Fanfic su attori > Coppia Cumberbatch/Freeman
Ricorda la storia  |       
Autore: Izumi V    12/12/2018    4 recensioni
Il primo capitolo di questa long ha partecipato all'evento "Happy Birthday Ben" indetto dal gruppo facebook "Johnlock is the way... and Freebatch of course!"
Il compleanno imminente di Ben diventa il pretesto per un incontro fuori programma. Non è quella sera che cambierà le cose, ma forse è quella sera che rimetterà in circolo ciò che si era bloccato.
Restano orgogli da calpestare, promesse da mantenere, bugie da smascherare, prima che la verità possa trovare la propria strada.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Benedict Cumberbatch, Martin Freeman
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Ciao a tutti! Questa fic è stata scritta per e ha partecipato all’evento “Happy Birthday Ben” indetto dal gruppo fb “Johnlock is the way… and Freebatch of course!
In realtà è leggermente diversa da quella inviata per l’occasione, ho aggiunto qualche passaggio e qualche dettaglio che la rendesse adatta a diventare il primo capitolo di una long, quale è.
Era davvero da tanto che non scrivevo, e questa è la prima storia che scrivo in questo fandom: inutile dire che senza il gruppo, e le persone meravigliose che ne fanno parte, questo non sarebbe successo.
Quindi, indipendentemente da tutto, grazie ragazze! Siete speciali.
Non mi resta cha augurarvi buona lettura, ricordandovi che ogni critica è sempre ben accetta!
 
 
  
In Between
 
 
Capitolo 1. Felicità residua
 
 
Il telefono vibra nella sua tasca. La fronte si corruga involontariamente, in uno spasmo fugace.
Non ha effettivamente idea di chi possa essere in quel momento.
Lancia una breve occhiata alla moglie, intenta a chiacchierare casualmente con la donna seduta di fianco a lei.
Sfila il cellulare dai pantaloni e il cuore fa un piccolo tuffo nel vuoto.
“Scusatemi.”
 
Se si è preso la briga di scusarsi, è solo perché ci tiene a mantenere una buona apparenza. Non si può certo dire che vada matto per quel genere di situazione. Oh beh, non che le cene con gli amici non gli piacciano. Ma che siano con i suoi amici. Quelli di Sophie non gli sono mai troppo piaciuti: stranamente, tutti quelli con cui lei lo trascina a cena fuori.
Guarda di nuovo il telefono, che ha smesso di vibrare, lasciando come unica traccia di quella chiamata mancata un nome che riempie lo schermo. Che gli riempie la testa.
“Accidenti,” impreca tra sé e sé ad alta voce, in un sospiro che sa di stanchezza e dolore e forse un briciolo di speranza.
Ben inspira forte, assaggiando nelle narici l’aria frizzantina della sera, su quella terrazza scarsamente illuminata in un’atmosfera che vuole essere romantica. Gli occhi color acquamarina, tinti di tristezza, si perdono in lontananza. Può leggere, come se li avesse davanti a sé, i titoli degli articoli online.
 
Chi è davvero patetico, adesso?
 
Perché no, non sono solo le frasette da scoop, quelle che tornano, e tornano, e ritornano ancora.
Sono i suoi occhi blu, che lo cerca(va)no sempre, trovandolo ogni benedetta singola volta.
Sono le sue mani poggiate con finta noncuranza sul suo braccio, sulla sua spalla, sulla sua gamba.
È l’intesa. Quella pazzesca, incredibile, chimica che avevano (avevano? hanno?) insieme. Quella che lo aveva spinto a mollare tutto, prendere un aereo e volare in Nuova Zelanda solo per poterci essere, quando lui avesse girato la sua ultima scena.
È ciò che si sono sempre detti, in faccia o nelle interviste, dichiarazioni che si confondono insieme a tutto il resto. Sottotraccia costante di ogni ricordo.
“Lo adoro.” Ancora quelle poche piccole parole prendono forma da sole, vive, sulle sue belle labbra a forma di cuore.

“Ci adoriamo.”
 
Si passa una mano sul viso, in un gesto stremato. Le lunghe dita affusolate accarezzano le rughe sulla fronte, ultimamente sempre molto (troppo) contratta. Sospira di nuovo.
 
“Soprattutto quando il lavoro mi è piaciuto, amo il momento in cui lo concludo.
Finché non arriva Ben come ragione per cui
non amarlo più.”
 
Sente la sua voce ripetere quella frase una, mille, innumerevoli volte. La dolcezza di quel momento lo travolge come un’onda, lo sommerge, lo fa annaspare.
Prende il telefono e digita il numero. È assurdo il modo in cui un cuore umano può aumentare il proprio ritmo così, in risposta a uno stimolo emotivo. Tu-tum, tu-tum, tu-tum. Lui, poi, è sempre stato emotivo… perché dovrebbe ancora stupirsene? Già. Ma con Martin è così, non puoi stare tranquillo un attimo.
Non fai in tempo a conoscerlo un pochino meglio, a fartelo amico, a scambiarci qualche chiacchiera in più davanti a un tè, mentre lui ti racconta della musica che ama piazzandoti in mezzo qualche battuta graffiante, che ci sei già finito dentro.
Immerso fino al collo.
 
“Pronto.”
“Martin.”
“Ciao Ben.”
“Ho visto la chiamata. Non me l’aspettavo.”
“Sì, già…” – una pausa – “Beh, anch’io non mi aspetto mai un sacco di cose.” E ridacchia, nervoso.
Ben manda giù. Non solo la saliva che ora fa fatica a scendere, non solo il groppo fermo in gola. Deve scacciare un vago, pervasivo, senso di mancanza.
Nostalgia.
“Perché hai chiamato?”
Martin esita, dall’altra parte. E Ben potrebbe (può) immaginarsi ogni frammento di espressione attraversare il suo volto. Sa che si sta passando più volte la lingua sulle labbra.
Oh, se ricorda bene.
“Ben, poss…dobbiamo vederci. Ti prendo solo dieci minuti.”
Non glieli sta chiedendo, quei minuti. Glieli prende e basta.
(Prendili, Martin, sono tuoi.)
“Tra quanto?”
Erano le dieci meno un quarto.
Nemmeno lui stesso si è reso conto che no, non ha neppure per un secondo pensato che quell’incontro non potesse avvenire quella sera stessa. Non ha chiesto “quando”, ma “tra quanto”. E un po’ in quel “quanto” ci affonderebbe. Si lascerebbe sprofondare, piano piano. Proprio come in quel momento, stringendo il telefono tra le dita quasi per paura che possa scappargli via.
“Tra due ore. Kensington?”
“Kensington.”
 
§
 
Riattacca. Sfinito come se avesse corso la maratona. Accidenti se gli è costata fatica, quella telefonata.
In realtà, non ha ben chiaro cosa diamine stia combinando. Che gli è saltato in mente?
E soprattutto, perché se lo sta chiedendo solo adesso, che la frittata è fatta?
È stato più forte di lui. Quel giorno… quel giorno non poteva non dirgli nulla. Non poteva non vederlo, guardare il suo viso pronunciando quelle due insignificanti (forse, ora, vuote) parole.
Si passa una mano nervosa sulla nuca, grattando via un prurito inesistente e, tuttavia, tenace.
Che idiozia. Che immensa, stupida, evitabile idiozia.
Potevano essere giunti a quel punto? Sì, potevano. Oh, se potevano. Si erano impegnati entrambi per arrivare a quello splendido risultato di merda.
“Fanculo,” sibila tra i denti, e “Se solo…” – inizia la solita tiritera nella testa. No. La lista dei “se solo” era fin troppo ampia. Scaccia via con la mano il residuo di pensiero, che torna a rintanarsi nel suo angolo di cervello, lontano dalla coscienza vigile.
Aveva ottenuto i suoi dieci minuti. Quelli si sarebbe fatto bastare.
Erano mesi che non si vedevano faccia a faccia, men che meno parlarsi. Tutte le parole volate tra loro negli ultimi tempi erano state filtrate da quelle fottutissime testate giornalistiche.
Sì, beh, se si vogliono chiamare giornali.
Aveva praticamente speso ogni sua energia per ritrattare quanto detto: per giunta, qualcosa che nemmeno aveva pronunciato. Ma no, la rivista aveva bisogno del suo titolone e – perché no – facciamo passare Mr. Freeman per uno stronzo.
In fondo, è così facile.
Martin è ancora nella stessa posizione tra venti minuti, immerso nelle proprie elucubrazioni.
Seduto al bordo del letto, i gomiti puntati sulle ginocchia, le spalle ricurve sotto il peso del non detto.
Non è mica stupido, sa benissimo come doveva essersi sentito Ben. Aveva reagito come si aspettava che facesse: da persona ferita che fatica a dare un freno alle proprie emozioni.
E a quel pensiero, in realtà, sorride.
Dio, se gli manca.
 
§
 
Ben si concede ancora un attimo. Un momento ancora per sé, ne ha bisogno.
Ascoltare di nuovo la voce di Martin, dritta nel proprio orecchio, solo per lui… l’ha rimestato dentro. Gli sembra di essere tornato all’adolescenza, tanto si sente stupido, ridicolo, e insieme felice, maledettamente felice.
Non ci erano voluti che pochi giorni, per perdonarlo nel proprio cuore; nonché per sentirsi in colpa per quanto aveva detto in risposta.
Una fitta gli attraversa lo stomaco, costringendolo ad appoggiarsi al parapetto della terrazza.
Assurda, totalmente assurda, la sensazione fisica della sua mancanza. In quel preciso istante, percepisce chiaramente che tutto il suo essere non vuole altro che abbracciarlo, stringerlo a sé, perdersi in quell’abbraccio e dimenticare tutto il resto.
Ma non è il momento giusto. Decisamente no.
Si raddrizza, rigido e all’erta come serve che lui sia. E torna dentro.
Sophie gli lancia un’occhiata tra l’interrogativo e l’irritato. Gli sembra forse questo il momento giusto per assentarsi?, sembrano dire le labbra serrate di sua moglie, dipinte da un rossetto bordeaux intenso e lussurioso. In quel momento quasi svanito nella linea sottile assunta dalla bocca innervosita.
Ben le sorride appena, guarda il resto del gruppo, allarga il sorriso, fa una battuta. Funziona, e lo sa. Perché funziona sempre.
Le risate generali danno il segnale di inizio all’ennesima commedia.
 
§
 
Kensington Gardens. Mezzanotte meno un quarto.
Non è stato semplice convincere Sophie della sua voglia di una passeggiata in solitaria. Arrivati a casa, ha dovuto giocare bene le sue carte per spingerla a tornare dai bambini, che l’aspettavano impazienti. Lui sarebbe rientrato presto.
Ben si siede con grazia sulla panchina vicino alla statua di Peter Pan, osservando il Tamigi scorrere sereno davanti a lui. Sono una meraviglia le luci riflesse sull’acqua, appena turbata da una leggera corrente. Ecco, così è perfetto. Così era tutto perfetto.
 
Ricorda bene quella volta che ci era venuto con Martin, tra una ripresa e l’altra.
Volevano bersi un caffè in santa pace. Non che il parco offrisse sempre un buon luogo di fuga, ma quel giorno pioveva. Immensi, infiniti nuvoloni grigio-perla coprivano il cielo, rovesciando una pioggia sottile che avvolgeva la città in un alone un po’ opaco.
Kensington era quasi deserto, e questo a loro andava bene.
Martin teneva l’ombrello, Ben aveva in mano i due bicchieroni di caffè. L’altro continuava a tirargli l’asticella sulla tempia, o a costringerlo ad abbassare la testa perché istintivamente adattava l’ombrello alla propria altezza, apparentemente dimentico dei centimetri di differenza tra i due. Ben aveva sopportato, anche intenerito, fino a che non si era deciso a dirgli qualcosa. Si era voltato verso di lui, sbuffando, impugnando i due caffè come un’arma. Solo allora aveva notato che Martin lo fissava con uno dei suoi sguardi – oh, quegli sguardi – un ghigno appena accennato a un angolo delle labbra. Lo stava facendo apposta. “Volevo vedere quanto ci avresti messo a incazzarti!”
E avevano riso, parecchio.
 
Ben, ora, non può fare a meno di sorridere al ricordo.
Un rumore di passi lo riscuote. E Martin arriva, col suo passo deciso e un po’ scanzonato. Lui scatta in piedi come una molla.
“Ehi.”
“Ehi!” – e si finge sorpreso – “Anche tu qui?”
È rincuorante scoprire come possa essere ancora un perfetto idiota. La sua mimica facciale è qualcosa di esageratamente esilarante.
Ed è strano vederlo in un contesto non formale. Le ultime volte erano state tutte situazioni ufficiali: lì è più facile ignorarsi, o almeno fingere.
Sono sempre troppo dannatamente coscienti l’uno dell’altro.
Martin si schiarisce la gola, prende tempo. Muove qualche passo verso la riva del fiume, ne osserva le acque tranquille. Con lo sguardo fisso in lontananza, mormora: “Come stai, Ben?”
E lui va in tilt, completamente.
Davvero, sono lì per parlare di quello? Perché se Martin gli sta chiedendo come sta, di certo non gli risponderà una cazzata. Quella che ha sempre pronta per le interviste.
Tuttavia, non crede nemmeno che quella sera abbiano tutto il tempo che servirebbe a rispondere alla domanda.
Forse non gli basterebbe una vita. Non finché le cose rimarranno così come sono.
Alla mancata risposta, Martin si volta verso di lui, e un po’ a lui si stringe il cuore.
Gli sembra così fragile, così solo. Alto e sottile si staglia sullo sfondo vegetale del parco.
È un bell’angolino, quello. Riparato, protetto. Per questo a loro piace(va) tanto.
“Non mi rispondi nemmeno?”
“Cosa vuoi che ti dica… bene?”
“No, cretino. Sai che sono stufo di ascoltare cazzate.”
Ma a quel punto Ben si irrita. Gli aveva chiesto di vederlo solo per versargli addosso un po’ di bile? No, grazie.
E com’è suo solito, se gli sale la rabbia non la trattiene. Non è mai stato capace di schermarsi davvero.
“Ma a quanto pare non di dirle,” risponde allora, senza riuscire a guardarlo in faccia.
Lo sente emettere uno sbuffo stanco, a metà tra l’irritato e il canzonatorio. Un po’ come a dirgli che le frecciatine non gli si addicono molto.
“Ancora con quella storia? Ben, cazzo, lo sai meglio di tutti che non avrei mai potuto dire quelle minchiate. ‘Sherlock non è più divertente per me.’ – ma andiamo! Io amo quel lavoro, tutti noi lo amiamo. E…”
Ben sente venirgli meno la sicurezza datagli dall’irritazione.
A sentirgliele dire di persona, senza i filtri e con tutte le imprecazioni tipiche di Martin, la cosa in effetti sembra ancora più ridicola.
E…?
“Serve che vada avanti?”
“Non so cosa tu voglia dire.”
E a quel punto Martin sorride, ed è sincero, e Ben lo osserva con la coda dell’occhio, mentre tenta di non sciogliersi troppo presto davanti a lui. Non può fare a meno di sentire con ogni fibra di sé che quello è il sorriso più bello del mondo.
Martin sorride. E Ben lo adora anche solo per questo.
“Sei davvero un bastardo capriccioso, lo sai vero?” gli domanda a mezza voce, senza riuscire a smettere di ghignare. Ma prosegue: “E… è ciò che ci ha fatti conoscere. Lavorare insieme. Condividere. E tutto quello che è passato nel mezzo.”
L’altro deglutisce una, due, tre volte; o per lo meno ci prova. Poi lo vede dare un’occhiata veloce all’orologio.
“In ogni caso, stasera non sono qui per questo.”
È consolante, per Ben, l’accento che pone su quel “stasera”: in quella sfumatura è racchiusa la promessa di un incontro futuro.
“Ok… dunque…”
È di fretta? Ha davvero tanta fretta di chiudere quel momento senza capo né coda?
Fino a quell’attimo, sono rimasti entrambi immobili nelle rispettive posizioni. Distanti. Martin tracciando linee immaginarie per terra col piede, Ben dondolandosi avanti e indietro sui talloni.
A vederli dall’esterno, probabilmente hanno un’aria molto comica.
Ma ora Martin si sta avvicinando e no, Ben non sa cosa debba fare. L’istinto di abbracciarlo è forte. Affondare il viso contro la sua spalla. Lasciarsi finalmente andare.
“Ben, questa sera non cambia nulla di quello che sta capitando, lo sappiamo entrambi. È tutto troppo complicato, ma… per adesso lasciamocelo alle spalle. Solo per qualche minuto. Solo un pochino.”
Martin si avvicina ancora, schiarendosi la voce; la lingua passa più volte sulle labbra.
Ben ne è incantato.
 
Lo guarda. Lo guarda come se fosse l’ultimo minuto a disposizione della sua vita per guardarlo in quel mondo, ancora una volta. E Martin fa l’errore (meraviglioso errore) di alzare lo sguardo.
È come tra due magneti di polo opposto, e non potrebbe essere altrimenti. Due magneti di polo opposto non possono fare altro che attrarsi a vicenda.
 
Mantieni le distanze, mantieni le distanze.
Pochi centimetri valgono ancora, come distanza?
Ci aveva provato, davvero, a fermarsi prima. Eppure avrebbe giurato che il terreno si fosse inclinato per lasciarlo scivolare pian piano verso di lui. Centro convergente del (suo) mondo.
“Ben,” comincia a dire Martin, osservando, contando, le lunghe ciglia a contornare i suoi occhi color acquamarina, con quella piccola macchiolina dorata nell’occhio destro. Sembra un piccolo satellite del pianeta oscuro che è la sua pupilla.
Oh, cazzo.
 
Ben sente la pressione della sua mano sulla spalla, proprio lì dove voleva che fosse, dove gli mancava che stesse. Come la sua stessa spalla fosse modellata apposta per quella mano.
Si abbassa appena, è un istinto. Così come è un istinto permettere che il proprio sguardo vada a convergere sugli occhi blu che gli stanno scandagliando l’anima. Lo sa che, come sempre, sta guardando la sua macchiolina dorata nell’occhio destro.
E, accidenti, sorride.
 
Non lo fare, non sorridere. Non in quel modo. È il nuovo mantra nella testa di Martin, che sente l’improvvisa urgente necessità di toccare quelle meravigliose labbra.
No, toccare? Voleva dire chiudere, chiudere quella stupida situazione.
Fallo e basta.
La pressione della sua mano aumenta appena, avvicinandoselo ancora di più. La sua voce è poco più di un sussurro all’orecchio dell’altro, che può sentire sul proprio collo l’eco del suo respiro.
Le labbra di Martin sono vicine, tanto da sfiorargli la carne sensibile del lobo.
“Tanti auguri, Ben,” gli sente mormorare.
E trema, dentro trema, per quella voce dolce che ora sta sussurrando tre piccole parole dritte dentro di lui. Ricorda bene la sensazione di quel suono nel petto. Lo aveva accolto nello stesso modo quella volta alla fine delle riprese de Lo Hobbit. Poi si erano raggiunti e abbracciati.
Quella sensazione di pienezza, così vera e così bella, la custodisce ancora nel proprio cuore. Ogni tanto vi si culla, ci si avvolge come in una coperta.
Per questo ora vorrebbe potersi nutrire di quelle parole per sempre, ingoiandole una per una, bevendole direttamente dalle sue labbra. E ogni volta ricominciare da capo.
“Non ci avevo pensato.”
Non mente, è vero. Nelle ultime ore gli era completamente uscito di testa, sebbene ogni suo altro parente e conoscente si stesse impegnando al massimo da tutto il giorno per ricordarglielo ogni benedetto minuto (“Domani è il tuo compleanno! Ci sono cose da preparare, feste da organizzare, persone da invitare” – Fantastico).
Era andato a cena con Sophie e i suoi amici che era ancora il 18 luglio.
Ora era a Kensington Gardens, con Martin, ed era il 19 luglio.
“Grazie, Martin.”
Risponde semplicemente, la voce già profonda si è abbassata quasi di un tono.
Lui è ancora lì, quasi non avesse la forza di allontanarlo di nuovo. Sposta un poco il viso, le labbra non sono più vicine all’orecchio. Ben ne segue il movimento, ipnotizzato.
Ne traccia il contorno con lo sguardo, sono così vicine.
Così.
Vicine.
Sente la presa della mano dell’altro farsi più intensa sulla propria spalla. Vi si sta aggrappando quasi temesse di affondare in acque troppo profonde. Non si rende conto fino all’ultimo che la mano sinistra si è sollevata ad accarezzargli la nuca, insinuandosi appena tra i corti capelli castani che sfiorano il collo. Le dita stringono appena una ciocca sottile.
Intenso il profumo virile di Martin gli pervade le narici, amplificato dagli occhi che si sono chiusi automaticamente. Le proprie dita, eleganti e affusolate, vanno ad aggrapparsi ai suoi fianchi, stringendo forte la stoffa della giacca.
Il respiro di entrambi si fa insistente, si fonde, si perde. A un cenno di avvicinamento da parte di uno, l’altro si allontana. E persistono in questa danza lenta, tutta giocata nello spazio di pochi centimetri. Martin indugia sulle sue labbra; vorrebbe baciarle, leccarle, morderle. Vorrebbe farle sue.
E Ben, anche Ben vorrebbe tante cose. Attende impotente, schiacciato dal desiderio che lo divora.
Entrambi sanno che non succederà. Non quella sera.
La consapevolezza si fa strada piano piano nel loro cuore e nella loro testa, lasciando spazio alla frustrazione. Uno tra i due deve trovare la forza di spezzare quel momento. Martin affonda maggiormente la mano tra i capelli dell’altro, sposta appena la testa di lato, tempia contro tempia.
Si preme forte contro di lui, stringendo i denti.
Si può udire il cuore di entrambi battere all’impazzata.
Ben ascolta, gli occhi ancora sigillati, e sente che anche lì – in quel battito furioso e irregolare – è racchiusa una scintilla di vita, una promessa che vuole essere mantenuta.
Si riscuote a fatica, giusto in tempo per vedere sull’altro la stessa espressione frastornata.
Tuttavia, Martin è più veloce a riprendersi. Si scosta, accenna un sorriso (dolce? amaro? forse entrambe le cose), gli batte piano la mano sulla spalla – sì, è ancora lì, la sua mano – con un movimento leggero, avvolgente e caldo in modo disarmante.
Si schiarisce la gola, la crisi è passata. “Ricordati di esprimere un desiderio, quando soffierai sulle candeline.”
“Perché, funziona?” gli chiede serio, mentre lo osserva voltarsi e allontanarsi, silenzioso come Martin raramente è. Inutile pensare che vorrebbe rincorrerlo e tenerlo lì ancora per un po’.
“Chi può dirlo,” risponde lui, infilando una mano in tasca, senza più girarsi. “Passa una bella giornata, domani,” aggiunge, sollevano la sinistra a mo’ di saluto.
E Ben non può vederlo, quel minuscolo, bellissimo sorriso, che si traccia fugace sul viso segnato dell’altro.
Attende che il suono dei passi si attenui pian piano, come un’eco. Si risiede ancora, sospira. La mano destra si sfrega involontariamente sulla coscia, in un gesto meccanico acquisito per caso, osservando qualcun altro. Per un secondo si chiede se quanto appena successo sia accaduto davvero. Poi di nuovo sorride a se stesso, scosso da nuove scariche di energia. Successo, non successo. Ben alza gli occhi verso Peter Pan, l’eterno fanciullo, come a chiedergli: l’isola-che-non-c’è esiste o non esiste?
Non è importante. Non quella sera.
 
 
  
Let me apologize to begin with
Let me apologize for what I’m about to say
But trying to be genuine was harder than it seemed
And somehow I got caught up in between…
Let me apologize to begin with
Let me apologize for what I’m about to say
But trying to be someone else was harder than it seemed
And somehow I got caught up in between…
Between my pride and my promise
Between my lies and how the truth gets in the way
The things I wanna say to you get lost before they come
The only thing that’s worse than one is none
(In Between, Linkin Park)
 
To be continued
 
 
Note
Grazie per essere arrivati fin qui con la lettura, non posso che esserne onorata.
Qui di seguito la traduzione italiana dello stralcio della canzone:
 
Permettimi di scusarmi, per iniziare
Permettimi di scusarmi per quello che sto per dire
Ma cercare di essere me stesso è stato più difficile di quanto sembrasse
E in qualche modo son rimasto incastrato nel mezzo
Permettimi di scusarmi, per iniziare
Permettimi di scusarmi per quello che sto per dire
Ma cercare di essere qualcun altro è stato più difficile di quanto sembrasse
E in qualche modo son rimasto incastrato nel mezzo
Tra il mio orgoglio e la mia promessa
Tra le mie bugie e come la verità ci si infiltra
Le cose che voglio dirti si perdono prima di arrivare
L’unica cosa peggiore di uno è nessuno
 
 
Alla prossima!
Izumi


 
  
Leggi le 4 recensioni
Ricorda la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su attori > Coppia Cumberbatch/Freeman / Vai alla pagina dell'autore: Izumi V