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Autore: CHAOSevangeline    25/01/2019    3 recensioni
{ Mito di Apollo e Giacinto | Modern!AU }
Eccola, la sua condanna: era un fiore che non poteva crescere.
Di fronte a quel giovane, il volto illuminato da un sorriso fiero sulle labbra cesellate, Giacinto si era sciolto e aveva perso tutte le parole, ogni facoltà di pensiero. Cosa poteva dire? Cos’era giusto dire? Cos’era il caso di dire proprio a lui, per far sì che restasse ancora un minuto, dieci, anche per sempre se lo desiderava?
I suoi occhi celesti, quei capelli di grano ondulato raccolti forse in una coda, forse in uno chignon che non vedeva. La pelle ambrata coperta da una camicia chiara e dei jeans che fasciavano i muscoli delle gambe. Pareva una statua.
E Dio, era bellissimo.
Genere: Introspettivo, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Apollo e Giacinto'
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V.
Zefiro




La mensa era uno degli ambienti scolastici che meno piacevano a Zefiro: era così affollata, così piena di tutte quelle persone che avrebbe preferito di gran lunga non vedere. Si sentiva nauseato ogni volta, un nodo alla bocca dello stomaco che lo incentivava a tutto meno che mangiare.
Se stava seduto lì e non a uno dei tavoli esterni, magari uno dei più isolati e defilati dalle vie principali che conducevano alla caffetteria, era grazie a Giacinto.
Era dall’altro lato del tavolo, il vassoio ormai mezzo vuoto e il solito album da disegno abbandonato accanto a sé.
A Zefiro sarebbe piaciuto chiedergli che cosa avesse disegnato nell’ultimo periodo, quali fossero stati i suoi soggetti preferiti, ma aveva avuto modo di scoprirlo quando si erano incontrati lungo la strada per entrare in mensa, alla panchina dove si erano dati appuntamento: c’era solo lui. Solo e soltanto quel ragazzo a tappezzare ogni pagina.
Apollo.
Era stupido che si ingelosisse allora, che solo in quel momento cominciasse a dargli immensamente fastidio l’immagine che aveva visto ritratta più e più volte da Giacinto. O forse no, dato l’improvviso significato che aveva assunto. Dato che il ragazzo che tappezzava le pagine dello sketchbook era adesso il suo vero ragazzo.
Sembra quasi che Giacinto avesse avuto una premonizione da mettere su carta.
Non si erano ancora presentati, o meglio, Zefiro non lo aveva incontrato e Giacinto forse non teneva nemmeno troppo a farli presentare.
Zefiro era paranoico forse, ma credeva di non avere torto nel credere che Giacinto si vergognasse di lui: si vergognava del suo amico dalle parvenze spettrali, i capelli neri che sembravano scarmigliati come se fossero costantemente spazzati da un vento feroce e implacabile. Però no, Giacinto non lo poteva volere diverso. Non era da lui. Zefiro non si era mai reputato una bellezza, ma temeva il problema ormai fosse un altro: temeva che Giacinto avesse finalmente compreso i suoi sentimenti, che tutta l’innocenza a lui appartenuta prima di stare con quell’idiota gli fosse stata strappata via e che d’improvviso le sue pene d’amore dovute all’incapacità di dichiararsi e alla purezza che impediva a Giacinto di porre nei suoi gesti qualsivoglia tipo di malizia si fossero tramutante in un supplizio infinito.
Zefiro era innamorato di Giacinto dal primo momento in cui lo aveva visto. E beh, rispetto all’incontro fra Apollo e Giacinto – Giacinto non ne aveva voluto parlare troppo, era stato Zefiro a insistere per conoscere in un moto masochistico i dettagli –, quello di Giacinto e Zefiro non era stato poi così memorabile: Giacinto gli aveva chiesto se il posto accanto a lui in mensa fosse libero e Zefiro aveva detto di sì.
Nient’altro.
Si era limitato a osservare di tanto in tanto i fogli su cui il nuovo arrivato stava disegnando dopo aver finito di mangiare, senza confessargli che non era la prima volta che lo vedeva al campus, che più di una volta i propri occhi si erano posati su di lui, ma che mai aveva avuto il coraggio di dirgli la verità, di presentarsi, di provare a parlare con lui.
Fino a prova contraria era sempre stato lo sfigato, lui, quello da evitare, quello che veniva preso in giro ed etichettato come “strano”. Con il tempo Zefiro si era convinto di esserlo davvero, strano, e di non meritare nulla di ciò in cui sperava per guadagnarsi un po’ di felicità nella propria vita.
Nel caso delle voci su Zefiro la verità stava nel mezzo: un po’ lo era davvero, strano, e un po’ si era lasciato influenzare da chi di lui diceva questo.
Poi, improvvisamente, si era convinto che la felicità potesse arrivare con Giacinto.
Il fato aveva voluto che qualche settimana dopo il loro primo incontro Giacinto si fosse seduto ancora una volta accanto a lui, trovando il posto a mensa libero.
Era ancora il periodo in cui Zefiro si ostinava ad andarci, pensando avesse un senso farlo.
Si era ricordato di lui, Giacinto. Gli aveva rivolto un sorriso raggiante e aveva detto che si ricordava di lui, del suo viso e del fatto che gli aveva già elargito la cortesia di farlo sedere accanto a sé quando la mensa era piena.
Da quando aveva cominciato l’università Zefiro non si era fatto nemmeno un amico. Non aveva voglia di farsene uno per le delusioni che le persone gli avevano provocato in passato, eppure quel bellissimo, splendido ragazzo dagli occhi verdi e il sorriso contagioso stava parlando proprio con lui.
Zefiro non avrebbe potuto essere più felice.
«Ma tu sei il ragazzo dell’altra volta!», aveva esordito Giacinto. «Io sono Giacinto, tu come ti chiami?»
Zefiro.
Tre sillabe da lui sempre odiate, anche se forse più a causa delle prese in giro retaggio dei primi anni di scuola, quando i bambini abbandonano l’innocenza per mostrare tutta la propria crudeltà.
Ancora si chiedeva perché i suoi genitori lo avessero voluto ferire in quel modo, dandogli un fardello tanto scomodo e pesante da portare come era il suo nome. Buffo fosse pesante: era il vento dell’ovest.
Sentendo il nome di Giacinto, Zefiro non indugiò un solo istante sul pensiero che fosse strano soltanto perché insolito. Pensò fosse perfetto almeno quanto lui.
«Zefiro? È un bel nome.»
Da quel momento Zefiro, il suo nome, lo aveva odiato un po’ meno.
Erano passati mesi da quel primo incontro. Mesi che per la verità erano stati costellati di incontri solo all’inizio: lui e Giacinto non avevano corsi in comune, non più almeno, perché Zefiro ricordava la sua nuvola di ricci durante le lezioni di storia dell’arte prima che Giacinto lo notasse, e il tempo lasciato libero dalle lezioni si riduceva a quello passato in mensa, o a casa e in aula studio per preparare gli esami.
Il fato non era dalla loro parte, ma Zefiro viveva per quegli incontri di un’ora appena, dove poteva respirare il profumo di Giacinto e godersi i suoi sorrisi.
Era come un’avida pianta che per crescere aveva bisogno di tutto il calore che Giacinto, uno splendido fiore, poteva emanare. Era come edera, Zefiro.
Nemmeno pensava che così facendo avrebbe potuto soffocarlo.
Nemmeno pensava che tutte le chiamate, l’essere andato a cercarlo a casa a sorpresa, dopo quella volta che era passato a prenderlo per uscire, potesse sembrargli inquietante.
Nemmeno pensava che aver rifiutato tutti gli amici di Giacinto con ostilità, che avergli preso senza chiedergli il permesso la mano dopo il film che avevano visto al cinema, potesse averlo scosso.
Perché Zefiro non realizzava di essere lui, il problema: era convinto fosse Apollo.
Lui, con la sua auto dalla carrozzeria rosso fiammante, che apriva la portiera a Giacinto nel parcheggio dell’università sotto lo sguardo di tutti per portarlo chissà dove, lontano da Zefiro.
Lui, che solo perché sapeva sorridere più di quanto non facesse Zefiro aveva stregato Giacinto a tal punto da farlo cadere fra le proprie braccia.
Lui, che gli aveva portato via Giacinto.
Lui.
Apollo.
Zefiro lo odiava.
E non esagerava, nel pensarlo. Odiava davvero Apollo e forse, in fondo, un po’ era arrabbiato anche con Giacinto; perché se all’inizio era certo il ragazzo si fosse lasciato stregare, che il suo compito fosse farlo risvegliare da quel sortilegio capace d’offuscargli mente e pensieri, poi Zefiro si era reso conto che a Giacinto stava bene. Si era reso conto che era felice di vivere così, fra le braccia di Apollo, convincendosi che quello fosse tutto il suo mondo.
Così Zefiro aveva iniziato a pensare che, forse, Giacinto non era poi così diverso dalle altre persone. Forse non era così speciale, forse sarebbe stato meglio lasciarlo andare.
Ma Zefiro prese una scelta pericolosa, una scelta drastica e carica di tutta la presunzione che un essere umano non dovrebbe nemmeno arrogarsi: aveva scelto di far cambiare idea a Giacinto, perché fra i due era lui a sapere cosa fosse meglio per quel ragazzo.
Perché lui lo amava, Giacinto.
Lo amava davvero.
 

«Scusami Zef, oggi devo uscire con Apollo.»
Ancora. Avrebbe aggiunto Zefiro.
Giacinto usava quel soprannome anche quando doveva dargli una notizia pessima come quella, quasi non si rendesse conto del dolore che gli provocava. Lo chiamava Zef e pareva scaldarlo, convincerlo che tutto sarebbe andato bene, e poi diceva quell’altro nome, pronunciava il nome di Apollo con tutto l’amore che aveva in corpo e pareva pugnalarlo nello stesso punto che poco prima aveva accarezzato con il suo soprannome.
«Lo immaginavo.»
Giacinto gli rivolse un piccolo sorriso. Quando uscivano ormai sembrava quasi intimorito da qualcosa che Zefiro non conosceva e che, in verità, ancora non gli aveva chiesto.
Si trattava del suo sguardo, in realtà, della fiammella di rabbia che pareva infuocare le sue iridi nere come la pece quando il telefono squillava e lui si accorgeva – o convinceva, accadevano entrambe le cose – che si trattava di Apollo. Leggeva quel nome e pareva infuriarsi, odiare Apollo, sé stesso e probabilmente anche Giacinto.
Si chiedeva perché, perché mai il ragazzo non potesse avere occhi solo per lui. No, così sarebbe sembrato troppo egoista, sarebbe sembrato pretenzioso: l’unica cosa che Zefiro voleva era che lo guardasse almeno un po’. Ma quel poco che osava chiedere all’inizio era diventato in fretta un «guardami tutto il tempo di cui ho bisogno.»
Ed era ingordo, Zefiro. Era ingordo come una belva che sa di poter prevalere su qualsiasi preda abbia intorno, che continua a cacciare e a nutrirsi anche se non serve, per la supremazia. Si sentiva così minacciato da Apollo, percepiva i propri sensi vibrare con tanta intensità quando gli si avvicinava anche solo con il pensiero, con le parole di Giacinto, che un paragone con le bestie nemmeno era errato. Si diceva sempre che esagerava, che non lo avrebbe fatto sul serio, ma non gli sarebbero dispiaciuti dei begli artigli da premergli sulla gola, con cui squarciare la carne e pressare la sua trachea fino a non sentire più il pulsare vitale della giugulare.
Si ripeteva di pensarlo senza ragione, solo per la rabbia.
Si era ripetuto questo anche quando, l’ennesima volta in cui Giacinto aveva fatto scorrere il polpastrello dell’indice sullo schermo del telefono per rispondere, si era immaginato mentre chiudeva le dita intorno al suo esile collo e premeva, premeva fino a che di parole per Apollo non ce n’erano più, perché a Giacinto mancava l’aria.
Lì sì, che si era spaventato. Perché lui a Giacinto non voleva fare del male, perché non era colpa sua se era così buono da aver scelto di perdere tempo con lui, per essersi reso disponibile con Apollo.
Già, doveva essere quel ragazzo ad averlo cambiato, ad averlo reso diverso. Giacinto era buono, era solare. Apollo lo aveva ammaliato come ammaliava tutti, con parole false che mai lui avrebbe dedicato a Giacinto.
Zefiro voleva che Giacinto fosse il suo, di sole, e se lo aveva scelto doveva essere perché in cuor suo sapeva che Giacinto non lo avrebbe mai abbandonato.
Non riusciva nemmeno a pensare che, forse, lo aveva idealizzato troppo. Che a conti fatti Giacinto era una persona come tutte le altre, un essere umano e che per questo, più o meno speciale che fosse, cambiava: cambiava e conosceva persone nuove, si legava a loro. Non è cattiveria, è la vita. E che la vita possa essere crudele è vero da secoli, da millenni, ma non tutto vien per nuocere. E nulla è una scusa per far del male agli altri.
Zefiro si era così perso nei propri pensieri da essersi già dimenticato cosa avesse chiesto a Giacinto di fare insieme, se si trattasse di un’uscita al centro commerciale o di prendere un cappuccino insieme nella caffetteria nuova del centro.
La seconda ipotesi sarebbe stata forse la più vittoriosa: Zefiro sapeva di non poter fallire, che avrebbe preso Giacinto per la gola perché il cappuccino di quella caffetteria lo adorava. Non c’erano stati insieme, per la verità Zefiro lo aveva visto seduto al suo interno mentre lo sorseggiava, l’espressione soddisfatta e due baffi di schiuma dipinti sul labbro superiore. Stava andando a prendere l’autobus dopo la lezione e la sua giornata si era rallegrata, accesa nel vederlo lì.
Se Giacinto avesse voluto prima prendere quel cappuccino e poi andare al centro commerciale, però, a Zefiro sarebbe andato bene comunque; il tempo passato con Giacinto era ambrosia per lui e avrebbe voluto drogarsi di quel nettare ogni singolo secondo senza mai esserne sazio.
Azzardò nell’immaginare lui e Giacinto aggirarsi per le vie del centro con le mani congiunte, strette, e poi le dita intrecciate in un groviglio che avrebbe reso il suo cuore palpitante e leggero come il vento.
Ma non sarebbe mai successo, perché Giacinto teneva una mano, sì, ma non era la sua. Era quella di Apollo.
Dio, quanto lo odiava. Lo odiava, lo odiava, lo odiava.
Proprio mentre si convinceva di poter avere un’occasione con Giacinto, proprio mentre riusciva a illudersi che i sorrisi del ragazzo fossero tornati tanto luminosi solo per lui, quell’idiota si era messo in mezzo.
Perché Zefiro non lo conosceva, ma era tutta colpa sua. Non avrebbe nemmeno mai voluto conoscerlo, un po’ per non ferirsi, un po’ per timore di scoprire che cosa i suoi istinti e pensieri crudeli lo avrebbero reso in grado di fare. Non tanto per Apollo, lui se lo sarebbe meritato, ma non voleva fosse Giacinto a rimanere ferito dall’immagine che in quel modo Zefiro avrebbe dato di sé.
Non voler vedere Apollo però cozzava con ciò che aveva fatto per parlare con Giacinto: lo aveva raggiunto sotto la tettoia della biblioteca, dove il ragazzo se ne stava solo, scrutando l’orizzonte. Zefiro si era inzaccherato dalla testa ai piedi per colpa della pioggerellina leggera ma fitta che imperversava da quella mattina, per arrivare a lui, ma era un male minore.
Giacinto indossava una felpa molto più grande di lui, ma se così non fosse stato Zefiro gli avrebbe volentieri ceduto la propria per poter poi affermare con orgoglio che fosse impregnata del suo profumo.
Ciò che Zefiro non sapeva era che Giacinto, sotto quella tettoia, aspettava Apollo. Sapeva che doveva incontrarlo, che dovevano uscire. Non che dovesse arrivare proprio da un momento all’altro.
No, mentiva: era ovvio sapesse. Apollo lo aspettava nel parcheggio con il sole più intenso, con la pioggia sarebbe corso da lui.
Zefiro voleva trovarsi lì, o se ne sarebbe andato.
Mentiva persino a sé stesso.
«Parli del diavolo…»
Zefiro percepì un brivido alla base della spina dorsale ancora prima di vederlo. Si sentì febbricitante e desiderò di sparire, di non trovarsi lì. Di non essersi mai trovato lì, per non sapere.
Vide un ragazzo che attraversava il parcheggio sotto un ampio ombrello scuro. Ma poco importava che fosse blu, verde, nero: il giovane uomo che lo reggeva sembrava brillare nel grigiore di quella giornata.
Zefiro ebbe l’impressione che a differenza sua, che sembrava un fantasma, Apollo fosse un raggio di luce.
Il sole di cui Giacinto si era innamorato, la fastidiosa sorgente di luce che Zefiro non avrebbe voluto vedere. Il sole che Giacinto era per lui.
Apollo gli donava luce, lo nutriva. Zefiro era l’ombra che invece inghiottiva Giacinto, scuotendolo con un vento che non meritava. Rischiava di spezzare il suo stelo da un momento all’altro e non faceva nulla per fermarsi, non voleva vederlo.
Quando Apollo arrivò sotto la tettoia e chiuse l’ombrello si fece vicino a Giacinto che, Zefiro lo vedeva, sorrideva come mai prima lo aveva visto fare.
«Ehi piccolo, sono in ritardo?» chiese Apollo, avvolgendo un braccio intorno ai suoi fianchi.
Si stava avvicinando per baciarlo, ma Giacinto si voltò e le labbra di Apollo si scontrarono sulla sua guancia. Il biondo aggrottò le sopracciglia e sfoggiò un broncio non indifferente. Prima che potesse chiedere e che Giacinto si schiarisse la voce, Apollo si degnò di accorgersi della presenza di Zefiro.
«Apollo, lui e Zefiro», lo presentò Giacinto.
Quella era la parte in cui gli porgeva la mano?
Zefiro si convinse in pochi istanti che i ragazzi come Apollo non davano mai la mano a quelli come lui. Non lo facevano e basta, poche storie.
Invece lo fece, maledizione a lui.
Era anche gentile.
«Oh, piacere. Devi essere l’amico di Giacinto», disse.
Ma non c’era entusiasmo. Sembrava circospetto, attento, come se sapesse qualcosa di cui Zefiro non era a conoscenza. Lo aveva definito l’amico di Giacinto, ma sembrava quasi ironico.
E un po’ lo era, Apollo, perché non avrebbe mai dimenticato il cambiamento nello sguardo di Giacinto quando aveva saputo che un certo Zefiro lo stava cercando al telefono.
Zefiro strinse la sua mano con vigore, più di quanto non ne utilizzasse di solito.
«Già, sono un suo amico.»
Suonò minaccioso e Giacinto si sentì a disagio. Apollo non raccolse la sfida. Non perché fosse sciocco, perché non avesse intuito che qualcosa non andava, ma perché da quando aveva messo piede sotto quella tettoia si era accorto che Giacinto si sentiva a disagio, che sembrava quasi spaventato. La sua priorità era farlo sentire al sicuro.
«Beh, per noi si è fatto tardi», prese in mano la situazione Apollo.
Aprì di nuovo l’ombrello e attirò Giacinto a sé.
«Andiamo?»
Giacinto annuì.
Sembrava essersi fatto sempre più piccolo in quella felpa e ancor di più contro il fianco di Apollo quando il biondo gli aveva avvolto il braccio intorno alle spalle.
Prima che si lanciassero sotto la pioggia, Apollo si voltò e rivolse a Zefiro un’occhiata. Una vera e propria occhiataccia nella quale si leggevano sdegno e ostilità.
Zefiro la ricambiò.
Maledizione, avrebbe voluto ucciderlo.




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Ed eccolo qui, Zefiro.
Mi ero bloccata a questo capitolo qualche mese fa, poi in uno sprint la settimana scorsa ho scritto la parte mancante della fanfiction. Quindi sì, ora i capitoli ci sono tutti, completi, fino alla fine.
Sto ancora decidendo che fare, ma non escludo che potrei pubblicarli tutti di fila entro stasera o nei i prossimi giorni.
Tengo a ringraziare Rika, perché ho atteso trepidante il suo parere essendo molto incerta della storia dall'inizio di questo capitolo fino alla sua conclusione. Grazie per aiutarmi sempre e per il tuo immenso supporto <3
Ringrazio chiunque abbia avuto la pazienza di aspettarmi e spero vogliate darmi un parere sul seguito della storia.
Al prossimo capitolo!
   
 
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