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Autore: Imperfectworld01    20/01/2019    0 recensioni
Dicono che la vita di una persona possa cambiare in un attimo. In meglio, in peggio, non ha importanza. Perché nessuno ci crede veramente, finché non succede.
Ed è allora che gli amici diventano nemici, le brave persone diventano cattive, quelle di cui ci fidiamo ci tradiscono, e altre muoiono.
Megan Sinclair è la brava ragazza del quartiere, quella persona affidabile su cui si può sempre contare, con ottimi voti a scuola e con un brillante futuro che la attende.
E poi, all'improvviso, una sera cambia tutto. Una notte, un omicidio e un segreto. Un segreto che Megan, con l'aiuto di un improbabile alleato, cercherà di mantenere sepolto a tutti i costi.
Genere: Introspettivo, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quello che le abbiamo fatto

«Sì, ma certo che ti credo.»

Tracey fece un sospiro di sollievo e corse ad abbracciarmi.

«Scusa, è solo che in questo periodo sono un po' così. Sono sempre nervosa, non mangio, non dormo, vedo nemici ovunque. Ma non dubiterei mai di te, come te non hai dubitato di me. So che non avresti mai fatto una cosa del genere e che tutto ciò che hai fatto l'hai fatto per aiutarmi. Senza di te, quella sera sarei stata persa. Mi hai letteralmente salvato la vita.»

«Tu avresti fatto lo stesso con me. È a questo che servono le amiche, no?»

Annuii e poi sciolsi l'abbraccio. 
Dopodiché, mi voltai di nuovo verso il coltello da cuoco, alias l'arma del delitto. Non era posto neanche così tanto in vista, era nascosto da altri coltelli da cucina, eppure era saltato subito ai miei occhi. Forse dipendeva dal fatto che erano ancora nitide nella mia mente le immagini scioccanti legate a quello che era, apparentemente, un semplice e banale utensile da cucina. Ma chi non sapeva la storia dietro a quel coltello, come avrebbe potuto sospettare che si trattava dello stesso usato per uccidere Emily? In fondo come quello ce n'erano a milioni, tutti identici. Non che passassi molto tempo ad osservare i coltelli che avevo in casa, ma ero piuttosto sicura di averne uno simile, se non uguale, a quello.

«È pronto il tè» annunciò Tracey, la quale, mentre io ero impegnata a fare i miei soliti pensieri paranoici, nel frattempo aveva provveduto ad apparecchiare la tavola e a finire di preparare il tè. 

Così, presi un coltello qualsiasi dal portaposate e poi andai a sedermi a tavola, appoggiando il barattolo di marmellata sulla tovaglietta da colazione che aveva preparato Tracey. Presi una fetta di pane e cominciai a spalmarci sopra la marmellata, mentre nel frattempo le raccontavo cos'era successo a scuola e perché avevo deciso di andarmene.

«Che stronza. È soltanto una povera bulla, devi lasciarla stare, Megan» mi disse, a proposito di Olivia.

«Già, però nessuno ha detto niente. Credono a lei.»

«Be', cosa ti aspettavi? Che il ritorno a scuola sarebbe stato semplice e che sarebbero mancati i commenti offensivi di persone ignoranti e che non sanno farsi i fatti loro? Non li biasimo, in effetti. Saranno sicuramente spaventati, non sanno a cosa credere, quindi decidono di dare retta alla prima persona che dà una versione dei fatti che secondo loro sembra avere senso. Fregatene, Megan: tu sai di avere la coscienza a posto, e nessuno è tenuto ad avere una dimostrazione della tua innocenza. Anzi, in effetti sì: lo dimostrerai al giudice, ed è questo ciò che importa. Pensi che Olivia o chiunque altro potrà dire qualcosa contro la sentenza di un giudice di tribunale?»

In quel momento, smisi di mangiare il mio pane con la marmellata e mi chiesi cosa avessi fatto di così tanto bello per potermi meritare un'amica come Tracey. Era grandiosa, sapeva sempre cosa fare al momento giusto, cosa dire per risollevarmi il morale, darmi il sostegno di cui avevo bisogno.

A volte la invidiavo, in realtà. Aveva un'ottima mente, lucida e razionale e, anche nei momenti più critici, sapeva ragionare e trovare una soluzione sensata in poco tempo. Era una di quelle persone calme, che non perdevano mai le staffe ma che, anzi, faceva da collante del gruppo e cercava di mantenere le persone unite, di farle ragionare.

Io, al contrario, ero quel tipo di persona che non riusciva a tenere a freno le emozioni. Ero quella persona che, al minimo problema, entrava in crisi, smetteva di riflettere in modo sensato, urlava, piangeva e non era in grado di rimettersi in sesto se non con l'aiuto di qualcun altro. Io avevo sempre bisogno di qualcuno pronto ad ascoltarmi, a rassicurarmi e a risolvere i miei problemi al posto mio. Dovevo sempre dipendere da qualcuno, come una bambina. Lo odiavo. Odiavo l'idea di avere un carattere debole e di non riuscire a badare a me stessa.
Ero così debole da non essere riuscita ad affrontare una giornata da scuola da sola, senza Tracey pronta a rassicurarmi. Ero così debole da essere scoppiata a piangere davanti a tutti, quando invece avrei dovuto tirare fuori le unghie e difendermi da quelle accuse, senza aspettare che intervenisse Dylan.

«Hai ragione. Come sempre» dissi, e Tracey si sollevò i capelli all'aria e si vantò: «Ovvio, sono la miglio... oh no, merda!».

Agitandosi in quel modo, aveva rovesciato la tazza di tè sul tavolo, facendo fuoriuscire il liquido.

Sorrisi. «Quando tornerai a scuola?» domandai, mentre lei si alzava per prendere un tovagliolo e pulire.

«Ormai penso lunedì prossimo, non avrebbe senso tornare a metà settimana. Almeno durante il weekend potrò mettermi a recuperare quello che ho perso durante questi giorni» rispose.

«Io invece penso che domani andrò. Voglio riprovarci.»

Il mio tono di voce apparve più convinto e deciso di quanto lo fossi dentro di me. Ma dovevo farlo. Dovevo smetterla di scappare dalle difficoltà e di comportarmi da vigliacca.

«Fai bene,» disse, tornando a sedersi «non devi permettere a quegli stronzi di distruggere il tuo record di presenze. Dici che a Harvard ne tengono conto? Oddio, e se questa unica giornata di scuola che stai perdendo, potesse compromettere il tuo futuro?».

«Vaffanculo!» esclamai, non riuscendo però a mantenere la serietà e finendo con lo scoppiare a ridere.

Tracey rise a sua volta. «Già ti immagino l'anno prossimo, quando alla fine del colloquio ti diranno che saresti un'ottima candidata e che Harvard ha bisogno di persone del tuo calibro, ma che, ahimè, per via di quell'unica assenza ingiustificata fatta il 2 ottobre 2018, non potranno considerare come valida la tua domanda di ammissione al college più prestigioso degli Stati Uniti d'America.»

Presi il mio tovagliolo e, dopo averlo accartocciato per formare una pallina, gliela lanciai in faccia. «Ehi, non si scherza su Harvard» dissi, riassumendo un tono serio.

Tracey alzò gli occhi al cielo. «Ancora non capisco perché tutta questa fissa con Harvard, se di fatto non sai nemmeno che cosa vuoi fare da grande di preciso.»

«Perché è il mio sogno fin da bambina. Come hai detto tu, è uno college più prestigiosi degli Stati Uniti. Ciò significa che mi aiuterà a trovare un lavoro grandioso, lontano da questa cittadina inutile. Riesci a immaginarlo? Dalla città più insignificante della Louisiana, a chissà quale posto meraviglioso in cui potrò vivere. New York, magari, o Boston. Oppure potrei osare e andare nella West Coast, in California. Qualunque posto è meglio che qui. Non c'è niente che mi tenga ancorata a questa città, ormai, se non te e i miei genitori. Ora più che mai, vorrei andarmene e lasciarmi questo posto alle spalle.»

«A me basterebbe soltanto lasciarmi questa storia alle spalle. Per il resto, non mi dispiace come posto. Sì, insomma, è una città minuscola e non c'è niente da fare, ma ci sono affezionata. Non ho mai visto nessun altro posto al di fuori di questo in oltre sedici anni di vita, e mi va bene così. E poi i miei non potrebbero permettersi di pagare un college troppo costoso e lontano da qui. Non so nemmeno perché dovrei andarci, al college. Forse dovrei semplicemente finire a fare la cameriera come loro.» Sorrise amaramente, mentre io assunsi un'espressione corrucciata.

«Tracey, che dici? Hai una mente pazzesca e non puoi buttarla via così! Sei la migliore in tutti i corsi, vedrai che l'anno prossimo riuscirai ad ottenere non una, bensì più borse di studio in tantissimi college grandiosi, tanto che avrai l'imbarazzo della scelta.»

«Se lo dici tu...» disse lei poco convinta, venendo sovrastata dalla mia voce: «Dopo la laurea, diventerai famosa per qualche scoperta in campo scientifico, che so, tipo il modo di poter vivere su Marte. Sarà allora, quando tutti i giornali nazionali e internazionali ti intervisteranno per saperne di più, che farai il mio nome e dirai: "Niente di tutto questo sarebbe stato possibile, senza l'aiuto della mia più cara amica e più accanita sostenitrice, Megan Sinclair. È a lei che devo tutto". Che te ne pare?».

Tracey rise fragorosamente. «Mi pare che tu sogni troppo, ecco cosa mi pare.»

«Già, be', forse in tutto questo incubo che stiamo attraversando, sognare non è poi così male.»

Calò il silenzio, e io mi resi conto di aver, seppur involontariamente, riportato il discorso su Emily, dopo che, dopo tanti giorni, stavamo riuscendo ad avere un discorso da normali sedicenni. «Hai sentito Herman?» chiesi, per cambiare argomento.

Tracey annuì. «Sì, ieri sera è venuto a cena e poi è rimasto a dormire da me» rispose.

«Dormire?» domandai con tono malizioso e Tracey emise un sorriso imbarazzato.

«Ok, diciamo che abbiamo anche dormito» precisò.

Sbarrai gli occhi. «Aspetta, vorresti dirmi che... Oh mio Dio! E cosa aspettavi a dirmelo?»

«Pensavo che il racconto della mia prima volta fosse la cosa che meno potesse interessarti, in questi giorni.»

«Ora penso di essere pronta, perciò dimmi tutto. Ha fatto male?»

Tracey sorrise ancora e scosse la testa. «Era un dolore sopportabile. Ero tranquilla e sicura di quello che facevo, penso sia dipeso anche da questo. Comunque, be', forse non era il momento adatto, sarebbe stato sicuro meglio farlo in altre occasioni, ma... non so, è successo e basta. Stavamo per metterci a dormire, quando ho iniziato a ripensare alla mia deposizione di quella mattina e sono scoppiata a piangere. Lui allora ha preso il mio viso fra le mani e ha cercato di tranquillizzarmi, poi abbiamo iniziato a baciarci, una cosa tira l'altra, ed è successo. Lui all'inizio non voleva, mi aveva detto che se ero ancora troppo scossa oppure non mi sentivo pronta, mi avrebbe aspettato senza problemi. Io però ho insistito e, credimi, ne è valsa la pena: è stato bellissimo.»

«E i tuoi?» domandai.

«Avevano il turno al ristorante. Sono tornati tardi, quando stavamo già dormendo» rispose. «Pensa che all'inizio volevano portarmi con loro. "Potresti mangiare lì e aspettarci finché non finiamo il turno". Non mi lasciano respirare! Per fortuna sono riuscita a convincerli ad andare senza di me.»

«Ora, però, sappi che non mi accontenterò di questa mini storiella. Voglio sapere tutto!»

•••

Me ne andai da casa di Tracey verso ora di pranzo. Mi aveva fatto piacere passare quella mattinata insieme a lei. Era quasi come ai vecchi tempi (quando non ero ancora una possibile omicida. Com'è che faceva? "Sono Megan Sinclair e sono una brava ragazza"). O meglio, quasi come quattro giorni prima. Sembrava passata un'eternità da quel venerdì sera, in cui era cambiato tutto, invece era trascorsa meno di una settimana. Mai prima d'allora mi era sembrato che le giornate potessero essere così lunghe. Non passavano mai. Ne succedeva una di continuo. 
Solo quel giorno, per esempio, ero andata a scuola, ero stata accusata pubblicamente da Olivia di aver ucciso la mia migliore amica (forse le sue accuse non erano poi così infondate. Imperizia, negligenza, imprudenza), avevo pianto e Dylan mi aveva consolata, ero letteralmente scappata da scuola, ero andata a casa Finnston per lasciare i soldi dell'acconto al mio avvocato e mi ero trattenuta lì a parlare con David per non so quanto tempo, poi ero andata da Tracey, avevo scoperto che l'arma del delitto di Emily in realtà non era mai scomparsa ma che l'aveva sempre tenuta lei, avevo smesso il mio insensato sciopero della fame, ero riuscita a comportarmi da normale adolescente (una che non avrebbe corso mai il rischio di essere sottoposta ad un processo penale) e poi, finalmente, mi stavo dirigendo verso casa.

Quando arrivai nel vialetto della mia villa, fui sopraffatta da un grande senso di stanchezza. L'unica cosa che avrei voluto fare in quel momento (scappare, cambiare Paese, magari identità, costruire una macchina del tempo), era andare dritta a dormire. Ero sfinita. 
Tuttavia, una volta più vicina alla porta d'ingresso, mi resi conto che c'era qualcuno ad attendermi, seduto sul divano della veranda. Sbuffai, scocciata. Era Dylan.

Non appena mi vide, scattò in piedi e mi corse incontro. «Fai davvero, Megan? "Stai tranquillo, sono solo tornata a casa". Poi vengo qui e tu non ci sei!» inveì contro di me.

«Prima di tutto, perché sei qui? E secondo, non è affar tuo sapere dove fossi» risposi, incrociando le braccia al petto.

Dopo le mie parole, esplose dalla rabbia. «Oh, ma certo, ora prenditela pure con me! Pensa che stronzo che sono, a preoccuparmi per te! Non mi hai risposto per non so quanto tempo, perché avresti dovuto metterci così tanto se davvero fossi stata a casa? Pensavo ti fosse successo qualcosa. Per quanto ne sappiamo, potrebbe esserci un serial killer a piede libero per la città, e tu pensi bene di scappare e non farti più sentire.»

Mi avvicinai al suo viso. «Scusami» provai a dargli una carezza sulla guancia, ma lui si allontanò bruscamente. «Non pensavo che ti saresti agitato così tanto, al punto di andartene da scuola e venire a cercarmi. Sono stata io ad essermi comportata da stronza, non tu. Ho pensato soltanto a me stessa, anzi, a dire il vero non ho proprio ragionato in quel momento. Volevo soltanto andarmene da lì e l'ho fatto, senza riflettere sulle conseguenze che avrebbe potuto avere sulle altre persone questa mia bravata. Ora però calm...»

«Calmarmi?» mi interruppe. «Guardami in faccia, Megan! Non dormo da quattro fottuti giorni per questa storia, come faccio a calmarmi se tu scompari? Se ti fosse successo qualcosa, io...» bloccò la frase a metà, deglutendo e poi strofinandosi un occhio con la mano, quasi come se fosse sul punto di piangere. «Tu sei importante per me. E... forse sbaglio, a tempestarti di messaggi, ad inseguirti come un cazzo di stalker, a urlarti contro con tutta la mia rabbia, ma in realtà, è l'unico modo che ho per dimostrarti quanto ci tenga. Non mi arrabbierei così, se non fossi spaventato a morte. Forse ti sembrerò pazzo, a pensarci non è propriamente normale, ma...»

Non gli lasciai il tempo di finire la frase e mi fiondai direttamente sulle sue labbra. Nonostante un momento di rigidità iniziale, poi Dylan si lasciò andare e approfondì il bacio. Avvolse le braccia attorno alla mia vita e mi attirò più vicina a sé. Poi cominciò a camminare, fino a sedersi sul divanetto posto alla destra della porta d'ingresso e a far sì che mi sedessi a cavalcioni sulle sue gambe. Affondai le mie mani nei suoi soffici riccioli neri, mentre le sue mani stavano cominciando a scendere sempre più in basso, fino a posarsi sul mio sedere.

Fu in quel momento che decisi di interrompere il bacio. Tolsi le sue mani dal mio fondoschiena, e mi alzai in piedi. «C'è qualcosa che non va?» domandò, alzandosi anche lui e sistemandosi i capelli che io avevo contribuito a spettinare.

«No, è solo che... non lo so.» Mi passai una mano sui capelli anch'io per spostare il ciuffo di lato.

«Se ho fatto qualcosa che ti ha dato fastidio, dimmelo, Megan.»

Non avrebbe avuto senso mentirgli e dire che andava tutto bene, anche perché ero sicura che si capisse benissimo dalla mia faccia che qualcosa non andava. Così vuotai il sacco. «È solo che... tutto questo è sbagliato.»

«Cosa è sbagliato?»

«Ciò che c'è fra noi.»

«Perché? Tu mi piaci e io piaccio a te» disse, scrollando le spalle. «Non ti sembrava sbagliato la sera della festa. Né questa mattina a scuola, né poco fa. Sei stata tu, queste due ultime volte, a baciarmi per prima. Perché continui a farlo se poi te ne penti?»

«Non lo so perché lo faccio, io non...»

«No. Te lo dico io il perché» disse, avvicinandosi pericolosamente al mio viso. «Perché lo vuoi almeno quanto lo voglio anch'io. Puoi fingere quanto ti pare, ma la verità è che quando siamo così vicini, è tutto inutile: non riesci a trattenerti.»

Abbassai lo sguardo per evitare di guardarlo negli occhi. Dovevo contenermi, impedire che accadesse di nuovo. Aveva ragione: per quanto cercassi di negarlo, ero attratta da lui, così come lui lo era di me. Ma era sbagliato ciò che provavo nei suoi confronti. Così, una volta trovata la forza necessaria, mi allontanai da lui.

«Il problema è che Emily è morta! E io me ne sto qui, a pomiciare con il ragazzo per il quale aveva una cotta. Vorrei provare a far finta di niente, ad andare avanti con la mia vita, ma ogni volta che ti guardo, io... io riesco soltanto a pensare a lei. A quello che le abbiamo fatto.»

Vidi Dylan allargare le narici e le sue labbra farsi sottilissime, segnale che stava cominciando ad infuriarsi seriamente. «Megan, cazzo, svegliati! Non è colpa nostra del nostro fottuto bacio se ora lei non c'è più. È stata uccisa, ok? Noi non c'entriamo nulla con questo, quindi smettila di cercare delle scuse inutili.»

«Non sono scuse! Sto cercando di spiegarti il motivo per cui non me la sento di continuare con... qualsiasi cosa sia ciò che c'è fra di noi.»

«Ok, quindi la spiegazione è che ti senti in colpa ogni volta che mi guardi? Allora vai da uno psicologo, un'analista, oppure vai da chi cazzo vuoi, ma non rompere più le palle a me con questa storia!»

Mi diede le spalle e si avviò verso la strada.

«Dove stai andando?» domandai, andandogli dietro.

«Me ne vado! Mi hai stancato, Megan. E, se proprio vuoi qualcuno a cui addossare tutta la colpa, prova a guardarti allo specchio. Vedrai chi è l'unica colpevole fra noi due. Soprattutto, vedi di crescere un po'!»

Non dissi niente e lasciai che si allontanasse. Sebbene mi costasse ammetterlo, aveva ragione. L'unica vera colpevole in tutta quella storia ero io. Ero stata io ad aver tradito la mia migliore amica. Ero stata io ad aver continuato a dare consigli a Emily ogni volta che mi parlava di Dylan e mi chiedeva cosa fare per attirare la sua attenzione, a comportarmi da amica. Ero stata io ad averle detto che di lui non mi importava niente, sebbene Emily ci avesse appena visti mentre ci baciavamo, venerdì sera. Ero stata io ad aver baciato Dylan di nuovo, appena quattro giorni dopo.

Forse avrei potuto essere stata giustificata la prima volta, ma non la seconda, né tantomeno la terza. Era successo per mia spontanea volontà: desideravo baciarlo. Cercare di reprimere quello che provavo, non sarebbe servito a niente. Non era servito a niente.

Tutto quello che avevo ottenuto per non essere stata onesta fin dal principio, era stato perdere la mia migliore amica. Letteralmente. Lei non c'era più.

Fu in quel momento che mi tornò in mente un dettaglio della mia discussione con Dylan che prima avevo ignorato: perché era ridotto così male per la storia di Emily, al punto da non dormire per quattro giorni, se di lei non le interessava minimamente?

•••

«Che cosa vuoi?» chiesi scontrosa, mentre Dylan chiudeva la porta della sua stanza dietro di sé. Improvvisamente tutto il caos e il trambusto dovuto alla musica a tutto volume e alle urla degli invitati alla festa, si affievolì. Eravamo rimasti solo noi due.

«Mi eviti da una settimana» rispose Dylan, sorridendo e avvicinandosi a me, tanto da farmi sentire il suo alito.

«Sei ubriaco.»

«Sei tu a rendermi così» scrollò le spalle e andò a sedersi sul bordo del letto. Batté le mani due o tre volte sul materasso, per invitarmi a raggiungerlo. Rimasi in piedi, incrociando le braccia al petto.

«E questo cosa dovrebbe significare?» domandai, prima di sentirmi stupida e ingenua a credere che parlare con un ubriaco potesse portare veramente a qualcosa.

«Se tu non ti comportassi così tanto da stronza con me, allora non cercherei di farmi del male bevendo così tanto. Sempre meglio che stare male per te.»

«Allora lasciami perdere» dissi semplicemente, e lui sorrise ancora. Poi si alzò in piedi e si parò davanti ai miei occhi. Il suo sguardo scese un attimo verso le mie labbra, prima di posarsi di nuovo sugli occhi.

«No. Non lo farò finché non ammetterai che provi lo stesso che provo io.»

I suoi occhi azzurri, così puri, sinceri, uniti alla nostra vicinanza, stavano quasi per fregarmi, per farmi cedere. Aveva ragione. Mi piaceva. E io piacevo a lui. Ma non bastava per far sì che potessi dargli una possibilità. Scossi rapidamente la testa per riscuotermi, e distolsi lo sguardo dai suoi occhi. «Lo sai che fra noi non potrà esserci mai niente.»

Un altro sorriso, più che altro un ghigno stavolta. «Non la pensavi così settimana scorsa.»

«È stato un errore» affermai decisa, dopo un attimo di titubanza. «E mi dispiace di averti fatto pensare diversamente, ma la mia opinione è sempre la stessa. Non posso fare una cosa del genere alla mia migliore amica.»

«Perché no? Anche se tu mi rifiuti, non cambieranno i miei sentimenti nei confronti di Emma.»

«Emily» lo corressi.

«Ecco dimostrato quanto poco mi interessa di lei! Non mi ricordo neanche come si chiama, né mi importa saperlo.»

«D'accordo, ma il problema qui non sei tu: sono io. A me importa. Non posso e non voglio perdere la sua amicizia solo per un ragazzo.»

Nonostante lo avessi nuovamente rifiutato, Dylan, invece che prendersela, emise un altro sorriso. «Mi piace il tuo voler fare sempre la cosa giusta. Sei così buona, Megan, così altruista. Ma sai che cos'è ancora meglio di fare la cosa giusta per far star bene gli altri? Fare ciò che senti davvero nel profondo del tuo cuore.»

Senza darmi neanche il tempo di ribattere, afferrò il mio viso fra le sue mani e mi baciò.

   
 
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