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Autore: alessandroago_94    18/12/2018    7 recensioni
Isabella è una ragazza come tante altre, senza alcuna pretesa di troppo dalla vita.
Tuttavia, da quando la relazione con il suo ragazzo è entrata in crisi, la felicità ha lasciato spazio alla più profonda tristezza.
Quello che non sa è che, a volte, la vita sa donarci piacevoli sorprese. E l’amore può annidarsi dove neppure lei avrebbe mai creduto di poterlo trovare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo trenta

CAPITOLO TRENTA

 

 

 

 

 

 

 

Che uomo che era George! Non avevo mai avuto alcun dubbio a riguardo, ma durante quella mia esperienza lontana da casa, ebbi modo di averne ogni certezza. Era una persona precisa, che non perdeva mai le staffe e che non appariva mai indecisa o insicura, anzi, aveva quel modo di fare molto signorile e pacato che mi faceva sentire sempre a mio agio.

Giungemmo a Milano giusto in tempo per trovare una camera d’albergo libera e scaricare i bagagli, poi l’ora x sarebbe stata imminente.

Il mio amante gestì benissimo la situazione; mi portò in zona e si affrettò a trovare un albergo vicino, in modo che non avessi dovuto fare troppa strada, e da poterci andare a piedi. In ogni caso, finì per esagerare, siccome entrò in un albergo molto lussuoso e volle a tutti i costi prenotare lì la camera.

“Pago io, però”, gli intimai, sul momento, ma mi mise quasi a tacere. Era tutto offerto da lui. Tacqui per non fare scenate pubbliche, ma mi riservai di legarmela al dito.

Andammo in camera solo a depositare il bagaglio, poi era ora di andare, per me. Quando feci per andarmene, lui mi venne dietro.

“Vengo anch’io”, mi disse, sorridendomi. I suoi sorrisi erano qualcosa di mozzafiato, d’indescrivibile. Li adoravo, e quando li sfoggiava era praticamente impossibile per me dirgli di no. Tuttavia, quella volta non avevo altre possibilità.

“Non sono una bambina, posso farcela da sola”, provai a dirgli.

“Ti prego, lascia solo che ti accompagni fino alla porta del notaio”, chiese, anche con un tono di supplica.

“Se me lo chiedi così, non posso dirti di no… ti amo, George. Ti amo”.

Lasciai fuoriuscire quello che provavo dentro di me, lo lasciai proprio defluire, e in meno di un attimo le mie labbra erano già appiccicate alle sue, e tra noi c’era un nuovo e passionale contatto.

Sciolsi il nostro contatto in fretta, purtroppo non potevo permettermi molti altri tentennamenti, ma ero sicura che da lì ad un’ora sarei stata totalmente libera. Libera di tornare sua, di trascorrere del tempo assieme, senza avere sempre l’ansia che qualcuno ci veda, o ci scopra. Ansia che purtroppo era solo mia, siccome George sembrava non essersi mai fatto così tanti problemi.

Allontanate le nostre labbra, finii per prenderlo a braccetto, e uscimmo assieme dall’albergo; tutto il resto restò poi un qualcosa di più indistinto, anche grazie alla forte tensione e alla curiosità che in fondo provavo, che formava quasi un vorticare di sensazioni contrastanti dentro di me. Mi lasciai quindi accompagnare fino al grande portone che sanciva l’ingresso dell’ambiente notarile che mi stava attendendo.

“Ti aspetto qui, nei dintorni. Gironzolo un po’”, affermò Piergiorgio, ed io mi limitai a fargli un cenno di assenso.

Non avrei voluto che se ne stesse lì ad attendermi, in un’altra condizione, ed anzi avrei tanto voluto invitarlo ad andare a fare ciò che voleva, purché non si desse pena per me, ma ben sapevo che ogni mia parola sarebbe stata inutile, siccome era inamovibile nelle sue decisioni.

Prima di suonare al campanello, affinché mi aprissero dall’interno, tornò a prendermi con delicatezza per un braccio, e a farmi volgere verso di lui, per scoccarmi un bacetto casto sulla guancia.

“Quando uscirai di qui, tutto sarà come prima”, mi spiegò in maniera criptica, e mi lasciò al mio destino. Lo vidi mentre passeggiava poco distante, piano e lentamente, guardandosi attorno come a volersi studiare ciò che lo circondava, quando dopo aver suonato il campanello il portone fece scattare la sua serratura, ed io potei entrare.

A malincuore richiusi la porta dietro di me. Fui ammessa in una sorta di anticamera, una saletta ben arredata con mobili ricercati, e il pavimento in marmo che profumava di pulito.

Una poltroncina rivestita di velluto sembrava attendermi, ma non mi azzardai a sedermi. Non avevo idea se quell’oggetto fosse stato messo lì appositamente per accogliere i sederi di chi gli passava di fianco, o magari fosse anch’esso solo qualcosa da osservare, come il resto della stanzetta.

Ero sola, e per qualche istante fui tentata di aprire di nuovo il portone dall’interno, siccome i tasti erano presenti anche nell’anticamera, a suo fianco e incastonati nel muro, e richiamare George, che immaginavo fosse ancora nelle immediate vicinanze, ma per fortuna non fu concesso altro tempo alla mia mente per tentare di rielaborare meglio una qualche sconveniente strategia di quel genere, poiché la porta interna, anch’essa di legno lucido, che divideva l’ambiente in cui ero stata lasciata entrare da un altro più interno, verosimilmente lo studio del notaio, si aprì, pianissimo.

Si affacciò un uomo abbastanza anziano, che mi sorrise apertamente e con fare accomodante.

“La signorina Bolognesi?”, mi domandò.

“Sì”, affermai.

“Prego, si accomodi. Venga pure avanti”, m’invitò, scostandosi dalla porta aperta.

Seguii il suo invito, naturalmente. Mi ritrovai nel suo studio, come mi aspettavo, e mentre il signore anziano che mi aveva accolto andava a posizionarsi dietro la sua grande scrivania intarsiata, che sembrava quasi una cattedra per via del suo aspetto piuttosto possente, potei constatare che non ero sola; c’era, infatti, anche un’altra donna, probabilmente dell’età di mia madre, ad occhio e croce.

L’uomo si allungò sulla sua scrivania, e, sempre in piedi, mi fece cenno di avvicinarmi, siccome una sedia era stata preparata apposta per me proprio a fianco dell’altra donna. Prima di potermi sedere, il notaio mi porse una mano e strinse la mia.

“Buon pomeriggio. Sa perché siamo qui, e la ringrazio per aver accolto il messaggio della lettera inviatale, seppur le sia giunta tra le mani con un bel po’ di ritardo. Mi scuso molto per il disguido, e la ringrazio per non essersi appellata a un buon senso che, in questo caso, non era del tutto infondato”.

Mi aveva parlato con un sorrisetto sul viso. Un sorriso che era sghembo, non bello e puro come quello del mio George. Più di circostanza.

“L’importante è che io sia qui, il resto è già acqua passata”, affermai, a mia volta accomodante, sciogliendo anche la leggera stretta di mano.

Mi sedetti, a quel punto, e lo fece in fretta anche il mio interlocutore.

“Prima di tutto, vorrei porgervi di cuore le mie più sincere e sentite condoglianze”, riprese a dire l’uomo, rivolgendosi a entrambe.

E allora tornai a guardare la signora che era seduta a mio fianco; aveva un viso rotondo, la pelle pallida, ed era vestita con abiti larghi e forse troppo robusti per quell’estate così torrida. Era ben pasciuta, anzi, si poteva definire in carne.

Anche lei, all’improvviso, mi guardò, e i nostri sguardi s’incrociarono, ma mentre io le rivolgevo un’occhiata che non aveva alcunché di astioso, ella me ne dedicò una fredda e fiammante. Per un attimo, potei scorgerci un pizzico d’odio, come una scintilla, in quelle iridi azzurre. Chi era, quella persona, e perché era lì con me, dalla mia stessa parte del tavolo?

“La ringrazio molto”, mi ridussi infine a dire, qualche secondo dopo che il notaio aveva concluso quel che aveva accennato con fare molto professionale e molto poco sentito.

La donna a mio fianco ringraziò anch’essa, dopo di me, ma non appena la udii parlare, mi accorsi che aveva un accento strano… un accento da straniera. E allora mi fu tutto più chiaro. Il cuore tornò ad aumentare i suoi battiti, siccome si era quietato da quando mi ero trovata al cospetto del cortese notaio, quando compresi che dovevo avere a mio fianco quella che era stata la compagna di vita di mio padre, dopo che aveva lasciato mia madre.

“Bene, andiamo al dunque. Siamo qui riuniti per la lettura di questo testamento olografo, e cioè il testo che il signor Vittorio Bolognesi, nato a Ferrara il quindici agosto del 1950, ha scritto di suo pugno, ed ha consegnato a me, affinché lo custodissi fino a dopo le sue esequie”.

Mentre parlava, il notaio frugava tra le sue carte, con fare sapiente e allo stesso tempo concentrato ed assorto. Io non sapevo neppure di cosa fosse morto mio padre, e anche se molte delle mie domande non avevano trovato risposta, mi rendevo conto che non potevo porgerle in quel luogo e in quel momento, altrimenti chissà che figura ci avrei fatto.

“Il signor Bolognesi, in questo preciso testamento”, e così dicendo il notaio impugnò tra le sue dita sottili e pelose un lungo foglio scritto a mano, ormai ben dispiegato di fronte ai suoi occhi, “ha citato la moglie e la figlia avuta dal suo primo matrimonio. Persone che mi trovo di fronte, giusto?”.

La signora consegnò con prontezza la sua carta d’identità, ed io, notando che l’uomo la controllava, feci altrettanto.

“Perfetto. Ci siete, e siete proprio voi, quindi posso continuare a procedere”, affermò, sorridendoci di nuovo in modo blando e tranquillo. Poi, cominciò ad affrontare la lettura del testamento.

Un sacco di parole, quelle che evidentemente mio padre si era divertito a scrivere. Nessun accenno a nulla in particolare.

In quelle righe che mi furono lette, e che a un certo punto cominciarono a fiaccare la mia attenzione, si parlava di come aveva deciso di distribuire i suoi beni materiali, siccome ormai aveva scoperto di essere stato colpito da un male incurabile, che non veniva specificato, e quindi quelle erano da considerarsi le sue ultime volontà. Mai un accenno neppure al lunghissimo periodo di tempo in cui eravamo stati divisi, in cui tra noi due, padre e figlia, non c’era mai stato alcun contatto.

Io, dopo solo qualche manciata di secondi, ero più che sicura che il patrimonio ammontasse a niente. Non avevo idea di che persona fosse diventata il mio genitore, e pure se avesse avuto una casa accogliente e un buon stipendio, negli ultimi anni. Erano tanti gli interrogativi che continuavano a frullarmi per la mente, ma che non potevo né volevo esprimere.

Presto, anche troppo, giunse la parte riguardante la spartizione dei beni, e l’ultima sua volontà; e lì cominciai ad osservare la signora a mio fianco mentre gongolava.

“Alla signora Viviana Maikowsky, mia seconda moglie, lascio il nostro appartamento, con tutto l’arredamento incluso, la nostra cagnolina e tutto quello che ha riguardato la nostra vita coniugale”, sancì il testamento, tramite la voce sicura ed esperta del notaio. La signora gonfiò il petto, fiera, in attesa di ascoltare altro.

Provai un brivido di nervosismo, sulla mia pelle, e giurai a me stessa che se sarebbero saltati fuori dei dettagli umilianti rivolti nei miei confronti, o in quelli di mia madre, non sarebbe finita lì, in quella sede.

“A riguardo di mia figlia, la signorina Isabella Bolognesi”, e dopo aver letto il mio nome il notaio mi rifilò un’occhiatina da sotto le lenti degli occhiali, la testa ancora curva sul foglio, prima di riprendere a parlare con chiarezza, “a lei lascio il mio intero patrimonio economico, che ammonta…”.

Sospirai.

Chiusi gli occhi, nervosa; mi aspettavo la sorpresina, magari una caterva di debiti nascosti pronti a balzarmi addosso.

Per un’infinitesimale frazione di secondo, il mondo parve fermarsi attorno a me, e socchiusi gli occhi, pronta a tutto, proprio quando, però, la signora a mio fianco diventava anche lei rigida, e smetteva di gongolare.

“…attorno ai seicentomila euro”.

Spalancai gli occhi, e non seppi trattenermi.

“Seicentomila euro di debiti?”, domandai, senza poter credere all’idiozia che avevo appena udito.

Il notaio alzò di nuovo gli occhi dallo scritto, e mi sorrise, bonario.

“Non so a cosa allude, signorina. Qui si parla di seicentomila euro, attivi e depositati su un preciso conto bancario, se mi lascia proseguire. Poi le consegnerò tutte le carte che le serviranno per fare le sue verifiche, e per portare avanti la sua causa e i suoi diritti. Non si parla, tuttavia, di debiti d’alcuna sorta”, mi rispose, ragionevole.

“Mio marito lavorava onestamente. Negli ultimi anni era riuscito a mettere da parte una discreta somma di denaro, abbastanza cospicua, e in seguito a dei fortunati investimenti, è riuscito quasi a triplicarla. Non aveva debiti, né era un ladro”, parlò per la prima volta la seconda moglie di mio padre, in un italiano abbastanza corretto e fluente. Sembrò specificare solo per me, d’altronde ero stata io a sollevare qualche granello di polvere con il mio scarso tatto, e mi riservò un altro sguardo astioso.

Stavo per ribattere, ma il notaio alzò le mani, per metterci tacitamente in silenzio.

“Qualunque siano i vostri dubbi, questa non è l’appropriata sede per risolverli, e fare chiarezza. Qui siamo riuniti per la lettura del testamento, scritto dal defunto signor Bolognesi, e nulla di più. Nessun dibattito o discussione possono essere inclusi”, sancì, con fermezza.

Da parte mia, annuii, e mi limitai a non tornare a guardare chi mi stava seduta a fianco.

“Ebbene, il testamento si conclude così. I soldi lasciati a lei, signorina Bolognesi, sono nel conto di suo padre, di cui potrà ricevere le coordinate bancarie per sbloccarlo, una volta che saranno concluse le pratiche burocratiche”, tornò a dire il notaio, senza lasciare spazio a possibili altre discussioni tra noi due. Era molto esperto e scaltro, sapeva il fatto suo.

Quando l’altra donna presente fece per dire qualcosa, tornò di nuovo a schermarsi.

“No, no, signora, per favore, non faccia così e non complichi le cose. Se c’è qualche dubbio, o qualcosa che non va, potrà appellarsi ad altre figure professionali, che l’aiuteranno a far chiarezza sulla faccenda e dichiareranno quali sono i vostri diritti, e quali no. Io mi sono limitato a fare il mio lavoro, al momento non posso e non sono tenuto a fare altro”, ritornò ad affermare il notaio, sempre risoluto.

L’uomo ci consegnò poi delle carte e dei documenti riguardanti la lettura del testamento, e ciò che esso sanciva, con tanto di una copia a testa, una fotocopia naturalmente, siccome l’originale l’avrebbe custodita lui, in attesa dell’accettazione del testamento.

Da parte mia, ancora a dir poco incredula, firmai i fogli che mi vennero posti, e pagai in contanti la somma richiesta dal notaio per quella lettura testamentaria. Cosa che però non fece di buon grado la novella vedova, che si agitava sulla sua sedia imbottita e sembrava su tutte le furie. Firmò in qua e in là, poi con stizza lasciò tutto sul tavolo ed uscì dalla stanza, salutando a malapena il padrone di casa.

“Mi sembra che non l’abbia presa tanto bene”, osservai, quasi tra me, quando se andò chiudendo la porta dietro di sé, con eccessiva foga.

“Oh, capirà. Lei è la figlia del defunto, ha dei precisi diritti che la legge italiana le garantisce, e nessuno può prevaricarli. Se ne farà una ragione! Ah, sapesse quanti casi di questo genere vedo quasi giornalmente…”.

Di poche parole, e con un sospiro finale, il notaio concluse il suo breve e rassegnato discorso, ed agguantò le mie carte, tenendosi per lui quelle che doveva tenere, ammucchiandole e sistemandole poi con attenzione. Io presi il mio piccolo plico.

Salutai, e mi congedai, accompagnata alla prima porta dal cortese signore, che mi aprì dall’interno anche quella d’ingresso, con molta cortesia. Lo spauracchio era finito, ed era ora che tornassi dal mio Piergiorgio, a riflettere sull’accaduto, e magari a farmi aiutare da lui a comprendere meglio e a verificare ciò che mi era stato consegnato e detto.

Non feci però in tempo a uscire in strada e a richiudere il portone d’ingresso di legno dietro di me che la moglie straniera di mio padre mi piombò addosso. E pensare che non mi ero neppure accorta che era rimasta lì a fianco dell’uscio, quasi acquattata come una belva assetata di carne fresca, pronta a balzarmi addosso al momento ritenuto più opportuno dal suo istinto.

“Non finisce qui”, mi disse, puntandomi un dito contro, quando io invece ormai mi aspettavo che fosse finita così. Non mi aspettavo, infatti, neppure che mi avesse atteso con quella perfidia.

“Abbassi immediatamente quel dito”, riuscii a mormorare, turbata da un tale ed aggressivo comportamento.

“Farò valutare il testamento e la sua autenticità, e consulterò un avvocato. Se sarà tutto a posto, firmerò che accetto il suo verdetto, altrimenti ti porto in tribunale, bambina”, quasi esclamò, rabbiosa.

Sapeva esprimersi bene in italiano, anzi, praticamente alla perfezione, sinonimo del fatto che doveva risiedere ormai da tempo nel nostro Paese, e la stizza che provava la rendeva molto chiara nell’esprimersi, fin troppo, addirittura.

“La smetta di importunarmi, e faccia ciò che ritiene più appropriato”, le risposi, più tranquilla. Ma la signora era schiumante di ira, il volto era ormai diventato di un rosso acceso, per via dell’eccessivo nervosismo provato sul momento.

Parve sul punto di tornare ad aggiungere qualcos’altro, o di voler perdurare nel suo losco additamento, ma i suoi occhi saettarono in una direzione che era contraria al mio viso. Mi volsi all’indietro, istintivamente, e mi ritrovai per fortuna il mio amante, che si era portato alle mie spalle.

“C’è qualche problema, Isa?”, mi chiese subito George, che mi aveva appena raggiunto, con lo sguardo fisso sulla mia ipotetica avversaria.

“No, no. Nessuno”, cercai di mantenere la calma.

“Allora, possiamo andarcene subito. Buona serata, signora”, disse Piergiorgio, prendendomi poi a braccetto e allontanandomi dalla donna agguerrita.

La vedova, per fortuna, a quel punto si scoraggiò, e si allontanò in senso opposto al nostro, senza aggiungere null’altro. Solo a quel punto dovetti affrontare le sue preoccupazioni.

“Ma cosa voleva quella?”, mi domandò, infatti, con molta serietà ed un pizzico di preoccupazione a turbare il suo tono di voce, sempre limpido, di solito.

“Cosa ne so”, borbottai senza aggiungere altro, ben conoscendo la sua inclinazione a preoccuparsi. Io non volevo fasciarmi la testa per quella tizia sicuramente un po’ fuori di testa, da come aveva reagito e da come mi aveva atteso all’uscita del locale, e non volevo che George si preoccupasse per me, anche per quella cosetta da nulla.

“E pensare che mi sembrava molto arrabbiata con te”, tornò infatti a dire, prendendomi poi a braccetto, mentre ci muovevamo verso l’albergo dove avevamo prenotato la stanza, “ma, piuttosto, raccontami com’è andata, se ti va”.

Vuotai il sacco in meno di un baleno. Lui mi ascoltò, lasciandomi parlare senza mai interrompermi.

Con attenzione, andai anche a tastare i fogli che avevo preso con me poco prima, riposti nella mia borsa.

“Be’, ti è andata bene, a quanto pare tuo padre ti ha lasciato una grande cifra. E nulla a tua madre?”, notò, quand’ebbi concluso la brevissima spiegazione. Scossi il capo con vigore.

“No, lei in ogni caso non voleva niente, quindi va bene così, nel suo caso, a meno che non abbia cambiato idea all’improvviso”.

“Quell’altra donna che è uscita prima di te, però, sembrava davvero alterata”, tornò alla carica, curioso come non mai.

“Dio mio, quella è la novella vedova, la seconda moglie di mio padre. Con lei ha vissuto per...”, feci un rapido conteggio nella mia mente, gli occhi per un attimo rivolti verso il cielo sereno che mi sovrastava, ristretto tra i tetti degli alti edifici che mi circondavano, “almeno quindici anni. Non l’ha presa bene che il maritino mi ha lasciato tutto il suo denaro, anche se ancora non sono disposta a crederci, fino in fondo. Mi sembra tutta una trappola”.

“E a lei cos’è toccato?”.

“Oh, l’appartamento dove hanno vissuto fino alla sua morte, completo di arredamento e cagnolino da compagnia”.

“Quindi ha avuto la sua parte. Non credo che possa metterti i bastoni tra le ruote, sai?”, tornò a osservare George, pensieroso.

“Lo credo anche io! Ma non dobbiamo preoccuparci di quella donna, vedrai che le passerà in fretta il nervosismo”, riconobbi.

Giungemmo davanti all’hotel, e Piergiorgio mi rivolse un’occhiata interrogativa. Mi stava tacitamente chiedendo quello che volevo fare, e cioè se ero desiderosa di rientrare e riposare, oppure se volevo continuare la calma camminata.

Scelsi la prima opzione. Ero molto stanca e provata.

“Rientriamo, sono sfinita”, espressi a parole i miei pensieri.

Piergiorgio non fece una piega, e sempre a braccetto mi accompagnò dentro all’edificio. Il personale ci osservava, mentre dalla hall ci muovevamo verso la nostra stanza, le chiavi scintillanti tra le mie dita. Mi venne da chiedermi cosa stessero pensando quelle persone; chissà come ci vedevano, se avevano capito che noi due eravamo due innamorati, o se invece credevano che fossimo un padre e una figlia molto affettuosi… chissà.

Restava il fatto che la scelta della stanza lasciava poco margine di dubbio, siccome avevamo prenotato una camera dotata di letto matrimoniale.

Una volta al suo interno, avvolti dall’odore di pulito e da uno splendore che andava ben oltre quello che avevamo visto presso la bettola di Vincenzo, dove avevamo trascorso la nostra prima notte di passione, mi lasciai cadere sul letto, spossata. George, in abiti formali come suo solito, si precipitò a sedersi a mio fianco, allungandosi poi sul soffice giaciglio, stando attento a non sfiorarlo con le scarpe.

“Hai visto? Alla fine è andato tutto come doveva andare”, esclamò con tono sollevato.

“E come doveva andare?”, lo interloquii, retoricamente.

“Così com’è andata, no? Va benissimo”.

“Ancora non ci credo”, affermai, dopo un minuto abbondante di silenzio.

“Devi crederci, invece”.

Mentre mi diceva così, il mio uomo esaminava le carte che mi erano state consegnate, dopo averle estratte con delicatezza dalla mia borsa. Lo lasciai tranquillamente fare, d’altronde desideravo fargliele leggere e analizzare, tanto valeva che si fosse servito da solo.

“Qui è molto chiara, la faccenda! Vedrai che non riscontrerai problemi di alcun genere”, aggiunse, dopo una breve lettura.

“Questo vuol dire che sono ricca, in effetti”, dissi, riflettendo sulla cifra importante che mi era stata lasciata, e sulla quale aleggiava l’incognita di come avesse realmente fatto ad essere accumulata.

Ero sempre stata convinta che mio padre fosse uno dei tanti abitanti delle case popolari di Milano, sempre in difficoltà, e invece si era rivelato qualcuno che non avevo conosciuto, quando ero bambina. Era sempre stato un uomo losco, pigro e tendente alla violenza e all’apatia.

Questo era come lo ricordavo, ma probabilmente, e a quanto pareva, non avevo mai capito fino in fondo le sue reali potenzialità. A quel punto, tuttavia, poco importava, poiché i giochi erano fatti.

“Non pensare a queste cose”, sancì amabilmente il mio saggio interlocutore.

“Come facevi a sapere che tutto si sarebbe risolto per il meglio?”, gli chiesi.

La mia era una domanda un pochino ironica e provocatoria, siccome sapevo che non aveva la sfera magica in grado di condizionare il corso degli eventi, tuttavia era sempre stato fin troppo sicuro sul fatto che tutto sarebbe andato a finire bene.

“Perché ho pregato, ho pregato per te”.

Non mi aspettavo una risposta tanto seria e profonda, e tirai su la testa dal cuscino, un po’ stupita.

“Ho pregato affinché andasse tutto alla perfezione e nel miglior modo possibile”, ribadì di nuovo. I nostri occhi si incontrarono, fondendosi in un lungo e complesso sguardo ricambiato e sostenuto da entrambe le parti.

“Preghi… anche per me?”, sussurrai, ancora stupita. Non ero una persona credente, e non mi ritenevo affatto tale. Non ricordavo neppure le preghiere più elementari. Di sicuro, però, non mi aspettavo di essere così tanto meritevole, e che qualcuno rivolgesse preghiere per ottenere sconti delle mie ipotetiche pene.

“Certo che lo faccio”, mi spiegò, “e chiedo sempre che tutti i dispiaceri che sono riservati a te vengano girati a me. Odio vederti soffire”.

Mi commossi enormemente, e afferrai le sue mani, ponendole tra le mie.

“Oh, George, quanto sei dolce! Davvero, anche io sto male, se ti vedo soffrire, quindi a ciascuno le sue pene preparate dal destino, va bene?”.

Gli sorrisi, con gli occhi umidi. Piergiorgio era un uomo così tanto in grado di amare che era giunto a parlarmi di argomenti che andavano ben oltre le mie limitate ed alquanto egoiste capacità intellettive.

Personalmente, non avrei mai compiuto un tale pensiero rivolto a qualcun altro. Mi stava quindi offrendo una piccola, ma allo stesso tempo grandissima, lezione d’amore per il prossimo. Dovevo essere fiera di avere un uomo così a mio fianco. Così buono, così puro. Inalterato, nonostante le migliaia di esperienze diverse e il tempo che scorreva inesorabile anche per lui.

Non mi rispose, né accennò nulla con il capo; seppi solo che ci ritrovammo avvinghiati sul letto, i nostri corpi di nuovo pronti a sovrapporsi, per l’ennesima volta, e a fondersi. Fintanto che sarebbe stato così, il nostro idillio sarebbe continuato.

Lasciai che mi svestisse, ed io feci altrettanto con lui, e poi, senza più aggiungere altro, tornammo a fare l’amore, dimenticandoci di tutto e di tutti. Tra le sue braccia, mi sentivo sollevata, soddisfatta e potente, come se fossi stata la regina del mondo intero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Vi aspettavate tutto questo? A riguardo del testamento, intendo ^^

Vediamo come va a finire… la signora sembra alquanto arrabbiata… xD

Scusate il ritardo, ma tra neve e quant’altro alla fine non ho aggiornato xD ancora scusa, a tutti.

   
 
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