Videogiochi > ARK: Survival Evolved
Segui la storia  |       
Autore: Roberto Turati    03/01/2019    1 recensioni
Laura, Sam, Chloe e Jack sono quattro neo-laureati di Sidney che, dopo aver trovato un libro segreto firmato Charles Darwin che parla di ARK, un'isola preistorica abitata da creature ritenute estinte da milioni di anni, da un intrigante popolo, protetta da una barriera che altera lo spazio-tempo e che nasconde un "Tesoro" eccezionalmente importante, decidono di scoprire di più... andando su ARK. Ma le minacce sono tante, siccome l'arcipelago arkiano non è certo il più accogliente dei posti... però, per loro fortuna, non saranno soli nell'impresa. Fra creature preistoriche, mostri surreali, nemici che tenteranno di fermarli o di ucciderli per diversi motivi, rovine antiche, incontri da ogni luogo, da ogni epoca e da altri universi e gli indizi sul misterioso passato dimenticato di ARK, riusciranno a venire a capo di un luogo tanto surreale?
 
ATTENZIONE: oggi, il 30/06/2021, è iniziato un rifacimento radicale della storia usando l'esperienza che ho fatto con gli anni e la nuova mappa di ARK usata per l'isola del mio AU. Il contenuto della storia sta per cambiare in modo notevole.
Genere: Avventura, Mistero, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
- Questa storia fa parte della serie 'Un'Isola Unica al Mondo'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Sulla cima di un’altura, a poche centinaia di metri dal “Partenone”, l’uomo con la bombetta e il suo cappello robotico osservavano insieme la scena dei ragazzi che indagavano. Mike, seduto comodamente sul sedile del girocottero, guardava dalle lenti regolabili da binocolo che DOR-15 aveva incorporate, così come molti altri dispositivi all’avanguardia. Il creatore di Doris l’aveva progettata per essere l’attrezzo definitivo e, senza dubbio, era riuscito nel suo intento. Era un vero peccato che non l’avesse mai brevettata e fatta produrre in serie. Intanto, sgranocchiava ancora delle arachidi dal sacchetto di juta che aveva ricevuto alla taverna delle Frecce Dorate come ringraziamento per aver regalato all’oste un coltellino svizzero, un oggetto dal mondo esterno che, giustamente, erano viste come dei souvenir di lusso su ARK. Quella era stata una versione un po’ “lecita” della famosa truffa “zaino in spalla”.

«Ecco! Stanno osservando le colonnine! Forse pensano che serva a qualcosa… ingegnosi, i bambocci! Tu che ne pensi, Doris?»

«Reputo che sia preferibile aspettare un risultato per esprimere un giudizio personale»

«Per la miseria, lasciati andare qualche volta, Doris! Su con la vita!»

«Per definizione, io non sono viva. Sono semplicemente fornita di un’intelligenza artificiale abbastanza sofisticata da permettermi di ragionare e comportarmi come un organismo, ma sono comunque una macchina»

«Oh, non fare così, ti sottovaluti!»

«Sei consigliato di non deconcentrarti e rimanere in osservazione dei quattro soggetti»

«Ah, giusto! Allora… vedo che… ah, stanno prendendo appunti! Non mi dire che stanno traducendo quegli strambi scarabocchi che vedo sulle colonnine! Ah, be’, tanto meglio per noi, che ci risparmiamo la fatica!»

«Sei pregato di aspettare… sto rilevando una minaccia in avvicinamento» lo avvertì Doris.

«Minaccia?! Dov’è? Dov'è?! Dimmelo!»

«I miei sensori rilevano dei movimenti potenzialmente pericolosi alle nostre spalle»

«Maledizione! È un T-Rex? Uno di quelli piccoli ma intelligentissimi che corrono qua e là come saette? Un insetto gigante succhia-sangue?»

«Non sono in grado di identificare la minaccia senza una scansione ai raggi X o genetica»

«Ah, ma perché me ne sbatto? Scappiamo!» e accese il girocottero, che iniziò a sollevare un gran polverone e a provocare un intenso frastuono.

«Purtroppo non abbiamo tempo per attivare l’autogiro e decollare: la minaccia arriverebbe prima che ci riusciamo»

«Allora… cosa suggerisci?»

«Tentare la fuga a piedi»

«E il girocottero?»

Prima che Doris potesse rispondere, sentirono dei passi fragorosi e un assordante ruggito. Poi, all’improvviso, dalla boscaglia emerse una creatura alta una decina di metri, con una folta e ispida pelliccia, nera come la sua pelle. Aveva un muso per metà umano e per metà bestiale, con due occhi porcini e zanne giallo avorio. Camminava sulle nocche e, dove non c’era pelliccia, si vedevano innumerevoli ferite e cicatrici. Quell’animale era molto simile ad un gorilla. Anzi, era un gorilla. L’unico dettaglio eccezionale erano le dimensioni. E ora, il gorilla gigante stava osservando con sguardo estremamente irritato il girocottero di Mike e Doris. Quello era Kong, il re di ARK.

«King Kong? Perché su quest’isola c’è King Kong? C’è anche lui nel tema “dinosauri”?»

Mike, nonostante la gravità della situazione, fu capace di reagire con questo commento intriso di sarcasmo.

«Ehi, un momento… ah, che smemorato che sono! Lo dicevano anche i diari!» disse poi.

Kong, il guardiano di ARK, aveva cambiato il proprio percorso perché aveva fiutato Mike e, essendo la sua una traccia odorosa insolita, aveva deciso di andare a controllare. E, nel momento in cui l’uomo con la bombetta aveva acceso il girocottero, il rumore delle eliche l’aveva infastidito oltre il limite della sua pazienza. Quindi, come prima cosa, emise un altro breve grido e si precipitò verso il piccolo velivolo. Mike si buttò di lato appena in tempo per non essere travolto, mentre Doris preferì alzarsi in volo. Il primate sollevò entrambe le braccia, stringendo i pugni, e li abbatté sul girocottero, sfasciandolo completamente.

«Nooooo! Il girocottero no! Perché?! Ci abbiamo passato così tante avventure da ladri onesti! Nooooo…» si lamentò Mike, quasi piangendo.

Sentendo la sua voce, il Megapiteco si voltò di scatto, ancora irritato. I due si osservarono, poi Kong cominciò ad avvicinarglisi con aria spaventosamente interessata. Terrorizzato, Mike si distese prono e si coprì la testa. Doris osservava dall’alto, calcolando quali fossero tutte le possibili soluzioni al problema, finché era arginabile. Mike sentì due grosse dita ruvide fare pressione sulla sua schiena scheletrica. Il gorilla lo sollevò in aria, stringendo un lembo della giacca, da cui lui pendeva come un sacco di patate. Mike, che fino a quel momento aveva tenuto gli occhi chiusi, osò guardare e la prima cosa che vide furono le narici dell’enorme gorilla che si stringevano e dilatavano: lo stava annusando. E, a quanto pare, anche alle scimmie non piaceva molto l’odore di un ladruncolo di strada che non vedeva l’ombra di una doccia da tempo immemore. Infatti, il Megapiteco gli urlò addosso, bagnandolo di una saliva schiumosa che odorava di frutta e foglie, ma anche di carne. Subito dopo… lo scagliò giù dall’altura, per poi tornare nella foresta con tranquillità. Doris, senza perdere tempo, iniziò a sfrecciare alla velocità della luce verso il suo proprietario. Mike cadeva strillando come una donnicciola. L’aria gli sferzava la faccia, emettendo uno strano fischio quando passava per i suoi baffi. E, quando il suolo fu a soli cinque metri da lui, si fermò. Doris l’aveva afferrato con le braccia meccaniche, dimostrando una notevole forza. Quando fu poggiato delicatamente al terreno, la mandibola e le mani gli tremavano.

«E adesso cosa facciamo, Doris? La situazione è crollata… anzi, no, si è polverizzata! È in frantumi come… come il nostro povero girocottero! Che riposi in rottami… e ci siamo persi la soluzione agli enigmi per trovare il Tesoro!»

«In realtà, ci sono molte altre soluzioni alternative. La popolazione nativa ci sarebbe ostile solo in caso manifestassimo le nostre vere intenzioni. Per il resto, possiamo ancora agire liberamente»

«E… allora?»

«Possiamo provare a raggiungere vivi l’insediamento più vicino, dove tu potrai chiedere di farti insegnare a cavalcare creature addomesticate, in modo da poterti procurare in seguito un volatile che ricopra il ruolo del nostro autogiro. Dopo, potremo riprendere le ricerche»

«È vero! Perché non ci ho pensato?»

«Inoltre, è probabile che i soggetti abbiano ormai appreso come trovare il Tesoro. Anziché continuare ad osservarli da lontano, potremmo prelevarli e obbligarli a rivelarci quello che sanno. Così facendo, non avremo più forme di concorrenza e non dovremo più cercare il nostro obiettivo temendo che qualcuno lo raggiunga prima di noi»

«Accidenti, hai proprio ragione! Sei il cappello più geniale del mondo! Il successo è ancora alla nostra portata, dobbiamo solamente prendere quei quattro ragazzi e fargli sputare il rospo! Muhuhuhuhuhuhuhahahahahahaha!»

Dunque, Mike prese la sua lista delle cose da fare dalla tasca interna e aggiunse un nuovo punto:

COSE DA FARE

  1. Raccogliere più informazioni

  2. Tenere d’occhio i quattro allocchi

  3. Prendere le coordinate dell’isola

  4. Prendere il Tesoro

  5. Diventare ricco e famoso!!!

 
3+) Ritentare con le maledette coordinate
3++) Prendere quei dannati bambocci


“Ah, quanto mi piacciono le liste!” pensò.

Ma poi gli venne da chiedersi come avrebbe fatto a raggiungere un insediamento arkiano senza essere sbranato da qualche bestia prima. La risposta gli apparve a qualche centinaio di metri di distanza: in quel momento, stava passando un diplodoco con dei sedili pieni di gente sulla schiena. Era chiaro che quello era una sorta di “autobus primordiale”. Stava per chiedere a Doris se lo vedeva, ma notò che la bombetta era andata in stand by sulla sua testa. Così, semplicemente, cominciò a correre verso il diplodoco e a chiamare a gran voce finché non lo sentirono.

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Acceber, prima di tornare dai ragazzi, controllò ancora e tirò un sospiro di sollievo quando scoprì che il Megapiteco non stava più andando verso di loro. Da quel che si poteva capire osservando l’ambiente, lo scimmione aveva bruscamente svoltato a destra ed era sparito nella foresta. Quando raggiunse i ragazzi, Laura le porse un biglietto, chiedendole se poteva tradurre il messaggio. Molto ingenuamente, Acceber chiese cosa fosse e Jack spiegò di aver capito che i segni sulle colonne seguivano uno schema in uso nel mondo esterno e, dopo che li aveva convertiti in lettere, era venuto fuori quel messaggio strano. Lei lesse attentamente, poi iniziò a tradurre oralmente senza la minima difficoltà. Le incisioni lasciate dai Pre-Arkiani dicevano:

Sappi, audace e incosciente che vuole scoprire la culla dell’isola, alla quale tutte le sue creature devono tutto, che per riuscire nel tuo intento devi ruotare questo piedistallo e tutti i suoi fratelli dopo aver posato su di essi le chiavi in ossidiana. Quando avrai fatto questo, ti sarà indicata la meta. Buona fortuna!

«Questo messaggio ha un non so che di teatrale» commentò Sam, ridacchiando.

«Dunque dobbiamo mettere il nostro manufatto sul piedistallo e… ruotarlo?» si domandò Laura, mentre lo faceva.

Tutti si radunarono subito intorno al piedistallo per vedere cosa sarebbe successo. Laura, poggiato il Manufatto del Furbo nell’incavo, continuò a premere verso il basso e provò a farlo ruotare in senso antiorario. Niente. Riprovò nel senso opposto… e il suolo vibrò. Tutti, spaventati, indietreggiarono. L’intero piedistallo cominciò a girare lentamente su se stesso in senso orario e tutto il pavimento all’interno del cerchio formato dalle colonne sprofondò con la stessa lentezza, sotto gli sguardi meravigliati dei presenti. In pochi secondi, si formò un buco cilindrico con al centro una colonna a cui il piedistallo fungeva da cima. E… basta.

«È stato fantastico! Ma… tutto qui?» disse Acceber, di nuovo euforica.

«A quanto pare… se è così, non dobbiamo fare altro che passare di villaggio in villaggio, di manufatto in manufatto e di piedistallo in piedistallo finché, infine, non ci sarà rivelato dove si trova il Tesoro! Il problema maggiore, a questo punto, sono i rischi del viaggio» suppose Laura.

«Già, ma per fortuna abbiamo una brava guida!» esclamò bonariamente Sam, andando da Acceber e dandole una pacca sulla spalla.

«Oh, grazie!» ringraziò Acceber, rispondendo con una pacca ancora più energica.

«Ehi, aspettate… qualcosa si sta aprendo, là sotto!» li avvertì Chloe.

Ed era vero: sul fondo del pilastro che dal piedistallo scendeva nello spazio cilindrico che si era formato, si era aperta una nicchia. E, dentro quella nicchia, c’era qualcosa. Sam si offrì di andare a vedere. Quindi, con un balzo, il ragazzo coi capelli rossi si calò nel fosso e prese l’oggetto misterioso.

«Cos’è?» gli chiese Laura.

«È come una piccola lastra di pietra, ma sopra ha dei... sì, sono tasselli, come quelli di un mosaico!»

Risalì e lo fece vedere a tutti. Come aveva già detto, era una sottile lastra di pietra levigata rettangolare, ricoperta di tasselli colorati. C’era da chiedersi come diamine avessero fatto a non scolorirsi, essendo rimasti nascosti in una nicchia sigillata per più di seimila anni, ma ormai era chiaro a tutti che, in un posto come ARK, era meglio non farsi domande. Non si capiva molto di cosa fosse raffigurato nel mosaico. Ma, osservando attentamente, Laura intuì che potesse essere il pezzo di un paesaggio: in basso a sinistra era tutto verde, sulla destra c’era un’area grigia a forma di triangolo rettangolo e, per il resto, uno sfondo blu.

«Forse è un mosaico – ipotizzò – Magari il messaggio in codice intende dire che per ciascun piedistallo che “attiviamo” col relativo manufatto, ci verrà dato un pezzo del mosaico, fino a completare il disegno. Quello
dev’essere l’indizio finale per il Tesoro!»

«Sai che questo ragionamento fila?» rispose Jack.

«Be’, allora che aspettiamo a continuare?» chiese Chloe.

Laura controllò la mappa con le indicazioni lasciate da Yasnet: la comunità più vicina era l’insediamento secondario delle Frecce Dorate, su un’isolotto in un fiordo.

“Ah, dove Helena e gli altri si trovavano quando l’ho sentita l’ultima volta! – pensò – Infine, non siamo riusciti ad incontrarci qui. Magari li incrociamo strada facendo… non vedo l’ora di averli insieme a noi: mi sentirò molto più sicura! Anche Acceber dovrebbe essere felice di stare con altri stranieri, vedendo com’è”.

E, pieni di entusiasmo e con una pista sempre più chiara da seguire, ripartirono.

===========================================================

Helena Walker aveva quasi dimenticato come fosse cavalcare un dinosauro. Ovviamente, ricordava benissimo che le piaceva tantissimo volare con Atena, l’argentavis che Edmund le aveva regalato per aiutarla ad esplorare l’isola, due anni prima. Tuttavia, non aveva più in mente la sensazione in sé. Questo l’aveva fatta sentire doppiamente felice, quando Mei si era presentata con quattro velociraptor appena domati solo per loro. Anche la guerriera cinese lo era: glielo si leggeva in faccia. Mei-Yin assumeva un’espressione diversa dallo sguardo gelido e serio che la contraddistingueva solo in due occasioni: quando era furiosa e quando era soddisfatta. Per il resto, era impossibile riuscire a capire cosa provasse in un momento qualsiasi.

Inoltre, prima che partissero, Rockwell aveva provato a prendere il Manufatto dell'Immune da Aisirk Aiccerfatarod, la sorella di Yasnet, che era alla guida di quell’avamposto. Sosteneva che era stato un poco difficile convincerla, ma che alla fine aveva comunque ottenuto quel manufatto “destreggiandosi verbalmente fra gli argomenti giusti”. Le tattiche diplomatiche tipiche di Rockwell: le usava sempre e dovunque, usando la sua carriera di farmacista per fare esercizio. Sicuramente, quel tratto era un’eredità del suo secolo d’origine.

Era circa un paio d’ore che attraversavano la foresta al trotto, se così si poteva definire l’andatura media dei velociraptor. Mei apriva la fila, sempre entusiasta all’idea di poter relamare ancora il suo posto sull’isola come Regina delle Bestie, anche se relativamente per poco. Nerva stava dietro, Helena e Rockwell stavano in mezzo. Prima di partire, avevano avuto anche la premura di acquistare delle armi, per difendersi in caso avessero fatto incontri pericolosi. Tutti e quattro avevano preso una balestra e una faretra piena di frecce piumate, le frecce di miglior qualità su ARK, che erano decorate con penne e piume per essere riconosciute. Poi, Nerva e Mei avevano preso delle spade, essendoci abituati, mentre Helena e Rockwell si erano accontentati di due coltelli da sopravvivenza.

«Ehi, mi è venuta in mente una piccola cosa, giusto per sfizio!» disse Helena ad un certo punto, per rompere il silenzio.

«Dicci» le rispose Mei.

«È abbastanza triste tenere le nostre nuove bestiole anonime, specialmente se dovessimo affezionarci a loro. Che ne dite di suggerire dei nomi?» suggerì la biologa.

«Perché no? Del resto, l’avevo fatto anch’io, anche se su consiglio di Ellebasi» commentò Rockwell.

«D’accordo! Allora comincio io. Fatemici pensare… be’, credo che andrò sul classico: visto che questo è un animale veloce, lo chiamerò Usain, come Bolt. Ricordate di quando vi ho parlato dell’atleta più veloce del mondo, no? Sapete, il Jamaicano»

«Sì, sì» risposero gli altri.

«Il mio vecchio argentavis si chiamava Archimede, quindi penso di voler dare il nome di un genio classico anche a questo velociraptor – rimuginò Rockwell – Dunque… siccome sono un medico, lo chiamerò Ippocrate»

Gaius, siccome il suo velociraptor aveva la pelle bianca e i ciuffi di piume sul verde acqua ed era femmina, decise di chiamarlo Alba (dal latino albus, che vuol dire “bianco”).

Quanto a Mei, Helena sapeva già che avrebbe tirato fuori uno dei bizzarri nomi orientali per i quali il suo vecchio contingente di creature era diventato così popolare su tutta l’isola. E aveva ragione. Però, anche Mei scelse il nome in base ai colori: infatti la chiamò Hei, che in mandarino significa “nero”, essendo la sua bestia color pece con le piume grige.

Mezz’ora dopo, finalmente, anche loro raggiunsero la collina del “Partenone” e iniziarono a scalarla, in cerca dei ragazzi.

------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------

Drof Ydorb non ricordava quasi niente di quello che era successo dopo lo scontro con suo figlio. Aveva marciato con le creature superstiti verso la foresta di sequoie, sforzandosi di sopportare il dolore alla spalla. Ma le fitte non facevano che diventare più insistenti: ogni volta che Onracoel faceva un passo, era come se qualcuno gli avesse ficcato due dita nel buco scavato dal proiettile. Aveva fasciato la ferita con quel poco che aveva, ma la spalla non è il braccio o la gamba: è abbastanza difficile trattenere una perdita di sangue da quel punto, specialmente per uno che conosceva solo i trattamenti basilari della sopravvivenza. Più sangue sgorgava, più le sue forze diminuivano. A un certo punto gli si era offuscata la vista: non riusciva più a distinguere le sagome di alberi e rocce. Poi, gli era venuto sonno. Alla fine, il poveraccio aveva ceduto ed era caduto dal dorso del suo carnotauro.

Ma, dopo un lasso di tempo che non riusciva a stimare per lo stordimento, si era svegliato su un letto, in una stanza con le pareti in pietra cosparse di un liquido trasparente, cosa che poteva capire dai riflessi creati dalle lampade ad olio appese al soffitto, che evidenziavano i contorni delle chiazze bagnate, e piena di scaffali, ciascuno dei quali etichettato e riposto in vari scompartimenti. Quando acquisì più lucidità, immaginò di essere finalmente arrivato alla clinica di Ellebasi Iderap, presso gli Alberi Eterni. Non aveva idea di come ci fosse mai arrivato, ma ne fu comunque contento. Sollevò la testa e vide che adesso la sua ferita era stata fasciata molto più professionalmente; ma anche le nuove bende erano inzuppate di sangue. Girò la testa verso sinistra e vide, su un tavolino, dei rudimentali attrezzi chirurgici in metallo, anch’essi evidentemente cosparsi di quel liquido. A quel punto, intuì che era un disinfettante. Forse bile di ammonite, o magari muco di acatina. Inoltre, appeso ad uno dei muri, era appeso il ritratto, tinto col succo di varie bacche, di Ellebasi e il dottor Edmund Rockwell insieme in uno studiolo. Lui era raffigurato seduto ad una scrivania, intento a sezionare e studiare fiori e germogli, mentre lei guardava incuriosita quello che stava facendo il medico.

In quel momento, la porta in legno rinforzato della stanza si aprì ed apparve la donna che l’aveva salvato. Ellebasi era una donna sulla quarantina, sul cui viso si erano già formate le prime rughe. I suoi capelli brizzolati erano raccolti con grandissima cura e le mani erano cosparse del liquido disinfettante.

«Finalmente ti sei svegliato, Ydorb! Quando ti hanno portato qui ho pensato che non sarei riuscita a salvarti, lo sai? Ma sei stato più forte del previsto. Tipico delle Frecce Dorate!»

«Da quanto sono qui?»

«Dieci ore. Tre cacciatori ti hanno trovato perché hanno sentito i versi di varie creature, le tue. Ti hanno trovato in fin di vita e ti hanno portato da me»

«Dov’è il mio carnotauro? E le altre bestie?»

«Nella stalla comune. È stata una bella sfida rimovere quella pallottola dalla tua spalla: era andata bene in fondo! Chi ti ha sparato, comunque?»

Drof non sapeva se era pronto a rispondere. Sospirò e, con sforzo e dolore, si mise seduto e si stirò le gambe.

«Hai presente il Ladro di Innesti?»

«E chi non l'ha presente?»

«Be’… è mio figlio»

Ellebasi sbarrò gli occhi:

«Come?!»

«Già. Mio figlio, un mostro che speravo fosse morto otto anni fa, è il sadico assassino che ruba gli innesti alla gente»

«Per gli spiriti… perché si comporta così?»

«Non ne sono del tutto certo, ma credo che sia impazzito il giorno in cui dovette assistere alla… dipartita di sua madre»

«Capisco. È rimasto traumatizzato e, come conseguenza, ha sviluppato gusto per la morte altrui. Rockwell mi ha spiegato qualcosa di simile, due anni fa»

«E ora vuole uccidere sua sorella Acceber. So già che quel brutto bastardo non si fermerà davanti a niente per riuscirci. Ma giuro sul mio spirito che lo fermerò! Non sarò mai in pace finché Gnul-Iat minaccia la mia meravigliosa figlia! Dov’è la mia attrezzatura?»

Balzò giù dal letto e si apprestò ad uscire, ma Ellebasi lo trattenne:

«Altolà! Dove penseresti di andare, Ydorb? Finché la tua spalla non sarà guarita del tutto, non ti azzardare ad uscire da questo villaggio!»

«Ma devo avvertire mia figlia e cercare Gnul-Iat per sbarazzarmi di lu! È il mio dovere!»

«Puoi sempre inviarle una lettera, per farle sapere di te e di suo fratello! Hai qualcosa che le appartiene per farla rintracciare, no?»

«Ma certo!»

«Allora fai così! Ma non uscire ancora da questo villaggio. È per il tuo e il suo bene, Ydorb. Se vuoi davvero renderti utile, ascolta me!»

Drof era fortemente combattuto. Era difficile accettare la verità e non ribattere. Ma alla fine riuscì a tenere i nervi saldi e decise di obbedire. Quindi, dopo aver “incaricato” Ellebasi di spargere la voce per mezzo dei pazienti che le si sarebbero presentati a venire, uscì dalla farmacia. Il villaggio degli Alberi Eterni era costruito per la maggior parte sulle piattaforme ad anello ancorate alle sequoie giganti e l’ufficio postale non faceva eccezione. Drof, dopo aver attraversato un paio di ponti tibetani, ci entrò e chiese se c’erano dei tavoli liberi per la stesura di una lettera. Gliene fu indicato uno in un angolo. Dunque ci si sedette, prese la carta e lo stilo che erano già lì, pronti per l’uso, e riassunse tutta la sua vicenda a partire dalla battaglia sulla spiaggia, per poi spiegare che lui avrebbe dovuto attendere qualche tempo per via della riabilitazione. Finito di scrivere, arrotolò il foglio e lo legò con un filo di spago. Poi andò alla voliera dei dimorfodonti viaggiatori, usati per trasportare la posta per tutta ARK. C’era da ringraziare per il giorno in cui un impiegato portoghese dal 1980 aveva insegnato il servizio postale agli Arkiani. Drof avvicinò un dimorfodonte che si lisciava le piume con tranquillità e gli fece annusare una ciocca di capelli di sua figlia, in modo che il piccolo pterosauro sapesse rintracciare la destinataria. Il dimorfodonte strillò, prese la lettera e volò fuori dalla finestra.

“Non abbassare mai la guardia, figlia!” pensò Drof.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Videogiochi > ARK: Survival Evolved / Vai alla pagina dell'autore: Roberto Turati