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Autore: Sognatrice_2000    25/11/2018    1 recensioni
AU-Tutti umani- Ispirato al libro dal titolo omonimo di Tabitha Suzuma-
Fuori, nel mondo, Klaus non si è mai sentito a suo agio.
Gli altri sono tutti estranei, alieni… l’unico con cui può essere se stesso è suo fratello Elijah.
Klaus ed Elijah hanno altri tre fratellini da accudire: Kol, Freya e Rebekah sono la loro ragione di vita e la loro maggiore preoccupazione, da quando il padre violento e alcolizzato è morto e la madre si è trovata un nuovo fidanzato e a casa non c’è mai.
Il tempo passa e solo una cosa ha senso: essere vicini, insieme, legati, forti contro tutto e contro tutti.
Per Elijah, Klaus è il migliore amico. Per Klaus, Elijah è l’unico confidente.
Finché la complicità li trascina in un vortice di sentimenti, verso l’irreparabile.
Qualcosa di meraviglioso e terribile allo stesso tempo, inaspettato ma in qualche modo anche così naturale.
Un sentimento che si rivelerà la loro salvezza e contemporaneamente la loro condanna.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Elijah, Esther, Klaus, Kol Mikaelson, Mikael, Rebekah Mikaelson
Note: AU, Cross-over, OOC | Avvertimenti: Incest, Non-con
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Klaus

 

 

Fisso lo specchio a parete in camera mia. 

Mi vedo chiaramente, ma è come se non fossi lì. L'immagine riflessa è quella di un estraneo. 

Uno che mi somiglia ma che sembra così normale, solido, vivo. 

I capelli sono pettinati con cura, ma il viso è drammaticamente lo stesso di sempre, gli occhi non sono mutati: grandi, azzurri. 

La mia espressione è impassibile, calma, quasi serena. 

Ho un aspetto così assurdamente normale, così spaventosamente ordinario. 

Solo il pallore del viso, i solchi profondi sotto gli occhi  tradiscono le notti insonni, le ore e ore al buio trascorse a fissare un soffitto a me familiare, il letto come una tomba fredda, dove ora sono sdraiato da solo. 

I tranquillanti sono stati ormai cestinati, il rischio di essere ricoverato sventato, ora che ho ricominciato a mangiare e a bere, ora che ho recuperato la voce, ritrovato la maniera di contrarre i muscoli e poi rilassarli, così da potermi muovere, alzare, essere di nuovo autonomo. 

Le cose sono quasi tornate alla normalità e mamma ha smesso di cercare di ingozzarmi a forza, David ha smesso di coprirla con la polizia, ed entrambi sono tornati dall'altra parte della città, dopo aver riportato un po' di ordine in casa e aver finto alla perfezione con i servizi sociali. 

Ma niente è più lo stesso per me, men che mai io.

È ricominciata una certa routine: alzarsi, fare la doccia, vestirsi, fare la spesa, cucinare, pulire la casa, cercare di tenere Freya, Rebekah e Kol il più possibile occupati. 

Loro si aggrappano a me come cuccioli; quasi ogni notte ci ritroviamo tutti e quattro in quello che era il letto di nostra madre. 

Persino Kol è tornato ad essere un bambino spaventato, anche se i suoi valorosi sforzi per aiutarmi e darmi sostegno mi stringono il cuore. 

Mentre siamo tutti rannicchiati sotto il piumone nel grande letto matrimoniale, a volte hanno voglia di parlare; ma per lo più hanno voglia di piangere e io cerco di consolarli più che posso, anche se so che non può bastare, non ci sono parole per quello che è successo.

Durante il giorno c'è talmente tanto da fare: parlare con i loro insegnanti per farli tornare a scuola, andare alle sedute dalla nostra psicologa, farsi vivo con l'assistente sociale, assicurarsi che continuino a lavarsi, mangiare, essere in salute… 

Devo per forza seguire una lista, ricordare a me stesso cosa fare in ogni momento della giornata, quando alzarmi, quando cucinare, quando prepararsi per andare a letto.

Devo suddividere ogni faccenda domestica in piccoli segmenti, altrimenti mi ritrovo in mezzo alla cucina con un pentolino in mano, completamente sopraffatto, perso, senza sapere perché sono lì o quale sia il prossimo passo da compiere. 

Ma qualcosa dentro di me si è spezzato.

Ci sono momenti, durante la giornata, in cui mi blocco all’improvviso e non ho neanche la forza di fare il respiro successivo.

Resto lì immobile, davanti alla cucina, in classe o mentre ascolto Rebekah che legge, con i polmoni che mi si svuotano e non riesco a trovare l’energia per incamerare altra aria.

Se continuo a respirare, devo continuare a vivere e se continuo a vivere, devo continuare a soffrire e proprio non ce la faccio, non così. 

Tento di suddividere la giornata, di vivere un minuto alla volta, superando la prima ora a scuola, la seconda, poi l'intervallo, la terza ora, il pranzo...

A casa trascorro la sera tra faccende domestiche, supervisione dei compiti, cena, mettere a dormire Rebekah e Freya, studiare e dormire. 

Per la prima volta, questa routine infinita non mi pesa. 

Anzi, mi consente di passare da un momento a quello successivo, e se la mente comincia a correre troppo o mi sento sgretolare, posso tentare di riprendermi subito, ripetendo a me stesso: cerca di superare questa giornata... puoi sempre crollare domani. Cerca di superare anche domani, puoi cadere a pezzi dopodomani…  

Comincio frasi che non riesco a terminare, chiedo a Kol di farmi un favore e poi mi dimentico cosa gli ho chiesto. 

Lui tenta di aiutarmi, di prendere in mano la situazione ma io ho paura che possa esagerare, che prima o poi possa crollare anche lui, così lo imploro di rallentare. 

Ma al tempo stesso mi rendo conto che ha bisogno di tenersi occupato, di sentirsi utile, di sentire che ho bisogno di lui.

Da quando è successo, da quando è arrivata la notizia, ogni minuto è diventato un'agonia pura e semplice, come infilare la mano dentro una fornace e contare i secondi sapendo che non avranno mai fine, mentre mi domando come sia possibile sopportarlo anche solo per un attimo e poi un altro, stupito di riuscire, malgrado la tortura, a respirare, a muovermi, anche se so che il dolore non svanirà mai. 

Ma continuo a tenere la mano nella fornace della vita per un'unica ragione: i miei fratelli. 

Ho coperto nostra madre, ho mentito per lei, ho persino spiegato ai miei fratelli quello che dovevano dire prima che arrivassero gli assistenti sociali. 

Ma tutto ciò era quando avevo ancora l'arroganza, la ridicola, vergognosa arroganza di credere che per loro fosse meglio restare con me che essere dati in affidamento.

Ora so che non è così. 

Anche se ho lentamente ripristinato una specie di routine, una sembianza di calma, mi sono trasformato ormai in un automa. 

Fatico a prendermi cura di me stesso, figuriamoci di tre bambini traumatizzati. 

Loro si meritano una casa vera, con una vera famiglia che sappia tenerli uniti e dargli sostegno e conforto. 

Si meritano un nuovo inizio, di avere finalmente mia vita in cui le persone che si prendono cura di loro seguano le norme sociali, in cui le persone amate non finiscano sempre per andarsene, crollare o morire. 

Si meritano molto di più. Da sempre.

Ora ci credo fermamente. 

Mi ci è voluto qualche giorno per convincermene, ma alla fine ho capito di non avere scelta: non c'erano decisioni da prendere, ma solo fatti da accettare. 

Non ho la forza di continuare così, neanche un giorno di più. 

L'unico modo per sopportare questo senso di colpa schiacciante è di convincermi che, per il loro bene, i bambini staranno meglio altrove. 

Non posso ammettere con me stesso che li sto abbandonando anch’io. 

La mia immagine riflessa è immutata. 

Non so di preciso da quanto sono qui in piedi, ma deve essere passato un po' di tempo, perché sento di nuovo molto freddo. 

È il segnale ormai familiare che mi sono bloccato, ho portato a termine un passo e ho dimenticato come compiere la transizione verso quello successivo. 

Ma forse questa volta il ritardo è voluto. 

Il passo successivo è quello più difficile di tutti.

Il vestito che ho comprato per l'occasione è bello, senza essere troppo formale. 

La giacca blu scuro gli dà un tocco di eleganza in più. 

Blu è il colore preferito di Elijah. Era il suo colore preferito. Mi mordo il labbro e il sangue sgorga fuori. 

Piangere, a quanto pare, fa bene ai bambini, non ricordo chi me l'ha detto, ma ormai ho capito che per me non ha più senso, come tutte le altre cose che mi ostino a fare. 

Non c'è niente che possa alleviare il dolore. 

Piangere, ridere, urlare, implorare. 

Niente può più cancellare il passato. 

Niente può più farlo tornare in vita. I morti sono morti.

Elijah avrebbe riso del mio vestito. 

Non mi ha mai visto così in tiro. 

Avrebbe scherzato dicendo che sembro uno che lavora nella City. 

Ma poi sarebbe tornato serio e mi avrebbe detto che mi sta benissimo. 

Avrebbe ridacchiato nel vedere Kol così elegante, l'aria di colpo molto più grande dei suoi tredici anni, ma avrebbe apprezzato la cravatta con i colori accesi della sua squadra di calcio, il suo tocco personale. 

Invece avrebbe avuto più difficoltà a ridere della scelta di Rebekah. 

Credo che vederla nel suo preziosissimo vestito viola da principessa che le abbiamo regalato a Natale lo avrebbe quasi commosso.

Ci è voluto un sacco di tempo, quasi un mese, a causa dell'autopsia, dell'inchiesta e tutto il resto, ma alla fine eccoci qua. 

Nostra madre ha deciso di non venire, quindi ci saremo solo noi quattro nella graziosa chiesa di Millwood Hill, con il suo interno fresco e al riparo dal sole, vuoto, tranquillo, echeggiante. Solo noi quattro e la bara. 

Il Reverendo O’ Connell penserà che Elijah Mikaelson non avesse amici, ma non è così: aveva me, aveva tutti noi... Penserà che non fosse amato, ma lo era eccome, più di quanto non avvenga per la maggior parte delle persone in tutta una vita.

Terminata la breve funzione, torneremo a casa e ci consoleremo a vicenda. 

Poi io salirò su in camera e scriverò le lettere: una a testa, spiegando loro il perché, dicendogli quanto li amo e che mi dispiace moltissimo. 

Rassicurandoli sul fatto che saranno ben accuditi da un'altra famiglia, cercando di convincerli, come ho fatto con me stesso, che staranno molto meglio senza di me, che potranno voltare pagina.

Poi il resto sarà facile, egoista, ma facile. 

Ho pianificato tutto con cura da più di una settimana. Ovviamente non posso restare in casa e permettere che siano i bambini a trovarmi, perciò andrò nel mio rifugio, a Ashmoore Park, il luogo che chiamavo Paradiso e che ho condiviso con Elijah. Solo che stavolta non farò ritorno.

Il coltello da cucina che tengo infilato sotto una pila di fogli nel cassetto della scrivania lo nasconderò sotto il cappotto. Mi stenderò sull'erba umida, fisserò il cielo stellato e poi... So già dove colpire per farla finita in fretta, molto in fretta; come spero sia stato per Elijah. 

Elijah. Il ragazzo che amavo. Che amo ancora. 

Che continuerò ad amare anche una volta conclusa la mia parte in questo mondo, come lui. 

Elijah ha sacrificato la sua vita per impedirmi di finire in prigione. Pensava che mi sarei potuto occupare dei bambini. 

Pensava fossi forte, abbastanza da continuare senza di lui. Pensava di conoscermi. Ma si sbagliava di grosso.

 

 

 

Hai creduto che potessi vivere senza di te, hai creduto che fossi forte abbastanza da poter continuare e prendermi cura della nostra famiglia.

Hai sempre creduto in me, ma te lo giuro, ti deluderò per l’ultima volta.

Perché la verità è che sono un egoista, Elijah, un maldetto egoista che non riesce a stare senza di te.

Non posso esistere in questo mondo senza il tuo amore.

 

 

 

 

Rebekah entra di colpo nella stanza, facendomi sobbalzare. Kol le ha pettinato i lunghi capelli dorati, le ha pulito faccia e mani dopo la colazione. 

Il suo viso da bambina è ancora così dolce e fiducioso che mi si stringe il cuore a guardarla. 

Mi chiedo se, raggiunta la mia età, continuerà ad assomigliarmi. 

Spero che qualcuno in futuro le mostri una foto. 

Spero che qualcuno le faccia sapere quanto sia stata amata, da Elijah, da me, anche se lei non potrà ricordarselo. Dei tre, è quella che ha più probabilità di riprendersi, di dimenticare, e spero per lei che lo faccia. 

Forse, se le consentiranno di tenere almeno una foto, certi dettagli potranno rinfrescarle la memoria. 

Forse ricorderà qualche gioco che facevamo insieme o le voci buffe che mi inventavo per i diversi personaggi delle storie che le leggevo a letto.

Resta sulla porta, incerta se entrare o ritrarsi, evidentemente desiderosa di dirmi qualcosa, ma anche impaurita di farlo.

“Cosa c'è, tesoro mio? Sei bellissima con questo vestito. Pronta per andare?”

Lei mi fissa senza battere ciglio, come per soppesare la mia reazione, poi scuote lentamente la testa, gli occhi grandi le si riempiono di lacrime.

Io mi inginocchio a braccia tese e lei ci si lancia in mezzo, con le piccole mani premute sugli occhi.

“Non voglio... Non voglio andarci! Non voglio! Non voglio dire addio a Elijah!”

La stringo forte, il suo piccolo corpo che singhiozza piano contro il mio, e le bacio la guancia bagnata, le accarezzo i capelli, la faccio dondolare tra le mie braccia. 

“Lo so che non vuoi, Rebekah. Neanche io. Nessuno di noi vuole farlo. Ma è così, dobbiamo per forza dirgli addio. Elijah vuole che venga anche tu e che lo saluti. Ci tiene un sacco. Ti ama talmente tanto, lo sai. Sei la sua bambina preferita al mondo. Sa che ora sei molto triste e arrabbiata, ma spera che un giorno tu possa sentirti meglio.”

I suoi tentativi per trattenere i singhiozzi si fanno meno intensi e tutto il suo corpo si indebolisce a mano a mano che le lacrime aumentano.

“C... cos'altro vuole?”

Cerco disperatamente di inventarmi qualcosa. 

 

 

Che un giorno tu possa perdonarlo. 

Dimenticare il dolore che ti ha inflitto, anche a costo di scordarti di lui. 

Voltare pagina e andare incontro a una vita di inimmaginabili gioie…

 

 

 

“Beh... Gli sono sempre piaciuti i tuoi disegni, ricordi? Sono certo che sarebbe contentissimo se gli facessi qualcosa di tuo. Magari un biglietto con un disegno particolare. Puoi anche scriverci dentro un messaggio, se vuoi, o anche solo il tuo nome. Lo avvolgiamo con della plastica trasparente, così anche se piove non si rovina.”

“Ma se dorme per l'eternità, come farà a trovarlo? O a vederlo?”

Facendo un respiro profondo, chiudo gli occhi. 

Trattenere le lacrime sta diventando sempre più difficile. 

“Non lo so, Rebekah. Non ne ho idea. Ma forse... lo vedrà lo stesso, se ne accorgerà.” La voce mi si spezza in gola, non ho più la forza di continuare. Non so per quanto tempo riuscirò ancora a controllarmi.

“O…okay.” Lei si stacca leggermente da me, con il viso ancora arrossato e rigato di lacrime, ma con un piccolo barlume di speranza negli occhi. “Secondo me lo vedrà.” Dice, come a implorarmi di crederle. “Sì, penso proprio che lo vedrà. Non credi?” 

Annuisco lentamente, mordendomi forte il labbro. 

“Sì, lo penso anch’io."

Rebekah deglutisce piano e tira su con il naso, ma vedo che con la mente è già concentrata sull'opera d'arte che creerà. Si stacca dalle mie braccia e si avvia verso la porta. Poi, come ricordandosi all'improvviso di qualcosa, si gira di nuovo verso di me.

“E tu, allora?”

Sento il corpo irrigidirsi. “Che vuoi dire?”

“E tu, allora?” Ripete. “Cosa gli porti?”

“Oh... magari dei fiori o una cosa così.”

Non so più cos’altro inventarmi per farla contenta.

Mi ritrovo solo a pregare che esca dalla stanza il prima possibile per non vedermi crollare.

Rebekah mi squadra intensamente. 

“Non credo che a Elijah piacerebbe ricevere dei fiori. Credo che da te si aspetti qualcosa di... meglio.”

Girandomi di scatto dall'altra parte, mi avvicino alla finestra e do un'occhiata al cielo senza nuvole, fingendo di controllare se piove o no.

“Perché… perché non ti metti subito a lavorare al biglietto? Io scendo tra un minuto e poi usciamo tutti insieme.”

“Non è giusto!” Grida all'improvviso Rebekah. “Elijah ti ama! Si aspetta qualcosa di speciale anche da te!”

Esce dalla stanza correndo e sento il suono dei suoi passi che si precipitano giù lungo la scala. 

Angosciato, la inseguo fino in fondo al corridoio, ma quando la sento rivolgersi a Kol per chiedergli di aiutarla a trovare i pennarelli, mi tranquillizzo.

Torno in camera, di fronte allo specchio da cui non riesco a staccarmi. 

Se continuo a fissare la mia immagine riflessa, mi convincerò di essere ancora qui, almeno per il momento. Oggi devo essere presente a me stesso, per i miei fratelli, per Elijah. Spegnere l'interruttore almeno per qualche ora. Accettare di percepire il mondo esterno, giusto il tempo del funerale. 

Ma ora che sono a mente fredda, ora che i pensieri riprendono vita, anche il dolore torna ad aumentare e le parole di Rebekah non mi danno tregua. 

Perché si è arrabbiata tanto? Sente forse che mi sono ormai arreso? 

Pensa forse che, dopo la scomparsa di Elijah, non mi importi più di quello che lui avrebbe voluto da noi o per noi?

Mi aggrappo ai lati dello specchio per sostenermi. 

È un terreno scivoloso, una linea di pensiero che non posso permettermi di seguire. 

Rebekah voleva bene a Elijah, ma non cerca di nascondersi dietro qualche anestetico; soffre quanto me, ma riesce ad  andare avanti lo stesso, anche se ha solo sette anni. 

Adesso non pensa a se stessa e al suo dolore, ma a Elijah, a cosa può fare per lui. 

Il minimo che possa fare è pormi anch'io la stessa domanda: se ora Elijah potesse vedermi, cosa vorrebbe da me?

So già la risposta. L'ho sempre saputa. 

Ecco perché ho volutamente evitato di pensarci fino ad ora... 

Guardo gli occhi del ragazzo nello specchio riempirsi di lacrime. 

 

 

No, Elijah. No! Ti prego, ti scongiuro. Non puoi chiedermi una cosa simile. Non ce la farò mai, non senza di te. È troppo. Troppo difficile. Troppo doloroso.

 

 

Il nostro amore era davvero destinato a suscitare tanta infelicità, tanta distruzione e disperazione? 

Era davvero un amore così sbagliato? 

Se io sono qui, non vuole forse dire che ho ancora la possibilità di mantenere in vita il nostro amore? 

Lui ha voluto sacrificarsi per me, per la nostra famiglia. Ecco quello che voleva. 

Ecco la sua scelta, il prezzo che è stato disposto a pagare per consentire a me di continuare a vivere, di rifarmi una vita degna di essere vissuta. 

Se muoio anch'io, il suo sacrificio estremo sarà stato inutile.

Mi chino in avanti così da appoggiare la fronte contro il vetro freddo. 

Chiudo gli occhi e scoppio a piangere, con lacrime silenziose che mi scendono lungo le guance. 

 

 

Elijah, sarei disposto a finire in prigione per te, a morire per te. 

Ma l'unica vera cosa che vorresti da me, non posso dartela. Non posso continuare a vivere.

So cosa avresti voluto per me, Elijah.

Volevi che avessi un futuro, volevi che trovassi la forza necessaria per vivere senza di te.

Che ridessi ancora. Che mi innamorassi ancora. 

Ma senza di te non sarò più capace di ridere, di amare, di vivere.

Non voglio sentire il calore un altro tocco, non voglio conoscere il sapore di un altro bacio. 

Le mie labbra non pronunceranno nessun altro nome. 

Non voglio dare il mio cuore ad uno sconosciuto. 

Non voglio conoscere questa sensazione a meno che non siamo io e te; non voglio dare a qualcun altro la parte migliore di me. 

Non amerò mai più, non comincerò mai più un altro giorno.

 

 “Nik, dobbiamo andare. Faremo tardi!” La voce di Kol mi chiama dall'ingresso. 

Sono tutti lì che mi aspettano, disposti a dire addio, a compiere il primo passo per staccarsi dal passato. 

Mi avvicino lentamente alla scrivania e apro il cassetto. Infilo la mano sotto la pila di fogli e stringo le dita attorno all'impugnatura del coltello. 

Lo tiro fuori, con la lama appuntita che scintilla al sole. 

Me lo infilo sotto la giacca e scendo giù.

Chiudo gli occhi colmi di lacrime, faccio un respiro lungo e profondo e sussurro: “Aspettami, Elijah. Molto presto ci vedremo di nuovo.” 

Mentre usciamo di casa, sono tutti lì che litigano e fanno confusione. 

Rebekah ha perso il fermaglio a forma di farfalla, Kol dice che la cravatta non lo fa respirare, Freya si lamenta che Rebekah ci farà fare tardi con i suoi capricci... Attraversiamo in fila il cancelletto rotto e usciamo fuori in strada, eleganti come non mai. 

Rebekah e Freya vogliono entrambe prendermi per mano. Kol cammina qualche passo più indietro. 

Gli propongo di prendere l'altra mano di Rebekah così possiamo farle fare l'altalena in mezzo a noi. 

Lui accetta, e mentre la solleviamo su in alto, lei ride gioiosa, e quando chiede a gran voce di rifarlo, gli occhi di Kol incrociano il mio sguardo con un sorriso divertito.

Camminiamo in mezzo alla strada mano nella mano, perché il marciapiede è troppo stretto per tutti e quattro. 

Una brezza tiepida ci sfiora il viso, portando il profumo di caprifoglio da un giardino vicino. 

Il sole di mezzogiorno risplende nel cielo azzurro e limpido, la luce scintilla tra le foglie, ricoprendoci di coriandoli d’oro. 

È tutto così bello… ma l’idea di dire addio a questo mondo, l’idea di dire addio ai miei fratelli non è più così spaventosa.

Perché l’unica cosa peggiore della morte è vivere una vita senza Elijah.

Assistere al funerale di Elijah è la cosa più difficile che abbia mai fatto in tutta la mia vita.  

Vedere la persona che amavo di più, più di ogni altra cosa che fosse mai esistita e che sarebbe esistita in futuro, distesa in quella bara, il corpo freddo e immobile, e quel volto che era una volta era stato così vibrante di vita, triste, ridente, imbronciato, sorpreso, imbarazzato, felice, ora disteso in un’immutata espressione di finta serenità, era il peggior sentimento che potessi mai provare, peggio che avere tutto il corpo trapassato da proiettili; i momenti più difficili della mia vita non erano nulla in confronto a quello che stavo passando adesso.

Sono rimasto ad ascoltare il reverendo che diceva che l’universo aveva un disegno, che dietro la sua morte c’era una ragione che noi non potevamo comprendere. 

E questa cosa mi ha fatto incazzare, perché io credo che l’universo non abbia nessun cazzo di disegno, perché io credo che l’universo sia stupido e ingiusto e malvagio, e avrei solo voluto urlare e prenderlo a pugni e fare a pezzi la bara, conficcarmi il legno nella carne così profondamente da non avere più sensibilità nelle dita delle mani.

Invece rimango in silenzio, immobile, serrando i denti più che posso per ricacciare indietro le lacrime.

Riesco ad arrivare alla fine della cerimonia senza crollare,  accarezzo i capelli di Rebekah mentre è in preda ai singhiozzi, guardo i miei fratelli avvicinarsi uno dopo l’altro alla bara aperta per dare il loro ultimo saluto a Elijah, cercando di imprimermi bene i loro volti nella memoria, per conservare quest’ultima immagine.

I miei fratellini, così piccoli e fragili eppure forti, coraggiosi e spaventati e dolcissimi.

So che ce la faranno anche senza di me. Ne sono sicuro. 

Resto a guardarli da lontano, senza avere il coraggio di avvicinarmi.

“Tu non saluti Elijah?” Rebekah si volta a guardarmi all’improvviso, la sua domanda mi coglie di sorpresa.

Scuoto la testa. “Non ne ho bisogno.” 

Non ne ho bisogno, perché tra noi non ci sarà nessun addio, perché presto sarò di nuovo con lui…

Riaccompagno Kol, Freya e Rebekah a casa, salgo le scale e mi chiudo in camera, scrivendo ad ognuno di loro una lettera come avevo pianificato.

Poi scendo di nuovo al piano di sotto. 

Non mi stupisco nel trovarli tutti in salotto seduti sul divano tutti appiccicati, che ridono e piangono parlando di Elijah, tentando in qualche modo di aiutarsi a vicenda a portare questo peso.  

Mi sforzo di non guardarli in faccia, per paura che possano capire le mie intenzioni soltanto guardandomi negli occhi, per paura di cambiare idea se li guardo ancora una volta, se  mi trattengo troppo tempo con loro.

“Dove vai?” Mi chiede Rebekah, il suo sguardo saetta improvvisamente nella mia direzione. 

Anche Kol e Freya smettono di parlare e si voltano verso la porta, guardandomi in attesa di una risposta.

Deglutisco, sforzandomi di fare un debole sorriso. 

“Vado a comprare qualcosa per la cena, il frigorifero è quasi vuoto.”

 

Perdonatemi, vi prego.

Se potete, perdonate il mio egoismo.

 

 

Nessuno sembra sospettare niente.

Kol mi chiede di comprargli un pacco di patatine e Freya gli tira una gomitata nelle costole, rimproverandolo sul fatto che i cibi fritti facciano male.

Annuisco debolmente, reprimendo mio malgrado una risatina tra le lacrime, ma proprio quando sto per voltarmi ed uscire sento qualcosa tirarmi la manica della giacca.

Abbasso gli occhi stupito sulla piccola manina di Rebekah che mi trattiene.

 “Torni presto, non è vero?”

Gli occhi di Rebekah sono fiduciosi e quasi imploranti mentre lo chiede, la sua manina stretta ancora intorno alla mia manica.

Come posso mentirle?

Ricaccio indietro le lacrime, tentando disperatamente di controllare la mia voce. “Certo, Bekah, torno presto.”

Lei mi sorride mostrando i denti, e il mio cuore sprofonda davanti all’innocente fiducia dipinta sul suo viso, al pensiero del dolore che sto per infliggerle.

 

 

 

Perdonami, Rebekah. Perdonami, ti prego. 

 

 

 

Lei lascia la presa, e con un respiro profondo mi volto ed esco dalla stanza, dalla casa senza più guardarmi indietro, senza pensare a quello che sto lasciando, concentrandomi solamente su quello che ritroverò.

Mentre percorro la strada che mi porta fino ad Ashmoore Park mi sento infinitamente leggero, sereno.

La mia mano incontra il freddo metallo della lama del coltello sotto la giacca e sorride, accarezzando la promessa di quella libertà tanto agognata.

La vita non ha mai avuto molto significato per me, ma accanto a Elijah la mia vita smetteva di essere un peso e diventava semplicemente qualcosa di insopportabilmente bello.

Era lui a darmi la forza necessaria per continuare; mi sono risvegliato in ospedale dopo il mio tentato suicidio e dopo quella caduta dalle scale a scuola soltanto perché sapevo che c’era lui ad aspettarmi.

Elijah ha portato via tutto con sé, e questa volta non ho più niente da perdere, non ho più nulla per cui valga la pena restare.

Lui era il mio mondo, era la felicità. Qualcosa che non esisterà più.

Finalmente raggiungo il parco, percorro il viale fino ad arrivare al mio solito spiazzo erboso in mezzo agli alberi, deserto come al solito, lontano dal caos della città, lontano da tutto e da tutti. 

Mi distendo sull’erba e chiudo gli occhi, mentre un sorriso sereno affiora sulle mie labbra.

Sono felice, perché so che lo rivedrò di nuovo.

 

 

 

Mi stai aspettando, Elijah?

Sai, non ho paura di morire; l’unica paura che ho è che tu non ci sarai ad aspettarmi dall’altra parte.

Non so cosa mi aspetta dopo.

L’Inferno?

Il Paradiso?

La pace?

L’oscurità?

Mi basta sapere che tu sarai con me, che ci getteremo insieme tra le fiamme dell’Inferno, oppure chissà, voleremo in alto, tra le nuvole, come gli angeli, tenendoci per mano.

Mi basta sapere che saremo insieme. 

Come è sempre stato. Come sarà sempre.

 

 

 

Posiziono la lama davanti al mio petto, la punta in direzione del cuore, quel cuore che ho sempre creduto di non avere, quel cuore che batteva per una sola persona, la più sbagliata e la più giusta del mondo.

 

Beh, se non avessi un cuore allora questo non farà nulla…

 

Chiudo gli occhi e respiro profondamente, stringendo la presa sul coltello.

 

Elijah, ovunque tu sia, per favore mostrami come essere con te…

 

E immergo la lama nel mio petto senza più esitazione.

Il mio stesso gemito di dolore mi riecheggia nelle orecchie, mentre il sangue comincia a cadere sulle mie mani.

Per un attimo, avrei giurato di aver visto due occhi castani incredibilmente dolci guardarmi con rimprovero.

“Sei uno sciocco, Niklaus. Perché l’hai fatto?”

Sorrido tra le lacrime. “Volevo solo stare di nuovo con te.”

Una sensazione di calore mi invade in tutto il corpo, la sensazione di un bacio leggero che si posa sulla mia fronte portando via tutto il dolore.

E poi, una mano, una mano amorevole mi ha afferrato e mi ha portato via.

  
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