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Autore: ChiiCat92    07/01/2019    0 recensioni
"Succedeva spesso nel cuore della notte. All’improvviso gli mancava il fiato e si svegliava in preda al panico, cercando un boccone d’aria rovente; il cuore si stringeva in una morsa così dolorosa da costringerlo a portarsi una mano al petto.
In quei momenti pensava che sarebbe morto. Lo pensava con sincera lucidità, e avrebbe accolto la Morte senza neanche combattere."
Genere: Introspettivo, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Saix, Xemnas
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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04/01/2019

 

Mal du pays

 

Succedeva spesso nel cuore della notte. All’improvviso gli mancava il fiato e si svegliava in preda al panico, cercando un boccone d’aria rovente; il cuore si stringeva in una morsa così dolorosa da costringerlo a portarsi una mano al petto.

In quei momenti pensava che sarebbe morto. Lo pensava con sincera lucidità, e avrebbe accolto la Morte senza neanche combattere.

Poi il dolore svaniva, il respiro si calmava, gli occhi mettevano a fuoco la stanza da letto.

Era allora che le dita tremanti andavano a toccarsi il volto.

Era una sofferenza e insieme un sollievo sentire sotto i polpastrelli la carne come rattrappita della cicatrice che lo sfigurava. Quel segno profondo lo aiutava a ricordare.

E allora sospirava, tornava a stendersi a letto, chiudeva gli occhi.

Per una notte ancora la nostalgia non l’avrebbe ucciso.

 

*

 

Aveva imparato con il tempo ad abituarsi a vivere come un nomade. Quando sceglieva un posto dove stare si fermava il tempo necessario per guadagnare la somma per ripartire. Da quando aveva lasciato il branco...no, il gruppo, si era abituato alla solitudine. O meglio, si forzava a credere di essersi abituato.

Quando si svegliò quella mattina, da un sonno leggero e agitato come sempre succedeva dopo le crisi, la luce filtrava a malapena dalle tende di stoffa grezza della stanza. Gli ci volle qualche istante per mettere a fuoco lo squallore che lo circondava.

L'odore di muffa e chiuso che permeava l'aria gli fece storcere il naso. Ad una persona qualsiasi non avrebbe dato fastidio, ma lui non era una persona qualsiasi. Per lui, il minimo odore si trasformava in un puzzo insopportabile.

Per una minuscola, spaventosa frazione di istante, avvertì le avvisaglie di quel male che lo avvelenava da dentro e che lo aggrediva di notte, quando non poteva controllarlo.

Gli mancava l'odore del sottobosco, la miriade si fragranze che gli solleticavano i sensi.

Strinse la mascella e si alzò. Non poteva permettersi di indugiare in quei pensieri.

Anche se squallida, la stanza aveva tutto ciò di cui aveva bisogno: un letto e un bagno privato. I suoi effetti personali, per non dire la sua intera esistenza, era costituiti da un borsone sdrucito e un vecchio giaccone.

Prese jeans, una maglia pulita e una felpa e si vestì, senza fretta, perché gli piaceva sentire il freddo sulla pelle nuda.

Le temperature erano scese a picco negli ultimi giorni e il cielo era gravido di neve. Lui poteva sentirla nell'aria, l'annusava quando il vento soffiava da nord: presto sarebbe venuta giù in fiocchi grossi, pesanti. Doveva lasciare la città prima della nevicata, così da confondere le sue tracce sotto la coltre bianca.

Ma aveva ancora un po’ di tempo.

Andò in bagno a svolgere il penoso compito giornaliero di rendersi presentabile agli occhi degli altri. Allo specchio, vide riflesso un volto stanco, dalla carnagione pallida, contornato da lisci capelli blu notte; zigomi alti, labbra sottili come tirate in una smorfia, sopracciglia dal taglio severo, e occhi ambrati. Se non fosse stato per la cicatrice che gli solcava il viso sarebbe potuto essere attraente.

Cercò di ignorare quel insignificante particolare che ormai faceva parte di lui, e ravvivò i capelli. Sapeva che gli sguardi sarebbero caduti inevitabilmente su quel segno indelebile, ma non era per forza un punto a suo sfavore: non gli piaceva essere al centro dell'attenzione.

Sbuffò, sfuggendo al suo stesso sguardo, prese il giaccone e uscì dalla stanza. Quella serratura ridicola non avrebbe impedito a nessuno di entrare, ma lui non aveva niente che valesse la pena rubare.

L'uomo nel gabbiotto all'ingresso fumava un sigaro, i piedi sul bancone. Non si scomodò a salutarlo, e la cosa fu reciproca.

Rimase a lungo sull'entrata del motel ad ascoltare il mondo intorno a lui. Non erano ancora le sette e il traffico era lento, letargico; l'aria si condensava in nuvolette bianche ad ogni respiro.

Saïx la respirò a fondo. Sapeva di fumo, smog, insofferenza e neve. Soprattutto neve.

Un paio di giorni ancora.

Aveva trovato un lavoretto in un negozio ortofrutta. Niente di che, si trattava di caricare e scaricare cassette di frutta e verdura su e giù per il locale. Lo paga non era male e ormai aveva messo da parte quanto bastava per lasciare la città.

Più si muoveva, più aumentavano le sue probabilità di sfuggire a lui.

Il vento si alzò, gelido, soffiando una zaffata di odore pungenti proprio sul suo viso. Non sopportava il fetore delle città. I grandi ammassi di abitazioni, la sporcizia, la mancanza di verde, la folla, il caos di automobili. Ma doveva, confondere il proprio odore era più facile in una città così grande. L'unico punto a sfavore era che, come lui poteva nascondersi, anche i suoi inseguitori sarebbero stati virtualmente invisibili.

Ma non era il caso di preoccuparsi, perché sarebbe andato via a breve. Nuova città, nuova vita, nuova identità, nuovi modi per allontanare il male.

Con le mani in tasca si avviò a piedi verso il negozio.

Di tanto in tanto scorgeva la sua immagine riflessa sulle vetrine, sui finestrini delle macchine parcheggiate. Era alto, massiccio, con spalle larghe e muscolose, aveva il passo svelto. La gente tendeva ad evitarlo naturalmente, come si evitano le cose pericolose, per istinto, per autoconservazione. Eppure quello a sentirsi minacciato era lui.

Perché era solo.

Quelli come lui non potevano scegliere di vivere da soli, non lo concepivano neanche. La loro forza, la loro famiglia, era il branco. E lui non aveva più né l'una né l'altra.

Si trattenne dal toccarsi la cicatrice. In qualche modo lo faceva sentire vivo, lo faceva sentire sicuro.

Aumentò il passo, perché non aveva voglia di arrivare in ritardo al lavoro e perché aveva fretta di impegnare la mente in altri pensieri.

La città comincia a svegliarsi, lentamente, nella brina del mattino. Le porte dei negozi venivano aperte, le serrande alzate, i garzoni di bar e ristoranti pulivano i patii con la testa bassa e gli occhi ancora chiusi.

Saïx respirava a fondo l’aria gelida, lasciava che gli entrasse nei polmoni. Cercava briciole del suo mondo in quegli odori, senza però trovarle. Strinse la mascella, infastidito.

Per quanto si sforzasse, non riusciva a respingere la nausea che gli prendeva lo stomaco quando pensava a casa. Era soverchiante, ma era anche sbagliata.

Voltò l’angolo. Di fronte al negozio ortofrutta stava parcheggiando il camion delle consegne.

Il proprietario vide Saïx avvicinarsi e lo salutò con una mano.

Lo aveva stranamente preso a cuore. Saïx sapeva di non avere un aspetto rassicurante per la maggior parte degli esseri umani, e tante volte aveva goduto con sardonico piacere del velo di intoccabilità che gli procurava. Eppure, quell’uomo non sembrava avere paura di lui.

« Buongiorno Saïx. » esordì, quando lui gli fu vicino. Aveva un volto grezzo, come se la natura avesse dimenticato di terminare di scolpire i suoi lineamenti. Forse era per via di quelle anomale apparenze che non provava alcun timore per il viso sfregiato di Saïx.

« Buongiorno. » rispose lui, forzatamente educato. Si trovava a disagio con quell’uomo, soprattutto perché continuava a chiedergli di rimanere. Ma lui non poteva.

« Hai già fatto colazione? Ho un termos con del caffè se gradisci… »

« Grazie, ma preferisco cominciare a lavorare. »

« Prima si inizia prima si finisce, mi piace come ragioni, figliolo! »

Saïx trattenne una smorfia e gli volse le spalle, dedicando la sua attenzione al camion, e alle casse di frutta che doveva scaricare.

Era facile e gli piaceva mettere in moto i muscoli, annebbiare il cervello con il puro, semplice, movimento del corpo.

Erano quelli il genere di lavori che preferiva, i più pesanti, quelli che nessun’altro voleva fare. Perché il sudore e la stanchezza gli permettevano di prendere subito sonno la sera, e cancellavano gli incubi. La maggior parte delle volte.

 

Verso mezzogiorno Saïx venne pagato per il lavoro e poté andare a mangiare qualcosa.

Il Sole aveva scaldato l’aria, ma il freddo era ancora pungente. Gli umani correvano come scarafaggi da un punto all’altro cercando posti caldi in cui ammassarsi.

Trovare un posto dove pranzare fu difficile.

Trovò una tavola calda affollata, che avrebbe nascosto a meraviglia la sua presenza, e vi entrò a testa bassa.

Ordinò una bistecca al sangue e si sedette il più lontano possibile dalla porta d’ingresso, in un angolo appartato dove nessuno gli avrebbe dato fastidio.

Mentre aspettava che gli servissero il pranzo tirò fuori dalla tasca del giaccone una cartina consumata e spiegazzata. Aveva tracciato con un pennarello rosso la strada che aveva fatto fino a quel momento, e non aveva ancora deciso dove andare.

Per quanto ancora il branco sarebbe stato al suo inseguimento?

“Fino alla tua morte.” sibilò una voce nelle sue orecchie, tanto reale che dovette guardarsi intorno per assicurarsi di essere solo.

Con l’arrivo dell’inverno avrebbero dovuto migrare verso luoghi più caldi, sarebbe stato stupido mettere tutti in pericolo per lui.

Gli occhi.

Saïx non poté impedire al ricordo di affiorare alla sua mente.

Gli occhi d’ambra intensa, scottante, che lo guardavano. Delusi, furiosi.

Quante volte aveva guardato quegli occhi con ammirazione e da loro era stato guardato allo stesso modo.

Di nuovo, sentì il male stringergli lo stomaco. La nausea gli rese ripugnante l’odore del cibo, e dovette aggrapparsi al tavolo per sfuggire alla sensazione del pavimento che si allargava sotto di lui per fagocitarlo.

« Ecco a lei! » Saïx sollevò di scatto la testa a sentire quella voce. Il cameriere perse subito il sorriso, ma rimase immobile al suo posto, poggiando il piatto sul tavolo.

« Grazie. » sbottò lui in risposta, piegando in fretta la cartina e rimettendola nella tasca interna del giaccone.

« Una cartina, eh? Non ci sono più persone che le usano, basta Google Maps, lei è un tipo all’antica? »

Saïx non rispose, aveva ancora le unghie affondate nel legno del tavolo, la vernice rischiava di saltare via.

« Se è un esploratore le consiglio il bosco appena fuori città, in questo periodo i lupi migrano verso sud e con un po’ di fortuna li si può vedere! »

« Sì, lo so. » stavolta, non poté trattenere un ringhio.

Il cameriere sbiancò, cercava visibilmente di trattenersi dallo scappare via. « Vuole...qualcos’altro oltre alla bistecca? »

« Va bene così. »

Saïx lo sentì mormorare un “bene” prima di defilarsi, tremante.

I lupi. Cosa ne sapeva quel moccioso dei lupi.

Respirò a fondo, cercando di calmarsi. Sentiva in bocca il sapore acido della bile, e i canini appuntiti solleticare le labbra. Dovette divellere le unghie dal tavolo, affilate come coltelli.

Sarebbe stato semplice, fin troppo. Liberare la bestia che teneva in catene nel petto, abbandonare le spoglie umane, poggiare le zampe a terra e correre, correre. Senza freno, senza controllo, senza coscienza, senza cuore: tornare a essere l’animale che era.

Chiuse gli occhi e prese a contare.

Uno.

La ragazza che si era avventurata un po’ troppo nel bosco.

Due.

La coppia di campeggiatori.

Tre.

Il vecchio taglialegna.

Quattro.

Quel bambino con il fratello maggiore.

Cinque.

Axel.

Non voleva più essere un animale. Non voleva più perdere il controllo. Non voleva più che la sua mente fosse un intricato ammasso di pensieri ringhianti.

Quando riaprì gli occhi era solo Saïx, seduto davanti ad una bistecca che andava raffreddandosi, in una tavola calda affollata.

Sospirò di sollievo e prese a mangiare.

I lupi migravano a sud per l’inverno, e Saïx sarebbe andato al nord, dove seguirlo avrebbe significato la morte del branco.

Se fosse rimasto un po’ di buon senso in lui avrebbe lasciato perdere la caccia.

Quel pensiero agrodolce alterò il sapore della carne. Gli sembrò di masticare sangue e terra, il sapore che avevano le prede quando le dilaniava con le zanne, sotto quegli occhi d’ambra vigile.

Era quello il sapore della nostalgia?

Stava ancora masticando l’ultimo boccone quando si alzò per andarsene. Non aveva tempo da perdere.

Pagò, lasciò la mancia per il cameriere terrorizzato, e uscì.

Adesso aveva abbastanza denaro per comprare il biglietto per lasciare la città. Un viaggio di 15 ore l’avrebbe portato lontano, tanto lontano da sfuggire ai ricordi, agli occhi d’ambra, persino da se stesso.

Si avviò di buona lena verso la stazione degli autobus.

La vedeva già in lontananza quando lo sentì. Nell’aria, diluito dai rumori della città, sotto il chiacchiericcio incostante della gente: un ululato.

Immobile, rigido, Saïx si chiese se potesse essersi sbagliato, se la mente non gli stesse giocando un brutto scherzo.

Poi lo sentì ancora.

Un brivido gelido gli percorse la schiena.

Com’era possibile?

Anche se avessero corso giorno e notte non avrebbero potuto raggiungerlo così in fretta. Aveva ancora tempo, aveva ancora tempo!

Il cuore prese a battergli nelle tempie, soffocando i pensieri razionali. Avvertì lo spasmodico bisogno di andare a nascondersi, la coda tra le gambe, uggiolante, spaventato.

No, non adesso, non dopo la libertà che aveva guadagnato.

Poteva salire sul primo autobus che trovava, per qualsiasi destinazione, guadagnando così un po’ di tempo, ma sprecando il denaro che aveva messo da parte, e questo senza tornare al motel a prendere le sue cose.

Avvertì ancora l’ululato. Il vento lo faceva sembrare più vicino di quanto non fosse, ne era certo. Era il suo udito sensibile a percepirlo, mentre gli umani ne ignoravano l’esistenza.

Si volse e cominciò a correre. Non poteva lasciare i suoi effetti personali al motel. Da lì, se avesse imboccato la superstrada, poteva tentare con l’autostop.

Non si soffermò a valutare le probabilità, perché al momento era la sua unica opzione. Se fosse stato necessario avrebbe offerto l’intera somma che aveva con sé perché lo portassero il più lontano possibile.

Arrivato al motel quasi buttò giù la porta della sua stanza. Raccolse in fretta gli abiti sparsi in giro, le mani salde nonostante l’animo tremasse.

Non riusciva a capacitarsi di come fosse possibile.

“Forse.” pensò con un brivido. Il gelo sembrava essersi impossessato delle sue ossa, fin nel midollo, il sangue scorreva lento. “L’ho sottovalutato.”

Lo riconobbe subito. Il modo in cui quel profumo saturava l’aria era inconfondibile. Tante volte si era addormentato respirandolo, tanto intenso da insinuarsi nei suoi sogni.

ll buio odorava di lui, la notte stessa portava nel vento la sua essenza, e quando la riportava alla memoria, non poteva che associarla ad un’oscurità senza stelle.

Le mani serrate intorno alle cinghie del borsone, si impedì di voltare lo sguardo. Anche quando lui bussò.

Toc, toc, toc.

L’aveva trovato, l’aveva raggiunto.

“Perché non puoi lasciarmi andare.”

Spostò lo sguardo verso la finestra, valutando di usarla per fuggire, ma lui non sarebbe andato a prenderlo da solo, rischiando di farselo sfuggire: era in trappola, lo sapeva.

Lentamente, un passo alla volta, andò alla porta.

« Saïx. »

La sua voce, il suo richiamo.

Il cuore si strinse in una morsa, la stessa che lo prendeva di notte. Si portò la mano al petto.

Saïx ricordò la prima volta che l’aveva sentita, ricordò l’orgoglio che l’aveva permeata, ricordò il piacere che gli aveva dato.

Quella fitta atroce gli mozzò il fiato. Si odiò, si odiò per la propria incapacità di resistergli.

Aprì la porta e non si stupì di trovarselo davanti.

La pelle brunita dal sole, lucida sotto i muscoli, la forma delle spalle, il collo slanciato, il mento definito, gli zigomi, il naso, tutto di lui era stato fatto per essere guardato. Brillava di luce propria, ma era una luce oscura.

Saïx riuscì a sopportare il peso dei suoi occhi ambrati colmi di dissenso solo per pochi istanti, come un bambino colto con le mani nel sacco.

« Saïx. » tornò a dire, dolcemente, quando mosse una mano verso di lui Saïx sentì il suo profumo alzarsi come un’ala. Lo aspirò a fondo, fino a farsi bruciare i polmoni.

Saïx sentì la gola stringersi in un nodo. Fu solo per uno sforzo di volontà che riuscì a non gettarsi ai suoi piedi per chiedere perdono.

Che folle era stato, quale assurdo pensiero aveva preso la sua mente tanto da portarlo lontano da lui, lontano da Xemnas, cosa credeva di poter fare da solo? Un lupo, senza un branco, muore.

« Mi dispiace. » riuscì a dire, sottomesso, la voce ridotta ad filo sottile.

Xemnas gli accarezzò il viso. La sua mano grande e calda era tutto ciò che Saïx desiderava.

« Non devi più scappare così, Saïx. » chioccolò l’uomo.

Quando parlava così, la sua voce era simile al rombare lontano di una tempesta, di cui si poteva solo intuire la violenza. Bassa, scura, intensa, colava fin dentro l’anima, imputridendola.

« Mi dispiace. » ripeté ancora lui, disperato stavolta.

Cercando di fuggire alla sua stessa natura, al branco, Saïx aveva sfidato Xemnas. Era riuscito a scappare, ma lui l’aveva irrimediabilmente sfregiato. Da allora aveva latitato come un nomade da una città all’altra, con la consapevolezza che sarebbe stata solo questione di tempo: Xemnas l’avrebbe trovato.

Si era illuso, ah, se si era illuso, di poter vivere felice e lontano da quel mondo. Ma non aveva fatto i conti con la nostalgia.

Quando Xemnas lo tirò a sé per stringerlo in un abbraccio capì quanto era stato stupido. Tra le sue braccia aveva tutto ciò che desiderava, cibo, calore, sicurezza, amore.

Xemnas sapeva cos’era meglio per lui, Xemnas sapeva di cosa aveva bisogno.

Ricambiò la stretta aggrappandosi alla sua schiena, di nuovo come un bambino, al suo cospetto, d’altronde, non sarebbe mai stato altro.

Le grandi mani calde di Xemnas gli percorsero la schiena, Saïx sentì come se scavassero un solco nella carne anche attraverso gli abiti. Gli accarezzò i capelli e lui strinse i denti per sopportare.

Perché poi Xemnas strinse, tanto forte da farlo gemere nonostante i denti serrati. Strinse tanto che per un attimo Saïx temette che gli avrebbe strappato il cuoio capelluto.

Lo costrinse a terra, carponi come un animale, e lui si piegò, assecondando quella presa ferrea.

Saïx inghiottì il dolore, lo accolse come una vecchia conoscenza, lo riconobbe come inevitabile compagno.

Aveva giurato a se stesso che non avrebbe mai più assunto la forma animale, che si sarebbe tenuto lontano da ogni istinto primigenio, che sarebbe stato umano. Che non avrebbe più ucciso. Che Xemnas non l’avrebbe più piegato.

Invece, adesso, gli arti si contrassero, il suo corpo ebbe un fremito, dalla gola uscì un rantolo di sofferenza, e prima che potesse anche solo rendersene conto non era più Saïx, ma un lupo, dallo spesso manto blu-grigio, e gli occhi tristi.

Non osò sollevare il muso verso Xemnas, il suo Alfa, neanche quando lui fece scattare un collare intorno al robusto collo.

Umiliato, Saïx uggiolò, e fece resistenza quando Xemnas tirò il guinzaglio per farlo uscire dalla stanza.

« D’ora in poi sarò più rigido con te, Saïx. » disse l’uomo, senza smettere di tirare. Saïx si sentì soffocare e suo malgrado dovette sottostare. Poi si fermò, si fletté sulle ginocchia per essere alla sua altezza. Gli accarezzò la testa, le orecchie, con grande cura e affetto.

Saïx si strusciò alla sua mano senza poterselo impedire. Quel tocco era familiare e fin troppo piacevole.

Seppe immediatamente che non avrebbe più sofferto di quel male che lo svegliava la notte, che Xemnas era l’unica cura.

Xemnas gli sorrise, gentile, e si rialzò.

Lo condusse verso l’uscita del motel, mentre la sua mente si perdeva nel piacere delle piccole cose. Il terreno sotto le zampe, la pelliccia calda sulle ossa, l’odore di Xemnas che permeava ogni anfratto.

Cos’era la libertà al confronto di tutto quello?

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The Corner 

Salve a tutti! Come ormai saprete, lo Xemsai Day è una tradizione che mi piace rispettare. Adoro la ship (una delle mie preferite) e mi diverto ad esplorarne ogni sfaccettatura.
Anche questa, come tutte le altre storie, è dedicata alla mia Musa, che adora i lupi, e in particolare Saïx lupo eheheh.
Alla prossima!

Chii

   
 
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