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Autore: lineamentifissi    18/12/2018    2 recensioni
"Alex aveva imparato a convivere con il silenzio, e con questo aveva modellato la sua maschera, così aderente al suo viso da farle quasi dimenticare quale fosse la verità. Anche adesso, che di anni ne aveva 28, la maschera continuava ad essere una parte integrante di lei, che sollevava soltanto lontano da occhi indiscreti, da occhi vuoti come quelli di sua madre e da occhi violenti come quelli del Generale: persino allo specchio, davanti ai suoi stessi occhi, a volte dimenticava cosa stesse guardando"
Oppure, quattro volte in cui Alex Di Nardo ha indossato una maschera, e una in cui non ne ha avuto bisogno.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Rosaria Martone
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Maschere
Quattro volte in cui Alex Di Nardo ha indossato una maschera, e una in cui non ne ha avuto bisogno
 

1.
Alex Di Nardo aveva 15 anni quando capì per la prima volta che le piacevano le ragazze. Non era stato un grande sconvolgimento emotivo: se avesse voluto essere onesta con se stessa, avrebbe dovuto dire che lo sospettava da ben prima di averne la conferma, ed innamorarsi della sua migliore amica (rigorosamente eterosessuale, come il più ovvio dei cliché) era stato soltanto l'ennesimo indizio. E Alex, che sognava di diventare una poliziotta, sapeva bene che due indizi potevano essere una coincidenza, ma tre facevano di certo una prova.
Era sempre stata una ragazza sveglia, e non ci aveva messo molto a collegare tutte le evidenze - il suo disinteresse verso i ragazzi, tutte le volte in cui il suo sguardo si era posato un secondo più a lungo del necessario su una compagna in collegio, l'ammirazione mista gelosia mista qualcos'altro - un qualcos'altro a cui ora sapeva finalmente dare un nome, un volto. E Alex si sentiva leggera, come se potesse finalmente respirare dopo un lungo periodo di apnea: per un attimo, poteva quasi immaginarsi libera.
Poi l'attimo svaniva, quasi come se nulla fosse successo, e si sentiva stupida per essersi permessa di illudersi: non sarebbe mai stata libera, non avrebbe mai potuto essere la Alex che sentiva di essere.
Ogni volta che apriva gli occhi, sentiva il peso dello sguardo di suo padre, il generale Di Nardo: austero, inquisitore, padrone. Per lui aveva dovuto inventarsi un'altra Alessandra, una versione prodotta e confezionata appositamente per appagare suo padre, compiacerlo, cancellare quella rabbia nel suo tono di voce quando gridava a sua madre che avrebbe preferito un maschio, un piccolo generale a sua immagine e somiglianza.
La madre di Alex restava sempre inerme, immobile: aveva imparato con gli anni che l'unica arma a sua disposizione poteva essere il silenzio: un silenzio assordante, carico di parole non dette e perse fra le pareti di una casa così opprimente da togliere il respiro.
Alex aveva imparato a convivere con il silenzio, e con questo aveva modellato la sua maschera, così aderente al suo viso da farle quasi dimenticare quale fosse la verità. Anche adesso, che di anni ne aveva 28, la maschera continuava ad essere una parte integrante di lei, che sollevava soltanto lontano da occhi indiscreti, da occhi vuoti come quelli di sua madre e da occhi violenti come quelli del Generale: persino allo specchio, davanti ai suoi stessi occhi, a volte dimenticava cosa stesse guardando. La realtà, in quella casa, non era che un'illusione, una trappola disegnata ad arte per tenerla intrappolata in una gabbia di ipocrisia e cemento armato.
Però, alla fine della giornata, Alex sapeva chi fosse - una donna, un'agente di polizia al servizio del prossimo, una bastarda di Pizzofalcone e sì, pure una lesbica-.
A questo si aggrappava per andare avanti, per continuare a sognare la sua libertà: non si può scappare senza sapere da chi si sta fuggendo, e Alex agognava la fuga più di ogni altra cosa al mondo.
Quindi avrebbe continuato a fare il suo lavoro, a tenere alto il nome del commissariato, a sparare colpi al poligono fino a rompere quel velo di silenzio, e la maschera un giorno si sarebbe sgretolata, senza lasciare traccia.


2.
Alex non aveva mai creduto nell'amore a prima vista.
In realtà, le veniva piuttosto difficile credere persino all'amore: tra i suoi genitori era dura vedere quell'affetto incondizionato tanto decantato dai romanzi rosa permanentemente seduti sul comodino di sua madre: forse quello era per lei un modo per evadere, un piano di fuga che la riportava sempre tra le braccia rigide e fredde del Generale; e allora che male c'era a voler cercare quello che non aveva mai avuto tra le pagine ingiallite di un libro? Se la finzione poteva salvarla dalla tristezza della verità, non vedeva alcun motivo per cui privarsene; infondo, Alex la capiva bene, anzi, col tempo aveva realizzato che la sua capacità di estraniarsi della realtà fino a crearsi un'identità diversa doveva averla ereditata proprio dalla madre. Ma Alex detestava anche i romanzetti rosa, le favole a lieto fine, i racconti delle (poche) amiche sui propri spasimanti. Sapeva benissimo che il suo essere diversa, un’invertita, come chiamava sprezzantemente suo padre quelli come lei, non era affar semplice: per anni aveva macinato chilometri con la sua auto in cerca di locali lontani dalla città dove dare sfogo ai suoi desideri carnali, senza che questi si tramutassero mai in qualcosa di più. Del resto, in quei posti bui e isolati si entrava in un mondo parallelo, si indossava una maschera per dimenticarsi delle proprie vite, delle proprie identità: in quella dimensione non c’era spazio per i sentimenti.
Per quelle come lei, che vivevano nascoste nell’ombra, l’amore era un desiderio proibito, un sogno di libertà che si poteva guardare da lontano, senza mai avvicinarcisi troppo. 
Eppure, nonostante tutto, a volte basta un solo istante per cambiare tutto, per stravolgere tutte le certezze pregresse e tutto ciò che ci si era prefigurato: Alex avrebbe ricordato per sempre quell’istante, in corrispondenza del quale la sua mano si stringeva, per la prima volta, con quella della dottoressa Martone, primo dirigente della Polizia Scientifica.
E in quel momento, tutto l'ambiente circostante era come paralizzato, immobile: non esistevano più Lojacono, le foto della scena del delitto, il rapporto balistico, le sue paure più recondite. Esistevano solo loro due, cristallizzate nel tempo e nello spazio.
Tornò alla realtà soltanto quando sentì in sottofondo Lojacono dire qualcosa su un’arma da fuoco, e l'idillio si era già interrotto. Non poté ignorare il modo in cui il suo cuore aveva sussultato nel petto quando Rosaria - questo era il suo nome- le aveva rivolto i complimenti riguardo l'intuizione sulla pistola, il modo in cui i suoi occhi riflettevano di una luce diversa, ipnotizzante, e Alex seppe subito che non avrebbe potuto dimenticarsi mai di quello sguardo. Si chiese se Rosaria, dicendole di lasciare aperta la porta del suo ufficio, non le stesse implicitamente chiedendo di lasciare una porta aperta anche per lei, una possibilità per fare breccia nella muraglia che era riuscita ad erigere in tutti quegli anni di scudi e finzioni. 
Quella stessa sera, a casa, aveva ricevuto un messaggio della donna, e per un momento il sorriso aperto che le si era dipinto in volto aveva quasi rischiato di far sgretolare la maschera. Quasi. In una frazione di secondo, gli sguardi dei suoi genitori erano già puntati su di lei, come un riflettore indesiderato, a chiederle la ragione di quell'improvviso moto di felicità. 
-È Ernesto, mi manda la buonanotte-. Già, Ernesto, il suo finto fidanzato, un'arguta produzione della sua immaginazione per placare le ansie dei suoi genitori, che la assillavano quotidianamente chiedendole quando avrebbe finalmente trovato un uomo degno di diventare suo marito. Ma Ernesto non era che l'ennesimo fantasma di una vita mai vissuta, che mai avrebbe potuto tramutarsi in una realtà, e la maschera era di nuovo incollata saldamente al suo volto. 
-Quand'è che verrà a Napoli e lo potremo conoscere?-
Alex non poté fare a meno di chiedersi se avrebbero mai conosciuto la loro stessa figlia, e con quel pensiero fisso nella mente, spense la luce del soggiorno.
Era di nuovo buio.


3.
Era un pomeriggio piuttosto tranquillo al commissariato di Pizzofalcone, il che ultimamente era diventata una rarità. Tutti i colleghi erano in centrale, seduti attorno al tavolo con il caffè appena versato nelle tazzine. Palma e Pisanelli chiacchieravano animatamente di un caso di alcuni anni prima, Romano mostrava una foto della piccola Giorgia a Ottavia, e Lojacono continuava a imprecare con Aragona - ordinaria amministrazione - ordinandogli di tirare giù i piedi dal tavolo. Alex invece stava seduta sulla sua sedia, in silenzio, rigirando il cucchiaino nel caffè, che ormai stava diventando freddo. Non parlava con Rosaria da quasi due settimane, da quando aveva scoperto che la fidanzata raccoglieva informazioni su Luisa. Era una strana sensazione: l'oppressione che aveva percepito al momento della scoperta, la sensazione di venire di nuovo controllata e manipolata, si era trasformata in un altro tipo di oppressione, quella dell'assenza.
Non voleva ammetterlo, nemmeno a se stessa, ma Rosaria le mancava, le mancava da toglierle il respiro. Aveva tentato ogni strategia possibile per levarsela della testa: non accompagnava più Lojacono alla sede della Polizia Scientifica, non rispondeva a messaggi o chiamate, aveva ricominciato a bere, a frequentare locali e a svegliarsi ogni mattina nel letto di una donna diversa, ma ognuna di quelle mattine la tormentava un unico pensiero, così forte da darle una nausea più forte di quella dovuta ai postumi: nessuna di quelle donne era Rosaria.
Alex lo sapeva di avere paura: paura di perdere se stessa di nuovo, dopo che faticosamente era riuscita a scappare da quel carcere che era diventata casa sua. Allo stesso tempo, il pensiero di perdere per sempre Rosaria la tormentava continuamente, ed una tristezza indicibile si impossessava di lei. Era sospesa in un limbo insopportabile, senza via d'uscita.
-Alex, sei così silenziosa oggi. Va tutto bene?- La voce preoccupata di Ottavia la distolse dai suoi pensieri, e la maschera si modellò, tramutandosi immediatamente in un sorriso forzato, falso, ma abbastanza credibile da poter ingannare una stanza piena di poliziotti.
-Tutto bene Otta', solo che non ho dormito bene stanotte-. Una bugia e una verità.
-Problemi di cuore eh Di Nardo-. Alex si girò verso Aragona, l'unico con l'incredibile capacità di dire la cosa sbagliata nel momento peggiore possibile.
Gli rivolse uno sguardo pieno d'ira, e strinse i pugni sotto al tavolo quando inevitabilmente la sua mente tornò all'ultimo incontro con la Martone. Le aveva chiuso la porta in faccia, proprio a lei che sin dal primo giorno le aveva chiesto di lasciarla aperta. 
-Tranquilla Alex, ho la soluzione a tutti i tuoi problemi. Ti posso presentare un amico mio, lavora al commissariato di Posillipo. Posso dargli il tuo numero, magari gli dico di mettersi il giubbotto antiproiettile al primo appuntamento, che non si sa mai-.
-L'unico coglione a cui ho voglia di sparare sei tu Aragona-. Alex si alzò bruscamente dalla sedia, e infilandosi la giacca andò in terrazza per accendersi una sigaretta, senza dire una parola. Sentiva in lontananza la voce di Pisanelli pronunciare il solito ritornello "non ce la fai proprio a stare zitto tu", e invano cercava di ricomporsi, di ritrovare la calma. Non ce l'aveva con Marco, ce l'aveva con se stessa. Aveva una gran voglia di gridare davanti a tutti i colleghi che no, non lo voleva un appuntamento con quel ragazzo o con nessun altro uomo, che a lei piacevano le donne, che era sempre stato così e che così sarebbe sempre stato. Quello che faceva più male, però, era che avrebbe voluto rispondergli che non poteva uscire con quel tale perché lei era già impegnata. Ma la verità era che non era più sicura di potersi pensare fidanzata: Rosaria non c'era, e Alex era una codarda. Ancora una volta avevano vinto il silenzio, le paranoie, l'apparenza. Fu in quel momento, sul terrazzo di Pizzofalcone e con le lacrime che minacciavano di scendere, che si rese conto di essere perdutamente innamorata, e che non c'era possibilità di tornare indietro.
 
 
4.
Ferma al semaforo, Alex guardava le gocce di pioggia rigare il parabrezza dell’auto. Lei e Romano stavano andando ad interrogare una donna, il cui marito era stato ritrovato assassinato in una stanza d’albergo in mattinata. Nell’abitacolo regnava il silenzio, l’unico suono udibile era quello perfettamente cadenzato dei tergicristalli. Dopo un inizio burrascoso, in cui era stato difficile tenere a bada gli scatti d’ira del collega, Alex si era presto ritrovata ad apprezzare la compagnia del collega, che guardava fuori dal finestrino, assorto.
Dal poco che Romano lasciava trapelare della sua vita privata, e con un po’ di intuito da poliziotta, sapeva che le cose con la moglie (ormai ex) non andavano affatto bene, e questo stava complicando immensamente le pratiche per l’adozione di Giorgia, il che non contribuiva a migliorare l’umor nero di Francesco.
Alex, invece, era felice: aver recuperato il rapporto con Rosaria era stato un punto di svolta nella sua vita, e il sorriso che si era dipinto sul volto della compagna quando le aveva detto di voler vivere con lei la faceva sentire rigenerata, pronta per una nuova fase, una in cui forse sarebbe riuscita ad avere un po’ meno paura.
-L’indirizzo è questo, la porta è quella verde-. Alex parcheggiò di fronte all’abitazione della signora Moscariello, e i due colleghi si apprestarono a suonare il campanello. Salirono due rampe di scale di un edificio popolare, l’intonaco scrostato dalle pareti un segno evidente dell’incuria.
La Moscariello li invitò ad entrare, prima di sedersi sgraziatamente su una delle sedie di legno del piccolo soggiorno. Era una donna di 43 anni, dipendente di un negozio di abbigliamento del quartiere e, da qualche ora, una vedova. Negli occhi portava il dolore del suo nuovo status: erano vacui, arrossati dal pianto, e fissavano un punto indefinito del muro che divideva la stanza dalla cucina. Prima di Rosaria, Alex non era mai riuscita ad empatizzare veramente, in maniera profonda, con chi sperimentava il lutto di una persona amata: non era mai stata una questione di mancanza di sensibilità, quanto di esperienza, non avendo mai provato realmente sulla sua pelle cosa volesse dire avere quel tipo di legame. E ora che lo sapeva, capiva, e ogni volta respingeva con tutte le forze il pensiero di poter rimanere privata della sua persona.
Il defunto marito, Germano Esposito, era stato più volte associato alla criminalità organizzata calabrese, il che costituiva la ragione principale della visita dei due poliziotti.
- Non sapevo cosa facesse mio marito, non di preciso almeno, lui non mi raccontava nulla di queste cose. Diceva che era meglio così. Ma dentro di me sapevo che si era messo in un giro pericoloso, lo sapevo anche quando ci siamo sposati. Cosa avrei dovuto fare?-. La testimonianza della donna era interrotta costantemente dai singhiozzi, la voce rotta dal pianto.
-Scusate, ma se già sapevate in che guai si era cacciato vostro marito, perché l’avete sposato?- La donna guardò dritto negli occhi Romano, come se stesse cercando la risposta più appropriata da dargli.
-Che volete che vi dica, ero giovane e innamorata, per me Germano era tutto. Voi potete capirmi vero?- Si era rivolta con gli occhi gonfi verso Alex, alla quale era chiaramente indirizzata la domanda.
-Non si può scegliere di chi innamorarsi-. Lo disse con un filo di voce, sorpresa dalla sua stessa fragilità, mentre pensava a tutte quelle volte in cui invece avrebbe voluto essere in grado di scegliere, di cambiare, e a tutte le volte in cui si era scontrata con la realtà dei fatti, con la dura verità del dover imparare ad accettarsi.
-Lei è innamorata, agente?-. Sentiva lo sguardo di Romano bruciare su di sé, come se anche lui volesse sapere la riposta a quel quesito. Pensava a Rosaria, con cui voleva condividere una casa in cui non sentirsi più prigioniera, pensava all’abbraccio con cui si erano riconciliate, ai baci rubati tra i corridoi della Scientifica. Le immagini impresse nella mente rischiavano di far crollare la maschera, e Alex non poteva permetterlo. Non ancora. E così, con uno sforzo che le parve disumano, e dopo un attimo di esitazione, rispose: -No-.
Dopo quel breve scambio, Alex era rimasta silenziosa durante tutto il resto della permanenza a casa Moscariello, lasciando che fosse Romano a chiedere le ultime delucidazioni.
Tornarono alla macchina in silenzio, aveva smesso di piovere. Erano quasi arrivati al commissariato quando Romano, con la voce ferma, ruppe il silenzio.
-Chiunque sia, spero che ti renda felice.-
-Non capisco Roma’, che vuoi dire?-.
-Quando la Moscariello ti ha chiesto se fossi innamorata, avevi negli occhi una luce diversa, brillante. Erano gli stessi occhi con cui mi guardava Giorgia, prima che arrivasse la paura. Sono gli occhi di una donna innamorata, non dovresti nasconderlo –
Alex non rispose, e lasciò che quelle parole si sedimentassero dentro di lei. Non dovresti nasconderlo. Forse, per la prima volta, era pronta a far sì che quelle parole si trasformassero in fatti.
 
 
-Romano?
-sì, Di Nardo?
-Grazie.
 
 
 
4+1
Alex guardò l’orologio per quella che era l’ennesima volta di quella serata interminabile. Le 3.26. Aragona, seduto sul sedile del passeggero, non la smetteva di sbadigliare.
-Togli i piedi dal cruscotto o ti spezzo le gambe
-E dai Alex, sono due ore  che stiamo sorvegliando questo fottuto magazzino, e ancora non è successo niente. Secondo me abbiamo preso una cantonata, chiamiamo Palma e andiamocene a dormire
- Hai sentito gli ordini, dobbiamo stare qua finché non arriva qualcuno della Mobile a darci il cambio
Nonostante l’immancabile senso del dovere, Alex doveva ammettere che forse Aragona non aveva tutti i torti: i due erano stati incaricati di appostarsi davanti a un magazzino nella zona dei Quartieri Spagnoli, dove aveva lavorato anche la vittima dell’omicidio di cui si stava occupando la squadra di Lojacono. Il caso era una co-assegnazione con la DDA, il che implicava il coinvolgimento di Buffardi. Lo avevano già incontrato in occasione dell’omicidio Granato, quello del pane, e anche in quella circostanza ad Alex era sembrato un gran coglione. Bravo, ma estremamente arrogante e, soprattutto, con delle conoscenze ai piani alti, il che significava che a lei e Aragona era richiesta la massima attenzione durante l’appostamento, non doveva esserci margine di errore.
-Vabbè, tanto non è che abbia di meglio da fare-. E, sbuffando rumorosamente, Aragona prese un sorso del quarto caffè della serata.
Alex, invece, qualcosa di meglio da fare ce l’aveva eccome. Pensò ai tempi in cui viveva con i suoi genitori, in cui restava al lavoro il più a lungo possibile, in modo da rimandare il momento in cui sarebbe dovuta tornare in quella casa che aveva imparato ad odiare con tutta l’anima. Adesso era tutta un’altra storia: aveva comprato un altro appartamento da un po’ e, soprattutto, c’era una donna ad aspettare impazientemente il suo ritorno a casa. Al pensiero di Rosaria, un sorriso spontaneo le comparse sul volto: non vedeva la fidanzata da quasi una settimana, da quando la Martone era dovuta partire per Milano per un convegno tra dirigenti della Scientifica. Si erano sentite tutti i giorni fino a quel pomeriggio, in cui la donna era tornata in ufficio, e in laboratorio, per occuparsi del medesimo caso che le aveva sottratto la possibilità di rivedere subito la sua ragazza, impegnata nel turno di notte. Il che la ricondusse esattamente a quel momento, con Aragona che continuava a lamentarsi e Alex che avvertiva anch’essa l’impazienza, tamburellando le dita sul volante dell’auto. Il buio dell’abitacolo fu invaso da una luce improvvisa, che proveniva dal cellulare di Alex. L’agente lo prese velocemente in mano: le era arrivato un messaggio.
-Ti penso. Non vedo l’ora di vederti. Alex arrossì violentemente, ringraziando mentalmente il fatto che Aragona non si fosse accorto di quella sua reazione. Sapeva che Rosaria era sveglia, lei stessa le aveva confessato di non riuscire mai a prendere sonno quando Alex faceva il turno di notte, era troppa la preoccupazione di saperla in servizio nel buio in una città così pericolosa.
-Chi ti scrive a quest’ora Di Nardo? Non avrai mica un amante?- Alex, senza voltarsi verso il collega, lo liquidò con un rapido ma i cazzi tuoi mai Arago’, sperando che l’altro lasciasse perdere l’argomento. Ma l’agente scelto Marco Aragona non demordeva mai, specialmente se c’era l’occasione per raccogliere un po’ di pettegolezzi sui colleghi, che di solito mantenevano una solida riservatezza.
-A me lo puoi dire, e poi ci stiamo rompendo le palle da ore qui dentro, era ora che venisse fuori un argomento interessante.- Alex valutò che la miglior risposta per non inciampare su un terreno alquanto scivoloso fosse il silenzio, così rivolse gli occhi al cielo e tornò ad ignorare il collega, per nulla intenzionato a lasciarsi sfuggire l’incredibile opportunità di distrarsi dal proprio lavoro. Rincarò la dose.
-Ho capito, non otterrò una confessione. Potrei chiedere alla tua amica, quella della scientifica, la Martone. Sarebbe pure una bella occasione per andarla a trovare: quella c’ha un culo che gli manca solo la parola, te lo dico io. Secondo me avremmo pure una bella sintonia, nessuno può resistere al fascino di Marco Aragona-.
Nell’auto calò un silenzio assordante, carico di tensione. Alex sentiva crescere dentro di sé quella stessa determinazione che l’aveva portata, mesi prima, a sparare senza pensarci due volte a quel porco del suo superiore, il suo personale peccato originale, la cui pena era stata concretizzata col trasferimento nel commissariato di Pizzofalcone. Per questo, Alex sapeva bene che quello era un sentimento pericoloso, e che sarebbe bastato un attimo per sfogarlo anche su Aragona. Alex inspirò profondamente, recuperando la lucidità: Marco era un suo collega, quasi un amico, con la peculiare caratteristica di dire un sacco di stronzate.
Se fosse stata in grado di calcolarle, Alex avrebbe stimato che c’erano circa un milione di possibili strade per uscire da quella situazione scomoda, a partire da quella che era sempre stata la sua preferita: il silenzio, dettato dalla paura che qualcuno potesse minimamente accorgersi della sua natura, di carpire il minimo indizio che avrebbe potuto destare sospetto circa il suo segreto, che lei riteneva invece insospettabile.
E tra quel milione di strade, Alex scelse l’unica a cui, fino a quel momento, non aveva mai pensato di poter arrivare.
-Sai Arago’, non penso saresti il suo tipo, alla Martone gli uomini non piacciono proprio- Si concesse un istante di esitazione, come a voler incanalare tutto il coraggio a sua disposizione – E nemmeno a me, se è per questo. Io e Rosaria stiamo insieme-.
Ad Alex venne quasi da ridere: pensò a quanto fosse ironico che bastasse solo qualche secondo per dire una cosa che si tiene nascosta una vita interna.
Aragona, invece, era come paralizzato, spiazzato dalle parole della collega: si girò lentamente verso di lei, per scoprire che anche lei lo fissava intensamente, come a voler analizzare la sua reazione. Negli occhi della donna, però, non c’era alcuna traccia di paura o vergogna. Nella poca luminosità che la luce dell’abitacolo riusciva a offrire, Aragona non scorse nulla se non una scintilla di vita nel fondo dell’iride della Di Nardo, la miccia della sfida accesa dentro di lei. Aragona pensò che il suo istinto da poliziotto, di solito infallibile, stavolta gli aveva giocato un brutto scherzo, non facendolo accorgere di nulla: gli passò nella mente un’immagine fugace, che lo vedeva nell’ufficio della dirigente della Scientifica, insieme ad Alex. Certo, aveva notato l’intensità con cui le due si guardavano, come se fossero le sole presenti nella stanza. Se n’era accorto, ma mai avrebbe pensato… E invece, ora ci pensava, eccome.
- Tu e la Martone?
- Sì, c’è qualche problema?
-E che problemi ci devono stare, è una gran cosa invece. Lo sapevo che doveva esserci un motivo per cui nessuna di voi due era ancora caduta ai miei piedi! Nessuna resiste al fascino di Serpico, l’ho sempre detto, e ora ho anche la prova finale. E brava te Di Nardo, te ne sei presa una che è davvero bona, complimenti-
Alex era spiazzata dalla reazione del collega, non poteva certo dire che se l’aspettava. Aragona non aveva mai fatto mistero dei suoi pregiudizi,  eppure aveva accolto la notizia con una naturalezza tale da lasciarla interdetta, e senza parole.
-Una cosa te la devo chiedere però. L’hai detto agli altri Bastardi?
-No. Non ancora.-
Aragona riprese in mano il caffè, sorseggiandolo lentamente. Ormai era freddo. Stettero in silenzio per un paio di minuti, continuando a sorvegliare intentamente i movimenti, inesistenti, all’interno del magazzino. Fu l’agente scelto a rompere l’atmosfera.
-Senti Alex, lo so che pensi che io sia un cretino, e a volte so che è così, e me ne vanto pure. Però una cosa te la devo dire: a Pizzofalcone ci siamo trovati per caso, perché eravamo gli scarti di qualcun altro, i reietti, i difettosi. Però a modo nostro ci capiamo, e siamo una specie di famiglia, alquanto strana eh, però quello siamo. E se ogni giorno rischiamo la vita gli uni per gli altri, questo vuol dire che dobbiamo essere uniti, e credimi, non gliene frega niente a nessuno di chi sta con chi. L’importante è esserci per noi Bastardi, e se vuoi la mia opinione, agli altri farebbe pure piacere sapere qualcosa in più di te, e saperti felice. Io so che ha fatto piacere a me.-
Le lacrime minacciavano prepotentemente di rigare il volto di Alex; stava per aprire bocca e rispondere al collega, quando la volante della Mobile si affiancò alla loro. Alex abbassò il finestrino, erano le 3.51. Gli dissero che potevano andare a casa, che ci avrebbero pensato loro.
Alex guidò in silenzio mentre riaccompagnava Aragona a casa. Lo fece scendere all’incrocio tra due strade strette, poco illuminate. Stava per rimettere in moto l’auto quando Marco si appoggiò al finestrino.
-Di Nardo, ti devo chiedere una cosa
-Dimmi
-Posso continuare a dire che la tua fidanzata ha un bel culo?
Alex alzò gli occhi al cielo, Aragona rideva. La salutò con le labbra ancora sollevate in un sorriso, e si incamminò per una delle due strade a passo svelto.
Alex rilassò la schiena contro il sedile, e inspirò profondamente. Che serata.
 
 
 
Erano le 4.28 quando girò lentamente la chiave nella serratura della porta di casa, cercando di essere il più silenziosa possibile. Si tolse velocemente i vestiti, l’aria fredda contro la pelle nuda, e si avviò verso la camera da letto. Si appoggiò allo stipite della porta, per guardarla. Avvolta dal lenzuolo, con la schiena appoggiata alla testiera del letto, c’era Rosaria. Alex pensò che non si sarebbe mai abituata a quella vista.
I capelli castani le ricadevano morbidi sulle spalle, disordinati, un sorriso di sollievo dipinto sul volto.
-Sei tornata
-Si amore, sono qui
Si infilò sotto le coperte, e fu subito accolta dalle braccia di Rosaria, che la strinsero dolcemente: Alex appoggiò la testa sul torace della donna, che le diede un bacio sulla fronte.
-Sai, mi è successa una cosa a lavoro
-Che cosa?
-Ho detto ad Aragona di noi
Sentì Rosaria muoversi lentamente, nel tentativo di rimettersi seduta. La guardava intensamente, come per verificare se la fidanzata le stesse dicendo la verità. Alla realizzazione che no, non stava affatto scherzando, il volto di Rosaria si aprì in un sorriso pieno, di una bellezza disarmante. Alex pensò che avrebbe ricordato quel momento per tutta la vita. In quel momento, la maschera che aveva imparato ad indossare per una vita intera, a modellare come plastilina in modo da adattarla ad ogni situazione, era crollata, sgretolata a fronte delle due forze più potenti che Alex aveva sperimentato in tutta la sua esistenza: l’amore e la verità.
-Ti amo, Rosaria Martone. Non ne hai neanche idea. Potrei amarti per tutta una vita e non mi basterebbe.
E nel bacio che seguì quella rivelazione, Alex assaporò il primo istante di una vita nuova, pensò a quella libertà che sognava da quando aveva 15 anni e che adesso era reale, tangibile. La libertà era negli occhi della donna che amava, e che la amava. Pensò a quella maschera, che per anni aveva occultato il suo vero volto, la sua vera identità. Decise che la prima espressione del suo nuovo volto, libero da ogni impedimento, sarebbe stato un sorriso. Un sorriso vero, spontaneo, di pura gioia. Un sorriso che mimava quello che era apparso sul volto della sua Rosaria.
Non era mai stata più felice.
   
 
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