di ferodi sbriciolati e sudicio stratificato e si diresse verso le scale.

Non era lui: poteva esserne certa.

Adrien Agreste non avrebbe perso tempo a rincorrerla, non più.




***



Marinette aveva fatto molto tardi, maledizione. Non aveva avuto il cuore di tornare subito a casa, aveva preferito continuare a camminare un po’ lungo la Senna e, dopo, si era rifugiata sulla panchina di Places des Vosges dove tutto era iniziato. Il parco aveva subito diverse modifiche negli anni, ma quella panchina non era mai stata toccata. Aveva sfiorato la pietra fredda e consunta dal tempo dove Adrien l’aveva baciata per la prima volta davvero. Chiudendo gli occhi poteva ancora sentire il profumo di cioccolata sulle sue labbra e vedere il luccichio innocente e felice di due grandi occhi verdi che le avevano aperto le porte dell’anima di quell’amore perduto.

Tikki non parlava più. Da diverso tempo si limitava a guardarla e rispettare il suo silenzio.


Silenzio: Marinette voleva solo sprofondare nei ricordi e nulla più.



Da quando Fu aveva decretato la fine del viaggio attorno al mondo intrapreso dagli Agreste alla ricerca della signora Emilie, ogni momento poteva essere quello buono per pensare di ritrovare sulla sua strada Adrien. Quella sera ci era andata vicino… si era illusa molto bene che fosse lui, ci aveva creduto per un po’. Ma era tempo di ricacciare la parte di lei che ancora sperava e di concentrarsi su quella che era ormai la sua vita.


Inserì con delicatezza la chiave nella porta di casa, per non fare il minimo rumore e chiuse alle sue spalle la porta accompagnandola fino all’ultimo. Salì in camera sua dopo essersi levata gli stivali e pregò perché la botola non cigolasse, come ogni tanto aveva preso a fare.

Si buttò a sedere sulla vecchia poltrona, la testa abbandonata tra le mani, i gomiti puntati sulle ginocchia. Doveva reagire.

Un leggero colpo alla botola la fece sussultare. Sua madre apparve dalla fessura che aveva socchiuso.

-È tardi, Marinette-, le disse e per la prima volta le parve veramente invecchiata. Aveva due occhiaie scure e le rughe attorno agli occhi sembravano essere più profonde.

-Lo so, scusa...-, le rispose aiutandola ad entrare in camera sua.

-Va tutto bene?-, sua mamma captava ogni suo più piccolo vacillamento, ogni peggioramento del suo umore. Sempre.

-Così così-, Marinette volle essere sincera. Strinse le labbra in un sorriso confuso e fece spallucce.

-Com’è andata da Alya? Vi siete accordate per il tuo trasferimento?-, si vedeva che la mamma soffriva per quella decisione, ma Marinette volle subito chiarire la situazione. Le mise le mani sulle spalle e la guardò convinta negli occhi.

-Non andrò a vivere con Alya, ma voglio trovare ugualmente un posto solo per me, mamma. Sto bene con te e papà, ma… Devo farlo-.

La donna annuì in silenzio, ormai nessuna notizia tendeva più a meravigliarla: -Anche io lo feci, ma non attesi di avere quasi ventidue anni: me ne andai che ne avevo nemmeno diciannove e fu la scelta migliore della mia vita, perché iniziai a viaggiare e passai da Parigi. Se non avessi odorato il profumo dei croissant di tuo nonno, il giorno che stavo per tornare in Cina con la coda tra le gambe, tu adesso non saresti qua-, il sorriso si aprì sul suo viso stanco.

Marinette non si aspettava una risposta del genere, in nessun modo avrebbe pensato che la mamma fosse d’accordo con la sua decisione.

-Toglimi solo una curiosità-, le domandò-, come mai Alya ha cambiato idea?-

Marinette ingoiò due boccate d’aria prima di dare la notizia alla madre, sapendo che sarebbe stata una piccola delusione in più per lei. Sabine voleva dei nipotini, anche se non lo aveva mai ammesso, ma da come guardava i bimbi delle sue amiche era più che evidente.

-Alya… Alya è incinta, mamma, e sarà Nino ad andare a vivere con lei-, disse Marinette d’un fiato.

-Ovviamente!-, la mamma fu lesta nel completare la frase.

-Ovviamente...-, ripeté Marinette e si sforzò di mostrarsi il più felice per la notizia; -Tu pensa che le avevo portato champagne e sushi! Ci è toccato ingozzarci di sushi e scolarci la bottiglia da soli a me e Nino! Vedessi la sua faccia: era felice e sconvolto allo stesso tempo! E Alya… piccola… non sembrava lei, si toccava la pancia e non se ne rendeva nemmeno conto! E’ una notizia… Wow…-, si accoccolò tra le braccia della mamma che ridacchiava nell’immaginare quelle scene. Sabine aveva visto crescere gli amici di Marinette, assieme a lei e le faceva piacere sapere che Alya e Nino avessero finalmente coronato un bellissimo percorso di vita insieme. Invece Marinette avrebbe voluto per un attimo scomparire dall’universo perché non riusciva più a reggerne il peso da sola.

-Non sei scandalizzata?-, domandò la ragazza alla madre, dopo qualche istante, guardando una fetta di cielo attraverso la finestra lontana.

-E perché dovrei?-, rispose la mamma, -In fondo è un naturale evolversi della loro storia. Sei tu quella che ha scandalizzato tutti, cara mia!-, la schernì bonariamente, facendole l’occhiolino, -O meglio è stato lui. Tu hai commesso solo un madornale errore di valutazione, lo definirei!-

Quando la figlia era tornata da lei furibonda e distrutta dopo aver scoperto il tradimento del suo fidanzato, con una valigia mezza aperta e i capelli scarmigliati, le lacrime ormai secche sulle guance e quell’espressione incredula sul viso, era stata Sabine ad accoglierla e consolarla, tenendola abbracciata sulla chaise longue come in quel momento: -Ma ormai quello ti ha fatto Nathaniel è acqua passata-, disse alla figlia, stringendole una mano tra le sue, -E la mia cara Alya è felice-, aggiunse sorridendo.

-Anche Nathan è felice-, ammise Marinette, -L’ho sentito prima…-, ed era contenta per lui, anche se il rammarico non l’aveva mai veramente abbandonata.

-Era molto che non lo chiamavi?-, sua madre avrebbe potuto scrivere un intero trattato su “come aiutare una figlia tradita dal compagno per un altro uomo”: senza Sabine, Marinette sarebbe stata molto, molto più in crisi.

-Un po’-, Marinette si alzò e si tolse il giubbotto che ancora indossava.


La mamma rimase in silenzio, fissandosi le mani che teneva in grembo. Con un’unghia si torturava la pelle sotto alle altre. Anche lei doveva dire qualcosa di importante alla figlia, era suo diritto sapere.

-Poco dopo che sei uscita, prima… È… passata una persona che ha chiesto di te...-, più che le parole dette, fu lo sguardo della donna che raggelò Marinette. In un istante la ragazza fu ai suoi piedi, mise le mani sulle sue e la fissò con occhi enormi e il cuore impazzito, con un presagio perforante in testa.


Non era stata una sensazione… lo sapeva!


-Ecco... io gli ho detto che eri fuori, da un’amica-, la donna abbassò gli occhi, era mortificata, aveva sbagliato; -Forse avrei dovuto chiamarti…-, aggiunse scuotendo la testa, sperando che la figlia la perdonasse.

-Chi-, non era una domanda, Marinette sapeva già…, -Chi era-

Sabine la guardò e una piccola lacrima scivolò sulla sua guancia: -Non voglio che tu soffra di nuovo…-, mormorò, la bocca storta in un broncio.

-Chi era-

Marinette si alzò di scatto e si coprì il viso, poi fece scivolare le mani fino ai capelli, dove le infilò tirandoseli indietro, -Chi.-

Voleva sentire solo un nome, una conferma.



-Adrien-



***



“Non voglio che tu soffra di nuovo”: le parole della mamma la tormentarono per tutta la notte, finché le prime luci dell’alba non fecero capolino filtrando dalle tende e Marinette decretò che era finito il tempo a disposizione per compatirsi distesa a letto.

La sera prima, dopo che la mamma le aveva detto il nome che voleva sentire, lei aveva annuito e, senza aggiungere altro, era salita sul soppalco e si era lasciata cadere sul materasso. La mamma, silenziosamente, aveva atteso un po’ e poi era scesa di sotto.


Soffrire di nuovo… Non aveva mai smesso di farlo. Era stata brava a nasconderlo quando sorrideva radiosa accanto a Nath dopo che si erano fidanzati e fantasticavano sul farsi una famiglia insieme.

Si era illusa che realmente la scoperta del tradimento fosse stato un duro colpo per lei. Invece, intimamente, si era sentita libera… Delusa, tradita, offesa, ma libera. Libera di soffrire ancora, forse. Libera di tornare ad essere grigia e triste per qualcosa che ogni persona sana di mente avrebbe dovuto dimenticare subito. Non aveva mai smesso davvero di soffrire per l’addio di Adrien e non lo avrebbe mai fatto. La mamma poteva stare tranquilla.


La sofferenza aveva solo un sapore ed era quello dell’assenza.


La sua sofferenza andava avanti da sei anni, tre mesi e sette giorni e non si era mai veramente attenuata o placata o modificata. Era un dolore sordo che rimbombava di continuo nei suoi pensieri più tristi e anche in quelli felici. Era un sottofondo costante, una colonna sonora della sua esistenza successiva a quel maledetto giorno di maggio in cui Adrien era sparito senza darle la possibilità di parlargli, senza che si spiegasse davvero con lei. Era come un cancro latente, viscido, subdolo e incurabile, che piano piano l’aveva messa in ginocchio e lei si era arresa, si era abituata all’idea che il cielo non avrebbe più potuto essere davvero azzurro e il sole splendente. Era grigio, tutto maledettamente grigio. Grigio il suo maglione lilla, grigio il colore dei suoi occhi, grigia quell’alba tersa e fredda che odorava di muschio e pane appena sfornato.

Lei lo sapeva bene: non avrebbe potuto soffrire “di nuovo”, perché non aveva mai smesso di farlo. Soffrire di più, forse? Soffrire in modo diverso? Soffrire perché oltre alla parola fine avrebbe potuto esserci un nuovo inizio per Adrien, ma non con lei?

Quante volte ci aveva pensato a quello che poteva essere successo nel mentre che lei semplicemente soffriva, ignara di ogni cosa che riguardasse l’esistenza dell’unico uomo che mai avesse amato.

Forse Adrien si era rifatto una vita? Era sposato? Perché non aveva chiesto maggiori dettagli a sua mamma, perché non lo aveva fatto a casa di Fu, quando aveva avuto modo di chiarire ogni dubbio in presenza della Sancoeur.

Perché semplicemente era rimasta sotto la sua coltre grigia, protetta dalle informazioni, dalle novità, da qualcosa che avrebbe potuto farle ancora più male?

Ma soprattutto: le importava di saperlo?

Marinette alzò gli occhi alla finestra sul tetto, riflettendo, mentre il cielo schiariva a vista d’occhio in un miracolo che si ripeteva anche quel giorno, anche per lei.


Sì, assolutamente le importava, ma, quale che fosse stata la risposta, avrebbe mentito a tutti, di nuovo, come allora. Avrebbe sorriso contenta di qualsiasi cosa le fosse stata detta, perfino per qualcosa che avrebbe significato che Adrien Agreste era stato strappato per sempre da lei. In fondo, mentre il grigio le corrodeva l’anima, lei aveva sempre sorriso. Perché per tutti gli altri Marinette in realtà non soffriva più da tempo, da quando aveva ripreso ad uscire, a frequentare la scuola, da quando si era messa con Nathaniel.

Eppure la curiosità di conoscere quale vita avesse vissuto Adrien si era aggrappata alla sua mente come una sanguisuga e aveva lasciato che il suo cervello costruisse storie, proprio come allora.

Adrien aveva avuto figli, forse? Avrebbe potuto, come Alya e Nino… come Kim e Alix, che aveva rivisto qualche tempo prima. Perché lui no? Era un’ipotesi più che plausibile, e forse la sera prima l’aveva cercata proprio per chiarire la sua posizione, dal momento che stava tornando a Parigi con la sua famiglia.


Oppure Adrien era ancora solo, proprio come lei?

Ma, se anche fosse stato, come poteva sperare che sarebbe tornato da lei?


Tornare da lei… no, era passato troppo tempo e alle persone normali che non si lasciavano divorare dal grigio, il tempo permetteva di dimenticare.

Sicuramente era passato dalla pasticceria per una visita di cortesia. Perché altro avrebbe dovuto?

Lei non era più la ragazza dal sorriso dolce e gli occhi allegri che era stata sei anni prima. Era una grigia creatura appannata e stanca. Anche se Adrien fosse stato disponibile, felice di rivederla e pieno di buone intenzioni, lei lo avrebbe fatto scappare con il suo squallore.

Era cambiata, sia fisicamente che emotivamente. La dolce e solare Marinette non c’era più da sei anni, tre mesi e sette giorni.

Da quanto non sentiva più palpitare il suo cuore? Sarebbe stata in grado di farlo ancora? Probabilmente no.


Adrien… non si capacitava del fatto che davvero fosse passato a cercarla mentre lei non c’era.

Forse allora era davvero lui che l’aveva seguita giù per le scale della metro la sera prima. Ma perché non l’aveva chiamata prima che lei scappasse? Forse, semplicemente, non l’aveva riconosciuta...

Da quel poco che aveva visto lei, invece, se l’uomo della metro era davvero Adrien… cavolo com’era cambiato! Si sentì avvampare per quella constatazione e si stupì di esserne ancora in grado.

Quell’uomo era alto almeno venti centimetri più di lei… al confronto si sentiva una nanerottola. Ed era bello, bello da morire. Lei invece era ingrassata, senza dubbio… era maturata, ammorbidita, deformata; ogni volta che corrucciava la fronte il solco tendeva a restare sempre più impresso, a breve avrebbe visto le prime rughe e i primi capelli bianchi. Non era più la Marinette di allora, così come lui non era più lo stesso Adrien che conosceva, solo che lei stava galoppando verso la decadenza, mentre lui… lui… Gesù come doveva essere bello!


Ma d’altronde chi si aspettava di rivedere, se mai si fossero realizzati quei sogni che ricorrevano notte dopo notte? Un ragazzino timido dal sorriso dolce pronto a ricominciare da dove erano rimasti con la fidanzatina del suo cuore?

Adrien era un uomo, ormai, accidenti, e che uomo! Il sogno del giovane amore fedele a cui lei si sarebbe concessa per primo, si era dissolto in un languore inusitato, da troppo tempo dimenticato. Voleva incontrarlo, perdersi nella sua immagine, fare quello che non avevano mai fatto; voleva riprendersi il suo sogno!

Eppure era stata la prima a distruggerlo. Lei la prima a non rimanergli fedele cadendo tra le braccia di Nathaniel. Non lo aveva aspettato. Aveva scelto di provare a rifarsi una vita, almeno esteriormente, di lasciare che altre mani completassero quello che il suo vero amore non aveva osato fare, per suo rispetto.


Adrien invece, per quel che poteva ricordare, era stato di parola: “Tornerò quando l’avremo trovata”, le aveva detto con un ultimo bacio che in quel momento più che mai bruciava sulla sua anima e sulle sue labbra.

Ce n’erano passati altri cento, mille di baci dalla sua bocca, ma non erano mai riusciti a cancellare quella sensazione dolce e amara allo stesso tempo, che le mancava più dell’aria stessa.


Marinette si arrampicò sul letto e aprì la finestra, uscendo sul terrazzino. Il vento del mattino era frizzante e portava odore di cambiamento: Adrien era a pochi chilometri da lei, guardava lo stesso cielo, sentiva lo stesso vento sulla pelle, respirava la stessa aria. Era davvero tornato.

La sensazione straziante di saperlo fisicamente lontano da lei, che l’aveva accompagnata in ogni istante della sua vita negli ultimi anni, repentinamente stava tramutandosi in un brulichio di pensieri sconnessi che assaliva la sua testa e annientava ogni tentativo di ragionare. Adrien era nella sua stessa città. Adrien era l’aveva cercata. Adrien poteva tornare in qualunque istante, oppure non tornare più e ripartire senza riuscire a incontrarla. Adrien era finalmente vicino a lei.

Eppure era così lontano...

L’aveva cercata, ma Marinette non conosceva il vero motivo. Tutto il resto dei suoi viaggi mentali era solo una sua supposizione.

Forse era stato solo per una visita di cortesia, forse solo per mostrarle che aveva mantenuto la sua promessa ed era effettivamente tornato al termine del suo lungo viaggio. O forse voleva solo rivedere i suoi vecchi amici e aveva pensato di iniziare da lei. Oppure no e magari aveva già parlato con Nino, solo che la notizia della gravidanza di Alya glielo aveva fatto passare di mente e il ragazzo non le aveva detto nulla quella sera.



Sarebbe impazzita se avesse continuato a fare quei pensieri, accidenti.

Tornò in camera e si rimise dentro al letto, sforzandosi di dormire un altro po’, pregando per non sognare nulla.

La sveglia la sorprese pochi istanti dopo, o forse erano passate ore e lei non se n’era resa conto. Aveva ancora in testa gli stessi pensieri della sera prima, come se avesse solo messo in pausa il cervello per un po’ con un telecomando. In qualche modo non aveva sognato o, se era successo, non lo ricordava. Sapeva solo di essere estremamente stanca.



Si decise ad alzarsi dal letto e si trascinò giù per le scale fino al bagno, si lavò e si pettinò, notando che aveva tante, decisamente troppe doppie punte. “Lo farò”, appuntò mentalmente pensando alla tortura di tornare dal parrucchiere. L’ultima volta che lo aveva fatto, più di un anno prima, aveva dovuto combattere per non farsi tingere i capelli di rosso tiziano. Bastava il suo ex ad averli di quel colore, a lei andava bene il nero, cupo come la notte senza stelle.

Tornò in camera sua e passò in rassegna la mobilia e tutte le cose che aveva accumulato in quei due anni in cui era tornata a vivere con i suoi. I ricordi d’infanzia erano in cantina, stipati in due scatoloni catalogati come “Chibi-Mari”. Nella casa nuova, se mai ne avesse trovata una abbordabile, sicuramente avrebbe voluto le due sedie con le rotelle, fide compagne di nottate passate a disegnare e il cuscino fatto a gatto. Non lo avrebbe scambiato per niente al mondo. La chaise longue, la scrivania… via tutto. Avrebbe ricomprato quello che serviva e scelto cose che l’avessero fatta respirare di nuovo.

Ogni volta che posava lo sguardo su quella chaise-longue le tornava prepotente in mente l’immagine di Chat Noir addormentato e bellissimo. Lui, sempre e soltanto lui. Tutto ruotava attorno a lui, la sua vita e i suoi rimpianti.


Scosse la testa per scacciare quel pensiero e scese in cucina. Salutò i suoi, già al lavoro da ore, scambiò una rapida occhiata densa di parole non dette con la mamma e uscì. Ormai i suoi genitori non insistevano più per farle la colazione, era una battaglia persa.

Quando fu per strada, la prima cosa che Marinette notò fu il rumore: c’era un frastuono non indifferente proveniente dal traffico cittadino e dal caos di clacson, motori e gente che inveiva rivolta alla lunga colonna di mezzi in fila al semaforo.

Si tuffò nella bolla silenziosa della metro e prese al volo il treno per andare in facoltà, l’attendevano due ore di lezione e poi una pausa, un’altra ora e poi il pranzo. Nel pomeriggio avrebbe chiamato Alya, indubbiamente, e poi c’era da andare all’agenzia immobiliare e controllare se al negozio in Rue du Point cercavano ancora una commessa…

Si era ripromessa che non avrebbe fatto il primo passo per cercare Adrien. Ci aveva riflettuto mentre l’andatura oscillante della metro l’aveva cullata per il tempo del suo breve viaggio. Avrebbe dovuto reagire e non lasciarsi travolgere dalla serie di eventi che stavano inesorabilmente tornando a segnare la sua esistenza. Non sarebbe andata a bussare a casa di Adrien, non lo avrebbe cercato nei meandri della metro di Parigi, non avrebbe chiesto notizie a Fu, né a a Nino. Non lo avrebbe spiato di notte, né di giorno.


Avrebbe atteso e basta. Se Adrien teneva a lei, si sarebbe fatto vivo per primo.




Ma le notizie arrivarono a lei senza che potesse evitarlo, già dalla mattinata.

-Hai sentito cosa si dice in giro? Che gli Agreste sono tornati a Parigi!-

-Mia zia ha detto di aver visto Gabriel Agreste al Charles de Gaulle scendere da un volo AirFrance tre giorni fa, incredibile!-

-Ho visto il figlio, che strafigo che è! Sì, era lui, ci potrei giurare perché aveva le braccia scoperte e c’era lo stesso tatuaggio!-


Di tutte le cose che aveva sentito, quella del tatuaggio era la più assurda. Più di Gabriel sul volo di linea proveniente da Bangkok, più di quelli che dicevano di aver visto con lui un bambino piccolo. Adrien non si sarebbe mai fatto un tatuaggio, suo padre non gliel’avrebbe mai permesso e non avrebbe potuto farlo di nascosto, come aveva fatto lei. Tanto più che una cosa del genere sarebbe sicuramente arrivata alle sue orecchie in qualche modo: sicuramente quello che avevano visto non era lui.

Era tutto semplicemente grottesco. Tanto era stata amplificata la notizia della loro partenza per la Cina, tanto sembrava trovare eco nel gossip più bieco questo loro fantomatico ritorno, neanche fossero stati dei reali esiliati dopo la Grande Guerra.

Che fossero tornati era fuori discussione, la mamma lo aveva confermato, ma che avessero portato con loro tutti quei pettegolezzi era piuttosto improbabile.




Al termine delle lezioni, come si era ripromessa, Marinette si preparò per andare all’agenzia immobiliare. Si mise in coda per prendere un panino al volo al bar dietro la facoltà. Davanti a lei c’era una che conosceva, di un anno più grande, che parlava concitatamente al telefono.

-Te lo giuro! Sono stata poco fa da Mahlia Kent perché mi serviva del velluto e c’erano Gabriel e Adrien Agreste con un bambino! Te lo giuro! Due anni, circa, forse tre. Sì, ce l’aveva in collo lui. Vedessi com’è diventato! Te lo ricordi com’era? Ecco, di più! Da orgasmo! Da scoparselo qua in coda al bar senza se e senza ma!-










Cinque minuti dopo, Ladybug spiava, appollaiata sul tetto dell’edificio vicino, quello che stava succedendo dentro Villa Agreste.

Non aveva saputo resistere.

Si era data dell’idiota, infantile, gelosa, insicura, stupida, immatura, vigliacca, puerile ragazzina, ma non era riuscita a fermarsi. Lei doveva vederlo. Doveva sapere!

Un pungolo infilato tra le costole, ecco cos’aveva significato per lei udire quelle parole! Un pugnale incastrato nel costato, uno squarcio nell’anima, una ferita insanabile su un ricordo puro.


Un bambino…


Perché si era costretta a stare alla larga per tutti quegli anni dalle riviste di moda, dai gossip di facebook e dalle trasmissioni sui vip? Magari avrebbe saputo qualcosa, magari la gente lo sapeva che gli Agreste stavano tornando! E lei? chiusa nel suo bozzo a compatirsi e crogiolarsi nell’inanità della sua esistenza. “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore!”, si era ripromessa… che enorme, sconfinata cavolata!

Lontano dagli occhi, sempre nel mio cuore, pensava invece.

Il tempo non aveva lenito nulla della sua sofferenza, così come la stoica resistenza alla ricerca di informazioni non aveva dissetato la sua voglia di sapere di lui, finché non era esplosa nel più patetico dei modi.


Dalla grande vetrata chiusa, Ladybug poteva vedere un gran daffare dentro la villa. Una pila di scatoloni veniva via via abbassata dalle mani veloci di facchini che, dietro gli ordini precisi della fida Sancoeur, smistavano nelle varie stanze tutte quelle cose. La donna si muoveva svelta sui suoi tacchi e controllava una a una le scatole. Era la regina della casa, senza dubbio: chiunque si fosse portata appresso Adrien avrebbe dovuto passare il giudizio della nuova putativa padrona del castello.

Ladybug cercò di avvicinarsi di più, finché non decise di arrampicarsi proprio sul tetto della villa, lungo uno dei due bracci che collegavano il corpo dell’edificio al cancello, spenzolandosi arretta al filo del suo yoyo. Vide Nathalie ricevere una chiamata sul suo telefono e annuire, scrutando fuori dalla finestra nella sua direzione, poi la donna tornò al suo lavoro, senza interrompersi. Per un attimo Ladybug pensò di essere stata scoperta, ma non accadde nulla e rimase in bilico sul tetto a colmare la sua sete di informazioni, attraverso lo studio di quel lavorio silenzioso che avveniva al di là delle vetrate.

Fu allora che vide Nathalie uscire dalla sua visuale e rientrarvi trascinando un triciclo rosso da bambini. Indicò un punto dentro la villa e uno degli addetti caricò sulla sua spalla il giocattolo, prendendo con l’altra mano uno scatolone con una scritta a pennarello sopra: SUN.

Nathalie lo seguì portando alcuni peluche e una palla di gommapiuma. Un piede di Ladybug scivolò sulla tegola umida e lei andò giù come un sasso, cadendo di schiena nell’erba bagnata del giardino. Non fece un singolo tentativo di tenersi o di afferrarsi con il suo yo-yo. Semplicemente andò giù e non si mosse.

Dopo un po’ si decise ad alzare gli occhi e, capovolta rispetto alla sua visuale, vide una piccola porta da calcio giocattolo, una bicicletta senza pedali poggiata al muro e un monopattino.

Rimase immobile con un macigno sul petto, incapace perfino di formulare un qualunque pensiero.


-Se stai comoda, rimani pure lì, ma ti prenderai un raffreddore-, una voce familiare la raggiunse alle spalle; Ladybug aprì gli occhi e si tirò su, puntellandosi sui gomiti: Nathalie era accovacciata accanto a lei. La ragazza sbatté le palpebre un paio di volte, osservando senza espressione il volto della donna.

-Marinette, va tutto bene?-, le domandò questa con tono più preoccupato e serio, posando una mano sulla spalla coperta dalla tuta rossa e nera, usando la stessa premura che aveva mostrato qualche giorno prima, durante il loro raduno a casa di Fu.

Ladybug avvampò per la vergogna e farfugliò delle scuse affrettate, fece scattare lo yoyo e sfuggì alla donna, senza chiedere e senza ascoltare nulla.

Rimase rimpiattata con le spalle al muro sopra un tetto molto lontano da lì, il cuore le martellava in petto e le lacrime scendevano senza che potesse far nulla per arrestarle. Una sola enorme consapevolezza la triturava: lei era lì, immobile su un tetto a piangere come una stupida; Adrien, intanto, si era fatto una nuova vita e aveva un bambino.




***



Nathalie alzò gli occhi verso i tetti, guardando il punto in cui Ladybug era scomparsa: era ancora una sciocca ragazzina con la propensione alla drammaticità e al saltare a conclusioni affrettate. Il cigolio del cancello richiamò la donna alla sua realtà. L’auto scura di famiglia, orgogliosamente guidata dal loro fidato “gorilla”, che finalmente era tornato alla sua attività preferita, si fermò a pochi passi da lei e la portiera posteriore si aprì.

-Nati!-, il piccolo Sun, di ritorno dal suo primo giro per Parigi, saltò giù dall’auto e corse verso di lei, allungando le braccia per essere preso in collo.

-Ciao cucciolo-, la donna lo accontentò sollevandolo, quindi rivolse l’attenzione verso Gabriel e Adrien che prendevano dall’auto le loro cose, -Dov’è il tuo papà?-, chiese Nathalie al piccolo.

-È lì-, rispose il bimbo indicando l’auto e corse nella stessa direzione, sgusciando via dalle braccia della donna.

Nathalie lo raggiunse e lo prese per mano, in modo che non disturbasse gli Agreste; si affiancò ad Adrien e gli fece cenno che si abbassasse appena per comunicargli una cosa riservata.

-Lei è stata qui-, disse semplicemente e al giovane caddero di mano un peluche sgualcito e una piccola giacca Agreste collezione bimbo, di color rosso coccinella.





***




Il comunicatore di Ladybug prese a suonare riportandola a galla dallo stato catatonico in cui si trovava, era Carapace. Strano…

Il ragazzo non chiamava mai, era sempre e solo Rena Rouge che intratteneva le comunicazioni tra loro.

-È successo qualcosa nella zona dello Stade de France-, le disse e Ladybug comprese che stava correndo, -Si è aperta una voragine nel mezzo alla strada, ci sono alcune auto coinvolte e una decina di feriti-

-Arrivo-, rispose Ladybug, assolutamente sconcertata per quelle assurde parole: una voragine? Che diamine stava succedendo? Forse che il ritorno di Adrien avesse compreso anche il ritorno degli akumizzati di Papillon? Stentava a credere ai suoi stessi pensieri. Da quel che aveva inteso a casa di Maestro Fu, le era parso che Papillon avesse ormai sotterrato l’ascia di guerra nei loro confronti.

Arrivò sul posto e vide esattamente quello che Carapace le aveva descritto: una voragine, urla, fuoco, terrore nel suo stato più puro. Svolse la corda dello yoyo per afferrare un braccio che aveva visto spuntare dal buco e tirò su miracolosamente una donna insanguinata che urlava. Ripeté l’operazione, ma doveva prima spostare un’auto. Carapace la raggiunse in un batter d’occhi e afferrò la corda dello yoyo per aiutarla a issare quell’enorme peso. Ci voleva una terza mano, ma erano solo loro due.

-Non ce la faccio…-, soffiò Ladybug allungandosi più che poteva verso il cratere per afferrare altre persone, mentre nello stesso tempo tirava la corda assieme al suo collega.

Ci fu un forte boato e dalle viscere di quel disastro uscì qualcosa di paurosamente simile ad un robot dei cartoni giapponesi.

-È un akumizzato!-, gridò Carapace, coprendosi con il suo scudo e scivolando verso le persone che erano state vomitate fuori dal cratere.

Ne prese tre, Ladybug ne mise in salvo altre due, poi evocò il Luck Charm mentre il robot sparava colpi nella loro direzione.

-Maledizione!-, quello che le piovve tra le mani fu un oggetto tanto inutile quanto ironicamente sbagliato: una palla di gomma da bambini, identica a quella che aveva visto in mano a Nathalie.

Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa con cui poter usare la sua potente arma e, dopo un po’, comprese che avrebbe dovuto farla incastrare nella bocca del ridicolmente grande cannone da cui il robot sparava i suoi colpi. Studiò angoli e rimbalzi e, con un salto, calciò il morbido pallone contro un muro. Andò a rimbalzare sullo scudo di Carapace, sul palo di un lampione e infine si assestò esattamente dove doveva.

-Tutto questo non ha senso-, esclamò realizzando che, istantaneamente, il robot si dissolse nell’aria come fosse stato tutto un sogno ad occhi aperti e, al posto del cratere, erano comparse tre o quattro auto accartocciate tra loro, tutte con le lamiere contorte a compenetrarsi l’una con l’altra.

Non avevano mai estratto qualcuno da un buco, ma da un enorme sinistro stradale; non avevano cercato di sollevare un’auto, ma si erano agganciati ad un estintore che stava lì accanto, immobile e imperturbabile.

I presenti si guardavano spaesati, i feriti urlavano, nessuno capiva più niente.

Era stata tutta un’illusione.

Senza pensarci due volte, Ladybug lanciò in aria il pallone, che era rotolato fino ai suoi piedi, e con un bagliore, tutto tornò alla normalità.

I feriti si rialzarono senza ricordare alcunché, le auto si rimisero ciascuna sulla sua carreggiata e il traffico riprese a scorrere lento e chiassoso.

-È assurdo-, constatò Carapace, mentre gli orecchini di Marinette iniziavano ad emettere i bip di fine trasformazione.

-Dobbiamo dirlo a Fu-, propose la ragazza, scambiandosi un’occhiata eloquente con Nino: c’era un solo potere in grado di creare tali illusioni ed era quello di Alya.

-Ha riportato Trixx al Maestro proprio oggi… non può essere stata lei!-, mise le mani avanti il ragazzo e Ladybug, incredula e pensierosa, schizzò via ragionando su cosa fosse accaduto, seguita a ruota dal compagno.

Avevano realmente salvato delle vite, ma erano stati messi in grave difficoltà. Era davvero tutto assurdo.



Una volta accertati che la situazione fosse davvero tornata alla normalità, i due supereroi si nascosero in attesa che la trasformazione di Marinette si esaurisse. Carapace la guardò: -Vuoi un passaggio?-, chiese e al cenno affermativo se la caricò in spalla e scattò verso il centro massaggi di Fu, nel quale entrarono dal retro.

Lo trovarono che stava per prepararsi il tè; il tintinnio del campanello sulla porta del centro massaggi indicò che qualcuno era uscito in quel preciso istante. L’uomo accompagnò con lo sguardo oltre le vetrine la persona che era appena stata lì e pregustò un po’ di riposo accompagnato da buon tè. Quando vide entrare dal retro, un attimo dopo, Marinette Dupain-Cheng e Carapace, Fu si picchiò la fronte con il palmo della mano: -Siete proprio dei dilettanti-, esclamò, -Due bravi portatori sarebbero venuti in incognito per non farsi riconoscere e avrebbero suonato al campanello sulla strada, come fanno tutti… non sarebbero entrati dalla finestra del bagno!-

Si affrettò a chiudere tutte le finestre e serrò le vetrine: se quel duo stranamente assortito era lì da lui poteva significare una sola cosa: grane in vista.


-Menomale lei sta bene, Maestro-, Marinette iniziò a cercare in giro per la casa, entrò nel centro massaggi e si guardò attorno. Lo stesso fece Nino, una volta smessi i panni di Carapace e si avvicinò al grammofono, cercando il modo per aprirlo.

-Ehi, giù le mani, ragazzino!-, lo rimbrottò il vecchio, colpendo piano la sua mano col bastone.

Non c’era nulla che non andasse in quel posto.

-C’è stato un attacco, sembrava un mostro akumizzato, ma alla fine si è rivelata solo una grande illusione-, iniziò Marinette.

-Un’illusione come quelle che crea Rena Rouge, ma Alya proprio oggi le ha riportato il Miraculous della volpe, quindi non può essere stata lei-, continuò Nino.

-Frena frena frena, Lahiffe! Io non ho visto Alya oggi!-, dichiarò Fu, allarmato per le parole appena udite e nessuno ebbe il coraggio di aggiungere altro. Il gelo che era calato tra loro fu interrotto dalla suoneria del cellulare di Nino. Un pensiero fugace lo fece indugiare dal rispondere, lo stesso pensiero che aveva sfiorato le menti di Fu e di Marinette, mentre un brivido di terrore si faceva beffe di loro. Nino prese il telefono e lesse il nome ad alta voce: -M.me Cesaire-. Vacillò.

-Pronto-, rispose.

Marinette e Fu lo videro sbiancare mentre la voce concitata dall’altro capo della linea parlava senza soste. Si portò la mano alla nuca, dopo a coprirsi la bocca, -Sì… ha ragione… Lo avremmo fatto il prima possib…-, Marinette interpretò chiaramente le parole non dette e si voltò verso il maestro.

Lasciò che Nino finisse di parlare con la futura suocera e nel frattempo ragguagliò il vecchio sugli ultimi sviluppi relativi alla coppia di amici.

-Non è necessario che Alya riporti il suo Miraculous, anche se aspetta un bambino!-, constatò semplicemente Fu, -non è la prima e non sarà l’ultima a rimanere incinta durante la sua missione!-

A Marinette non sfuggì l’occhiata in tralice che l’uomo le riservò e, dopo aver sentito il calore salirle alle guance, si dette dell’idiota per la rapida conclusione a cui era arrivata la sua fervida immaginazione. Nino agganciò la comunicazione e li guardò per un attimo prima di parlare: nei suoi occhi c’era paura.

-Alya è ferita, al pronto soccorso. È stata aggredita qualche ora fa non lontano da qua. Ha battuto la testa e la pancia. Sua mamma dice che è fuori pericolo e anche… anche il bambino sta bene… Non avevamo ancora detto nulla ai nostri genitori, mi ha fatto una bella ramanzina…-, si grattò la nuca, - Ma Alya è molto agitata, la madre dice che continua a piangere e ripete: “me l’hanno preso”... io… scusatemi... devo andare da lei-, concluse e si diresse come una furia verso la porta.

Fu annuì in silenzio, Marinette scattò per seguire l’amico, ma fu trattenuta dall’anziano.

-Chiamami-, si raccomandò a Nino e lo seguì con lo sguardo mentre lui correva via, quindi si sedette davanti al Maestro, che l’attendeva.

-Io e te dobbiamo parlare-, le disse Fu, versandole una tazza di tè.

Marinette annuì. Gli avrebbe domandato quello che sapeva su Adrien e sui Miraculous.

Fece per aprire bocca, ma l’uomo la fermò con un gesto della mano. La ragazza rimase in attesa senza parlare, aspettando un qualunque segnale da parte dell’uomo. Fu si riempì la tazza, inspirò l’odore del tè, socchiudendo gli occhi, guardò le volute di vapore alzarsi e ne bevve un sorso, soddisfatto. Poi fece un sospiro.

-Adrien è stato qua: è uscito nel momento esatto in cui voi siete entrati dal retro-, posò la tazza sul tavolino e sorrise alla faccia incredula di Marinette, -Yin e Yang. Nero e Bianco. Notte e Giorno-, si alzò, -Distruzione e Creazione-, fece un passo verso di lei, -Sfortuna e Fortuna-, le mise sulle spalle le mani deformate dall’artrite, -Adrien e Marinette-.



L’aveva perso ancora una volta per un soffio. La ragazza portò una mano al cuore, faceva così male…

-Siete lontani eppure così vicini, tutto il dolore che avete patito per la vostra separazione verrà ripagato-, riprese Fu, si voltò e andò a frugare nel cassetto accanto al grammofono. Ne estrasse alcuni plichi formato A4 piegati in due e li mise in mano a Marinette.

-Cosa sono?-, domandò la ragazza con voce tremante, guardando dentro ad uno di essi: in ciascun plico c’erano tante buste di carta bianca, ne poteva contare almeno una trentina, forse molte di più.

-Lettere. Lettere che Adrien ti ha scritto in tutti questi anni, ma che non ha mai inviato per paura che tu provassi a ritrovarlo e lo seguissi. Me le ha consegnate La Plume Bleu qualche tempo fa: Adrien crede che siano andate perse. Sono tutte catalogate e in ordine. Perdonami se le ho lette prima di te, ma ti ho risparmiato questo lavoro.-

Marinette provò la voglia atroce di urlare, strapparsi ogni cosa di dosso e annientarsi. Cosa aveva fatto…? Si era crogiolata nel suo dolore distruttivo ed era riuscita ad andare avanti, semplicemente accantonando la sua esistenza e illudendosi che poteva farcela anche senza di lui, relegandolo nell’angolo cupo della sua coscienza, quello che avrebbe continuato a sanguinare mentre lei continuava a far finta di vivere.

Adrien invece aveva pensato a lei ogni momento di quel suo lungo addio e aveva scritto per lei tutte quelle lettere.

-Leggile-, le disse Fu, -E dopo cercalo. Ma non andare da lui senza averle lette tutte, non lasciarti confondere dal contorno, punta all’essenziale. Lo Yin senza lo Yang non ha senso di esistere-, sorrise una volta ancora e poi prese aria.

-Bene! Abbiamo esaurito questo discorso, ora pensiamo ad Alya, Trixx e Pollen!-, esclamò richiamando la ragazza, ancora accartocciata su se stessa mentre stringeva al seno quella carta vergata per lei.

Attese che riponesse con grande cura tutti i plichi nella sua borsa, tirando fuori e buttando per terra le cose che erano di troppo, la vide prendere un bel respiro e bere d’un fiato la tazza di tè, ormai freddo.

-Da quello che mi avete raccontato ho ottime ragioni per credere che il miraculous di Alya sia stato trafugato e caduto in mani sbagliate, nonché avventate-, spiegò l’uomo, -Ho altresì ottimi motivi per supporre che LadyBug e Carapace da soli non siano in grado di recuperarlo e porre fine a questo sciocco gioco di potere...-

-Non è vero-, protestò Marinette colta sul vivo. Ripensò alle maldestre acrobazie che aveva fatto poco prima con Carapace nel vano tentativo di sradicare un idrante da terra, completamente confusi dall’illusione e si costrinse a dare ragione al maestro, abbassando la testa mortificata.

-Attendiamo ulteriori conferme da parte di Alya, poi avrai un nuovo compito da svolgere per me-, le spiegò Fu.

-Che compito?-, Marinette trepitava dalla voglia di uscire da quel posto e rintanarsi lontana dal mondo per leggere le lettere di Adrien.

-Ragazza, devi portare pazienza-, la redarguì l’uomo, -In ogni caso prima inizi a focalizzarti su questo compito, meglio è: ricordi Pollen?-

Marinette annuì, intuendo il seguito della storia: -Dovrai trovare una persona di tua fiducia che pensi possa affiancarti in modo sinergico e che sia meritevole di indossare il miraculous dell’ape-.

Le mise in mano un pettinino per capelli, di metallo. Marinette se lo rigirò tra le mani: a chi avrebbe potuto affidare tale fardello… Le vennero in mente le sole persone che aveva vicino, cioè sua madre, suo padre, Nathaniel e Manon.


-Nathaniel-, scandì, e Fu la guardò di sottecchi: - Sei sicura di poterti fidare davvero di lui?-

Un colpo basso: Marinette deglutì e si sforzò di ragionare. In fondo Nath aveva tradito la parte di lei che si aspettava una relazione sentimentale, non la sua amicizia. Le era sempre stato vicino anche se in realtà non sapeva poi molto di tutto quello che lei... Fu onesta: -È l’unico a cui possa chiedere-, ammise allargando le braccia.

Chissà che faccia avrebbe fatto Nathaniel quando avesse realizzato di essere stato fidanzato nientepopodimeno che con Ladybug!

Fu annuì e riprese il pettinino, premette dietro l’ape e ruotò i denti: -Ora è una fibbia per una cintura: suppongo che tenere in testa un oggetto così vezzoso non sarebbe stato ben accolto dal tuo ex fidanzato-, Marinette non si lasciò sfuggire il leggero tono insinuante di Fu. Evidentemente era di quelli che dividevano il mondo in bianco e nero, senza pensare che era nelle sfumature tutta la bellezza dell’esistenza.

-Avrebbe gradito ugualmente-, azzardò stando al gioco, -Quello che conta è l’essenza, non l’apparenza-.

Fu annuì sorridendo: la ragazza si mostrava ben saggia e questo era un bene.

-Rispondi-, le disse indicando il cellulare che, per terra accanto alla sua borsetta, stava vibrando in modalità silenziosa.

Marinette non se lo fece ripetere, dal momento che era Alya che la stava chiamando: -Come stai?-, quasi l’aggredì.

-Sto bene, Maribug, ma sono spaventata a morte e preoccupata per Trixx… Fagiolino però sta bene: abbiamo appena sentito il suo cuoricino battere… è una cosa meravigliosa!-, Marinette fu sollevata e sinceramente felice per quelle parole che sgorgavano dal cuore dell’amica.

-Ci penso io a Trixx-, la rassicurò, -tu pensa a star bene e a dar da mangiare a… Fagiolino?!?-, si scambiò un’occhiata perplessa con Fu, che sorrise sornione: li stava vedendo crescere come suoi nipoti ed era bellissimo! Incrociò le dita perché anche la sua adorata Marinette potesse entro breve trovare finalmente la sua felicità e la invitò gentilmente a metter giù, con un cenno della testa.

-Devo ammettere che vi facevo più vispi, voi giovani d’oggi. Ai miei tempi esisteva solo il salto della quaglia o l’astinenza: ma oggigiorno… lo sanno anche i muri che ci sono tante precauzioni…-, voleva vedere la ragazzina arrossire.

-Indosso il Miraculous della coccinella e rappresento il potere della Creazione, Maestro Fu e posso ben scommettere che il loro non è stato propriamente un incidente, ma voglia di essere completi con un figlio-, gli rispose invece la fanciulla con sicurezza. In qualche modo era certa delle sue parole, sgorgate senza quasi rifletterci, come se realmente fosse stata infusa di una saggezza ancestrale collegata al suo potere.


Sostenne con ardore lo sguardo in quello dell’uomo; un istante dopo, capitolò.


Un figlio…



-Adrien ha un figlio…-, sussurrò con voce spezzata lasciandosi scivolare per terra, d’un tratto era diventata pallida come un cencio.

Fu immaginò che gli stesse per chiedere la conferma, ma ancora una volta quella ragazzina dalle mille sorprese lo stupì: -Lui è felice?-, gli chiese semplicemente, abbozzando una specie di sorriso, che nonostante tutto si vedeva che spuntava dal suo cuore. L’uomo si avvicinò a lei e le prese una mano.

-È felice, ma non è completo senza il suo Yang-, poi l’abbracciò.

In un angolo, quasi dimenticata, Tikki tirò su col nasino: non avrebbe più accettato altro dolore per la sua cara amica. Si avvicinò ai due e attirò l’attenzione di Fu.

“Glielo dica”, pensò intensamente; “Lo scoprirà da sola, sarà molto più bello”, gli rispose telepaticamente Fu e le fece l’occhiolino.





Sarà molto più bello.





   
 
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