Serie TV > Squadra Speciale Cobra 11
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Autore: sophie97    26/01/2019    1 recensioni
“Ho subìto un danno. Le persone danneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere... È la sopravvivenza che le rende tali... perché non hanno pietà. Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro.” (Il danno, 1992)
14 Novembre, Colonia, un giorno grigio come tanti.
Una storia che comincia come una storia qualsiasi, con un istante di vita. Rapporti incrinati, il riemergere di un passato che fa paura, una serie di piccoli, fatali errori compiuti uno dopo l’altro, fino alla rovina. Fino a quando non si smette di vivere, per iniziare a sopravvivere.
Storia che nulla ha a che fare con la mia serie ancora in corso; storia triste e drammatica, ne sono consapevole. Ma mi piacerebbe ugualmente condividerla con voi.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Andrea Schafer, Ben Jager, Nuovo personaggio, Semir Gerkan, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dal capitolo precedente:

"«Era solo una bambina.».
«Infatti è terribile.» replicò la psicologa «Ma Semir è vivo, Andrea è viva e Aida è viva e sta bene. E questo è già un miracolo, Ben.».
Il giovane ispettore scosse la testa e ritrasse la mano.
«E noi dobbiamo credere nei miracoli?»."

Così si sopravvive

GIORNO 37. 

Kim Kruger sistemò la pila di fogli che aveva sulla la scrivania, sbuffando.
Le pratiche si stavano accumulando e accumulando, inesorabilmente.
Sembrava che tutto in quel commissariato funzionasse a rallentatore. Sembrava che i volti di tutti gli agenti fossero diventati grigi, che l’aria fosse diventata spessa, che i suoni fossero ovattati.
Ed era così ormai da troppo tempo.
Quella mattina Kim era arrivata presto, con l’intento di sbrigare le pratiche burocratiche per liberarsene il più in fretta possibile, ma nemmeno lei riusciva a lavorare con l’efficienza di sempre.
Era tutto terribilmente lento.

Un picchiettio sul vetro della porta la distolse dai propri pensieri.
Ben varcò la soglia dell’ufficio senza aspettare una risposta e si sedette davanti alla scrivania della Kruger, salutando a mala pena.
«Jager, come si sente?» domandò la donna, mantenendo un tono che apparisse il meno autoritario possibile, ben conscia di quale sarebbe stata la risposta.
Ma l’ispettore ignorò direttamente la domanda.
«Commissario, perché mi ha chiamato? Stavo andando in ospedale da Semir.».
«È il 21 dicembre, Jager.».
Ben corrugò la fronte. Il 21 dicembre. Aveva smesso di contare i giorni tempo prima, aveva perso la cognizione del tempo in quel susseguirsi di eventi. Era iniziato dicembre e nemmeno se ne era reso conto. Questo pensiero lo fece rabbrividire.
Era passato più di un mese da quando quell’assurda storia era iniziata e lui non se ne era accorto.
«E io ho bisogno di lei.» continuò la Kruger, sforzandosi di non apparire eccessivamente fredda, dovendo parlare di lavoro in quella situazione «Da quando abbiamo ritrovato la famiglia Gerkhan, io praticamente l’ho persa, Jager. Non ha fatto più di uno o due giri in autostrada negli ultimi venti giorni. Ho capito perfettamente la situazione e non ho detto nulla, ritenevo normale che lei volesse trascorrere il maggior tempo possibile in ospedale, ma è arrivata l’ora di andare avanti. E io qui ho bisogno di lei.».
«Capo, io non...».
«Aspetti, Jager.» lo interruppe lei «Non le sto dicendo che dovrà lavorare ventiquattro ore su ventiquattro, ma almeno torni a fare degli orari normali. Siamo sotto Natale, tutte le strade sono intasate, gli incidenti aumentano. Io ho perso non un ispettore ma due, e non due agenti qualunque ma i miei due uomini migliori in assoluto. Quindi, per favore...».
Ben sospirò, guardandola negli occhi. Aveva ragione.
«Commissario, io non posso abbandonare Semir. È completamente solo.».
«Infatti non le sto chiedendo questo, Jager, però...».
«Senta, Semir esploderà. Accadrà presto e quando accadrà io dovrò essere lì, perché altrimenti...».
«Ben, Semir ha perso una figlia.» lo interruppe di nuovo la Kruger «Ha perso una figlia, sta perdendo sua moglie, ha perso la possibilità di camminare. Certo che esploderà, è naturale. E lei potrà aiutarlo, consolarlo, stargli vicino... ma non pretenda di raccogliere da terra tutti i cocci e rimetterli insieme perché, mi creda, non può farlo. Nessuno può.».
L’ispettore annuì, evitando di guardarla negli occhi. Aveva ragione da vendere e lui ne era perfettamente consapevole. Non avrebbe potuto aggiustare tutto, non avrebbe potuto rimediare a tutto ciò che era successo, sarebbe stato impensabile.
Eppure...
«Commissario, Semir non ha più nessuno.» ripeté Ben, in un sussurro «Se non riesco ad accettare io, che sono una persona esterna alla sua famiglia, quello che è successo, come potrà farlo lui?».
«Non lo so.» replicò la donna, con un sospiro «Mi creda, Jager, non lo so e vorrei poterla aiutare, ma...».
«Mi dia ancora qualche giorno, commissario. Poi tornerò in pieno servizio, glielo prometto.».

Quando pochi minuti dopo Ben uscì dall’ufficio, camminò a testa bassa e in fretta verso l’uscita del commissariato, fino a quando non scontrò qualcuno che si stava dirigendo nella direzione opposta, facendogli cadere il bastone con cui l’uomo si aiutava per camminare.
Il giovane ispettore si chinò a raccoglierlo. Solo quando sollevò lo sguardo per porgere il bastone al suo proprietario si accorse di conoscere quel viso.
«Grazie, giovanotto.» fece il signore, cordiale.
Quei baffi bianchi, quell’accento inglese e quel “giovanotto” erano decisamente inconfondibili.
«Signor Smith, che cosa ci fa qui in commissariato?».
Quello che aveva davanti era l’anziano signore che per primo aveva asserito di aver notato una donna bionda vicino alla casa dove era stata rapita la famiglia Gerkhan, venti giorni prima, e Ben era sorpreso di incontrarlo di nuovo.
Tuttavia, sorrise. Quel vecchietto possedeva lo strano potere di farlo sorridere.
«Cercavo lei in verità, giovanotto. Ha tempo per una tazza di tè?».

Ben portò il signore nel piccolo locale che da qualche settimana aveva aperto a pochi passi dal commissariato e gli offrì un tè caldo.
Lo ordinò anche per sé. Non sapeva esattamente come mai quell’uomo lo fosse venuto a cercare, ma vederlo gli aveva fatto stranamente piacere e, nonostante tutto, una tazza di tè non gli avrebbe portato via molto tempo.
«Che cosa succede signor Smith? Problemi nel suo quartiere?» domandò, con un sorriso gentile, dopo che si furono sistemati attorno a un tavolino in legno scuro, accanto alla vetrata.
Faceva freddo e il cielo bianco minacciava neve.
L’anziano signore non sembrò nemmeno ascoltarlo, in un primo momento. Guardò con un folto sopracciglio alzato la tazza di acqua calda che aveva davanti e vi immerse con una certa diffidenza una bustina di tè aromatizzato alla mela verde.
«Tè inglese, c’è scritto. Strani, voi tedeschi.» bofonchiò tra i baffi, scuotendo la bustina dentro alla tazza, con l’incomprensione dipinta sul viso.
Ben sorrise, schiacciando con un cucchiaino la propria bustina dentro all’acqua bollente perché questa si colorasse più in fretta.
«Non le piace?».
«Oh no giovanotto, va bene. Sono una persona moderna, cosa crede. Mi abituo a tutto, io.».
Questa volta il poliziotto non riuscì a trattenersi e si mise a ridere.
I folti baffi bianchi, il naso arrossato e l’enorme sciarpa di lana a quadri avvolta attorno al collo e alle spalle, l’ultima impressione che quell’uomo potesse dare era quella di essere moderno.
«Lei ride, giovanotto, ma sappia che il sottoscritto possiede un esemplare senso di adattamento.» commentò il vecchio, fingendosi offeso «Comunque, le dicevo, volevo trovare proprio lei.».
«È successo qualcosa nel suo quartiere?» ripeté Ben, ricordando che l’uomo si fosse lamentato delle frequentazioni della sua via.
Il signore scosse il capo, poi si prese il tempo per sorseggiare lentamente il proprio tè.
«No, giovanotto, no. Volevo sapere come sta lei.».
Il ragazzo lo guardò senza capire.
«Sa, ormai sono vecchio e solo, i miei parenti sono sparsi per il mondo. Ma quando avevo accanto i miei nipoti capivo immediatamente quando qualcosa non andava. Lei assomiglia proprio a mio nipote Jonathan.».
Ben sorrise. Avrà avuto una settantina d’anni, o forse poco più, ed era solo. Quell’uomo gli fece un’immensa tenerezza, nonostante sostanzialmente non lo conoscesse affatto.
«Venti giorni fa l’ho vista molto preoccupato, giovanotto.» continuò lui, con voce pacata, passando le mani sopra alla tazza fumante perché si scaldassero «Ora come sta?».
E Ben gli raccontò tutto.
Senza nemmeno comprenderne bene il motivo, gli raccontò ogni cosa.
Di Keller, di Semir e della sua famiglia, di Lily. Di lui e di Margaret. Della Kruger. Del suo lavoro.
Qualunque cosa.
Si sorprese addirittura nel rendersi conto di avere così tanto da dire.
L’anziano signore si limitò ad ascoltarlo, annuendo e scuotendo il capo ogni tanto, commentando con qualche semplice “Oh” esclamativo, lasciando che fosse lui a condurre il discorso.
Ben sapeva perfettamente che quell’uomo non potesse conoscere tutto ciò che lo riguardava e che gli era capitato in quelle ultime settimane, ma parlare con lui gli sembrò straordinariamente normale, come se da tempo aspettasse di poter raccontare a qualcuno ogni cosa. Aveva semplicemente bisogno che qualcuno lo ascoltasse, ma non se ne era reso conto fino a quando non aveva cominciato a parlare.
Era passata più di mezz’ora quando si accorse di non aver mai chiuso bocca e si interruppe improvvisamente.
«Oddio... non mi ero reso conto di aver parlato così tanto, mi scusi signor Smith.».
«Santo Cielo, giovanotto.» commentò l’uomo, leggermente sbigottito «Per quanto tempo ancora aveva intenzione di tenere per sé tutto questo? Sarebbe esploso prima o poi, mi creda. Boom.» fece, facendo schioccare tra loro i palmi delle mani per dare maggiore enfasi a quella frase.
Ben rise divertito «Ha ragione, ma non pensavo...».
«Non pensava di avere così tanto da dire? Giovanotto, è proprio quando stiamo troppo in silenzio che abbiamo più cose da dire.».
L’ispettore annuì, chiedendosi da dove quell’uomo gli fosse stato mandato e se fosse stato mandato da qualcuno apposta per lui.
«Comunque, sono contento di averla ascoltata.» continuò l’uomo, con una flemma decisamente inglese, sistemando la tazza ormai vuota sopra al piattino che aveva di fronte «Chissà perché, immaginavo che venendo qua oggi avrei avuto tanto da ascoltare. Amo ascoltare, sa giovanotto?».
«Mi dica che ama anche dare consigli, la prego...» supplicò Ben, sperando davvero che quell’uomo piovuto dal cielo o spedito nel ventunesimo secolo direttamente da un’altra epoca potesse aiutarlo.
«Solo uno, giovanotto.» disse il vecchio, dopo essere rimasto soprappensiero appena qualche secondo «Impari a danzare sotto alla pioggia.».
Il ragazzo corrugò la fronte, sorpreso.
«Che cosa?».
«Impari a danzare sotto la pioggia, ragazzo. È così che si sopravvive. Non cercando di superare una tempesta, ma imparando a danzarvi in mezzo. Non glielo hanno mai detto, giovanotto?».
Ben distese la fronte.
Sorrise.
«Dovrebbe dirlo anche al suo amico.» aggiunse l’uomo, alzandosi e avvolgendosi meticolosamente nella propria sciarpa a quadri «Grazie per il tè, giovanotto. E buona fortuna.».
Il giovane poliziotto non ebbe il tempo di replicare che l’anziano signore, lentamente, picchiettando con il proprio bastone sul pavimento in legno, aveva già iniziato ad avviarsi verso l’uscita.
Lo seguì con lo sguardo fino a quando non ebbe superato la soglia del locale e continuò a osservarlo da dietro la vetrata, mentre il vecchio, sempre lentamente, attraversava la strada e poi spariva all’orizzonte, come inghiottito da quella massa bianca di nubi che si distendeva sopra di lui.
Un angelo custode, si ritrovò a pensare Ben, ancora seduto al tavolino del bar.
Un angelo custode con i baffi, questo doveva essere quell’uomo.
Sorrise, e dopo aver pagato si diresse a sua volta verso l’uscita.


Margaret puntò il cursore alla sinistra del foglio virtuale e ricominciò a scrivere.
Era nel suo studio, in attesa del paziente successivo, che però sarebbe arrivato con mezz’ora di ritardo. Avrebbe occupato quel tempo scrivendo, come sempre.
Non aveva raccontato a nessuno di che cosa trattasse il suo libro, nemmeno a Ben. Un po’ per vergogna, un po’ perché temeva che lui non avrebbe approvato.
D’altra parte, sapeva che non avrebbe mai e poi mai pubblicato quel libro. Lo scriveva semplicemente perché sentiva di doverlo fare. Sentiva di dover raccontare quella storia. Anche se nessuno l’avesse mai letta, avrebbe dovuto scriverla.
Se non altro, per il finale. Perché avrebbe potuto sceglierlo, ed era questo che le era sempre piaciuto delle storie.
Avrebbe scelto un finale felice, nonostante tutto.
Avrebbe scelto quel finale, perché sentiva che dovesse andare così, almeno nella finzione della sua pagina bianca. Perché la realtà, quella era imprevedibile.
Continuò a digitare freneticamente le dita sulla tastiera, mentre quei personaggi che conosceva così bene prendevano forma sotto alle proprie mani e si muovevano diligentemente ad ogni suo comando.
Era semplice ottenere un finale felice, così. Bastava imprimere i propri desideri su carta.


Freddo.
Qualche rumore ovattato, ritmico, poi silenzio, ancora. E freddo, tanto freddo.
Non c’era nessuno.
Spesso era venuto qualcuno, spesso qualcuno aveva parlato.
Ma ora non c’era nessuno e faceva freddo.
E quel buio, quel buio non si diradava.
Stava cercando la fine di un tunnel senza sapere se effettivamente quel tunnel avesse una fine.
Un’uscita, una luce.
Odore di disinfettante?
Buio, di nuovo, sempre buio...

 

N.d.A.
Spero vi ricordiate chi è il signore che ha incontrato Ben, lo stesso signore che aveva provato a fare l’identikit della complice di Keller, lo stesso presente anche nel prologo... un angelo custode?
Grazie sempre, a presto,
Sophie

  
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