Il contadino ebbe un figlio e il pescatore una figlia.
Nel povero paese calcinato dal sole e lambito dal mare i due
giovani crebbero sani e felici nonostante la miseria e le
privazioni. I campi erano avari e il mare severo. Solo con
sacrificio le due famiglie, che abitavano ai lati opposti
dell'unica strada del paese, riuscirono a crescere i bambini
fino all'adolescenza. Crebbero insieme, uno negli occhi
dell'altra.
Un giorno, di ritorno dalla chiesa, lui si fermò sotto un
vecchio albero altissimo alla cui ombra era stata costruita
una panchina di pietre e calce. Il sole si rifletteva
impietoso sui muri delle case dalle pareti candide e lisce
e dalle porte di legno nero, tutte serrate in quel momento
della giornata. Seduto, attese paziente nel suo vestito
della domenica.
Lei arrivò dopo poco, avvolta dalla luce del sole che faceva
brillare i suoi riccioli neri. Si sedette di fianco a lui e
lo guardò con i suoi profondi occhi scuri in cui era facile
affondare. Lui inspirò il calore del giorno e il profumo della
pelle scura di lei che sapeva di mille cose misteriose.
- Resterai con me? - le chiese.
- Cosa farai per me?
- Pianterò un fico - le rispose indicandole la terra incolta
vicino alla casa di suo padre. Il severo genitore gli aveva
promesso che su quella terra sarebbe sorta la sua casa e che
tra quelle nuove mura avrebbe potuto avere la sua
famiglia.
Il rumore di un motore giunse inopportuno e scoppiettante. Al
centro di una nuvola di polvere gialla c'era un ciclomotore. Si
fermò proprio sotto l'albero davanti alla panchina. Lui
conosceva l'altro, in sella a quel motore rumoroso e
puzzolente: era il ragazzo del paese più vicino, un
grande paese con molta gente, con tante strade e molti
motori. Era il ragazzo che di tanto in tanto arrivava
col suo ciclomotore bianco e comprava del pesce o della
farina. Portava con sé dei soldi. Era scuro di pelle e
riccio di capelli come lui, ma il viso era quello vivace
e sveglio di chi non deve grattare la terra o attendere
il mare per vivere.
- Dài, vieni! Ti porto a vedere il mio paese, dove sono
nato - disse con la sua bella voce squillante. Lei salì
in piedi sul portapacchi di metallo sverniciato, così
leggera che le molle della ruota si mossero appena. Gli
strinse le spalle con le sue mani lunghe e
affusolate.
Lui restò a guardare il vestito a fiori sventolare come
una bandiera in mezzo a una nuvola di polvere gialla
che si allontanava sulla strada dritta e lunga.
Un giorno il lungo serpente nero che si mangiava la strada
di polvere raggiunse il paese e lo attraversò. Con esso nella
taverna giunse il vino nuovo e il telefono. Lui era cresciuto,
diventato più robusto aiutando il padre nei campi. Lei era
diventata la più bella delle ragazze. Di ritorno dalla
chiesa lui si sedette sulla panchina sotto l'albero per
difendersi dal sole cocente. L'aspettava, come sempre. Lei
lo raggiunse dopo un po' e lo guardò, ma non ci fu tempo
per dire niente. L'asfalto aveva portato molti motori con
sé e uno di questi si fermò davanti alla panchina. Era
l'altro, alla guida di una grossa moto cromata che rombava
furiosa. Non disse nulla: lei salì e lo abbracciò mentre
la gonna le scopriva le gambe lisce e snelle. Un vecchio
sandalo consumato le sfuggì e lei gridò cercando di chinarsi
per prenderlo. Ma l'altro le disse di abbandonarli entrambi:
ne avrebbero comprato un paio nuovi una volta giunti al suo
paese. Il motore ruggì alto e volò via. Lui rimase lì a
guardare due sandali sottili sull'asfalto e a scalciare
sassolini coi piedi già sporchi di polvere. Forse così
la stessa polvere avrebbe coperto l'asfalto e tutto
sarebbe tornato come prima.
Quella sera litigò col padre e fece piangere la madre
quando disse che voleva andare a cercare un lavoro
nel paese più grande.
Poco tempo dopo, all'inizio di una mattina già calda e
sotto un cielo azzurro e infinito, uscì di casa col
vestito della festa, un biglietto per la corriera in
una tasca e pochi soldi nell'altra. Con la benedizione
del padre sulle spalle e il dolore della madre nel
cuore, lasciò il suo paese.
Riuscì a trovare presto lavoro come muratore: le sue
spalle si erano allargate molto, le sue braccia erano
forti e le sue gambe sopportavano la fatica. Lavorava
molto e ogni tanto di sabato sera tornava al suo paese
a riabbracciare la madre e il padre. La domenica notte
si svegliava per salire sulla prima corriera per tornare
nel paese più grande che molti avevano cominciato a
chiamare città.
Un sabato tornò a casa a bordo del camion bianco di un
suo amico. Legato sul cassone c'era un fico già alto. Tutti
insieme lo misero nel buco scavato da suo padre e finito il
lavoro fecero una piccola festa. Intorno a quell'albero
sarebbe cresciuta la sua casa.
Nel cuore di una domenica notte stava terminando di
vestirsi chiuso in quella che era sempre stata la sua
stanzetta. Da lì vedeva la strada, l'asfalto che tagliava
in due il suo paese, la casa dove viveva lei. Era cambiato
ancora il vino nella taverna, era arrivata la radio, molte
case avevano il telefono ora ma attraverso quella finestra
tutto gli sembrava come sempre. Case bianche dalle piccole
porte nere, fortini contro il caldo del giorno e freschi
ripari la sera.
Un motore si fermò proprio lì davanti. Con la camicia
bianca in mano si affacciò alla finestra e vide l'auto. Una
bella auto con il tettuccio di tela abbassato che faceva
vedere dentro. Vide lei, il volto che brillava umido alla
luce dei nuovi lampioni sempre accesi di notte, vide le
sue spalle nude, lisce e brune sussultare per i singhiozzi,
vide i riccioli scossi dai tremiti. Sentì una voce dura
rimproverarla, era la voce dell'altro. Era l'altro al
volante: anche lui non era cambiato. Era arrabbiato,
furioso, Si tese verso di lei rannicchiata, e lui
sobbalzò. Ma l'altro raggiunse la maniglia opposta e
aprì lo sportello per farla scendere. La spinse giù,
la cacciò in malo modo, le gridò qualcosa e lei corse
via, corse in casa nel suo bel vestito bianco con le
scarpe alte in mano. Non aveva nemmeno visto il fico.
La settimana dopo tornò a casa sorprendendo tutti e
disse felice a suo padre:
- Costruirò un palazzo ma dovrò stare via a lungo perchè
andrò a lavorare in un posto lontano.
La notte seguente si vestì in silenzio, nascose come
al solito i suoi risparmi nel barattolo del sale così
sua madre avrebbe potuto fingere di non trovarli prima
di pranzo e, prese le sue poche cose, uscì. Ma prima di
andare a prendere la prima corriera del lunedì andò a
vedere il suo albero. Voleva imprimerselo bene negli occhi
per non dimenticarlo, per sapere sempre che tutto il suo
sudore e la sua fatica spesa per costruire le case degli
altri erano semi. Semi che un giorno avrebbe usato per la
sua casa.
Sotto il più grande albero del paese c'era sempre la panchina
all'ombra. Quando anni prima aspettava lei all'uscita dalla chiesa
ne occupava un pezzetto piccolo piccolo. Ora era grande e grosso
e la occupava quasi per metà. Da lì si vedeva il suo fico, i nuovi
muri della sua casa vuota, appena iniziata. Suo padre non aveva mai
speso il denaro che lui aveva risparmiato in tutto quel tempo,
aggiungendo privazioni alle privazioni. Al ritorno dal suo lungo
viaggio, dopo aver costruito un palazzo aveva trovato i muri esterni
della sua casa già fatti. Aveva abbracciato suo padre commosso.
Ma non aveva ancora visto lei. Non osava cercarla, aveva paura di
ciò che avrebbe potuto scoprire e soffrire. Non aveva denaro, motori,
non era bello come l'altro. Aveva solo le sue ruvide mani, il suo
albero di fichi che già dava i primi dolci frutti, e il suo
cuore.
Lei arrivò alla fine, quando dalla chiesa erano ormai usciti
tutti, quando per le strade assolate non camminava più
nessuno. I ricci neri e lunghi mossi dal vento caldo, gli
occhi scuri come pozzi in cui era facile cadere, il viso
segnato da solchi prematuri sulla fronte e sui lati della
bocca, le labbra sfiorite incurvate all'ingiù. La guardò bene,
faticando a capire. Il ventre di lei era gonfio a dismisura,
le sollevava l'abito leggero e inadatto mostrando le gambe
ingrossate, le ginocchia livide, i piedi gonfi con la carne
scavata dai solchi lasciati dai lacci di ciabatte vecchie e
rotte. Le guardò i seni traballanti attraverso la scollatura
quadrata. Quei seni che tante volte aveva immaginato piccoli,
sodi e impertinenti sotto i leggeri vestiti dai colori sgargianti
ora erano gonfi di latte, flaccidi e molli, cascavano non
trattenuti sulla pancia sporgente in modo assurdo e
osceno.
Si sedette accanto a lui: una figura ancora più gonfia,
grottesca, enorme. Non disse niente fino a quando non fu
lui a parlare.
- Quanto tempo ha?
- È appena iniziato l'ultimo mese - disse con un filo di voce.
- È suo?
Lei esitò un po' a rispondere. Poi chinato il capo in avanti
disse sì.
Il tempo passò nel silenzio così pesante che nessuno dei
due osò infrangerlo. Poi passarono due camion carichi di
sabbia e cemento. Il paese seguente si stava ingrandendo. Quando
lui era un ragazzo e stava tanto tempo insieme a lei, perfino nei
sogni, un paese dopo il suo non c'era mai stato. Ma le cose
cambiano, si disse. Si voltò verso di lei e le osservò il ventre
sporgente e pesante, i piedi martoriati e ingigantiti, il seno
penzolante. La figura giovane di lei devastata in quel modo
lo fece soffrire.
- Cosa farai? - gli chiese guardandolo in faccia quando l'eco
dei motori si fu spento.
Non le rispose. Alzò lo sguardo verso i muri bianchi, alle
finestrelle sbarrate, ai tetti piatti, al cielo luminoso e
senza nuvole. Poi si alzò dalla panchina.
Prima di andarsene si voltò verso di lei e le accarezzò il
viso con la punta delle sue dita grosse e ruvide.