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Autore: Kat Logan    09/11/2018    2 recensioni
Makoto ripulì il banco del bar dalla sabbia e dall’ appiccicume di qualche Margarita finito lì sopra per colpa di qualche bevitore distratto. Ne aveva piene le orecchie di storie e confessioni che la gente le faceva con i piedi affondati nella sabbia fine di Malibù. Chi credeva che fare la barista fosse un lavoro semplice, si sbagliava. Lei era il confessore dei peccati più bollenti di tutta la costa e nel suo tempio sacro ogni peccato veniva perdonato con un cocktail.
«Adesso ve la racconto io una storia davvero stramba».
Avrebbe dovuto starsene zitta, ma qualcosa in lei era scattato come una molla e da confidente silenzioso, Makoto, divenne oracolo senza peli sulla lingua.
«C’è un pompiere che rischia di bruciarsi per amore e convive con un’aspirante star della musica. Un artificiere incosciente, arrogante e pieno di sé. E poi c’è lei, con lo sguardo che nasconde una ferita profonda perché per la seconda volta nella vita ha fallito in qualcosa…».
«E poi?». Usagi la interruppe presa dell’entusiasmo. «Gli altri personaggi di quest’avventura chi sono?».
Makoto sospirò, portandosi lo strofinaccio sulla spalla.
«Un timido genio, una baby sitter fuori controllo e una stupida barista…»
Genere: Azione, Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Un po' tutti, Yaten | Coppie: Haruka/Michiru, Mamoru/Usagi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
Capitoli:
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Remember when we met? Yeah, I know I was mean
Stones shirt, black boots and black jeans
And you were such a mess
I thought it was sweet
But that night still haunts my dreams
 
Chasing Ghosts – Against The Current
 
 
 
 
Haruka guardò Sarah ancora una volta. Era china in avanti, con le spalle ricurve e i polsini dell’abito tirati appena sul polso per raccogliere meglio il fieno. Il forcone era abbandonato all’entrata della stalla e Amos vi era al suo interno intento a mungere le loro cinque mucche. Di suo fratello nessuna traccia nelle vicinanze, doveva trovarsi a casa del pastore, sul tetto, a riparare le assi consunte dal tempo e dalle intemperie.
Al di là della distesa dorata, Haruka le rimirò ancora una volta. Le fronde verdi cariche di frutti succosi.
Rare come oro nel pianeggiante Kansas.
«Torno subito» borbottò in tono basso. E Sarah, vittima della fatica rispose solo dopo qualche minuto, asciugandosi la fronte imperlata di sudore con il dorso della mano segnata da una vita di duro lavoro, quando della bambina non vi era più alcuna traccia.
La donna sorrise. Haruka poteva godersi ancora un po’ di libertà e i bottoni sui vestiti, se solo le fossero piaciuti. Ma quello spiritello biondo, con i pantaloni e le bretelle del fratello addosso, era già lontana dalla madre adottiva.
In un battibaleno aveva attraversato di corsa l’intero campo ed era sbucata dalla parte opposta.
Senza indugiare scavalcò la staccionata in legno. Fece due grandi risvolti ai pantaloni troppo lunghi e si arrampicò su uno dei numerosi alberi per poi staccare una mela dopo l’altra.
«Una per me» lucidò il frutto contro la propria camicia con la mano libera per poi appollaiarsi sul ramo più vicino. «Una per Sarah…» mormorò, incastrandone un’altra sotto la bretella.
«E una per sta notte» disse soddisfatta per poi non resistere e dare un morso alla buccia. Gesto incauto quello di distrarsi, poiché quella piccola soddisfazione le costò caro.
Gli amish la chiamavano “shunning” quella pratica. L’ignorare totalmente un membro della comunità come punizione per aver combinato un guaio.
Haruka lo aveva imparato a sue spese la volta in cui da bambina rubò le mele al vecchio Samuel King. Aveva perso tempo per l’ingordigia anziché scappare, e l’uomo, una volta tirata giù dal suo frutteto con la forza, l’aveva riportata per l’orecchio a Sarah.
Samuel, aveva poi ammonito la donna per il comportamento e l’abbigliamento indecente della figlioccia e Amos, una volta scusatosi con il vicino, aveva aggiunto il carico da dieci intimando la famiglia di emarginare il demonio biondo. Atteggiamento che ogni singolo membro della comunità avrebbe adottato nei suoi confronti fino a che Haruka non avesse imparato dai propri errori. Nessuno le avrebbe più dato un passaggio sul carretto, rivolto la parola, mangiato con lei o si sarebbe seduta affianco a lei nella loro piccola chiesetta fuori dal tempo.
Ma Haruka sebbene spese poco tempo a contemplare le sue possibili colpe, non arrivò mai a capire se quella punizione fosse stata adottata per aver peccato di gola, non aver seguito il codice di abbigliamento o per aver rubato.
Quello che era certo però, era che per la prima volta, in quell’occasione, Haruka si era sentita invisibile. Pena peggiore della solitudine. Ma quello che non poteva sapere in quell’esatto momento, invece, era che a qualche chilometro da lei, la sua presenza era così palpabile da aver assunto le sembianze di una vera e propria minaccia.
 
 
Erano le otto del mattino e Seya aveva rinunciato a leggere il giornale. Lo aveva poggiato sul tavolo, accanto al caffè americano ancora fumante.
Michiru lo aveva notato. Se non fosse stata una persona attenta ai particolari in modo quasi ossessivo probabilmente non sarebbe stata adatta al suo lavoro.
Con la coda dell’occhio aveva visto il moro arrotolare il giornale anziché ripiegarlo in quattro com’era solito fare dopo averlo letto. Probabilmente gli occhi di Seya avevano scorso mezza riga di una pagina a caso anziché leggere le notizie perché un tarlo lo stava ossessionando togliendogli ogni briciolo di attenzione.
«Esci con quella persona?» una domanda sputata quasi come una sentenza a bruciapelo. Tanto diretta e inaspettata che Michiru dovette poggiare la propria tazzina di tè per non rovesciarla.
«Non ti sto seguendo» ammise.
E i pomeriggi a rincorrersi sulla sabbia al tramonto solo un ricordo ormai sfumato. Così poco nitido da apparirle come un vecchio sogno di quelli che giocano brutti scherzi alla mente tanto da non farti capire se ti sei effettivamente svegliato o meno.
«L’artificiere» puntualizzò lui.
Michiru non era abituata a quello scambio secco. Seya non era mai stato uno di poche parole, tutt’altro. Le pause tra loro, i brevi silenzi avevano sempre avuto un giusto peso non si trascinavano mai nulla di più dietro.
A Michiru venne da ridere. La domanda era talmente ridicola da apparirle una battuta e probabilmente la sua espressione risultò tremendamente divertita da sembrare una presa in giro nei confronti dell’altro.
«Dico sul serio, Michi».
«E a me scappa seriamente da ridere, Seya».
Lei e Haruka. Un’utopia.
«Mi sembra un dubbio più che lecito». Lui si drizzò sulla sedia quasi stesse scomodo in quella posizione. Ma la realtà dei fatti era che la cosa scomoda in mezzo alla loro relazione sembrava essere più grossa del previsto e soprattutto bionda.
«Viene in casa come un amico di famiglia e fa i regali a nostra figlia. Si pavoneggia e ti bacia. Capisco di essere stato lontano a lungo Michi, questo non lo posso negare. Ma non credevo tu ti fossi fatta un’altra vita nel frattempo, insomma…siamo ancora sposati. E per di più ti ho detto di volerci riprovare».
Lui sembrava essere un fiume in piena, ma Michiru lo seguì solo fino ad un certo punto,  poiché il cervello non parve riuscire a superare uno scoglio che Seya le aveva appena messo davanti. Quella verità era dinnanzi a lei come un iceberg di cui scorgeva incautamente la punta, senza però aver idea di cosa si celasse sotto il pelo dell’acqua.
«Fermati un attimo Seya. Cosa stai dicendo? Di quale assurdo bacio stai parlando?».
Doveva esserci una telecamera nascosta da qualche parte, poiché la faccenda si stava rivelando sempre più comica.
Il moro si bloccò e capì dal linguaggio del corpo della moglie che non stava mentendo. Lei non sapeva a cosa si stesse riferendo. E tra l’altro, la Michiru che conosceva non era in grado di mentire e nemmeno aveva mai provato a farlo, per lo meno con lui.
«Al festival» una breve pausa a cui seguì un occhiata sorpresa, «tu, tu non lo sapevi?».
Avvenne una strana esplosione nella cassa toracica di Michiru. Silenziosa, ma potente. Un battito fuori dal coro tanto forte che parve volerle frantumare lo sterno.
Il bacio al sapore di stelle cadenti apparteneva ad Haruka Ten’ō?
«Io…» non sapeva cosa rispondere. Non riusciva a trovare le parole per dire qualcosa di sensato, riusciva solo a ripercorrere quell’attimo magico che aveva vissuto sulla spiaggia e la sensazione dell’incastro perfetto delle sue dita tra quelle mani sconosciute fino ad un momento prima. «No che non lo sapevo» dovette concentrarsi.
«Come potevo. Ero bendata e…non era stato programmato niente».
Seya si placò. Si era fatto prendere dalla gelosia per la prima volta e non sapeva come gestire la cosa.
A Honolulu erano sempre stati loro due e nessun altro. Non aveva mai dovuto preoccuparsi di concorrere con qualcuno per il cuore di Michiru e ora, quel primato che aveva avuto per anni, gli era sembrato talmente vacillante da doversi mettere sulla difensiva.
«Andiamo da qualche parte?» domandò Michiru sentendosi improvvisamente soffocare tra le mura di casa.
«Certo che sì, sirenetta».
 
 
§§§ 
 
 
“Sta sera Malibu Beach” gli sms di Haruka sembravano sempre ordini perentori più che proposte, ma a questo ormai Rei era abituata e non sgranava nemmeno più gli occhi quando li leggeva.
«Sai che novità» borbottò a bassa voce per poi rispondere con l’emoji di un pollice alzato e rimettere nella tasca il cellulare.
Minako, che aveva ricevuto lo stesso messaggio essendo anche lei partecipante al loro gruppo whatsapp rispose con più entusiasmo. Un sfilza di fuochi d’artificio e calici di champagne vennero selezionati dal pollice sino a che non tornò a prestare attenzione alla sua coinquilina alle prese con una scala.
«Rei, mi sembra pericoloso dovremmo chiamare i pompieri» esordì incrociando le braccia e guardandola armeggiare con la scaletta a pioli in legno.
«Dì ma stai scherzando?» la mora sembrò quasi offesa. «Io SONO un pompiere. Perché devi mobilitare un’intera squadra quando hai qui me per un gatto?».
«È Artemis! Non un gatto qualunque!» sbottò Minako gesticolando freneticamente.
Il suo amico peloso quella mattina aveva deciso di sgranchirsi le zampe fuori casa. Si era arrampicato su una delle piante del viale alberato davanti a casa e si era messo a miagolare come un dannato rendendosi conto di non riuscire più a scendere.
«Che poi…gatto. Quale gatto è così tonto da non riuscire più a scendere da un ramo?». Rei rigirò il dito nella piaga per poi salire sui primi pioli ed invitare la bionda a tenere una presa salda sulla struttura in legno poggiata al tronco.
«Non è abituato poverino. Non offenderlo! Ti faccio cadere se dici un’altra cosa così!».
Rei alzò gli occhi al cielo per poi mimare il becco di una papera con una mano. La loro convivenza era sempre stata così. La mattina si punzecchiavano, il pomeriggio andavano d’amore e d’accordo e la sera succedeva quel che succedeva ma alla fine erano sempre presenti l’una per l’altra.
La mora fece leva con un braccio al ramo più vicino a sé e poi si sporse verso l’animale impaurito.
«Su, andiamo. Vieni qui fifone!» lo agguantò per la collottola e lo restituì alla legittima proprietaria che lo strinse amorevolmente tra le braccia riempendolo di baci e carezze.
«Se fossi stata un bel ragazzo sexy con la divisa credo ti avrei baciata».
«Ecco, per fortuna non lo sono allora!».
«Oh è vero. Non ti dispiacerebbe baciare solo Haruka come donna».
Colpita e affondata. Minako lo capì dall’espressione dell’altra quando le uscì di bocca quella frase.
«Scusa, scusa!» tentò di rimediare, agitandosi tanto da infastidire Artemis che volle scendere dalle braccia della padrona per rintanarsi in casa.
«No, è vero» esordì Rei in tutta tranquillità.
«L’hai superata?» chiese Minako titubante.
«Circa…» ammise la mora rimettendo tutto al proprio posto per poi tirare fuori le chiavi di casa.
«Vai a lezione? Domani è il giorno del mese in cui tuo padre ti chiama e ti bombarda di domande sull’università. Da quanto la stai tirando lunga questa farsa?».
«Oh cavolo…» Minako si grattò la nuca in preda al panico. «Me ne sono proprio dimenticata!».
«Lo so, senza di me non ce la puoi fare».
La bionda rispose con una linguaccia. Guardò l’orologio da polso e sbatté due volte le palpebre incredula nel vedere l’orario che si era fatto. «Oh cavolo…».
«Lo hai già detto Mina…».
«No, no. Non è per mio padre. E’ per Yaten!».
Rei improvvisamente assunse un’espressione confusa.
«Dobbiamo scrivere. Mi aspetta. Devo andare e non sono nemmeno lontanamente decente!».
«Aaaah il musicista bello e tormentato!».
«Non chiamarlo così!» urlò Minako in preda al panico fiondandosi in casa esattamente come il suo amico peloso.
«Mica era un’offesa» la ragguagliò Rei, sedendosi sul divano per godersi lo spettacolo dell’amica che metteva sottosopra l’armadio e che si sarebbe inciampata in qualche vestito per andare a caccia delle sue palette di ombretti.
«Preferisci…l’uomo dei sogni? Il ragazzo misterioso? O…».
«REEEEEEEEEEIIII».
«Okay. Vada per il noiosissimo Yaten allora. Rilassati».
 
 
§§§
 
 
Una brezza agitata soffiava a Malibu Pier. Le dita di Yaten erano impegnate ad annodare la cima per ormeggiare una piccola barca a vela il cui nome inciso sopra era Blue lagoon.
Intento nel suo operato, aveva perso di vista le lancette dell’orologio e lo scorrere del tempo. Era così preso da quell’operazione che nel momento in cui il suo sguardo chiaro si posò sulla sagoma che passeggiava sulla banchina pensò di aver visto un fantasma.
«Seya?!». «Yaten!?» i due nomi vennero pronunciati all’unisono con lo stupore tipico di chi ha trascorso anni alla ricerca di qualcuno per poi voler credere di non poterlo più ritrovare.
Michiru, teneva stretta a sé una busta all’altezza del ventre e fu l’unica a salutare il ragazzo dai capelli argentei con un sorriso e la voce macchiata da un sincero sollievo nel vederlo sano e salvo.
Aveva diciassette anni Yaten, la notte in cui rubò la barca al padre e partì alla volta di una nuova vita senza dir nulla. Aveva imparato da bambino a navigare, era l’unica cosa che aveva avuto modo di fare assieme al padre e al fratello ed era stata anche l’unica che gli aveva permesso di scappare e di non voltarsi più con lo sguardo verso le Hawaii.
Erano passati sei anni. Yaten da ragazzetto era diventato un ventiduenne che aveva saputo cavarsela senza l’aiuto di nessuno e Seya, suo fratello maggiore, era arrabbiato a morte con lui.
«Lo sai cosa mi hanno fatto passare?» era un rancore covato a lungo il suo, qualcosa che aveva dovuto sostituire la disperazione di immaginare la perdita di un fratello. Seya aveva scelto la rabbia piuttosto che il dolore.
Michiru tentò di placarlo, prendendolo per un polso e intimandolo di abbassare la voce.
«Sei un egoista. Hai rubato la barca di papà e…».
«E cosa?» l’interruzione di Yaten spiazzò il più grande. Mai lo aveva sentito ribattere, lui era sempre rimasto in silenzio con la testa china piuttosto che alzare la voce in famiglia. Quasi ne aveva dimenticato la voce e adesso a rispondergli era un tono più basso e profondo, mutato nel tempo. «Non hai potuto fare la regata per rendere orgoglioso papà? Dev’essere stata dura non essere il figlio prediletto per una volta…e poi cosa? Ti avranno dato qualche colpa…non eri abituato Seya, vero? Benvenuto nel mio mondo. Anche se scommetto che ti han perdonato e dimenticato tutto dopo una settimana. Per fortuna non eri tu ad essere quello scomparso o avrebbero mobilitato mari e monti».
«Ti abbiamo cercato…».
«Non abbastanza, o meglio avete cercato la barca…».
Yaten le aveva cambiato il nome. E aveva fatto tutto quello che era in suo potere per renderla irriconoscibile quanto sarebbe bastato a suo padre per perdere la pazienza e acquistarne una nuova. I soldi non erano mai stati un problema e quell’uomo era abituato a mettere una pezza su tutto piuttosto che impazzire per qualcosa che non gli avrebbe reso profitto. Yaten non era il figlio che poteva dar lustro alla sua famiglia e come lui, quella barca valeva troppo poco per perderci la testa.
«Ora basta…» la voce di Michiru era un soffio in mezzo a quell’esplosione di fuochi d’artificio. I due erano presi a versarsi addosso anni di lontananza, mancanza e dolore trasformato in rancore per badare a lei.
Ma Michiru Kaiō non era una donna che demordeva. Lei era quella che mediava con dei temibili criminali, quella alla quale si stava trovando in mezzo invece appariva come uno stupido litigio tra due bambini.
«Ho detto, BASTA! VERGOGNATEVI!».
I due si zittirono all’istante ed entrambi puntarono gli occhi su di lei.
«Non vi vedete dai sei anni e tutto quello che sapete fare è urlarvi addosso, invece che darvi un abbraccio».
Seya svicolò la presa di Michiru dal suo braccio e risentito per essere stato ripreso si allontanò prendendo contro ad una ragazza bionda con in spalla una chitarra.
Asciutto si scusò e Minako non seppe cosa rispondere.
«Da quanto sei lì?» Yaten la fulminò con lo sguardo e Minako si avvicinò all’imbarcazione facendo un timido cenno di saluto alla giovane che aveva messo fine al litigio.
E’ bellissima pensò nel passare di fianco a Michiru. La trovava elegante e con uno charme invidiabile, quasi fosse una diva uscita dalla pellicola di qualche vecchio film hollywoodiano.
«Il giubbotto…te l’ho riportato» disse al ragazzo allungandogli la giacca di pelle.
«Che fai? Rimani lì? Sali» ordinò lui tutto d’un pezzo, ritornando a liberare la propria imbarcazione.
Minako ubbidì, con il terrore di cadere in acqua e portarsi dietro anche la sua chitarra.
«E comunque…vedere te è stato un piacere Michiru» disse guardando altrove Yaten.
Anche se avevano tre anni di differenza, spesso e volentieri si era ritrovato a passare i pomeriggi nell’assolata Honolulu in compagnia sua e del fratello.
Michiru era sempre stata gentile nei suoi confronti e sebbene fosse sempre il più piccolo non lo aveva mai tenuto in disparte o fatto sentire da meno.
Minako desiderò essere come la ragazza dai capelli acqua marina. Se fosse stata affascinante quanto la sconosciuta sarebbe sicuramente piaciuta a Yaten.
Provò una punta di gelosia alle sue parole, fino a che l’altra non gli rispose chinandosi sulle ginocchia quasi con fare materno.
«Anche per me. Mi sei mancato al matrimonio, mi sarebbe piaciuto ci fossi stato».
Yaten schioccò la lingua e la barca si mosse piano all’indietro.
«Non capirò mai perché proprio Seya».
Lei gli allungò qualcosa lasciandoglielo nel palmo di una mano appena prima che risultasse troppo lontano da raggiungere.
«Non sparire più. È il mio numero…chiama se hai bisogno!».
Il molo si allontanò ancora un po’ e Michiru si alzò salutandolo con la mano.
Yaten rispose con un cenno del mento per poi riportare lo sguardo smeraldo sul fratello. Lo stava fissando, ma non lo faceva dall’alto in basso come quando tagliava un importante traguardo. Era qualcosa di nuovo per lui. Sembrava malinconico. Pareva uno di quegli sguardi che si riservano solo alle persona a cui tieni quando se ne stanno andando via, aveva gli occhi pieni di rimpianti.
 
 
§§§
 
 

Haruka aveva tutta l’aria di uno studente annoiato costretto a sedere nel primo banco di scuola.
«È ufficiale sai, la Meiō mi odia» disse con uno sbuffo per poi immaginare la smorfia che si sarebbe dipinta in volto a Dan con quelle parole.
L’amico sembrava dormire placidamente nel lettino d’ospedale, ma lei non si voleva arrendere e ogni minuto libero lo trascorreva al suo capezzale.
«Diavolo amico, ha indetto una sorta di corso. E indovina chi lo presenta? Medici senza frontiere. Ma dai, voglio dire…mica siamo in guerra. Quando cavolo ci si presenterà un’arma chimica da combattere?».
Solo il bip dei macchinari in risposta. Haruka sospirò pesantemente per poi avvicinarsi al monitor e abbassare il volume dell’apparecchio. Odiava quel suono, lo associava alla morte il che era paradossale. Comprendeva benissimo che un suono piatto era un brutto segno e quello cadenzato che sentiva era solo il battito cadenzato dell’amico. Ma non poteva farci niente, ogni bip per lei era un passo che il ragazzo compiva più lontano da lei.
«Devi svegliarti, brutto idiota» soffiò abbassando lo sguardo sui fiori che aveva portato Michiru il giorno che si erano incontrate in ospedale.
«Non puoi lasciarmi con il cocco di Setsuna. Ti ruberà il lavoro e mi riempirà le orecchie di stronzate con i suoi virus e bla bla».
Il sole al di fuori delle imposte aveva cambiato la sua posizione nel cielo. Era prima pomeriggio e la palla infuocata appariva sempre più pallida, quasi annebbiata.
Il vento si alzò ululando infuriato e Haruka si adoperò per abbassare la tapparella.
«Sai Dan…ogni giorno di coma si diventa sempre più stupidi o una roba del genere. Dicono così i medici…» una pausa, un silenzio pesante e la ragazza si voltò nuovamente verso l’amico.
«Il tuo quoziente ciambella mi sembrava già basso di suo. Io non rischierei di perdere quel poco di materia grigia che ti rimane. Vedi di muoverti, io non te lo dico più!».
Haruka si appoggiò alla parete. Sembrava non riuscire a stare ferma dentro alla stanza. Forse inconsciamente pensava che fare baccano potesse svegliare in qualche modo più velocemente Dan, o più probabilmente, anche se non voleva ammetterlo con se stessa non riusciva a reggere quella situazione.
E per qualche motivo pensò al Kansas, alla comunità. Al fatto che se fosse stata lei al posto del ragazzo sarebbe stata già spacciata. S’immaginò gli occhi di Sarah, gentili, buoni ma distrutti da un dolore silenzioso. E poi lo sguardo di Amos. Avrebbe avuto quell’espressione severa, probabilmente avrebbe scosso la testa con fare di disappunto e poi avrebbe costretto tutti a staccarle la spina. Perché gli amish fanno così. O sei capace di vivere o muori. Non si accetta altro intervento se non quello divino. Niente misure speciali, niente scienza. Solo la volontà di un Dio che Haruka non aveva mai sentito si stesse occupando anche lontanamente di lei.
Mosse un paio di passi e si avvicinò all’orecchio di Dan.
«La verità è che…» soffiò quel segreto senza che anima viva potesse udirlo. «Mi manchi, ciambella. Devi tornare a essere il mio amico svampito. L’unico idiota che mi salverebbe da una bomba».
Quella rivelazione non la fece sentire meglio. Fu una confessione a cuore aperto che riuscì solamente a farla sentire più vulnerabile che mai e questo ad Haruka non piaceva per niente. Lei non era una piagnucolona, lei non aveva bisogno di nessuno per andare avanti tanto meno di uno stupido Dio la cui mano invisibile a quanto pare la teneva in tasca.
Il cercapersone vibrò. Una chiamata col numero di emergenza.
«Come dicevo…mi odia. Devo andare…».
E se solo avesse rialzato il volume del monitor avrebbe sentito il cuore di Dan fare uno sfarfallio diverso.
 

 
§§§
 
 
Seya e Michiru avevano parlato a lungo dell’incontro con Yaten. E Michiru aveva capito che dietro quelle urla il marito covava nient’altro che una mancanza profonda con quel membro della famiglia scomparso all’improvviso.
«Penso dovresti andare a trovarlo un giorno di questi» gli disse Michiru con il suo solito fare calmo. La sua voce era simile a una di quelle melodie che sanno calmare gli animi in tempesta e Seya l’aveva sempre amata.
«Ora sappiamo dove ormeggia la barca. E anche se si arrabbierà come ha fatto oggi non perdere le staffe. Ma ti pare che queste cose debba dirtele io? Sei uno psicologo o no?!». Lei si lasciò andare ad una risatina e lui la seguì a ruota.
Erano seduti in riva al mare, con i piedi affondati nella sabbia e i capelli scompigliati dal soffio del vento.
Se quella fosse stata una baia nascosta e incontaminata e si fossero messi a cercare le conchiglie probabilmente Michiru avrebbe pensato di essere tornata alle Hawaii.
«Lo hai sentito…tuo padre?» domandò lui, sviando il discorso all’improvviso.
Michiru si perse a guardare l’orizzonte e tra i granelli di sabbia le dita di Seya intercettarono le sue.
«È troppo preso dalla sua amata base militare Hawaiana. Chissà dietro quale complotto di stato è impegnato…». Seya avrebbe voluto chiedergli di sua madre ma lei sembrò rassicurarlo all’istante.
«Ma va bene così. Sai com’è…ogni volta che apre bocca quell’uomo non fa altro che farmi sentire inadeguata. È meglio così. Ci vedremo al ringraziamento e andrà benissimo così».
«Sono…ancora invitato?».
Uno stormo di gabbiani si posò sul pelo dell’acqua. I lunghi capelli mori di Seya gli agitati dal vento gli coprirono parte del viso.
A Michiru venne in mente il cielo nero cosparso di stelle sulla spiaggia la notte del loro matrimonio e poi, come un fulmine a ciel sereno, nei suoi ricordi quelle stesse stelle si ritrovarono ad esploderle nel petto riportandole alla mente quel bacio taciuto da Haruka.
Una chiamata la ridestò. Michiru scostò la mano da quella di Seya per vederne il mittente.
Scusa, lavoro. Mimò con le labbra per poi rispondere.
 
Lui aveva avuto una sensazione. Si era sentito come se avesse recuperato terreno, come se non fossero mai andati via dalla loro isola, come se le distanze si fossero in qualche modo accorciate e i vuoti colmati.
«Seya» la voce di Michiru si confuse con le scrosciare delle onde. «Devo andare al lavoro».
«Vengo con te» si alzò perentorio, scrollandosi la sabbia dai pantaloni e riprendendo le proprie scarpe.
«No, non occorre. Ti avrebbe chiamato Setsuna».
Lei intercettò uno sguardo deluso e non poté fare a meno di prendergli la mano.
«Vai da Hotaru, ok? Così Bunny avrà la serata libera. Ci vediamo a casa, ok?».
«Okay».
Michiru lo salutò con un cenno della mano e nel momento in cui gli voltò le spalle, lui si rese conto che la distanza colmata non bastava. Era già lontana anni luce, di nuovo.
 
 
Al 30745 Pacific Coast Hwy a Malibu si trovava uno dei supermarket più in voga della cittadina californiana.
I Vintage Grocers erano luoghi troppo chic per un tipo come Haruka Ten’ō.
«Non è un semplice supermercato, no. E’ una vera e propria esperienza di vita questa» recitò la bionda come uno spot televisivo per poi sventolare il proprio smartphone per aria.
Ray e gli altri due ragazzetti della SWAT di cui la bionda si ostinava a non imparare il nome proprio, risero come un branco di pecore alla sua battuta.
«Ma dai, guardate che sito!» rincarò la dose con fare da sfottò fino a che non venne avvicinata da Mamoru.
«A me piace, credo sia il miglior supermercato della città».
«Ecco il dottor fighetto» borbottò suscitando un’ilarità incontenibile in Ray che quasi si cappottò oltre il cofano del blindato nero lucente.
Il moro si abbassò per sistemarsi i lacci degli anfibi. «Guarda che è bello sul serio…» tentò di convincerla lui col suo solito modo gentile. «Ci puoi anche pranzare e poi è sulla spiaggia. Hanno delle cose ottime e prodotti stagionali. Le uova vengono dalla fattoria di-».
«Ehm, stop». Haruka lo fermò con un gesto della mano. Sembrava una di quelle movenze tipiche dei film in cui la ragazza del ghetto si toglie gli orecchini prima di cominciare una vera e propria rissa.
«Io da un supermercato mi aspetto di fare un semplice spesa. Una cosa veloce. Fiocchi d’avena per la colazione, latte e bistecca per la cena. Se voglio fare colazione, non vengo qui…».
«Ti dico che la qualità è superiore, tutto qui».
Haruka si accigliò perché il novellino l’aveva messa a tacere. Tutti i ragazzi della squadra rimasero con il fiato sospeso.
«Lo ripeto. Sembri una di quelle casalinghe disperate fissate con il bio e la roba vegan. Non fa bene alla tua virilità».
«Ten’ō» il richiamo di Setsuna sedò sul nascere una possibile discussione.
«Che state combinando?» chiese a denti stretti la donna.
«Facciamo conversazione mentre aspettiamo che finiscano di transennare».
Setsuna la guardò come si guarda un invertebrato. «Potreste prestare la vostra forza lavoro per montare il campo…».
«Vuoi dire che faremo campeggio?».
«Vuol dire che credo andrà per le lunghe. C’è un mucchio di gente lì dentro».
Haruka parve contrariata.
«Che c’è? Ti perdi l’aperitivo?!».
Si. Doveva ammetterlo. Stava proprio pensando che avrebbe fatto tardi. E Rei odiava quando lei era in ritardo. Haruka non ne voleva sapere di una ramanzina anche perché aveva organizzato lei stessa la serata proprio per evitare intoppi.
Setsuna portò le mani ai fianchi e sospirò.
«Adoro questo supermercato…» constatò con fare quasi dispiaciuto.
«Ma non mi dire…» commentò acida Haruka, beccandosi così un’occhiata interrogativa da parte dell’altra.
«Siete proprio due anime gemelle tu e coso».
«Deduco tu ti riferisca a Mamoru».
«Deduci bene» rispose con la faccia da schiaffi per voltarsi e tornare dal proprio team.
 
E la vide. Michiru, un paio di jeans strappati a vita alta, i sandali e un top a fiorellini.
Il cuore di Haruka ebbe un sussulto.
«Ci sono, ci sono!» esclamò Michiru con fiato leggermente grosso.
Aveva camminato velocemente, Haruka lo notò dalle sue gote arrossate.
«Mediatore sul posto. Cominciamo» annunciò in tono deciso Setsuna alla squadra di poliziotti e investigatori.
«Hey, Hollywood».
«Hey, Haruka» lo sguardo di Michiru cadde inevitabilmente sulle labbra della bionda.
Non pensare. Concentrati sul tuo lavoro Michiru. Era solo un gioco. Uno scherzo. Uno stupido bacio.
«Sei carina, stai bene così». Michiru si sentì avvampare nello stesso modo in cui la prima cotta a scuola ti fa un complimento inaspettato.
«Hai fatto shopping?». Non che ad Haruka interessasse realmente delle compere giornaliere dell’altra, voleva solo sapere se era stata tutto il tempo con suo marito o aveva fatto a meno di lui. E poi lo aveva notato. Michiru aveva uno sguardo diverso. Un po’ ingenuo e imbarazzato, il che la rendeva ancora più bella agli di Haruka che aveva tutta l’intenzione di catturare la sua preda.
«Ehm…» era una provocazione? Michiru si sentì confusa da tutto quell’interesse. «No, non oggi. Insomma ho preso una cosa a Hotaru…».
«Aaah…e come sta?».
«Scusate?!!. Ten’ō puoi tornare dagli altri decerebrati?». Setsuna aveva interrotto bruscamente quello scambio verbale che aveva visibilmente destabilizzato Michiru.
«T’importuna?» indagò passandole un microfono da mettere all’orecchio.
«No» rispose ridacchiando Michiru. «Ti pare mi faccia mettere in piedi in testa così?».
Setsuna tentò di celare l’espressione dubbiosa che spintonava per comparire sul suo volto. Michiru era una che sapeva come evitare personaggi scomodi, ma Ten’ō era un osso duro. Se si metteva in testa qualcosa non mollava ed arrivava a sfinire la gente pur di ottenerlo.
«Forse dovremmo mandarla nelle zone di guerra per gli interrogatori…» pensò a voce alta.
«Chi? Di cosa stai parlando?».
«Di Ten’ō. Sfinirebbe anche un terrorista».
«Hey, Hollywood» Haruka si sbracciò e lesse nello sguardo di Setsuna una scintilla omicida. Ma non se ne curò, in fin dei conti adorava punzecchiarla. «A te piace fare la spesa in questo posto?».
«ABBIAMO UN BAVAGLIO!?». La più grande perse la pazienza scatenando le risate della SWAT e di un paio di agenti.
Anche Michiru rise e si sistemò i capelli in una lunga coda per poi fare segno ad un agente di essere pronta.
Setsuna riprese il controllo e le porse un telefono. «Si sono chiusi lì dentro. Non sappiamo quanti sono. Sono armati. All’interno del locale siamo riusciti ad indentificare cinque civili. Ho richiesto la lista del personale per capire quanti sono».
«Hanno esaudito richieste?».
«Il tuo numero di telefono!» fece il galletto Haruka.
«No» la ignorò Setsuna. «Ma tra poco farò io quella di aprire il fuoco su Ten’ō se non la smette».
«Ok, chiamiamo questi gentiluomini» ordinò Michiru attendendo che qualcuno rispondesse all’altro capo.
Haruka si appoggiò con il gomito al cofano del blindato.
«È sexy quando chiama i cattivi, vero?». Si aspettava una risposta da Dan e per un attimo rimase quasi delusa dal non riceverla. Era con lui che era solita fare la spaccona e tutte la sua sequela di battute.
«È una bella donna, si». Era Mamoru ad aver parlato e Haruka non seppe come reagire, se non virando altrove la conversazione. Non aveva alcuna intenzione di confidarsi con lui o di parlare delle curve di Michiru Kaiō.
«Dì un po’ Casanova…» tornò in posizione eretta per poi arricciare le labbra. «Ce l’hai la ragazza? O sei il tipo più adatto al matrimonio?».
Mamoru fu sorpreso da quella domanda. Soprattutto perché non sembrava contenere alcuna presa in giro e per quel che conosceva la sua collega pareva una cosa singolare.
«Non sono sposato. Non più».
«Ha voluto il divorzio perché sei uno noioso?».
«Ti sembro un tipo noioso?».
«Onestamente? Si. Una palla…» la sentenza venne sputata senza peli sulla lingua.
Mamoru non parve offeso da quella affermazione.
«Apprezzo la sincerità. E non ho divorziato…» sorrise mesto. «Sono vedovo».
Haruka si pentì di essersi fatta prendere la mano. Era stata indelicata, come sempre. Ma per essere fedele a se stessa non avrebbe chiesto scusa per la domanda. Di solito era Dan che mediava ai suoi “danni” non voleva dover essere lei a farlo. Sarebbe significato non averlo più accanto e quella non era un’opzione.
«Ti combino un appuntamento».
«Eh? Ma io…».
«Se è vero che non sei un tipo noioso, accetterai la mia proposta».
Mamoru boccheggiò preso in contropiede.
«Niente d’imbarazzante. Vai a uno speed date, così non è una di quelle cose a due costruite a tavolino eccetera. Fai finta di essere lì per caso e ci sarà anche lei».
«Ma lei chi?».
«Un’amica di Michiru. Tranquillo. É…bionda». Ad Haruka non venivano in mente aggettivi più entusiasmanti per descrivere Usagi, pensando che chiunque sarebbe scappato se avesse saputo in anticipo di che piaga sociale stesse parlando.
«Bionda? Che vuol dire bionda?».
«Ohi, hai respirato troppi virus in laboratorio? Bionda. Con i capelli tipo…Pamela Anderson».
«No, si ho capito. Ma perché stai facendo quel gesto…».
«Quello delle tette? Oh perché se penso a Pamela mi vengono in mente prima di tutto quelle. Si, scusa».
Mamoru rimase interdetto. Non sapeva se esserlo di più per l’imitazione delle rotondità dell’attrice, per il tipo di donna che avrebbe dovuto aspettarsi o se per la collega a cui in qualche modo affidava la sua vita. Perché era così che funzionava, una squadra di artificieri metteva la propria esistenza nelle mani dei propri compagni. Nessuno poteva fidarsi di una bomba.
 
«Sono l’agente Michiru Kaiō, con chi ho il piacere di parlare?».
La voce di Michiru interruppe la strana conversazione tra i due e Haruka non poté far a meno di avanzare di qualche passo. Come faceva a farlo? Sembrava conversare con un amico più che con un malintenzionato.
«Trump? Come il presidente degli Stati Uniti? Carino…vorrei parlare con chi comanda lì. Sono qui per aiutarvi perché sono certa che voi vogliate qualcosa…».
«Come sa che vogliamo qualcosa?». La voce all’altro capo del telefono era di un uomo.
«Perché ogni essere umano, vuole qualcosa…è insito nella nostra natura».
«Lei cosa vuole agente Kaiō?».
Ad Haruka si gelò il sangue. Ma Michiru sembrava perfettamente a suo agio. Una negoziazione poteva durare ore, altre giorni interi. Ma tutti all’inizio facevano così. Tutti le chiedevano fatti personali per rompere il ghiaccio. Solo uno sprovveduto perché in preda al panico avrebbe cominciato direttamente con una lista di desideri da sottoporre al genio della lampada di turno.
«Vorrei essere altrove…magari con mia figlia a casa…o…».
Haruka incrociò lo sguardo con quello della mediatrice.
«Con qualcuno che mi piace, a bere un bicchiere di buon vino vista spiaggia».
Dall’altro capo del telefono solo il respiro dello sconosciuto.
«Perciò facciamo così…».
Haruka non riusciva a staccarle gli occhi di dosso, come se le pupille si fossero incollate lì, incapaci di vedere qualsiasi altra cosa.
«Avete venti minuti e poi vi richiamo. Mi dite cosa volete e vedo cosa posso fare per voi. Ognuno ottiene quel che vuole».
Michiru chiuse la telefonata, tolse il microfono ed espirò a lungo. Anche Setsuna parve ricominciare a respirare. Sembrava essere rimasta in apnea per tutta la conversazione.
«Ottimo lavoro».
«Abbiamo appena cominciato Sets-».
La più grande le poggiò una mano sulla spalla. «So che finiremo anche in modo ottimo». Lasciò cadere tutte le aspettative sulle spalle dell’altra, poi si allontanò per recuperare la lista dei dipendenti del supermercato.
Michiru gettò un’occhiata all’orologio da polso e sollevo il capo solo nel momento in cui la coda dell’occhio intercetto gli scarponi di Haruka.
«Racconti loro sempre cose vere?».
L’altra fece spallucce. «Il più delle volte».
«Perché non menti mai?».
«Perché un bugiardo sa fiutarne un altro. E la maggior parte di quella gente fa cose di questo tipo mentendo a sé stessa».
«Bella teoria, Hollywood».
«Che ci fai qui?».
Haruka tentennò. Intendeva sul posto o a parlare con lei? Optò per la prima.
«Sono armati. Potrebbero avere dell’esplosivo o anche no…ma…ci sono armi e noi ci siamo».
«Mh…». Michiru sembrò assentarsi per un momento. «Intendevo qui. Perché mi stai intrattenendo?».
«Per quel bicchiere di vino. Quello sulla spiaggia» rispose candidamente. «Se facciamo in tempo, vieni a berlo con me».
Le labbra di Michiru s’incurvarono appena. «Gli ho detto che vorrei andarci con una persona che mi piace».
Probabilmente chiunque si sarebbe tirato indietro a quell’affermazione, o comunque solo i più sicuri di sé avrebbero avuto il fegato sufficiente a non sentirsi indesiderati.
Haruka aveva abbastanza faccia tosta per risultare boriosa piuttosto che codarda e nemmeno davanti alla morte si tirava indietro. Un rifiuto non l’avrebbe di certo uccisa.
«Insomma, Hollywood. Mi stai forse dicendo che io non ti piaccio?».
Un brivido percorse la schiena di Michiru, facendole perdere un po’ di quel sangue freddo avuto sino a quel momento al telefono.
 
Mi piace? Haruka, mi piace?
 
 
§§§
 
 
Era ormai il tramonto. L’imbarcazione di Yaten galleggiava placida sul pelo dell’Oceano.
Erano al centro del nulla blu. Minako non scorgeva più la costa californiana. Solo un’immensa distesa liquida dinnanzi a loro.
Il vento si era calmato e la superficie pareva piatta come una tavola.
Erano rimasti in silenzio da quando avevano lasciato il porto. Minako aveva intuito dagli stralci di conversazione che Yaten non doveva avere una situazione rosea alle spalle e a lei non andava di riaprire le ferite di qualcuno. Così si era seduta e aveva cominciato a pizzicare le corde del proprio strumento.
In quel silenzio per un momento si scordò della presenza dell’altro come se fosse solo lei e il mare, senza alcun pensiero.
«Without you there's holes in my soul. Hey, hey, let the water in. Where ever you've gone? How, how, how?». Cantò con un filo di voce.
Yaten reclinò la testa contro l’albero. Socchiuse gli occhi e si perse in quelle parole. Come se riuscissero a riempirgli d’aria i polmoni.
Qualcuno se l’era davvero domandato dove se n’era andato quando era sparito?
«I just need to know…That you won't forget about me. Where ever you've gone?». Forse aveva bisogno di sapere se qualcuno si sarebbe ricordato di lui se fosse andato lontano di nuovo.
«And I get lonely without you, and I can't move on…».
Si alzò e la guardò. E si rese conto di un’ innegabile verità. Lei era come le maree che l’avevano cullato nelle notti di navigazione solitaria. La sua voce, era come quelle onde placide che bussavano piano contro il fianco della barca.
Era il fascio di luce lunare che rompeva l’oscurità dell’Oceano quando al largo non scorgeva alcun lume.
«And I get lonely without you, I can't move on. Move on». Sembrava crederci davvero in quelle parole. Stava soltanto cantando? O si sentiva sola senza di lui? Qualcuno poteva sentire la sua mancanza per davvero? E se fosse stato lui quello che aveva bisogno di lei? Ma lei era solo una sconosciuta con una chitarra acustica e la voce di un angelo.
Yaten si sentì destabilizzato, ma non era mal di mare. Lui non lo soffriva.
«Smettila». La ragazza si bloccò d’improvviso stroncando a metà un accordo.
Forse gli aveva dato fastidio, magari lui era salpato in cerca del silenzio e lei aveva rotto quella pace cantando.
«Devi metterti questo» sembrò aggiustare il tiro lui passandole qualcosa di un colore arancione fosforescente.
Minako assunse un’aria stranita per poi rigirarsi fra le mani l’oggetto.
«È un salvagente. Siamo in mare aperto, bisogna sempre averlo addosso anche se si sa nuotare».
«Oh. Okay» sibilò lei indossandolo prontamente.
«L’abbiamo rubata?» domandò poi.
Yaten la guardò senza capire a cosa si stesse riferendo.
«La barca» puntualizzò lei. «L’abbiamo rubata? Devo aspettarmi che ci vengano a prendere e ci mettano in manette?».
«Non l’abbiamo rubata. È mia la barca!» protestò lui.
«Ti credo sulla parola?».
Yaten l’afferrò per un braccio. «Te lo mostro» disse trascinandola sotto coperta.
Un paio di scalini e Minako si ritrovò in una piccola cabina adibita a studio di registrazione.
«È un po’ rudimentale ma c’è tutto quello che serve» si sbilanciò lui.
«Wow». La ragazza riuscì ad emettere solo quel suono tanto era meravigliata per ciò che si trovava davanti.
Yaten aveva ragione. Non mancava di nulla. C’era un mixer, la sua tastiera, un tappeto colmo di spartiti, una divanetto, una parete insonorizzata, un piccolo amplificatore con sopra poggiate un paio di cuffie.
«Chi altro potrebbe avere questa roba su una barca?».
«Potresti essere un abusivo» ridacchiò lei prendendolo in giro. L’espressione del ragazzo però non mutò in divertita, rimase tremendamente seria, quasi tirata.
«Dai Yaten sto scherzando! È bellissima». Minako portò le mani dietro alla schiena facendo una piccola giravolta su se stessa.
«Dunque…è qui che abiti?».
Lui accennò un sì col capo. «Di là c’è un bagno e la cuccetta dove dormo».
«Che figata» si lasciò andare lei.
Lui sembrò entusiasta di quella reazione.
«Se vuoi potremmo comporre qui. Anziché prenotare uno studio. Risparmieremmo un bel po’ di soldi».
«Credo sarebbe perfetto» sorrise lei in preda all’emozione.
Soddisfatto, Yaten, le offri un’aranciata dal mini frigo. A Minako parve sciogliersi un po’, poiché si sbilanciò in una sorta di brindisi silenzioso facendo sbattere la propria lattina con quella della ragazza.
«Che dici…torniamo indietro? Ormai si è fatto tardi. Possiamo cominciare col nostro progetto domani…se ti va».
Minako dovette trattenersi dall’urlare di gioia. Certo che gli andava e poi, cosa poteva chiedere di meglio? Vedere due giorni di fila Yaten non aveva prezzo. Sarebbe stata una pazza a non accettare, così rispose con un tale impeto del capo che le bollicine della bevanda le andarono su per il naso pizzicandole le narici e provocandole un secco colpo di tosse.
«Tutto okay?» domandò preoccupato avvicinandosi. Rimase indeciso se toccarla o meno, poi lasciò i ragionamenti da parte per darle una pacca leggera tra le scapole.
«Era un sì!» si affretto a precisare lei.
«Cavolo non ti ho mica chiesto di sposarmi».
Lei arrossì e poi si ritrovarono a ridere per nulla all’unisono. Di certo quel momento sarebbe stato uno dei migliori da incidere in quella stanzetta se solo la musica avesse potuto descriverlo.






Note dell'aturice:
Come previsto non ho avuto il tempo di finire il capitolo, perciò questa è solo una prima parte e spero al più presto di riuscire a buttare giù la seconda per poi pubblicarvela. Intanto, mi pareva giusto non farvi aspettare oltre e spero che vi piaccia.
La canzone cantata da Minako è "Don't Forget About Me" dei Cloves. 
Per quanto riguarda il contest indetto sulla mia pagina FB per la scelta della canzone che "scriveranno" Minako e Yaten ha vinto "Broken Strings" di James Morrison e Nelly Furtado.

A presto!! 
   
 
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