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Autore: CHAOSevangeline    10/11/2018    5 recensioni
{ Mito di Apollo e Giacinto | Modern!AU }
Eccola, la sua condanna: era un fiore che non poteva crescere.
Di fronte a quel giovane, il volto illuminato da un sorriso fiero sulle labbra cesellate, Giacinto si era sciolto e aveva perso tutte le parole, ogni facoltà di pensiero. Cosa poteva dire? Cos’era giusto dire? Cos’era il caso di dire proprio a lui, per far sì che restasse ancora un minuto, dieci, anche per sempre se lo desiderava?
I suoi occhi celesti, quei capelli di grano ondulato raccolti forse in una coda, forse in uno chignon che non vedeva. La pelle ambrata coperta da una camicia chiara e dei jeans che fasciavano i muscoli delle gambe. Pareva una statua.
E Dio, era bellissimo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Apollo e Giacinto'
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III.
Apollo e Giacinto




«Non va bene neanche questo!»
Giacinto gettò l’ennesima maglia sul letto, rimanendo a torso nudo di fronte lo specchio ovale della sua stanza. Sul materasso l’unica cosa ordinata era sua sorella Polybea, sdraiata a pancia in giù accanto un cumulo di vestiti stropicciati come le lenzuola del letto che Giacinto non aveva rifatto pur essendo ormai tarda sera.
Erano le mansioni che odiava, quelle: perché rifare il letto se tanto la sera sarebbe tornato a disfarlo aggrovigliandosi con le lenzuola?
Giacinto non credeva avrebbe mai sperimentato l’orribile sensazione di non avere nulla da mettersi pur avendo molteplici capi fra cui scegliere in armadio. Non era trasandato, ma aveva uno stile con cui si sentiva a proprio agio e che gli permetteva di scegliere i vestiti dal guardaroba cinque minuti prima di scendere per fare colazione, o in generale di uscire. Una di quelle persone che riesce ad essere impeccabile anche con il primo straccetto trovato in fondo al guardaroba.
Adesso, invece, si sentiva tradito: tradito da sé stesso, che si era fatto cogliere impreparato in un momento tanto inopportuno e critico, e tradito da tutti gli abbinamenti che negli anni aveva costruito con tanta dedizione e impegno.
Polybea sorrise intenerita.
«Deve proprio piacerti, quell’Apollo.»
Giacinto non rispose. Non perché non volesse farlo, ma perché era così assorto da non averla nemmeno sentita.
«Forse il problema sono i jeans», sbottò improvvisamente il ragazzo, fissando gli skinny neri che indossava.
Con le mani sulla patta per sfilarli e cambiarsi udì la voce di sua sorella, questa volta troppo decisa per passare inosservata.
«Per l’amor del cielo no, basta!» esclamò in preda all’esasperazione.
Aveva rischiato di essere colpita in faccia da più e più magliette e anche da dei pantaloni, all’inizio. Senza contare che facevano di gran lunga più male, voleva evitare di far ritornare il fratello sui suoi passi.
Scese dal materasso e lo raggiunse, affacciandosi all’armadio.
«Abbiamo passato mezz’ora sui pantaloni, non ho intenzione di vederti arrivare in ritardo perché non sai scegliere.»
Così tirò fuori una gruccia a cui se ne stava appesa una camicia bianca, che così fluttuante aveva quasi la parvenza di un fantasma. Poi fissò un giacchino di jeans e provò ad accostarli: perfetto.
«E con questo sei pronto.»
«Ma…»
Giacinto avrebbe provato a ribattere. Polybea era una ragazza dolce e altruista, ma a tutto c’era un limite e non era il caso di farla spazientire troppo.
Non per niente suo fratello si era beccato un’occhiata di fuoco e uno dei peluche di Giacinto in piena faccia, nel corridoio, quando si era fermato a sbeffeggiare il suo fratellino presumibilmente innamorato.
Giacinto si rivestì sotto lo sguardo inquisitore della sorella, che lo avrebbe tenuto d’occhio fino a poco prima che uscisse per accertarsi che in un momento di debolezza non tentasse di cambiare di nuovo gli abiti che aveva indosso.
Sistemato il giacchino di jeans sulle spalle, Giacinto si guardò riflesso nello specchio, il volto della sorella affacciato sulla sua spalla.
«Sai, credo che Apollo mi piaccia davvero tanto», confessò Giacinto con un filo di voce.
Esitò, poi guardò il volto di Polybea nello specchio.
«Sono certa che farai colpo», lo rassicurò.
Giacinto ancora non aveva detto molto di Apollo. O meglio, forse aveva detto così tante cose da rendere fin troppo difficile seguirlo e ricordarle tutte, così era stato come se non avesse parlato: aveva descritto la sua fluente chioma dorata, le labbra cesellate e il fisico che almeno attraverso i vestiti gli era parso statuario. Un’attenzione al dettaglio che rasentava il maniacale e che solo un’artista poteva vantare. Se c’era una cosa che non aveva detto, fra le tante e dopo aver addirittura azzardato un «potrebbe fare il modello invece di studiare medicina!» era che Apollo sembrava in tutto e per tutto la misteriosa musa ispiratrice che ritraeva con costanza nei propri disegni
«Ah.» Polybea lo riscosse dai propri pensieri. «Dai un’occhiata al telefono, più tardi. È sepolto da qualche parte sotto tutti i vestiti che hai provato e non la finiva di vibrare, ma tu eri troppo occupato.»
Si scambiarono uno sguardo, le sopracciglia di Giacinto aggrottate in un lieve moto di apprensione.
«Non pensare a lui adesso», gli raccomandò Polybea. «Può aspettare!»
Quelle parole furono come un soffio di vento che spazzò via le nubi che avevano incupito per un istante lo sguardo di Giacinto.
«Hai ragione.»
 

Quando il campanello suonò, dilagò il caos.
Giacinto squittì, Polybea quasi urlò e corsero al piano di sotto.
Giacinto si pentì di non aver organizzato una strategia di battaglia sull’atteggiamento da tenere. Non c’era una formazione, uno schema, nulla! Un’azione semplice come raggiungere la porta e aprirla gli parve fin troppo complicata, senza contare che sua sorella improvvisamente non sapeva più quale fosse la collocazione migliore per sé: non sapeva se accompagnarlo o se attendere che fosse eventualmente lui a proporre ad Apollo le dovute presentazioni. L’unico che non creava problemi era Cinorta, troppo assorto nella propria partita ai videogame per potersi preoccupare tanto per l’appuntamento di Giacinto.
Riuscì a segregare Polybea in cucina, poi raggiunse la porta d’ingresso e l’aprì, quasi trafelato pur avendo appena compiuto un tragitto di un esiguo quantitativo di metri, dalla cucina all’ingresso. Gli pareva di aver impiegato troppo tempo, di essere in ritardo con tutto, anche con i pensieri, ma erano trascorsi appena pochi secondi.
«Ciao!»
Ci aveva messo troppo entusiasmo e la sua voce era esplosa come un fuoco d’artificio dritta in faccia ad Apollo, che sbatté le ciglia bionde, confuso nell’essere travolto da tanta euforia. Non parve dispiacergli però, perché si sciolse in un sorriso.
«Ciao», rispose.
Quando la porta si era aperta nella casa era entrata una ventata di profumo che per qualche ragione a Giacinto ricordava l’ambra. Forse perché aveva annusato qualche profumo con quel nome al centro commerciale e sentirlo su Apollo gliene aveva ricordato il nome, o forse ancora perché la pelle dorata del ragazzo riluceva caramellata sotto la luce del patio, proprio come una goccia d’ambra incaricata di custodire chissà quale tesoro.
Avrebbe dovuto fargli presente che era illegale con le magliette bianche a fasciare la muscolatura e a chiedere di guardare la pelle abbronzata, ben più invitante.
«Stai molto bene.»
Lo dissero all’unisono e Giacinto arrossì appena.
«Grazie.»
Di nuovo un coro.
Alla fine Giacinto rise, perché non avrebbe saputo cos’altro fare e Apollo si unì a lui.
Era un bravo cavaliere, Apollo, aveva avuto diversi appuntamenti e sapeva come comportarsi. Giacinto faceva crollare tutte le sue convinzioni ed esperienze. Per la verità era convinto che anche il ragazzo sarebbe stato più spigliato: dopo aver visto la sua sfacciataggine velata di timidezza credeva che la vergogna non gli fosse propria in nessun modo. Eppure scoprire dell’imbarazzo non gli dispiacque. Lo trovava carino.
«Ho portato dei pasticcini. Per i tuoi fratelli», disse. «Di solito chi porta dolci come dono di presentazione non viene visto come una minaccia.»
Giacinto rise e prese il vassoio in mano, facendosi da parte per lasciarlo entrare.
«Grazie per essertene ricordato, ma loro…»
Avrebbe voluto dire che non provavano alcun astio nei suoi confronti, nessun timore da fratelli maggiori nei confronti del nuovo possibile spasimante del minore della triade.
Gli parve improvvisamente una frase poco credibile, per il modo in cui Polybea e Cinorta si erano materializzati accanto alle scale, ostruendo l’ingresso alla cucina. Giacinto non aveva notato da quanto fossero lì. La sua mente elaborò, costruì l’idea che fossero apparsi nel momento in cui Apollo li aveva nominati e questo rese il tutto ancora più inquietante.
Gettò uno sguardo al ragazzo e si accorse che sembrava perfettamente a suo agio.
«Ciao! Io sono Apollo.»
Il carisma travolgente che aveva mostrato con Giacinto parve investire in pieno sia Polybea che Cinorta. Sembravano anche sorpresi, sbalorditi.
«Ehi, sembr-!»
Polybea per poco non lo uccise con uno sguardo. Apollo era confuso e Giacinto in imbarazzo.
La prima a porgergli la mano fu la sorella.
Dopo le dovute presentazioni, l’atmosfera sembrava più calma.
L’unico che pareva covare una sorta di risentimento con gli occhi era Cinorta, quasi come se fosse un animale messo nell’angolo da un nuovo arrivato dalle qualità più forti delle sue. E forse perché a causa sua si era messo in imbarazzo.
«Allora noi andiamo», annunciò infine Giacinto, che nonostante la situazione si fosse sgravata dell’iniziale tensione non smaniava all’idea di rimanere lì a lungo: troppo imbarazzo.
«Divertitevi!» li esortò Polybea.
«Ve lo riporto presto», li rassicurò Apollo, strizzando l’occhio.
Sembrava esattamente la frase peggiore da dire per rassicurare qualcuno: ricordava la preoccupazione da far scordare. Eppure con la voce di Apollo sembrava una promessa solenne.
Polybea era stata cortese, ma non si lasciò ingannare.
«Sarà meglio.»
Apollo parve stupito nel non aver fatto breccia, ma Giacinto gli afferrò la mano e trascinò il ragazzo fuori di casa prima di accorgersene e lasciare che lui metabolizzasse la minaccia della sorella. Una volta fuori sospirò di sollievo.
Non si vergognava dei suoi fratelli, ma non aveva un appuntamento da una vita.
«Sembrano simpatici», constatò Apollo, ma in realtà lo aveva detto a mezza voce, perché la sua attenzione era tutta per le dita di Giacinto intorno alle sue.
«Oh, lo sono!» rispose. «Solo che è stata una scena…»
«Mistica, oserei dire.»
Apollo gli rubò le parole di bocca.
Scoppiarono a ridere sotto la tettoia di casa sua.
«Sai, un po’ mi dispiace dover fare il tragitto in macchina», mormorò Apollo, guidando Giacinto verso la propria auto.
Era una macchina decapottabile rosso fiammante. Nel vederla Giacinto pensò subito che si addicesse perfettamente ad Apollo. Non si sbilanciò: voleva indagare.
«Come mai?» domandò Giacinto.
Apollo si chinò vicino al suo orecchio.
«Mi dispiace l’idea di lasciarti la mano.»
Giacinto divenne più rosso della carrozzeria fiammante dell’auto di Apollo.
 

Se qualcuno avesse detto ad Apollo che un locale modesto per un primo appuntamento era una scelta avventata, che serviva impressionare con cene in ristoranti la cui fama grandiosa era inversamente proporzionale alla dimensione delle porzioni portate ai tavoli, avrebbe riso.
Così, senza pensarci troppo. Avrebbe piantato i piedi per terra e avrebbe riso in faccia a chiunque si reputasse tanto intelligente da credere che il suo primo appuntamento in una tavola calda sarebbe stato un fallimento.
Lui e Giacinto avevano appena finito i loro hamburger accompagnati da niente di meno che aranciata e coca. Tutto modesto, ma non perché Apollo fosse tirchio: quella tavola calda era a tema. I muri erano tappezzati di quadri – ovviamente falsi, o due hamburger sarebbero costati ad Apollo un occhio della testa – e le pareti stesse erano quadri: su un muro c’era Notte stellata di Van Gogh, su un altro I papaveri di Claude Monet. L’accostamento di colori era azzardato, eccentrico, ma in un clima che trasudava arte sembrava tutto perfetto.
Su ogni tavolo c’era un vaso con dentro dei girasoli di carta. Sia anfora che fiori erano dipinti con delle pennellate che ancora una volta ricordavano quelle spiraleggianti e grezze di Van Gogh e accompagnavano le tovagliette americane disposte sul tavolo. Anche quelle erano coperte di pennellate, ma non creavano alcuna immagine particolare.
«Conoscevi già questo posto o l’hai trovato per l’occasione?»
«Me ne avevano parlato, ma non ero mai riuscito a venirci», rispose. «Un po’ un azzardo, ma non mi pare sia andata a finire male, no?»
Giacinto si guardava ancora intorno estasiato. Era tornato dal bagno da cinque minuti e ancora doveva smaltire l’entusiasmo di aver trovato quadri anche lì. Quadri che per giunta erano costati ad Apollo una lezione di storia dell’arte abbastanza approfondita, ma se l’era cercata: era stato lui a chiedere a Giacinto di parlargliene, di sfoggiare le conoscenze che l’Accademia di belle Arti gli aveva fornito.
Anche se Apollo amava il suono della propria voce e adorava essere ascoltato invece di ascoltare, con Giacinto era tutta un’altra storia: avrebbe potuto bearsi della sua voce vellutata per ore, rimanendo in silenzio senza interromperlo un solo istante. E contro ogni aspettativa se qualcuno gli avesse chiesto cosa Giacinto avesse detto, Apollo sarebbe stato in grado di recitare il suo discorso da cima a fondo, citando virgole e pause. Avrebbe rubato i pensieri di Giacinto e li avrebbe ripetuti con le proprie labbra. Se c’era una cosa che era sicuro non sarebbe riuscito a far trasparire, era l’emozione.
«Sai», cominciò Apollo, la cameriera – con un grembiule scenicamente sporco di tempera – che adagiava al centro del tavolo il frappè che avrebbero diviso; peccato ci fossero due cannucce: avrebbe voluto sapere cosa ne pensava Giacinto dei baci indiretti. «Hai un modo particolare di parlare degli argomenti che ti appassionano. Ti si illuminano gli occhi e sembra che tu non voglia nemmeno darti il tempo di prendere fiato.»
Giacinto non si aspettava un complimento simile proprio in quel momento. Non se lo aspettava, ma non ne fu per nulla dispiaciuto: si trovava bene con Apollo. Si trovava maledettamente bene con Apollo e scoprire di aver guadagnato dei punti straparlando d’arte non poteva che renderlo felice. E questo per due motivi: il primo, che essersi rintanato contro lo schienale dopo aver realizzato di aver blaterato per svariati minuti, forse annoiando Apollo, era stato un timore infondato; e il secondo, cioè che Apollo lo aveva ascoltato sul serio.
Si era accorto di cosa provava, lo aveva visto per davvero. Aveva sentito. Non come le persone che ti ascoltano con mezzo orecchio perché non vedono l’ora di parlare di sé; Apollo era sinceramente interessato a lui e Giacinto non poteva esserne più felice.
Si chiedeva, Giacinto, se Apollo avesse notato anche il nervosismo che provava nel parlare delle sue passioni proprio a lui. Si chiedeva se si fosse reso conto di quanto gli piacesse, seppure al primo appuntamento, seppure dopo essersi incontrati appena due volte al campus. Si chiedeva se si fosse reso conto che si era innamorato di lui a prima vista e che pendeva dalle sue labbra in ogni istante.
«Io… sono felice che tu la pensi così», rispose Giacinto, costruendo la frase a fatica.
Quel periodo era accettabile o aveva detto sciocchezze?
Si sporse verso la cannuccia che pendeva verso di lui dal bicchiere di frappè e bevette un paio di sorsi. Anche Apollo si avvicinò e Giacinto desiderò per un istante che quel bicchiere, in mezzo, non ci fosse proprio. E nemmeno le cannucce.
Solo le loro labbra.
Doveva smetterla se non voleva diventare paonazzo.
Apollo si allontanò dal bicchiere e si leccò le labbra con la punta della lingua.
«Sono sincero», rincarò la dose Apollo. «Sono davvero felice di essere venuto a cena qui con te, Giacinto.»
Gli occhi di Giacinto guizzarono dal bicchiere – su cui si erano fossilizzati – ad Apollo. Continuò a bere non per ingordigia, ma per calmarsi. Poi si allontanò e sorrise.
Era felice di essere andato a cena con lui.
«Anche io ne sono felice», gli rispose, un sorriso sincero sulle labbra. «Credo sia stato il miglior primo appuntamento della mia vita.»
Apollo sentì un tuffo nel petto, il cuore inghiottito da una voragine da cui dubitava sarebbe riemerso.
Non era ancora abituato a non riuscire a dare per scontato che il suo bell’aspetto e l’atteggiamento fascinoso lo rendessero piacente a tutti.
Pensò a sua sorella Artemide, senza una ragione, immaginandola intenta a sbeffeggiarlo saltellandogli intorno intonando una cantilena che recitava «sei innamorato, sei innamorato!»
Fra i due era lui quello abbastanza infantile da farlo e forse lo stava immaginando proprio come penitenza.
Ma era una penitenza se si trattava della verità?
«Per fortuna mi hai confermato che ti stai trovando bene di tua spontanea volontà…» si rilassò Apollo. «Saprò anche leggere la mano, ma ancora non riesco a leggere nella mente.»
Quando ci si avvicinava ai sentimenti, alle rivelazioni nascoste, Giacinto si rifugiava nell’imbarazzo, da cui non riusciva a liberarsi. Per questo si appigliò con tante energie a quella piccola chicca sul conto di Apollo, su quel dettaglio che aveva appena scoperto.
E per quanto ogni informazione sul conto di Apollo fosse una novità, Giacinto proprio non riusciva ad abbandonare la convinzione di sentirlo vicino, in qualche modo, di sentirsi come se si conoscessero da una vita. Apollo era entrato nella sua vita e aveva segnato un cambiamento brusco e improvviso, ma dolce nel suo essere necessario. A Giacinto sembrava incredibile come voltandosi da passato a presente la sensazione fosse quella di avere un intero mondo nuovo da scoprire. Eppure quel mondo da scoprire, Giacinto lo faceva sentire a suo agio. Come se ci avesse già abitato. Come se Apollo fosse il suo porto sicuro e, per quanto gli fosse stato sottratto fino ad allora, si appartenessero di diritto a vicenda. Doveva tornare da lui.
Si sarebbe nascosto nel silenzio anche scoprendo che Apollo pensava le stesse cose, troppo spaventato dall’intensità delle proprie emozioni.
«Sai leggere la mano?» chiese di punto in bianco Giacinto, dopo quel breve attimo di silenzio, sapendo che se non si fosse concentrato su un discorso frivolo la sua parlantina durata per tutta la sera si sarebbe esaurita e proprio perché si rendeva finalmente conto di quanto fosse stato bene con il biondo.
Apollo parve sorpreso, quasi come se non riuscisse a capire da dove Giacinto avesse tirato fuori quella la domanda. Soppesava spesso le proprie parole per impressionare, lui, ma non era quello il caso: nemmeno aveva scelto di mettere a parte Giacinto di quel piccolo segreto, gli era solo sembrato spontaneo raccontarglielo. Per una volta non si stava vantando, non stava cercando di rendersi il più bravo: era solo sé stesso.
«Mi destreggio», rispose Apollo, un sorriso soddisfatto sul volto. «Vuoi provare?»
Era una scusa la sua, adesso. Era una scusa e lo si capiva dal sorriso sornione in cui erano scolpite le sue labbra. Perché ora Apollo l’aveva, una ragione: aveva l’occasione perfetta per toccare Giacinto, per saggiare la sua pelle anche se solo con le dita.
Senza dire una parola, il ragazzo di fronte a lui sistemò l’avambraccio sul tavolo, adagiò il dorso della mano pericolosamente vicino ad Apollo e sollevò di poco la manica della camicia. Scoprì il polso esile, le vene bluastre che scorrevano in un intrico sotto la pelle diafana. Una pulsava nel piccolo promontorio che costeggiava l’insenatura della mano.
Apollo avrebbe voluto tastare ogni punto di quella mano: sentire ogni giuntura, ogni falange. Magari vedere le dita arricciarsi in risposta.
La mano sinistra verso il braccio di Giacinto; vi fece scorrere sotto le dita e lo strinse appena, come se tenerlo fermo fosse necessario. Come se potesse scappare. La punta dell’indice della gemella toccò invece il centro del palmo di Giacinto.
Era superfluo, ancora non serviva, ma voleva sondare le sue reazioni.
«Sei teso…» gli fece notare. «Rilassati, sono un dottore», scherzò.
Giacinto sorrise, quasi ridacchiò, ma avrebbe ribattuto che non era facile, non di fronte a tutta la sicurezza di Apollo, non mentre lo toccava, ma sarebbe suonato sospetto e ritroso, ma non voleva, così annuì rimanendo in silenzio.
Il polpastrello di Apollo si spostò e raggiunse il piccolo rigonfiamento alla base dell’anulare.
«Sai che questo si chiama monte di Apollo?»
«Davvero?» domandò Giacinto.
Apollo annuì in risposta. Giacinto era più rilassato: si era distratto. Gli piaceva l’idea di portare in qualche modo il nome del ragazzo su di sé.
Apollo restò a studiare quella mano minuta e perfetta qualche istante. La immaginò chiusa intorno a un pennello e trovò che sarebbe potuta essere già da sola una magnifica opera d’arte.
Improvvisamente ad Apollo sfuggì uno sbuffo di risata.
«Che cosa c’è?» domandò Giacinto.
«Questa linea è la linea della testa», spiegò Apollo, percorrendo con l’indice, solo sfiorando la mano di Giacinto, una linea che da poco più in alto dell’attaccatura del pollice si incurvava fino al toccare l’estremo opposto del palmo. «È molto marcata, è indice di creatività. Vedi come curva?» Insistette con il dito sull’ultimo tratto, che deviava puntando verso il basso. «Significa che hai un forte estro artistico. Direi che è accurata, no?»
Apollo avrebbe anche potuto rifilare a Giacinto una marea di sciocchezze, ma ancora una volta Giacinto pendeva dalle sue labbra e gli credeva. Perché mai avrebbe dovuto mentirgli? Non c’era ragione per cui lo facesse.
L’indice di Apollo corse su una seconda linea, che quasi pareva sfociare dalla precedente e sfilare anch’essa verso il polso.
«Questa è la linea della vita. Non è troppo lunga, ma è marcata. Lo vedi questo?» chiese, puntando il polpastrello su un piccolo salto, dove la linea smetteva di essere tanto incisiva. «È un grande cambiamento. Ma sembra quasi all’inizio della tua vita, come se…»
Apollo si interruppe. Doveva riflettere su ciò che diceva: Giacinto non lo aveva giudicato per quella sua inclinazione esoterica, non poteva spaventarlo ora.
«Come se?» incalzò Giacinto.
Troppo tardi.
«La prima cosa che ho pensato è che pare quasi che ci sia stata un’altra vita prima e che questo salto indichi l’inizio di una nuova», spiegò. «Ti torna qualcosa di simile?»
Giacinto provò a pensarci.
Aveva sperimentato come tutti gioia, dolore, solitudine, separazione. Ma nulla sembrava rappresentare quello che diceva Apollo.
«Magari qualcosa che deve succedere?»
Apollo alzò le spalle.
«O forse qualcosa che ti è già successo prima che nascessi, se credi a cose come la reincarnazione.»
«Tu ci credi?» indagò Giacinto con un piccolo sorriso.
«Non lo so», rispose Apollo. «Dovrei essere scientifico o la mia laurea in medicina varrà nulla, ma la trovo un’idea affascinante e per altro molto romantica. Sai, no? Quando ti trovi con qualcuno che hai la sensazione conoscere da una vita mi piace pensare che magari sia vero.»
Giacinto schiuse le labbra e non poté fare a meno di pensare che Apollo, che il suo modo di fissarlo negli occhi intensamente, gli stessero dicendo che pensava la stessa cosa: che era come se si conoscessero da una vita.
Apollo si schiarì la voce.
«Andiamo avanti.»
Puntò il dito sulla linea che nasceva fra indice e medio. La seguì piano.
«Sei mai stato innamorato, Giacinto?» chiese Apollo, curioso.
«Per davvero? No, mai.»
Preferì evitare di rivelare che per molti anni si era reputato innamorato del ragazzo che disegnava come un mantra; sarebbe stato imbarazzante, data la somiglianza che aveva con Apollo e beh, corrispondeva a dichiararsi.
«Beh, complimenti allora: la tua mano sembra dire che avrai un unico, intenso amore che durerà per tutta la tua vita.»
E Apollo non lo disse mai, se non a sé stesso.
«Spero di essere io», pensò.
 

Avevano lasciato la macchina di Apollo in un parcheggio poco lontano dalla stradina di villette a schiera in cui abitava Giacinto.
A nessuno dei due andava di accogliere l’idea che di lì a poco si sarebbero salutati, mettendo un punto a quel promettente primo appuntamento: avevano riso, avevano scherzato. Sarebbe stato un appuntamento da film se solo avesse fatto abbastanza freddo da costringere Apollo a liberarsi della propria giacca per metterla sulle spalle di Giacinto. Peccato che lui ne indossasse già una.
Apollo portava la propria sotto braccio, quasi la pelle già abbronzata nonostante fosse appena inizio maggio avesse catturato tutto il sole che l’aveva baciata dai suoi primi anni di vita.
Camminavano uno accanto all’altro, Giacinto che ogni tanto deviava la propria traiettoria e si trovava più vicino al fianco di Apollo. O forse sarebbe stato meglio dire che camminavano così vicini l’uno all’altro che deviava traiettoria quando si allontanavano, tornando poi a farsi vicini come se per proseguire avessero bisogno di sentire l’attrazione che insisteva fra le loro braccia, debole ma forte come quella dei poli opposti di due calamite.
«Mia sorella Artemide ha passato tutto il pomeriggio a raccomandarmi di essere impeccabile questa sera», disse Apollo, dopo qualche istante trascorso in silenzio.
Non perché non avessero nulla da dire, non perché non andasse loro di parlare: solo perché il silenzio era solo un altro dei mille aspetti confortevoli, quando erano insieme.
«Come se potessi non esserlo», borbottò Apollo.
Sembravano quasi ubriachi, o senza esagerare: su di giri. Ma forse lo erano, un po’, di felicità. Erano inebriati dalle sorti fin troppo positive di quell’appuntamento e provavano la sensazione che ti scivola addosso e ti avvolge, ti scalda, dopo un’uscita che vorresti non finisse. Quando ti trovi per strada di notte, incamminato sulla strada del ritorno, e ti rendi conto che con la persona accanto a te saresti in grado di qualsiasi cosa, anche scalare la vetta più alta.
Giacinto rise e poggiò le dita sul suo polso dorato. Sentì una scossa.
«Perché era preoccupata?» domandò.
«Vuoi che lo parafrasi o vuoi la versione senza censure?»
«La tua versione della verità andrà bene», rise.
«Beh, lei sostiene che quando tengo davvero a qualcosa, spesso mi comporto da idiota.»
In effetti Giacinto non si sarebbe aspettato tutte le battutine in cui si era scomposto Apollo durante la loro cena. Ci aveva parlato così poco, prima di uscirci, da non poter dire di conoscere il vero lui, non poteva prevederle, ma non gli erano dispiaciute. Avevano anche finito per imitare dei trichechi con i cucchiaini del frappè.
«E tu invece cosa pensi?» indagò Giacinto.
«Che quando tengo davvero a qualcosa sono me stesso.»
Rallentò fino a fermarsi e Giacinto con lui. Si guardarono.
«Mi sono appena dato dell’idiota, in pratica», notò.
Giacinto cercò di trattenersi, temendo che ridere in qualsiasi occasione lo avrebbe fatto sembrare frivolo ai bellissimi occhi di Apollo. Non sapeva però che Apollo sarebbe ricorso ai peggiori stratagemmi pur di sentirlo ridere anche tutta la notte, che si sarebbe incantato di fronte alle sue labbra schiuse sulle file ordinate di denti bianchi, che si sarebbe lasciato abbagliare da quella luce che gli piaceva più di quella del sole.
Era romantico, avrebbe dovuto appuntarsi quel paragone per cavarne fuori qualche cosa, magari il verso di qualche poesia da recitare a Giacinto per impressionarlo.
«Se il mio parere conta qualcosa…» cominciò Giacinto.
«Oh, conta moltissimo!»
Giacinto arrossì.
«Non ti trovo idiota. Ti trovo carino.»
Gli dedicò un sorriso dolce. Così dolce che Apollo si sentì sciogliere. Ma lui era una persona composta, il suo sorriso era suadente anche con due borse sotto gli occhi cinque minuti dopo essersi alzato. E gli piaceva così tanto sentirsi umano e imperfetto di fronte a Giacinto, rendersi conto che le farfalle nello stomaco potevano contagiare anche lui.
«Solo carino?» protestò, un piccolo broncio sul viso. «Se io dovessi parlare di te direi che ti trovo bellissimo!»
Dopo quella sera l’imbarazzo che Giacinto sembrava provare era sparito. O meglio, compariva ancora come purpuree sfumature sulle sue guance, ma non lo portava più a incepparsi, a schiudere le labbra senza poter parlare. Faceva convivere l’indole timida e quella risoluta lì, di fronte ad Apollo.
«Sì, beh, è una cosa che sento spesso», gli fece notare. «Anche se prima di questa sera non l’ho mai sentita dire da chi avrei voluto lo pensasse.»
Erano quasi di fronte al suo vialetto: avevano superato la cassetta delle lettere.
Apollo si voltò piano e portò le mani sui suoi fianchi in un gesto che non turbò Giacinto.
«Stai dicendo che ti piaccio?» domandò.
«Pensavo lo avessi capito», gli rispose, gli occhi verdi da cerbiatto puntati nei suoi.
«Sai, ho un dono naturale anche per capire quando piaccio o non piaccio a qualcuno, o forse mi convinco di piacere a tutti…» Abbassò gli occhi sulle dita di Giacinto sul proprio petto. «Ma temo di dover ammettere che tu sei in grado di scombussolarmi un bel po’.»
«È un complimento?» lo punzecchiò Giacinto.
«Dici che ne ricevi a bizzeffe, pensavo lo avessi capito», lo canzonò.
Sentì il soffio della sua risata contro le labbra.
Apollo si chinò, piano, avvicinando le labbra a quelle del ragazzo stretto fra le sue braccia.
Si fermò ad un soffio dalle sue labbra, perché in effetti la sua bocca aveva incontrato qualcosa. Sì, le dita di Giacinto. Indice, medio, anulare e mignolo erano un muro fra le proprie labbra e quelle del ragazzo.
Lo guardò smarrito.
Era il momento giusto, no?
Subito ricordò le parole di Artemide.
«Non rovinare tutto come un coglione.»
Ecco la versione non parafrasata del suo monito. Apollo non aveva capito cosa significasse fino a quel momento, in cui quelle parole erano state investite del mistico significato «non correre troppo, Apollo.»
Di solito non c’era motivo per lui di preoccuparsene: quando usciva con qualcuno era perché quel qualcuno aveva già una cotta per lui o se la prendeva nell’arco dei primi cinque minuti di appuntamento. Forse anche Artemide si era accorta che Giacinto era diverso; erano gemelli e doveva condividere la parte che come lui gli aveva lanciato una scossa spingendolo ad essere attratto dalla diversità di Giacinto.
Sbatté le palpebre degli occhi celesti e guardò Giacinto.
«Mi sono comportato come un idiota?» esalò, esasperato, sperando di sdrammatizzare.
E davvero non capiva, perché Giacinto gli parve sul punto di ridere.
«No, in realtà speravo che lo facessi.»
Se gli avesse riso in faccia sarebbe stato meglio. Per fortuna il ragazzo proseguì prima che dovesse incalzarlo dando prova di quanto la sua proverbiale perspicacia lo avesse abbandonato.
«Ma se non ti bacio questa sera sarai obbligato a uscire con me di nuovo, no?»
Apollo sorrise.
«Giacinto, non esiste bacio al mondo che mi farebbe smettere di volerti vedere.»
Ne avrebbe voluti mille altri, di quei baci.
«Beh, deve essere speciale.»
«Stai dicendo che con me non sarebbe speciale?» gli chiese. «Ora non è speciale?»
«Sto dicendo che penso tu abbia baciato molte altre persone oltre a me al primo appuntamento, magari davanti al loro vialetto mentre le portavi a casa», rispose. «Magari facendogli lo stesso sorriso che hai fatto a me.»
Lo disse tracciando il contorno delle sue labbra cesellate. Lo stava torturando, maledizione. I suoi occhi tradivano tutto il desiderio di baciarlo.
Beccato.
Aveva indovinato anche la verità sul suo sorriso. Di solito era il colpo finale per far cadere gli spasimanti tra le sue braccia. Letteralmente, perché una volta le ginocchia di una ragazza si erano sciolte come burro al sole e l’aveva dovuta stringere in un caschè un po’ sgangherato, ma molto ad effetto per la situazione.
Apollo alzò una mano in segno di resa.
«D’accordo, d’accordo», confessò. «Cosa vuoi che faccia, quindi?» domandò.
In qualche modo quella sorta di sfida gli suonava piacevole. Coniugava perfettamente la sua proverbiale voglia di vincere e il desiderio bruciante di baciare lo splendido ragazzo che aveva di fronte.
«Non lo so. Non sei bravo in queste cose?» chiese Giacinto. «Direi che basta conquistarmi.»
Poteva permettersi i lussi di chi in fondo era abbastanza coraggioso da poter giocare con il fuoco.
Si divincolò piano dalla presa delle sue braccia, si alzò in punta di piedi e gli baciò una guancia.
«Buona notte, Apollo.»
Apollo si rese conto che Giacinto era molte sue prime volte.
Era la prima volta che qualcuno lo lasciava lì, come l’idiota che secondo Artemide era.
Era la prima volta che veniva rifiutato.
Era la prima volta che sentiva le farfalle nello stomaco per un bacio sulla guancia, che stava cercando di tenere intrappolato sulla pelle con la mano.
E anche se per la prima volta il dolceamaro dubbio di non aver colpito qualcuno lo tradiva, Giacinto era con la schiena contro la porta e le braccia strette al petto.
Si guardarono mentre Apollo sorrideva, a dimostrare tutta la propria risoluzione e si salutarono, scambiandosi qualche altro sguardo.
Giacinto sospirò.
Perché voleva davvero che quel primo bacio fosse speciale, ma negarsi le labbra di Apollo era la più grande delle punizioni che si fosse mai inflitto.




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Mi sono presa una pausa di qualche settimana dalla scrittura, ma non mi sono assolutamente dimenticata di questa storia. Quando il pungolo di aggiornare si è fatto sempre più insistente non ho potuto fare a meno di assecondarlo e così ecco qui il terzo capitolo della fanfiction.
Ne vado molto fiera e spero che piacerà a voi almeno quanto è piaciuto a me scriverlo e riscoprirlo correggendolo dopo diverso tempo dalla stesura.
Mi sono anche dovuta documentare per scriverlo: pur essendo le interpretazioni molto libere e ai fini della trama, ho cercato su internet come funziona la lettura della mano. Mi piace essere accurata.
Sono anche soddisfatta dell'effetto dato dal locale e mi auguro che la descrizione ve lo rievochi come l'ho immaginato. Chissà se esiste un posto del genere da qualche parte...
Ad ogni modo, spero vogliate farmi sapere che cosa ne pensate. Giacinto starà tirando troppo la corda? O forse rimettere Apollo in riga è la scelta migliore?
Vi aspetto a braccia aperte nelle recensioni <3
Alla prossima!
   
 
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