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Autore: romaglammyage    25/01/2019    0 recensioni
"Una squallida stanza di motel. Bottiglie di vino scadente rovesciate sul pavimento. Una camicia azzurra appallottolata in un angolo, come se qualcuno se la fosse strappata di dosso e l’avesse scagliata via con rabbia. Una vecchia radio da cui arriva irritante la vocina acuta di una donna sottopagata per fare un lavoro di merda – probabilmente la conduttrice scocciata di un giornale orario di nicchia. Seduto su una sedia di vimini mezza sfondata, un giovane uomo."
Tutti abbiamo bisogno di un Guardiano.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Sovrannaturale
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~~“I’ll be your keeper for life as your guardian
 I’ll be your warrior of care, your first warden
 I’ll be your angel on call, I’ll be on demand
 the greatest honor of all, as your guardian.”

Alanis Morissette, Guardian

Agosto 1998

È venerdì pomeriggio e il parco brulica di vita lenta: bambini che si rincorrono sorvegliati da genitori annoiati, anziani signori che affrontano rassegnati la loro quotidiana passeggiata della salute sotto il ruggente solleone toscano, cani di tutte le taglie che inseguono frisbee lanciati da padroni svogliati. Un giorno ordinario e unico.
 In maniera kubrickiana, la scena si restringe al solo spazio occupato da un’altalena, e in particolare al bambino dai disordinati riccioli neri che vi si dondola allegramente. Ha qualcosa come tre o quattro anni e lo sguardo tipico della sua età: spensierato, vivo. Attira però l’attenzione dell’inesistente platea un’altra figura: capelli di miele, occhi di giada. Sedicenne, si direbbe. Si guarda intorno con circospezione, ad assicurarsi di essere lontana dalla curiosità degli altri. Lei lo sa che nessuno la nota, ma ogni tanto il dubbio ancora le viene.

Il suo sguardo si posa sul bimbo di prima, e l’espressione sospettosa lascia il posto ad un intenerito sorriso. “Eccoti qua”, pensa. Va a sedersi sull’altalena di fianco a lui. «Ciao. Vuoi che ti spinga?» Gli occhi del piccolo si illuminano: «Sì! Grazie! Io sono Morgan». La ragazza sbuffa divertita. «Lo so. Piacere di conoscerti, Morgan. Io sono Fanny.»

Morgan lancia gridolini di eccitazione mentre la sua nuova amica lo illude di poter toccare le nuvole. Qualche minuto passa così, tra silenzio e gioia, poi Fanny decide che il gioco è finito. Prende per mano il bambino che, con buffa spavalderia, la segue ai piedi di una grande quercia. Si siedono. Morgan si mette a impastare un castello di terra con le manine esili, Fanny lo osserva con fare quasi materno; ha un compito – una missione – e farà di tutto per adempiervi al meglio delle sue capacità. E anche oltre. Morgan è il suo unico scopo e la sua unica ragion d’essere. «Sono moooolto bravo, vero?» chiede lui, e sul volto della ragazza fiorisce un sorriso serafico. «Bravissimo» conferma, scompigliandogli i capelli. È il momento. «Ascolta, Morgan. Ogni essere umano ha bisogno di un punto fermo, un riferimento, al quale appoggiarsi nei momenti difficili. La vita da uomo è tanto piena di esperienze quanto di ardue sfide. Ecco, in quelle sfide, tu mi avrai accanto. Sono venuta al mondo per proteggerti e illuminare la tua strada. Forse adesso non capirai quello che dico, ma un giorno dovrà accadere. E quel giorno io tornerò da te e tu saprai di non essere più solo.» Fanny appoggia la sua mano contro quella piccolissima di Morgan; un bracciale di luce avvolge i polsi di entrambi, risale le braccia, penetra tra le costole fino ai cuori, legandoli indissolubilmente. «Morgan! Morgan!» da non lontano grida sua madre. Lui si volta, e Fanny sparisce, chissà dove, chissà come, non per sempre.

Dicembre 2015

Una squallida stanza di motel. Bottiglie di vino scadente rovesciate sul pavimento. Una camicia azzurra appallottolata in un angolo, come se qualcuno se la fosse strappata di dosso e l’avesse scagliata via con rabbia. Una vecchia radio da cui arriva irritante la vocina acuta di una donna sottopagata per fare un lavoro di merda – probabilmente la conduttrice scocciata di un giornale orario di nicchia. Seduto su una sedia di vimini mezza sfondata, un giovane uomo. Linee di inchiostro nero raccontano una storia ormai dimenticata tra le scapole nude, mezzelune violacee nelle valli oculari spiegano esaustive il presente di un’anima stanca. L’uomo guarda il nulla e ci vede l’infinito: sta viaggiando dentro se stesso, tra il vuoto asettico della rassegnazione e la prepotenza assordante del terrore. Si è perso. Beve qualcosa di forte da un bicchiere sbeccato. Adesso la radio manda un brano solare e ottimista, e in lui monta la rabbia. Tira un pugno a quell’aggeggio disturbante e a quel canto bugiardo, che straparla di amore e protezione. Nessuno lo ha mai protetto.
«Era una bella canzone, potevi lasciarla» borbotta qualcuno alle sue spalle. Si volta di scatto: una tipa biondina, occhi verdi e vivi – così diversi dai suoi – è appollaiata sul letto sfatto, una coperta candida avvolta intorno alle spalle. Sorride e nel suo sorriso c’è il cielo terso e l’odore del pane caldo al mattino e la luce in mezzo al buio, che per un attimo liberano il mondo intero da tutte le pene. Per un attimo solo però, perchè poi lui si alza e va a grandi passi verso la potente intrusa.
«Come sei entrata? Chi diavolo sei?» ringhia. La giovane scoppia in una risata sincera. «Mi hanno rifilato le identità più disparate, ma per prendermi per un diavolo ce ne vuole! E pensare che eri un bambino così dolce… Avevo compreso tu avessi bisogno di me, ma vedo che la situazione è peggiore di quanrto pensassi. Ciao, Morgan.»

«Bambino? Bisogno?! Ma se sei tu la bambina tra i due! Chi ti cono…» La frase rimane a metà. Uno schiocco di dita della nostra vecchia Fanny – l’avrete di certo riconosciuta – ha bloccato tempo e ira. La stanza si riempie luce dorata, l’aria è pregna del profumo dell’erba appena tagliata, si sente il rumore della felicità. Lo spazio si svolge, torna indietro e si apre su un parco assolato. Morgan si ritrova spettatore del suo passato. Un incontro in un pomeriggio di sole e una promessa. Ricatapultato nella realtà, trangugia con gli occhi la vista di Fanny e delle sue grandi ali bianche. Tutto ridiventa nitido.

Morgan osserva la creatura alata di fronte a lui in un modo a metà tra il cagnesco e l’attonito. Esiste da sempre qualcuno che avrebbe potuto aiutarlo e che non l’ha mai fatto. Allo stesso tempo, non riesce a capire se è un’allucinazione figlia di una pesante sbronza o se sta accadendo tutto sul serio.
«È reale» assicura Fanny. Gli legge nel pensiero, l’ha sempre fatto. Gli occhi del ragazzo sono ogni secondo più sbarrati. «Sì, posso sentire quello che ti passa per la testa. Il periodo della tua adolescenza è stato alquanto seccante, con tutte le tue idee su morte e disagio. Sapevo che in quella fase avrebbero potuto manifestarsi, ma certe volte era talmente complicato ignorarti! Mi ero ripromessa di intervenire solo nel momento del vero bisogno. Non mi hai vista quando se n’è andata tua madre perchè ti era abbastanza indifferente da non mancarti. Non mi hai vista l’anno scorso quando hai tentato di ammazzarti perchè il tuo reale obiettivo era vivere al massimo, e te l’ho lasciato fare. Evidentemente è servito, visto che sei ancora qui. Ma adesso mi vedi perchè hai abbandonato te stesso e il tuo futuro.» La costernazione sul volto di Morgan sparisce per lasciare spazio a una risata sguaiata e amara. «Futuro? Quale futuro? Se sei davvero sempre stata al mio fianco saprai che il futuro muore stanotte. Ma tu sei solo uno sporco gioco della mia testa…» Tende una mano davanti come per scacciare del fumo, ma incontra qualcosa che fumo non è. Allora, come anni addietro, Fanny poggia la mano contro quella del disilluso, e un raggio pallido li ammanetta l’uno all’altro, per poi dissolversi. Lo sguardo di lui è annebbiato dalla confusione. Si volta e si avvia verso la porta. «Io sono fottutamente ubriaco e tu sei un dannatissimo sogno. Addio.»

Un temporale violento squarcia l’immobilità notturna. A torso nudo, Morgan cammina ciondolante sul bordo della strada, con la pioggia e le lacrime che gli riempiono gli occhi. «Se solo fosse vero… Se solo esistesse qualcuno che vive in funzione di me… io vivrei per lui.»
Urla nella notte perchè si sente pazzo e solo. E succede tutto nel giro di pochi secondi: un fascio di luce che lo investe di lato, un rombo coperto dallo scroscio del temporale. Poi, per la seconda volta in quella notte, il tempo sembra rallentare: un suv nero scivola fuori strada in testacoda e il buio si apre intorno alla magnifica figura di Fanny, che si libra a mezz’aria. Gli tende la mano: «Vieni con me.»

Morgan ha, a diciassette anni di distanza, di nuovo seguito Fanny, di nuovo sotto quell’albero, di nuovo minuscolo rispetto a lei. Si stende nell’erba, tra i denti di leone. È esausto. Trema. Anche Fanny si stende, a lui vicinissima nel corpo ma lontana nell’essenza. Lo copre con le sue enormi ali. «Sai, Morgan… È stato difficile sentirti soffrire. Avrei voluto donarti la forza di cui avevi bisogno per andare avanti, in certi momenti… Ma dovevo lasciarti crescere. Imparare. Il mio compito non è impedirti di sbagliare, ma guidarti nella giungla della comprensione.» Lui si mette a sedere. «Sentirmi soffrire? Vuol dire che tu provi quello che provo io?» Fanny lo guarda negli occhi, ora un po’ più limpidi. «In un certo senso. Io… abito qui.» spiega sfiorandogli il cuore con un dito. Morgan strizza gli occhi, cerca di capire. Ma non c’è nulla da capire, bisogna solo crederci. E sembra esserci arrivato. Si volta e Fanny è ancora accanto a lui, ma sembra che stia perdendo consistenza. Le ali sono diafane e i contorni del suo corpo tremolano. «Non c’è molto tempo. Hai due opzioni e una scelta, fidarti di me oppure no. Se dovessi scegliere di allontanarti, io continuerò a seguirti, ma con la condanna di non poter intervenire in tuo sostegno. Devi decidere, e devi farlo ora.»

Morgan non ha niente da perdere ormai. C’è qualcosa tipo un angelo – un guardiano – che esiste solo per aiutarlo, e che gli ha appena salvato la vita, forse per l’ennesima volta. Sceglie di fidarsi di quella che forse altro non è che una dolcissima fantasia. «Fai quello che devi fare» mormora in un flebile sorriso. Fanny, che ormai nient’altro è che un’ombra, gli sorride di rimando, prima di diventare una scintilla argentea ed entrargli dentro.

   
 
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