5.
Stalker, o quasi…
«Armin, non credo sia una buona idea», la tua voce è ridotta a un sibilo intimorito, «Introdursi così a scuola, di notte».
«Dobbiamo aiutare Iris», afferma sicuro il ragazzo, ma, se normalmente basterebbe il suono della sua voce a tranquillizzarti, stasera sortisce l’effetto opposto. Armin ha un temperamento decisamente troppo avventato, in più, sei certa ti nasconda qualcosa. È strano ultimamente, schivo, sempre con la scusa pronta. Cosa che non è proprio da lui.
Vorresti chiedergli spiegazioni, lì a bruciapelo, sicuramente lo spiazzeresti al punto da metterlo con le spalle al muro, tuttavia desisti. I corridoi cheti del liceo al calar della sera sono fin troppo spaventosi per anche solo osar respirare, figuriamoci iniziare un interrogatorio.
«Dividiamoci», propone tutt’a un tratto il giovane.
«C-cosa?!», domandi ancora più impaurita di prima, se possibile.
«Ci impiegheremo meno a trovarlo se ci separiamo».
«È troppo pericoloso».
«Il ragazzo ti guarda sott’occhio, «Ti fidi di me?».
«No».
«Perfetto. Io pattuglio il cortile, tu vai ai laboratori». Non ha minimamente calcolato le tue proteste.
Sospiri sconfitta, annuendo, «Ci vediamo al cancello d’ingresso tra un’ora esatta».
«Sincronizziamo gli orologi».
Rotei gli occhi al cielo e Armin ridacchia.
Un ultimo anelito vibra tra le tue labbra, mentre percorri il corridoio nella direzione opposta rispetto alla sua. Sali le scale che portano al primo piano, rasenta al muro, tenendoti più in ombra possibile e aguzzando le orecchie nel tentativo di captare il ben che minimo rumore, il più sottile dei suoni, il più flebile dei respiri. Sobbalzi al cigolio della porta dell’aula di chimica e ti si gela il sangue nelle vene, quando scorgi una sagoma scomparire dietro di essa.
Lo stalker.
Raccogli tutto il coraggio che possiedi e varchi la soglia, quatta quatta, accucciata al pavimento. Strisci fin sotto la cattedra, cellulare alla mano con il registratore attivo e pronto a incastrare quel fetente che sta ricattando Iris, già convinta di conoscerne l’identità; è l’orecchino a cerchio che conservi in tasca a confermartelo: Charlotte.
Passano diversi minuti, ma non vi è nessuna traccia della ragazza, sembra scomparsa. Eppure, non hai sentito i suoi passi allontanarsi. A dirla tutta, non hai sentito proprio alcun passo. Ti affacci oltre i pannelli di legno che racchiudono le gambe metalliche della cattedra. Il laboratorio è deserto.
«Devo essermelo sognato», bisbigli, spegnendo il registratore sul telefono, ma è proprio in quel momento che il fascio di luce del display illumina una figura matronale, appoggiata alla lavagna. Urli terrorizzata quando la sua mano smilza e dalle lunghe falangi si arcigna sulla tua spalla, grido che diventa di dolore nell’istante in cui le sue unghie, simili ad artigli, ti trapassano la carne. Scivoli a terra quando molla la presa, serrando le palpebre dal bruciore.
«Magdaleine», è l’unica parola che trapela dalle sue sottili e ceree labbra, in netta contrapposizione con il liquido scarlatto che le macchia.
Lo senti avvicinarsi con una naturalità disarmante e rimetterti in piedi senza sforzo. Con le dita, che un secondo prima leccava avidamente, ti afferra per il mento, costringendoti a guardarlo, avvolta dall’odore acre del tuo stesso sangue. Ti senti nuda sotto al suo sguardo vermiglio e indagatore, così vivo rispetto alla nuance mandorla del suo incarnato e al castano spento dei suo lunghissimi capelli lisci; ma la cosa che più ti sconcerta è che più le tue iridi si perdono nelle sue, più la paura e l’affanno svaniscono, sostituiti da una travolgente e rassicurante serenità.
A un certo punto l’uomo ruota il tuo volto, esponendo la gola e la giugulare pulsante, «Finalmente ti ho ritrovata», ti sussurra suadente all'orecchio, prima ti conficcare i canini nel tuo fragile collo.
Un’immediata e inaspettata scarica di piacere ti pervade ed una coscienza nuova si risveglia, facendoti pronunciare un nome che neanche sapevi di conoscere, ma che è il morso a ricordarti, «Dimitry».