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Autore: Pachiderma Anarchico    10/01/2019    1 recensioni
Yuriy si guardò allo specchio, e ciò che vide non gli piacque affatto.
La bianca pelle del volto era porcellana purissima, intatta e liscia come la prima neve.
Non un graffio, non un livido a testimoniare l'aggressione subita la notte precedente.
Un normale ventiduenne sarebbe caduto sotto a quei colpi, un normale ventiduenne sarebbe morto.
Ma non lui.
Non lui con quegli occhi azzurri e l'anima in tempesta.
Per sei anni non aveva alzato un dito, per sei anni non aveva più parlato quella lingua, familiare e inconfondibile, ed era bastata una miserabile, stramaledettissima notte perché il suo corpo si ricordasse com'è che si uccide un uomo.
. . .
-E poi c'è Mosca.- esordì la voce limpida e gelida di Serjei, che si sedette sul divano e prese la Vodka che Yuriy gli aveva stancamente allungato.
-Già..- Yuriy si massaggiò le tempie, abbandonandosi contro lo schienale. -Cosa volete scatenare, una ribellione?- proruppe, sarcastico.
I due ricambiarono il suo sguardo, immobili e seri come il russo non li aveva mai visti.
-…Non starete dicendo sul serio.-
Genere: Angst, Azione, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Boris, Julia Fernandez, Kei Hiwatari, Un po' tutti, Yuri
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Buonsalve a tutti e buon anno! 
Da queste parti il mondo è stato coperto da una poetica coltre di neve e io sono in casa, acciambellata sul divano a pubblicare il quarto capitolo di questa storia che in tanti state apprezzando. Grazie mille a tutti. 
In questo capitolo succedono un bel po' di cose, ma non preoccupatevi se non capite, a tempo debito tutto verrà svelato, mi piace solo seminare suspense in giro. 
Perdonate ogni svista ed errore, rileggo troppo velocemente e pensando a mille cose differenti, come al solito.
Detto ciò, un caro saluto a tutti, riprendetevi dalle feste e al quinto capitolo (il quale dovrebbe arrivare a breve).
Sotto, come sempre, trovate le risposte alle recensioni (grazie grazie grazie).
Pachiderma Anarchico






This is my kingdome come.



 

4. 

Il carattere è il Destino.






-Non dovremmo essere qui- borbottò Gianni per la quindicesima volta, con lo stesso, petulante tono di voce di Kappa, il quale li aveva lasciati andare sulla porta di casa con le stesse parole.
“Non dovreste andare”.
E per la quindicesima volta Max gli aveva dato qualche colpetto sulla spalla, annuendo come da copione.
-Hai ragione.-
E tutti proseguivano imperterriti, senza rallentare il passo neanche per guardarsi attorno, con la testa bassa come “sciagurate teste di zucca” (a detta di Hilary nel momento esatto in cui anche il dolce, equilibrato, fiducioso Max aveva messo in moto la macchina e aveva esortato tutti a salire a bordo con un ampio gesto del braccio).
A nulla erano valsi i piagnucolii (ragionevoli) di Kappa, né le proteste di Andrew sul “non dare assolutamente a Kai il monopolio dell’aria calda, altrimenti l’avrebbe alzata al massimo come faceva sempre con il camino di casa sua e questa volta non avrebbe risposto delle sue azioni”; alla fine Mariam era balzata in auto, sedendosi sul sedile anteriore accanto a Max, e casualmente la sua mano era scivolata sul cambio proprio quando Max inseriva la marcia.
Daichi proprio non capiva perché la ragazza ebbe tutta questa fretta di accaparrarsi proprio quel posto.
Per la prima volta Gianni e Kei si guardarono di loro spontanea volontà in faccia, scambiandosi un’occhiata ironica.
E, sempre casualmente, Kai se n’era andato in macchina con Takao, Boris, Yuriy e Daichi perché il solo respirare lo stesso ossigeno di quello scozzese tronfio di se stesso pareva un sacrificio a cui mai avrebbe sottoposto la sua preziosissima sanità mentale.
Ma si rese ben presto conto che restare in uno spazio ristretto con Daichi e Takao per più di cinque minuti sarebbe stato molto peggio.
Ed erano in viaggio già da un’ora.
-Takao, potresti guardare la strada per cortesia?- bofonchiò Kai all’ennesima curva che Takao percorreva in linea retta.
-Se magari il pidocchio la smettesse di premere ognipulsantedellaradio DAICHI!-
-Devo familiarizzare con questo coso, devo o non devo prendere la patente?!-
-Uno, hai ancora sedici anni. Due, non ti serve a niente sapere come alzare e abbassare il volume!-
-E poi prima che tu prenda la patente avranno inventato le auto volanti.-
rincarò Boris, seduto su uno dei sedili posteriori accanto a Kai.
-Ma come ti permetti?!- sbottò Daichi, in un modo che parve un mostruoso ibrido fra Takao e Hilary, e cercò qualcosa da lanciargli contro.
-Comunque- Boris lanciò il pacchetto di sigarette a Yuriy, che lo afferrò al volo, dopo essere volato oltre la testa di Kai. -Chi è questa tipa che dovrebbe conoscere anche la taglia di mutande che portiamo?-
-Com’è che si chiamano? Memori?- chiese Takao, schiaffando lontano dal tasto dei tergicristalli la mano insidiosa di Daichi.
-Sono tizi inquietanti sparsi per il globo e che conoscono tutto.-
-Tutto?-
-Tutto.-
Tutti i presenti presero a fissare Kai con insistenza, fino a quando quest’ultimo non fu costretto a ricominciare a parlare.
-Tutto, cazzo. Tutto. Tutto ciò che è stato detto, fatto, nascosto. Qualsiasi cosa riguardi alberi genealogici e bit, la nascita delle dinastie, tutto.-
-Tutto quello che quel vecchio bavoso di tuo nonno ti ha nascosto in pratica.-
commentò Boris mentre sollevava una mano per prendere l’accendino lanciatogli da Yuriy, che sfiorò il naso di Kai.
-Mio nonno…- il nippo-russo si passo le dita sulla fronte. –Merda.-
Boris sussultò. -MERDA!-
Daichi aveva finalmente trovato l’arma da scagliare contro Boris che si rivelò essere niente poco di meno che Dragoon, scovato scandagliando il cruscotto dell’auto di Hitoshi, volato a due millimetri di distanza dall’orecchio sinistro di Kai come una libellula gigante.
Kai iniziò a fischiare come una pentola a pressione.
-Se vedo…- inizò.
-…un solo granello di polvere…- continuò Boris.
-…avvicinarsi nella mia direzione…- riprese Takao.
-…vi taglio la testa…- aggiunse Daichi.
-…e l’attacco su un palo di legno a cui darò fuoco.- concluse Yuriy.
Kai incrociò le braccia al petto e sollevò una gamba sull’altra, nella classica posa alla “non siete neanche degni del mio disprezzo.
-Capito.- dissero in coro Takao e Yuriy.

 
Alla fine erano arrivati insieme a destinazione, con Andrew che aveva iniziato a lamentarsi non appena aveva scorto Kai mettere un piede fuori dall’abitacolo, ricordandosi allora che l’aveva fatto morire di caldo con quel maledetto camino!
E Kai offriva puntualmente allo scozzese la rosea possibilità di trovare alloggio da qualche parte che non fosse casa sua, con parole calde e gentili.
-Andrew, sei ricco da far schifo o sbaglio? Sloggia il didietro fuori da casa mia.-
Julia si guardò attorno. –Dove siamo?-
-Sono già stata qui- irruppe Mariam, sbattendo lo sportello con un tale impeto che Max andò a controllare che non gli avesse distrutto la portiera. -Siamo nella valle del Kiso, no?-
-Esatto- rispose Takao, fingendo di aggiustarsi sul viso un paio d’occhiali invisibili, in un ritratto sarcastico di Kappa. –Siamo all’entrata del villaggio Magome, sulla via Nakasendo.-
-Una volta mi sono allenato qui, ci sono locande dove si mangia benissimo- disse Daichi.
Per quanto disperata fosse la situazione il tempo di abbuffarsi l’avrebbe sempre trovato.
-Non stiamo andando a fare un picnic Daichi, anzi, togliamoci da qui prima che qualcuno ci veda.- Max iniziò a camminare, varcando l’ingresso del paesino e superando una maestosa torre in pietra che denotava l’inizio di uno dei più bei borghi giapponesi.
-Restiamo uniti, non fate i turisti, non percorriamo la via principale e tenete per mano Takao e Daichi prima che si chiudano in qualche ristorante- disse Boris.
Marian scoppiò a ridere rumorosamente, una risata energica e squillante che
s’impadronì inaspettatamente del suo ferreo autocontrollo, scuotendole le spalle con leggerezza.
-Sssssssh!- le intimò Takao, più per la stizza che per il timore di un reale pericolo.
-Scu-scusate.- Finse di asciugare una lacrima e fece una smorfia al ragazzo.
Avanzarono con passo veloce su per una stradina acciottolata, passando attraverso antiche case dai tetti spioventi e i pannelli bianchi, tipicamente nipponiche. Nell’aria si respirava il vento dell’antico Oriente, una terra fantastica e misteriosa popolata da samurai e dinastie imperiali.
Passarono dinnanzi ad una vecchia macina per cereali, una grande ruota in legno addossata al muro di una casupola, e s’inoltrarono nella salita silenziosa, costellata da rigogliose piante verdi e sentieri che si perdevano nel fitto della vegetazione.
-Il freddo non è ancora arrivato- commentò Max mentre oltrepassava la chioma di alcuni ciliegi, i caratteristici alberi che d’estate si agghindano di un lussureggiante manto lilla e avorio e che, con i loro fiori, donano al paese del Sol levante un immenso tappeto di colore.
Gianni e Andrew, in barba al “non fate i turisti”, roteavano gli occhi come pesci rossi e le teste come gufi reali e parlottando di una possibile casa per le vacanze da acquistare.
Takao non era da meno.
Era stato a Magome molte volte quando era piccolo, suo nonno lo portava spesso a visitare gli storici luoghi del Giappone, ma la Nakasendo, che collegava Kyoto con Edo, l’attuale Tokyo, era sempre stata la sua preferita: serpeggiando tra i vari villaggi e danzando fra le montagne, poche cose al mondo la eguagliavano per il fascino che suscitava agli antichi viandanti.
Definita la strada dei Samurai, Takao aveva sempre subito un impellente desiderio di ritrovarsi su questa strada, e di sfiorare con le proprie dita proprio la meraviglia senza tempo di Magome, con cui sentiva un legame particolare da quando suo nonno gli aveva indicato per la prima volta l’entrata del paesino, con le tradizionali abitazioni in bambù, legno, paglia e carta, le sue botteghe dai nomi scritti in pittura bianca e il canto del fiume in lontananza.
Solo dopo Hitoshi gli aveva raccontato che non solo i Kynomia affondavano le proprie radici nel sangue Samurai, ma anche che i suoi trisarcavoli, quintavoli o arcibisavoli –lui ignorava fieramente qualsiasi cosa ci fosse oltre al trisnonno- vivevano qui.
E lui, sin dalla prima partenza del padre e poi del fratello, e ogni qual volta era costretto a dir loro addio si faceva trascinare qui, sorridendo ai pochi abitanti e venendo per sbaglio nelle foto dei turisti. 
Era il suo posto tranquillo, l’oasi felice e senza tempo in cui rifugiarsi quando il mondo sembrava troppo greve, memore di tempi più lieti, in cui l’unica preoccupazione era che il bey restasse in piedi
Adesso, qualcuno incaricato di ucciderlo poteva materializzarsi improvvisamente dinnanzi a lui da un momento all’altro.
“Non può accadere a Magome”, pensò Takao con forza, “dovunque ma non qui.”
-Come sappiamo qual è la casa giusta?- bisbigliò Boris, voltandosi per seguire una turista greca con lo sguardo.
Mariam alzò lo sguardo, rendendosi conto solo allora che se rallentava un po’ aveva una visuale perfetta dei fondoschiena dei russi e di Hiwatari.
-Kappa mi ha detto che si trova sulla sinistra e che è l’ultima casa prima del grande verde, ma francamente non ho idea di cosa voglia dire.- rispose.
-Io sì- intervenne Takao, bloccandosi sul posto.
Qualcosa iniziò a farsi spazio dentro di lui, come una pietruzza lanciata in uno stagno, una pesantezza improvvisa e inaspettata tra le costole.
Perché Kappa non ne aveva parlato con lui?
-Seguitemi.-
Si mise in testa al gruppo, affrettando il passo.
Mariam sbuffò. –Proprio ora che iniziavo a divertirmi?- sussurrò a se stessa, restando alle spalle dei russi.
Julia, poco distante da lei, sentì cosa avesse bisbigliato e incuriosita seguì lo sguardo dell’egiziana, chiedendosi quale fosse questo gran divertimento, per poi realizzare che se avesse smesso prima di fissare i monti in lontananza e si fosse concentrata su altri monti -decisamente più vicini- si sarebbe divertita anche lei.
Diede una spinta all’altra ed entrambe ridacchiarono sfacciatamente.
Quando Daichi notò le scintille negli occhi delle due e volle informarsi a tutti i costi cosa avessero visto di tanto soddisfacente, le due risposero con un laconico –montagne tondeggianti- ed evitarono di guardarsi ancora fino a quando Takao non si fermò davanti all’ultima casa del sentiero, sulla sinistra.
-Ecco il grande verde.-
Era vero.
Oltre l’abitazione non vi erano più case, locande o botteghe e neanche antichi sentieri nascosti da una fitta rete di rami, ma un’immensa valle verde smeraldo e giada che si perdeva a vista d’occhio, il cui numero di alberi pareva infinito, sormontato dalle punte acuminate della catena montuosa.
Sullo sfondo echeggiava lo scrosciare incessante di una cascata invisibile.
-E’ questa, ne sono sicuro.-
Kai e Max salirono le scale in pietra e si avvicinarono alla porta.
-Sono passato da qui un paio di volte- mormorò il biondo. –Non avevo idea che… non sarei riuscito a immaginare tutto questo- e guardò Kai, come forse non lo guardava da tempo, come forse non aveva mai fatto.
I tempi cambiano, e noi con essi.
-Se me l’avessero detto allora, non ci avrei creduto.-
-E probabilmente avresti fatto bene.- Kai non guardava più Max.
I suoi occhi ametista vagabondavano, assorti dalle mille sfaccettature di verde.
–Non siamo sempre stati queste persone, e magari un tempo non saremmo stati capaci di elevarci a certe altezze. I nostri obbiettivi erano altri, ci perdevamo fra le cose da niente del mondo. Ora è diverso.-
-Ora ne siamo all’altezza Kai?- il tono di Max era urgente, l’accento americano avvolse prepotentemente le parole del ragazzo, come accadeva ogni qual volta il biondo era consapevole che le parole da dire sarebbero state troppo ingombranti. –Siamo pronti per dichiarare una guerra?-
Kai non lo sapeva.
Da che mondo e mondo mai Kai Hito Hiwatari era rimasto a bocca asciutta.
Non parlava spesso, ma quando lo faceva era sempre qualcosa di cruciale, tagliente, impervio, ridondante, troppo limpido o troppo fosco.
Era risaputo.
Mai era stato preso alla sprovvista, incapace di ribattere, mai si era mimetizzato dietro al dubbio del silenzio, mai aveva dato agli altri la possibilità di avere ragione, quando poteva averla lui.
Eppure quella volta, in un Giappone appartenuto ad antichi guerrieri di secoli lontani, su una terra sospesa tra mito e realtà, Kai non seppe rispondere.
Disse invece, con gli occhi immersi in quelli acquamarina del compagno:
-Forse non ne siamo ancora all’altezza, Max, e forse non lo saremo mai. Ma so che ci sono voci che stanno parlando di noi, e vecchie storie dove ci sono i nostri nomi scritti col nostro sangue, e voglio sapere perché.-
Bussò alla porta, mentre gli altri si fermavano alle loro spalle.
Per un attimo fu come se in casa non ci fosse nessuno.
Non un rumore, né un bisbiglio, nè l’ombra di passi sul legno del pavimento.
Poi, d’un tratto, la porta venne spalancata.
Max ebbe l’impulso di fare un passo indietro, ma non si mosse.
Kai rimase imperturbabile e chiese: -E’ lei la Memore?- alla donna più strana che avesse mai visto.
Ed ella, confermando che a volte, solo a volte, l’essere combacia perfettamente con l’apparire, non rispose.
Anzi, non parve neppure averlo sentito.
Guardava un punto fisso dinnanzi a sè, in mezzo alle teste dei due ragazzi, come se l’orizzonte le stesse parlando.
Ma aveva sentito, eccome.
Solo che non era la sua voce a interessarle.
Ci fu appena il tempo per Boris di mormorare –Questa è suonata forte- che la donna afferrò le mani di Kai stringendole tra le sue e, altrettanto velocemente, le lasciò andare.
-Entrate- disse solo, e si diresse all’interno della casa continuando a tenere quegli occhi vividi puntati sull’avvenire.
Non poteva essere più grande di Sergej, eppure i suoi capelli erano bianchi come gli abiti delle spose; un collo nodoso e sottile, ossa sporgenti e una magrezza ambigua, diversa, come se non si nutrisse delle cose di questo mondo.
Di pelle scura, con i filamenti candidi dei capelli che le si attorcigliavano sulle clavicole come le zampe di un ragno albino, vagava per la casa come uno spettro più consistente, accendendo e spegnendo candele dagli aromi speziati con un criterio del tutto sconosciuto.
Non sembrava vecchia ma neppure giovane, turca ma anche belga, indiana e thailandese, una danza fra mondi diversi di diverse epoche.
I ragazzi la seguirono, Kai maniacalmente attento a non toccare nulla e Boris cercando con lo sguardo una qualche traccia di eroina perché, ci avrebbe scommesso, si faceva come una zucca.
La donna li condusse nel soggiorno pieno zeppo di cianfrusaglie, sul quale si affacciava una seconda stanza più piccola e circolare, entrambe sommerse da lampade e vetri colorati simili a quelli delle chiese, che gettavano una soffusa luce verde acqua sull’ambiente.
I muri erano stipati di gingilli libici e malesi, del nord America o del Perù, dovunque mettessero i piedi vi era una poltrona color avorio a impedire il passaggio, e Daichi giurò che gli strambi quadri appesi ai muri lo seguissero con lo sguardo.
Mariam gettò un’occhiata ai tappeti porpora e oro che non lasciavano neanche un buco libero sul pavimento, e Max riflettè che quella era non era affatto una casa giapponese; pareva un’accozzaglia di lingue e di culture, un connubio caotico tra Oriente e Occidente, fra Vecchio e Nuovo mondo, come se avesse vissuto milioni di vite e di ognuna ne avesse conservato un souvenir, per ricordarsi che il Presente e il Passato possono bisticciare e non rivolgersi la parola per secoli, ma alla fine trovano sempre il modo di ricongiungersi.
Come due amanti che periscono se stanno insieme, ma non vivono l’uno senza l’altro, concepiscono il Futuro.
Quando la donna si sedette nella stanzetta circolare, Julia notò che non sbatteva le palpebre, così che il singolare colore dei suoi occhi –una macedonia di cromature che avrebbe associato all’oro vecchio, al verde oliva, miele e alle foglie di the- brillava sul viso scuro.
-Mi chiedevo quando saresti venuto da me, Kai Hito di sangue Hiwatari.-
Kai sollevò un sopracciglio.
-Come fa a conoscermi?-
-Non ho bisogno di conoscerti.- rispose subito lei. –Lo sento.-
Piegò leggermente la testa, lasciando gli occhi nell’immobilità più assoluta.
-E sento altre forze vitali… mmmh…. Siete in dieci, o sbaglio?-
Max e Takao si guardarono, Mariam pareva più affascinata che intimorita, gli unici due totalmente in pace con loro stessi erano Gianni e Andrew.
Le loro famiglie avevano a che fare con questi uomini e queste donne da generazioni, e loro avevano già avuto modo di conoscerne i poteri e di strabuzzare gli occhi dinnanzi ad essi.
-Sì- risposte Kai lentamente. –Siamo in dieci.-
-E’ cieca.- sussurrò Julia.
La Memore sorrise appena. Le sue labbra erano piccole e rosee.
-Non sono cieca, cara ragazza. I miei occhi sono avvolti nel buio, ma non mi servono per vedere.- e allungò una mano, con il palmo rivolto verso di lei, aspettando che la spagnola la prendesse.
Julia guardò Andrew –l’unico che sembrava capirci qualcosa- e quello annuì. L’aveva già visto fare.
Allora si avvicinò alla Memore e le prese la mano.
Quella gliela strinse.
All’inizio il freddo delle sue dita le percorse i nervi sotto la pelle, ma mano a mano che i secondi scorrevano la pelle della donna divenne via via più calda, fin quasi a scottare.
Come se l’energia di Julia, forse persino il suo sangue, confluisse in lei, risalendole per i tendini e riempiendole le ossa.
-Sì… ah sì. Julia Fernandez, nata nel Solstizio d’Estate, senza ombra di dubbio.- Fece per lasciarla, ma d’improvviso le strinse la mano così fortemente che Julia si morse il labbro inferiore per non urlare.
Takao e Max erano già balzati avanti, ma la donna sollevò la mano libera.
Aveva ricominciato a parlare.
-Interessante… il gioco che fai è pericoloso, ma la tua forza è tutta qui… c’è… c’è, la sento. E’ una forza terrena, carnale, passionale… non sei fatta per gli dei, Julia Fernandez. Il Futuro ha in serbo un posto cruciale per te, ma il Destino non è sicuro che tu possa sopravvivergli.-
Julia si guardò attorno, incontrando la stessa perplessità fra le palpebre sbarrate degli altri.
Boris scosse la testa, facendole segno che aveva le rotelle fuori posto.
La Memore scattò con il mento verso di lui.
Come se anche i loro respiri avessero un respiro.
-So chi sei... Vento di Settentrione.-
-Come mi hai chiamato?- sbuffò il russo, che iniziava ad averne abbastanza di strampalati trucchi di magia.
-Vento…?- bisbigliò Takao, ma Kai lo zittì, osservando la scena.
Se non avesse sbattuto le palpebre di tanto in tanto sarebbe parso anche lui un Memore.
-Lo capirete quando i tempi saranno giunti.-
-Noi crediamo…- iniziò Kai con cautela, -che i tempi siano già giunti.-
La donna scosse la testa, con un velo di altezzosa compassione fra le pieghe del volto.
Kai odiò l’espressione di dolce arroganza su cui si accartocciò il suo volto.
Non l’avrebbe definita “bella”, ma per qualche strana ragione non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.
Giovane e vecchia.
-Se i tempi fossero giunti, i Venti avrebbero soffiato tutti nella stessa direzione.-
Mariam aggrottò le sopracciglia e la fronte chiara le si incrinò in piccole rughe d’espressione, mentre la Memore aggiungeva: -Non è vero, Boris di sangue Kuznestov?-
-Come cazzo hai fatto? Chi cazzo ti ha detto chi sono?- Il russo strinse i pugni, diffidente.
-Non ho bisogno che qualcuno mi dica chi sei, lo sento.- ripetè.
Chiuse gli occhi per la prima volta, con il rapimento estasiato di chi ascolta la sua musica preferita, per poi aprirli di colpo, puntandoli su qualcuno che era al fianco di Boris.
-E d’altronde… i lupi camminano sempre insieme. Non è vero, Yuriy di sangue Ivanov?-
Yuriy non reagì come Boris, né come Julia.
I suoi occhi, che assorbivano totalmente il verde della stanza senza rifletterla, non possedevano nulla di perplesso o ironico; neanche la più piccola venatura di scetticismo.
Solo un’infinita inquietudine.
-Perché di sangue?- e la sua mente analitica prese il sopravvento, in mezzo a tutto quel sapore di arcano. –Non hai detto la stessa cosa a Julia, mentre a me, Boris e Kai sì. Perché?-
-E lo direi anche ad Andrew di sangue McGregor e a Giancarlo di sangue Tornatore e a Takao Jay di sangue Kynomia, ma non a Mariam Nasser degli Scudi Sacri né a Daichi Sumeragi, così come non lo direi neanche a Max Mizuhara.- Piegò il volto verso il biondo. –Il tuo sangue è lieve, ma il tuo ruolo non è stato ancora scritto.-
Max attese prima di parlare; sapeva che c’era dell’altro, che qualcosa stava scivolando via dalla sua comprensione come olio sulle dita.
Poi ripetè la stessa domanda di Yuriy, con un’inflessione rigida nella voce che non pensava potesse appartenergli.
-Perché “di sangue”?-
-Ah… il sangue non è acqua…-
-Il nostro- ribattè Yuriy, indicando se stesso e Boris, -è più annacquato del tè.-
-Il vostro…- la donna pareva trattenuta da catene invisibili che le impedivano di dire troppo e tormente che le sottraevano il silenzio. –E più pesante del piombo e più denso del petrolio.-
I due si guardarono, ma il FalkonBlaider non aveva più quella ruga di sospetto in mezzo alle sopracciglia.
-Fammi vedere- ordinò la Memore, porgendo la mano a Yuriy.
Brividi carichi di attesa scossero Mariam nel profondo delle viscere, lasciandole in bocca la consueta percezione dell’inusuale.
Ne aveva viste di cose straordinarie nel corso della sua giovane vita da guardiana delle creature sacre, fra i ghiacciai nordici e le soleggiate coste del Mediterraneo, ma mai si era sentita così viva vicino alla fine.
Doveva essere la stessa sensazione di chi assiste all’eruzione di un vulcano dalla finestra della propria casa, e attende che la lava giunga a toccargli i piedi per scoprire se vivrà ancora.
Il russo non cercò incoraggiamenti, nonostante scorgesse all’angolo del suo campo visivo Gianni e Andrew sbracciarsi nel tentativo di fargli accettare l’invito della tipa.
Yuriy rimase fermamente ancorato al suolo.
-Ha detto qualcosa a Garland Siebald. Vogliamo sapere cosa.-
-Vorremmo- rettificò una voce ossequiosa che mai si sarebbe detto appartenesse ad Andrew McGregor, –voleva dire vorremmo sapere, mia Signora.-
La donna non guardava nessuno in particolare, le sue pupille vagavano cieche, ma tutti sapevano che si sarebbe rivolta nuovamente a lui.
-Ti esaudirò, Yuriy del sangue Ivanov, dopo averti sentito.-
Boris gli sfiorò lievemente un braccio. –Secondo me intende altro- bisbigliò, tossicchiando subito dopo per celare un risolino.
Yuriy gli mostrò elegantemente il dito medio.
Si fece avanti e la Memore intrecciò le sottilissime dita alle sue.
-Sì… avevano ragione… per tutti gli spiriti se avevano ragione…-
-Chi? Chi aveva ragione?- fu Takao a parlare.
-I sussurri.-
-Le cose di cui parla la gente- aggiunse Mariam.
I due grossi orecchini a forma di rombo che ondeggiavano draccoglievano l’oro dei vetri. I suoi occhi erano più verdi che mai.
–Sono più attendibili delle profezie ufficiali.-
-Non le cose di cui parla- la corresse la donna. - Le cose di cui la gente sussurra.-
-Ooh, per tutti i bigodini di mia nonna!- guaì Gianni, passandosi una mano tra le morbide onde dei capelli perfettamente pettinati.
-Che cazzo d’imprecazione è?– sbottò Boris, che aveva il cervello in pappa e i fumi delle candele profumate negli occhi.
Gianni allargò le braccia. -Non facevo tutta questa fatica da quando mi sono iscritto ad Architettura e ho dovuto studiare per l’esame di Analisi 1.-
-Com’è andata?- chiese Max dall’altro lato della stanza, come se fossero nel bel mezzo dell’ora del tè.
-Beh, mi servirebbe proprio qualche sussurro che mi suggerisca le risposte…-
-Possiamo concentrarci por favor?!- li interruppe Julia, che come Kai non aveva distolto un secondo lo sguardo dalle mani intrecciate di Yuriy e della Memore, sulle quali erano comparsi segni bianchi e opalescenti, come venature di madre-perla che s’insinuavano nel suo incarnato di caffè, dissipando il nero e arrancando sino al gomito con la fluidità dell’acqua.
La mano di Yuriy era rimasta completamente immacolata.
-I sussurri sono ciò che c’è di più vero al mondo, perché le cose che si sussurrano sono le cose che gli uomini hanno troppa paura di urlare, perché sono verità. Le profezie possono essere cambiate nel corso del tempo, perchè nascono dal Passato e si proiettano nel Futuro. -
Le pupille della donna si dilatarono.
-I sussurri non cambiano mai- con lo scatto di un serpente guardò il russo dritto negli occhi, come se li vedesse, con le palpebre immobili e fisse delle mummie, -perché stanno già accadendo.-
E strinse la presa.
-Io non ho alcuna dote particolare. Sono solo uno che è stato allevato tutta la vita per diventare un pezzo di merda senza scrupoli, bravo a tirare pugni e a giocare ai giochi di logica. Non sono chi dicono.-
Ma Yuriy non ne era più così sicuro.
Guardando in quegli occhi cangianti gli parve che due finestre si spalancassero spalancassero sul passato, come una terrazza a strapiombo su una distesa di mare cristallino, bagnato di sole.
Ma non era il mare che vide, né il sole, ma se stesso, sul principio di una bufera di neve, da solo nel cortile del Monastero, perché tutti erano rientrati.
Anche i russi ad un certo punto hanno freddo.
Ma non lui.
Lui non sembrava neanche un russo, a malapena un essere umano.
Pareva uscito da qualche fiaba per bambini, da un qualche castello nato nel freddo di papaveri sanguigni.
Piccolo, inerme, non aveva ancora sotto le unghie il sapore del sangue, non aveva ancora grattato i muri di una cella di pietra fino a consumarsi le dita, non aveva ancora preso a calci un altro bambino fino a farlo svenire, non aveva mai tenuto in mano un beyblade, non aveva mai visto un’arma, non era ancora un lupo, né un leader.
Yuriy era certo che quel bambino dall’aria così fragile, così vana, fosse ancora in grado di piangere, che potesse ancora aver paura, cercare sollievo negli occhi di qualcun altro.
Non lo ricordava.
Non ricordava il peso delle lacrime sulle guance, non ricordava cosa si provasse a provare emozioni, a provare qualcosa di diverso da rabbia, rancore, diffidenza, odio e ansia di vedere il sole sorgere un altro giorno.
Quel bambino non era ancora niente, e la parte marcia del suo corpo ne è disgustata, da lui e dalla sua pelle di porcellana senza cicatrici e dal mondo in cui regge il ghiaccio in mano, come un gioco.
Non è un gioco.
Il ghiaccio è un’arma.
Come te.
Anche tu sarai unarma, bambino dai capelli di fuoco, gli sussurra Yuriy, con una voce diversa, anche tu sarai come gli altri pezzi dei suoi scacchi. Per un po. Fino a quando scoprirai che non sarai mai come tutti gli altri.
Perché per la prima volta la neve è nata dal fuoco.
Quando il bambino alzò la testa c’era già un altro paio di occhi di ghiaccio a guardarlo.
-Basta!- un urlo di donna che lo frastornò.
Perse l’equilibrio, le vertigini lo colsero alla sprovvista e barcollò all’indietro, Boris era gli posò prontamente due mani sulle spalle.
Il cappuccio della felpa nera cadde all’indietro, rivelando una chioma di capelli lisci. Rosso fuoco.
-Lei ha… lei ha fatto…- borbottò Boris, incredulo.
-Gli ho dato io un prodotto per lavare via la tinta, ieri sera.- Julia stava fissando il polso destro del rosso, come assente. Ed era stata lei ad urlare.
-Già, lei non ha fatto nessun fottuto trucco di magia- rispose Yuriy con un’aggressività che gli rovinò nel petto come un tuono.
-Cos’hai visto attraverso di me, Yuriy di sangue Ivanov?-
-Niente, non ho visto niente- ringhiò, incapace di ripulire il tono da quell’acredine che non avvertiva da anni e che adesso gli si riversava fra i denti come una mareggiata.
Non ne aveva mai dimenticato il sapore.
Lei lo osservò ancora nel modo fisso dei serpenti a sonagli.
Quando parlò, non vi era traccia d’incertezza.
-Tu hai paura.-
Boris sghignazzò all’istante.
–Che cosa? Yuriy non ha mai avuto paura di ciò che c’è là fuori.-
-Oh…- mormorò lei come se le dispiacesse, con i modi cortesi di chi deve annunciare la morte di un familiare.
–Ma lui non ha paura di ciò che c’è fuori.- sollevò un dito, indicando con l’indice scheletrico il punto esatto in cui batteva il cuore di Yuriy. –Ha paura di ciò che è dentro.-
Boris era sul punto di cantargliele, che non importava quanto i confini fossero inconsistenti e le gocce di pioggia troppo pesanti, ci sono cose che semplicemente non possono essere, e una di queste era Yuriy Ivanov che ha paura di qualcosa. Qualsiasi cosa.
L’aveva visto in piedi in mezzo alla tormenta, in piedi sul margine del dolore, in piedi a guardare in faccia Vorkov con una frusta in mano.
E l’aveva visto anche a terra, spesso, forse molto più spesso, con il sangue coagularsi sulle ferite e il vuoto negli occhi, con le parola ti prego sulle labbra, sempre pronte a vomitarle fuori e sempre capace di inghiottirle, anche a costo di ferirsi la gola, anche al prezzo di aprirsi una strada a forza tra le tonsille.
Ma poi guardò Kai e Takao, che si guardavano, che sapevano e no, assolutamente no, Takao non sapeva, non lo conosceva abbastanza, non lo conosceva affatto.
Ma Kai…
Kai sapeva.
-Hai paura di ciò che potresti diventare se ti abbandonassi al tuo potenziale. Hai paura che i mostri non solo non ti lascino andare, ma che ti abbiano reso uno di loro.-
E allora Boris si costrinse a guardare il compagno, finalmente, nel momento esatto in cui lo fece anche Julia.
Boris, per la prima volta, ammise a se stesso che ci sono cose che non conosceva, cose che il suo migliore amico, il suo capo, suo fratello non avevano mai rivelato a nessuno, neanche a lui.
Yuriy non era suo alleato, né amico, né tantomeno suo fratello.
Era parte della sua anima, perché solo insieme lui poteva formarne una intera.
Era in questo che Vorkov sarebbe stato sempre un passo avanti a loro?
Davvero li aveva resi tanto soli, tanto guardinghi, tanto infetti da non lasciare spazio a nient’altro?
Aveva spinto Yuriy a non fidarsi di nessuno, neanche del bastardo che gli aveva ricucito le ferite?
Quante cose non conosceva delle persone a cui aveva giurato fedeltà eterna?
Il profilo di Yuriy era cenere.
-E’ vero?- chiese allora, atono.
Julia li osservò mentre il rosso inclinava appena la testa nella sua direzione, senza voltarsi.
Non sapeva cosa ne pensassero gli altri, cosa Kai e Sergej vedessero in Yuriy, nell’attimo in cui i fantasmi del passato minacciavano di piombare loro addosso, ma lei lo vide avvolto soltanto di un mantello d’impenetrabile malinconia.
Non di quella lieve dei poeti né di quella inconsolabile degli amanti.
Era qualcosa di più, uno strazio più profondo, più intimo.
Se avesse dovuto immaginarsela, avrebbe pensato a un branco di alti e scheletrici cani neri, come ombre in una notte senza luna, che emergono dall’oscurità e attorniano un solo lupo bianco, che non scapperà via, ma che non sopravviverà neppure.
Se fosse stata una parola, sarebbe stata russa.
Toska, lo strazio nell’anima, lo struggimento che consuma e non da tregua.
Quello che ti rode fino allo scheletro, ti lascia sull’asfalto come un mucchietto di ossa che prima erano, e poi non sono più.
E Julia lo pensò quella volta, troppo presto e prima che fosse troppo tardi, che sarebbe stato un peccato.
Non per la rivolta, non per le profezie e le leggende, non per la salvezza di ragazzini innocenti dalle grinfie di Vorkov, ma perché quello che c’era oltre il russo, e le sue ossa, i muscoli, la pelle, gli occhi ostili e quel colore di capelli che non lei non ricordava mai quanto fosse vivo, non potevano celare solo buio e cani spettrali e notte.
La natura non crea qualcosa che è così difficile da dimenticare, per poi piantarvi dentro i semi della brutalità.
E quando la Memore riprese il suo discorso, indirizzandolo come una barca la verso mari diversi, Julia si concesse un ultimo, delirante pensiero: Ivanov era l’uomo più complicato che avesse mai incontrato, ma anche il più bello che avesse mai visto.
Non di quella bellezza romantica dei libri di fiabe, né di quella stereotipata dei calendari in edicola, ma quella che se non stai attento ti taglia in due, che ti si conficca dentro come una freccia scagliata per uccidere.
-Allora vi dirò cos’ho detto a Garland del sangue Siebald.
Kai Hito Hiwatari, secondo quadro a destra.-
Il secondo quadro, appeso alla parete di destra, ritraeva l’immagine di un uomo dai lunghi capelli color dell’acciaio, in disordine sulle spalle; scalzo e a torso nudo, era coperto dalla vita in giù da piume d’aquila del colore dell’oro fuso, e dal torace spuntavano tre paia di braccia, ognuno più fulgido ed etereo dell’altro, la carne sempre meno carne e sempre più rossa, sino a diventare fiamma.
-Konstantin Hiwatari, detto Il Predone- mormorò Kai, ammirando quel ritratto come se stesse guardando la foto di un suo vecchio amico. –Sottrasse una parte del potere della Luce ai Siebald. Grazie all’alchimia riuscì a scindere la Luce dal Fuoco, e a controllarlo.-
Anche Takao e Max si avvicinarono a Kai.
Le braccia di Konstantin Il Predone sembravano bruciare davvero.
-Raffigurato con tre paia di braccia perché con uno rubò il fuoco, con un altro lo dominò e con l’altro si congiunse ad un’aquila trasformatasi in fanciulla per un’ora.-
-Esatto.- La Memore parve soddisfatta della spiegazione. –E generarono i primi Hiwatari dal grembo dell’Aquila e dalla cenere del Fuoco.-
-Grazie al sapere millenario degli Scudi Sacri d’Egitto.- continuò Kai.
-Che cosa?- Mariam si voltò di scatto.
-Sì, Mariam Nasser degli Scudi Sacri. I tuoi antenati hanno permesso a Konstantin Hiwatari di congiungersi con la donna-alata poiché ricordavano com’era il potere dei Siebald prima del furto, e sapevano che se il Fuoco fosse tornato a loro, avrebbero dominato su tutto.-
Mariam e Kai non poterono fare a meno di guardarsi, nella luce soffusa di quello spazio angusto, e chiedersi se anche i loro padri e le loro madri si erano guardati così, all’alba di una nuova era.
-Konstantin Hiwatari aveva finalmente la prole dal sangue giusto, ma non la protezione delle aquile. Ci volle la terza generazione, con Kazimir, perché le aquile ritenessero la dinastia Hiwatari degna della loro forza e ne diventassero le protettrici.-
-Cosa fece… questo Kazimir per ottenere la protezione delle aquile?- chiese Takao, osservando un quadro più lontano dal precedente, dai contorni più rossi e dall’aspetto più feroce. L’uomo che vi era raffigurato… non era affatto un uomo, anche se a primo acchito non l’avrebbe mai detto.
Polpacci torniti, muscoli evidenti, uno sguardo fiero e bestiale al tempo stesso, un bellissimo volto di donna dagli occhi rossi e i lunghi capelli d’argento da un lato, un ammasso di carne informe e una corta chioma annerita dall’altro.
-Era in corso la guerra fra le grandi famiglie… storia lunga di vecchi bacucchi che si giocavano a dadi il mondo, e Kazimir Hiwatari -conosciuta dopo la sua morte come La Prima Aquila-  ebbe un importante ruolo nell’aizzare la rivolta contro i Siebald fra i capi delle grandi dinastie. Battaglie, sangue, uccisioni, tradimenti, schifezze varie sino a quando Gangadhar LAssetato Sielbald non catturò la giovane Hiwatari –ripeto, tradimenti vari- e cercò di persuaderla a sposarlo e ad avere i suoi figli. L’obiettivo di Gangadhar era chiaro: voleva unire la Luce e il Fuoco al loro stato originario, prima del furto. Kazimir si rifiutò di cedere e lui la fece torturare per avere informazioni sui patti segreti fra le famiglie, che l’avevano allontanato dal Circolo a causa delle sue brame di potere, arrivando a bruciarle la faccia. Ma Kazimir non si arrese neanche a questo e non rivelò nulla. Si narra che, a questo punto, un’aquila abbia cantato per lei fuori dalla finestra della sua cella, onorando il suo sacrificio con la promessa che, se fosse riuscita a sopravvivere e a continuare la discendenza, essa sarebbe stata immune al fuoco e forgiata dalla fierezza delle aquile.
Kazimir riuscirà a scappare dai Siebald e di lei non si seppe più nulla, tranne di un figlio che fu tratto in salvo da un contadino e portato ai genitori di lei.
Non si sa tutt’ora chi fu il padre di questo bambino, ma una cosa è certa: il ambino era un Hiwatari.-
-Ma queste storie le conosciamo già. Voglio dire, impariamo prima i racconti delle nostre dinastie che il nostro nome, e Garland con una famiglia come la sua non farà eccezione.- Gianni si massaggiò un braccio, a disagio, chiedendosi se l’unico apporto utile che aveva dato alla giornata l’avrebbe pagato perdendo la testa.
Ma la Memore si azò, facendo tintinnare qualche grosso bracciale d’ottone ai polsi ossuti.
-E’ esatto.-
-Allora perché hanno fatto evadere mio nonno di prigione non appena hanno ascoltato una profezia vecchia di millenni?-
Boris inchiodò Kai con lo sguardo, il verde foglia dei suoi occhi si piazzò nel suo petto come una lancia di quarzo.
Tuo nonno è evaso di prigione?-
Il cuore di Takao perse un battito. Guardò la Memore.
-Non gli ha detto questo. A Garland non ha raccontato la storia degli Hiwatari. Lui la conosceva già.-
-Infatti.- Sorrise al giapponese.
E per qualche strana ragione, Takao non voleva sentire altro.
-Vedete… la Luce è sempre stata più forte del Fuoco, senza se e senza ma. Il Fuoco è un suo derivato, è una sua estensione, non può competere. Gli Hiwatari sono stati solo furbi a tenerselo stretto, ma tutti hanno sempre saputo che in uno scontro diretto non ci sarebbe stata storia. Fino ad ora. Ora le cose sono cambiate.-
-Perché...?-
Non era una domanda.
Non era un ordine.
Era l’attesa della tempesta.
Il tonfo della cascata.
Il rumore delle nuvole che collassano su loro stesse.
Eppure la voce di Max era tornata quella di sempre, gioiosa e fanciullesca, in pace con l’universo.
Era l’universo a non essere in pace.
-Perché…- le sillabe le si attorcigliarono fra gli incisivi come una spirale di fumo. –Questa volta il fuoco è nato dalla neve.-
Non ci fu tempo di alzare lo sguardo né d’imprecare.
Quando i pugnali volarono nell’aria non ci fu neanche il tempo di morire.
Solo di prendere a calci il destino.
A Kai gli si mozzò il respiro in gola quando evitò per un soffio la lama scaraventata alla velocità di un proiettile contro la sua gola.
Julia si piegò mentre la porta esplodeva, Mariam la spinse a terra con tutto il peso del suo corpo mentre una pioggia di frammenti di legno pioveva sui loro corpi ammassati.
La donna afferrò un altro coltello e Takao le si gettò addosso; cozzarono contro il muro, un quadro si fracassò al suolo.
Lei possedeva la forza di cento eserciti, di tutte le vite e di tutte le morti e lo spinse brutalmente, inchiodandolo sul tavolo con una mano sulla gola.
-Takao!-
Max si lanciò in avanti ma Boris lo afferrò da un braccio, scaraventandolo senza sforzo dietro al divano. L’americano rotolò sul tappeto proprio quando un vero proiettile si schiantò nella parete di fronte.
Qualcuno gridò, Gianni s’immobilizzò nell’atto di afferrare qualsiasi cosa gli offrisse scudo, Yuriy venne sbilanciato violentemente e si ritrovò con la faccia a terra e il battito del cuore nelle orecchie.
Nascosto da una trincea di poltrone in disordine, con gli occhi al livello del pavimento, vide una moltitudine di scarpe che s’inoltravano nella stanza, con la pesantezza dei soldati e la lentezza di chi sa di essere ad un passo dalla vittoria. Guardò in alto.
Boris l’aveva spinto, e Boris non voleva sentire ragione.
Perché è così che fanno i lupi ed è così che facevano pure loro.
Si difende sempre il capobranco, anche a costo della vita.
Anche quando il capobranco non vuole.
Boris fissava un punto oltre il suo campo visivo, oltre il rigagnolo di fumo che ancora fuoriusciva dal buco nella parete.
-Buonasera ragazzi. Sapete… ci stavamo giusto chiedendo quanti di voi avremmo trovato. Beh, direi che siamo stati fortunati.-
Quella voce l’avrebbero sentita anche i sordi per il modo in cui ti faceva desiderare di metterla a tacere per sempre.
–Non lo credi anche tu, Boris? Non ero affatto sicuro di trovarti qui… vedo che hai una certa inclinazione nel perdonare i vigliacchi.-
Non perdere le staffe Boris, non perdere le staffe…” pregò Yuriy mentalmente.
Ma Boris ricordava bene come si stava sul campo di battaglia, che il serpente attacca se ti muovi, che i nemici hanno un fiuto particolare per la paura.
-Puntate delle pistole addosso a degli uomini disarmati e noi saremmo i vigliacchi?- Sorrise, con calma, allargando maggiormente le dita per mostrare i palmi vuoti.
Non erano disarmati.
Non lo erano mai.
E Garland lo sapeva.
Persino l’italiano Tornatore, con quell’antico sangue che si ritrovava nelle vene, poteva uscirsene con qualche bravata.
E lui gli avrebbe fatto saltare la testa.
-Ciao Aleksej, Petrov…- li conosceva tutti quei ragazzi. O li aveva presi a pugni in qualche combattimento o ci aveva bevuto vodka di nascosto nelle celle del monastero. Vederli schierati contro di lui non gli fece alcun effetto, solo voglia di combattere ancora: fino a distruggerli.
-Vedo con piacere che da quando il gatto non c’è, i topi ballano parecchio- commentò Boris con un tono sprezzante.
Garland Siebald sorrise amabilmente. Ricordava schifosamente Vorkov. –I gatti sareste voi? Ma non eravate lupi? Oh… aspetta… ormai non siete neanche gattini. A Mosca ci sono dei nuovi re.-
Accanto a lui comparve una figura più discreta, quasi lieve, come un fiore appena sbocciato.
Gli occhi limpidi come il cielo d’Agosto, il sorriso ermetico della Monnalisa, sembrava essere capitato lì per caso, nella sua lunga giacca blu e nei larghi pantaloni d’artista. Reggeva una pistola ma non la puntava contro nessuno in particolare, con l’aria da buon samaritano e il naso sottile a baciare un volto appena scolpito dalle nuvole.
-A proposito Boris… dov’è Hiwatari? Io qui ho un rosso- Garland fece un cenno con il capo verso Brooklyn, –ma non è l’esatta gradazione di rosso che stiamo cercando.
-L’unico rosso che conosco io è quello del sangue- inchiodò Boris.
-E il rosso fuoco invece? Quello lo conosci? E’ lui che sto cercando. Mi deve qualcosa, ed è ora che me lo restituisca.-
Fu in quel secondo, fra lo spegnersi della voce di Boris e l’inizio dell’insofferenza di Kai, che Yuriy capì che Boris non avrebbe costituito un dilemma.
Il compagno era molto meno impulsivo di quello che dava a vedere, la sua mente era un calcolatore automatico di percentuali e tattiche di gioco e non avrebbe perso la testa.
Ma Kai?
Kai la testa la perdeva spesso e volentieri, fra l’arroganza altrui e quella che gli ballava in pancia.
Kai, che aveva il no in bocca e il fuoco negli occhi.
Con Takao sotto minaccia della vecchia megera, la metà di loro dietro a dei cuscini come ratti in una fogna e l’altra metà sotto schiaffo, no, Kai non sarebbe durato ancora per molto.
Boris ricominciò a parlare.
-Garland, perchè lo fai? Vladimir Vorkov vuole usarvi per le sue ambizioni di gloria, non gliele fotte niente di te e degli altri pagliacci che ti porti dietro.-
Garland osservò la scena con calma, prima di rispondere. La canna della pistola puntata verso Boris, ma gli occhi puntati sugli europei.
-Tornatore e McGregor, non è così? Lieto di fare la vostra conoscenza. Vi stringerei la mano, ma non avete idea di quanto subdoli possano essere questi qui.- Soffocò una risata di scherno indicando con il ferro dell’arma il russo.
-Comunque, io sono Garland Siebald e lui Brooklyn Masefield, sicuramente ne avrete sentito parlare: saremo i padroni del nuovo mondo.-
-E io sono Kai Hiwatari. Credo che anche tu ne abbia sentito parlare.-
Yuriy mancò tanto così dallo sbattere un pugno a terra, mandando tutto a puttane. Eccolo, il pomposo, incontenibile, orgoglioso Kai Hiwatari che non aspetta neanche il vento per fare terra bruciata attorno a sé.
Garland fremette, la pistola quasi non gli cadde di mano.
Eccolo il suo Fuoco.
Il braccio ardente di cui il suo potere era stato privato tanti secoli fa, amputato da un altro schifoso bastardo Hiwatari.
Il sangue di quel ladro gli scorreva nelle vene fetide.
Era lì, tutto lì, nel corpo di quel parassita che aveva fatto delle fiamme la sua bandiera come se fosse nato nel fuoco, e non nel fango.
-Ti conviene seguirci Kai.- disse Brooklyn, con una dolcezza disgustosa.
-O il draghetto finisce male.- completò Garland.
Kai non ebbe bisogno di voltarsi.
Sapeva che Takao era in pericolo e che per niente al mondo avrebbe lasciato che gli accadesse qualcosa; ma sapeva anche -e la consapevolezza fu un macigno nello stomaco- che per niente al mondo avrebbe lasciato il suo fuoco nelle mani di qualcun altro.
Serviva qualcosa.
Serviva un diversivo, per quanto stupido e folle, serviva una scintilla d’irrazionalità che scollasse l’acciaio dei suoi occhi dal suo corpo.
-Kai. Non lo ripeterò una terza volta.-
Takao trattenne il respiro, Max spinse con un piede uno dei pugnali caduto sul pavimento nella foga dell’assalto.
Una mano bianca sbucò da una delle poltrone e lo afferrò.
Brooklyn non se lo perse.
-Hahahahahaha… ma allora siete davvero pazzi…- e ordinò a uno dei ragazzi di andare a controllare, con quel sorriso sornione stampato in faccia.
Il tipo, invece, era molto meno allegro.
Fa che non sia lui fa che non sia lui…” pensò disperatamente.
Ma chi mai avrebbe potuto essere così pazzo da assalire un uomo armato di pistola?
Yuriy gli saltò alla gola, lo sbattè a terra, il ragazzo lascio andare l’arma e il russo ringhiò come un animale nello sforzo di mantenergli gli arti ancorati al suolo mentre gli piantava il coltello in una gamba.
Il ragazzo strillò.
Garland premette il grilletto.
Julia perse un battito.
Ma proprio allora dal camino alle sue spalle una figura avvolta su se stessa come una palla da demolizione lo travolse in pieno, mandandogli l’equilibrio fuori fase e la mira chi sa dove.
Ivan Papov era appena sbucato dal camino con la velocità di un treno in corsa,
e fu il caos.
-Kai!-
Julia arraffò la pistola e la lanciò al ragazzo, il quale la artigliò al volo, centrando bersagli come fosse al tirassegn, mentre Andrew e Gianni iniziavano a lanciare soprammobili e lampade addosso agli intrusi, usando il divano come scudo; Max caricò alla volta di Takao ma venne placcato da due uomini e sbattè la testa allo spigolo di una credenza. I capelli si appiccicarono l’un l’altro con il sangue, le immagini divennero sfocate, il dolore era un martello pneumatico fra collo e nuca.
Forse uno dei nemici aveva alzato un braccio, questa era la fine e non sarebbe riuscito neanche a guardarlo negli occhi perché il suo mondo vorticava furiosamente.
Ma la fine non arrivò.
La salvezza ebbe i riflessi blu del mare di notte, gli occhi di uno sfolgorante verde guerriero e la capacità di stendere due uomini con l’agilità di due muscolose gambe da amazzone.
Mariam gli tese la mano ma Max non riuscì ad afferrarla, allora gli si piegò accanto, sorreggendogli la testa e la schiena con le braccia.
-Max, Max mi senti?!- Si piegò per evitare un altro proiettile, i corpi degli uomini che aveva messo K.O. stesi al suo fianco. –Ragazzi cazzo aiutatemi!-
Gianni e Andrew le scivolarono accanto a testa china mentre qualche centimetro più su infuriava la bufera.
-Come lo portiamo via di qui?!- urlò Andrew per farsi sentire al di sopra delle armi da fuoco e dei vetri che si frantumavano.
-Boris! Dobbiamo andarcene!- gridò lei, coprendosi la testa con le mani quando l’ennesimo soprammobile in porcellana esplose in mille pezzi.
Boris allora si apprestò a chiudere la partita.
Fece un cenno a Kai che gli lanciò immediatamente la pistola senza aprir bocca, come un gioco di cui solo loro conoscevano le regole.
Si avvicinò alla Memore e a Takao, ancora avvinghiati in un combattimento mortale, il pugnale di lei a un millimetro dal cuore di lui, che Takao teneva disperatamente lontano con la forza delle sue mani.
Ma non per molto.
Mostrava già i primi segni di cedimento, i denti digrignati fino allo spasimo, il sudore freddo, i muscoli in un’apnea tremante.
Boris sparò.
La donna evitò il colpo gettandosi di lato, quello colpì un quadro sulla sua testa e la cornice le ferì un occhio.
-Takao! Ora o mai più.-
E Takao, col guizzo di un’anguilla che sguscia fuori dalla rete, prima ancora di rendersene conto, prima ancora di volerlo, la trafisse da parte a parte.
Indietreggiò.
La donna rantolò qualche parola, colta di sorpresa, un rivolo di sangue dall’occhio cieco, un fiume di sangue dal petto pugnalato.
Il corpo tremò per un attimo, le mani artigliarono l’aria, il sangue schizzò ancora in un ultimo spasimo.
Poi cadde, cadavere.
Non sono stato io.
Il ragazzo guardò il corpo immobile come estraniato, le sue mani sporche di rosso odoravano di ferro, ma non le riconobbe.
Però tremava.
Tremava da impazzire.
Boris dovette trascinarlo via, ma anche le sue gambe gli sembravano aliene.
Cos’aveva fatto?
Ho ucciso un essere umano. Ho ucciso un essere umano. Ho ucciso un essere umano. Ho ucciso un essere umano. Ho ucciso
Boom.
Un’esplosione di schegge taglienti si propagò nella stanza semidistrutta con la forza di un tuono, rimbalzando su mura e cuscini e su corpi caldi.
Il vetro più grande era andando in pezzi.
-Veloci, di qua, di qua!-
Yuriy avrebbe riconosciuto quella voce fra mille.
Garland e Brooklyn erano spariti.
Senza neanche pensarci Boris spinse Takao attraverso la finestra e lo seguì non appena il moro era atterrato sulla pietra all’esterno.
Mariam, Andrew e Gianni aiutarono il corpo debole di Max a oltrepassare il varco, Ivan lo tenne dai pieni e riuscirono a farlo arrivare dall’altra parte senza volteggi. Lo seguirono a ruota.
Kai afferrò Julia dalla vita e con un balzo a testa furono fuori.
Yuriy non ci pensò due volte prima di saltare.
-Aspettate… Daichi… dov’è Daichi…- biascicò Max flebilmente.
-Eh sì, buonanotte fiorellino. Saltate a bordo, aspettate che cresca l’erba?!-
Il sedicenne dai capelli ramati era piazzato sul sedile anteriore di una delle macchine, sorridente e privo di un granello di polvere.
Si riversarono nelle auto, addentrandosi in una strada secondaria il più velocemente possibile, chi sorreggendo l’uno, chi trainando l’altro, chi sanguinando copiosamente. Ivan al volante nell’auto in testa.
-Hai la patente per guidarla?- Daichi guardò il russo accanto a lui.
-Ovviamente no.- Iavan alzò le spalle.
-Figo- annuì Daichi. -Altrimenti sai che noia.-
-Ivan…!- Yuriy si lasciò cadere sul sedile con un sospiro attonito.
–Che cazzo ci fai qui?-
-Come che cazzoci faccio qui? Vi salvo il culo, è chiaro. Tu chiami, io arrivo. Non c’è di che.-
 







 //SPAZIO AUTORE:

Aky ivanov: se non erro ti avevo risposto alla recensione stessa, ma colgo l'occasione per ringraziare ancora la costanza con cui stai seguendo la mia storia. (Ho una domanda... chi è Costanza? E perchè segue la fanfiction cn lei? o.O ndDaichi)
Sono felice di averti fatto ridere con la prima parte del capitolo, non so mai se i miei siparietti comici sono davvero comici o fanno ridere solo me. (Egocentrica fino al midollo. ndKai) (Ha parlato.. ndAutrice).
Guarda, non discutiamo di Garland e di cosa ha fatto a Yurij altrimenti non ne usciamo più da ora fino a domattina, e desisto dal futuro che ho in mente per la trama. (Nel senso che sarà tutto molto carino, con prati di margherite e unicorni arcobaleno? ndMathilda) (Ehm Ehm, andiamo avanti ndAutrice)
Pachiderma Anarchico


Chocolate_senpai: Privet! Trovare la tua recensione mi ha fatto tanto piacere (Vedi?! Te lo dicevo io che era importante sapere a che distanza sputa un lama! ndDaichi)
Comunque, sono affogata negli impegni come un budino è affogato nel cioccolato, ho un'organizzazione a dir poco ridicola del mio tempo e sono un'inguaribile perfezionista del cavolo (tranne per gli errori di distrazione, quelli riescono sempre a farla franca, maledetti). 
Oddio, grazie infinite per i complimenti, non c'è niente che mi faccia più piacere degli apprezzamenti nei confronti delle mie parole, sono super contenta che ti stia piacendo.
Per quanto riguarda la caratterizzazione dei russi, (e in genere di tutti i personaggi), tendo a partire dalla base originale e letamente adarmene verso le evoluzioni del caso, cercando comunque di non uscire troppo fuori le righe, proprio perchè io sono la prima ad apprezzare chi riesce a scrivere di tutto e di più di personaggi complessi, difficili, freddi, schivi, diffidenti, pericolosi, segnati, indomiti, traumatizzati, inclementi (Hai finito? ndYurij), facendo provare loro emozioni differenti e restando comunque lontani (per quanto possibile) l' OC.
E' una sfida, diciamo.
Comunque, detto tra noi (e altri 374892994422003949 lettori ndKappa) (Io non mi spiego perchè mi ostino ancora a metterti nelle mie storie ndAutrice) se io me li trovassi sull'autobus potrei non risponere delle mie azioni. 
Ah! Cinque ore per mettere lo smalto alle unghie! Che bello incontrare gente come te, sei una perfezionista anche tu? Prendi gli adesivi con le pinzette per sopracciglia per attaccarli sull'unghia nella posizione più adatta? Conti i giorni per fare due passate di smalto trasparente al giorno? Controlli gli angoli per vedere se devi limarne la forma o meno? 
Ripeto: sono un danno. 
Ma un danno serio.
Alla prossima e grazie ancora,
Pachiderma Anarchico

 
  
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