Dal capitolo precedente:
"«Era
solo una bambina.».
«Infatti è terribile.»
replicò la psicologa «Ma Semir è vivo,
Andrea è viva e
Aida è viva e sta bene. E questo è già
un miracolo, Ben.».
Il giovane ispettore scosse la testa e ritrasse la mano.
«E noi dobbiamo credere nei miracoli?»."
Così si sopravvive
GIORNO 37.
Kim
Kruger sistemò la pila di
fogli che aveva sulla la scrivania, sbuffando.
Le pratiche si stavano accumulando e accumulando, inesorabilmente.
Sembrava che tutto in quel commissariato funzionasse a rallentatore.
Sembrava
che i volti di tutti gli agenti fossero diventati grigi, che
l’aria fosse
diventata spessa, che i suoni fossero ovattati.
Ed era così ormai da troppo tempo.
Quella mattina Kim era arrivata presto, con l’intento di
sbrigare le pratiche
burocratiche per liberarsene il più in fretta possibile, ma
nemmeno lei
riusciva a lavorare con l’efficienza di sempre.
Era tutto terribilmente lento.
Un
picchiettio sul vetro della
porta la distolse dai propri pensieri.
Ben varcò la soglia dell’ufficio senza aspettare
una risposta e si sedette
davanti alla scrivania della Kruger, salutando a mala pena.
«Jager, come si sente?» domandò la
donna, mantenendo un tono che apparisse il
meno autoritario possibile, ben conscia di quale sarebbe stata la
risposta.
Ma l’ispettore ignorò direttamente la domanda.
«Commissario, perché mi ha chiamato? Stavo andando
in ospedale da Semir.».
«È il 21 dicembre, Jager.».
Ben corrugò la fronte. Il 21 dicembre. Aveva smesso di
contare i giorni tempo
prima, aveva perso la cognizione del tempo in quel susseguirsi di
eventi. Era
iniziato dicembre e nemmeno se ne era reso conto. Questo pensiero lo
fece
rabbrividire.
Era passato più di un mese da quando quell’assurda
storia era iniziata e lui non
se ne era accorto.
«E io ho bisogno di lei.» continuò la
Kruger, sforzandosi di non apparire
eccessivamente fredda, dovendo parlare di lavoro in quella situazione
«Da
quando abbiamo ritrovato la famiglia Gerkhan, io praticamente
l’ho persa,
Jager. Non ha fatto più di uno o due giri in autostrada
negli ultimi venti
giorni. Ho capito perfettamente la situazione e non ho detto nulla,
ritenevo
normale che lei volesse trascorrere il maggior tempo possibile in
ospedale, ma
è arrivata l’ora di andare avanti. E io qui ho
bisogno di lei.».
«Capo, io non...».
«Aspetti, Jager.» lo interruppe lei «Non
le sto dicendo che dovrà lavorare
ventiquattro ore su ventiquattro, ma almeno torni a fare degli orari
normali.
Siamo sotto Natale, tutte le strade sono intasate, gli incidenti
aumentano. Io
ho perso non un ispettore ma due, e non due agenti qualunque ma i miei
due
uomini migliori in assoluto. Quindi, per favore...».
Ben sospirò, guardandola negli occhi. Aveva ragione.
«Commissario, io non posso abbandonare Semir. È
completamente solo.».
«Infatti non le sto chiedendo questo, Jager,
però...».
«Senta, Semir esploderà. Accadrà presto
e quando accadrà io dovrò essere lì,
perché altrimenti...».
«Ben, Semir ha perso una figlia.» lo interruppe di
nuovo la Kruger «Ha perso
una figlia, sta perdendo sua moglie, ha perso la possibilità
di camminare.
Certo che esploderà, è naturale. E lei
potrà aiutarlo, consolarlo, stargli
vicino... ma non pretenda di raccogliere da terra tutti i cocci e
rimetterli
insieme perché, mi creda, non può farlo. Nessuno
può.».
L’ispettore annuì, evitando di guardarla negli
occhi. Aveva ragione da vendere
e lui ne era perfettamente consapevole. Non avrebbe potuto aggiustare
tutto,
non avrebbe potuto rimediare a tutto ciò che era successo,
sarebbe stato
impensabile.
Eppure...
«Commissario, Semir non ha più nessuno.»
ripeté Ben, in un sussurro «Se non
riesco ad accettare io, che sono una persona esterna alla sua famiglia,
quello
che è successo, come potrà farlo lui?».
«Non lo so.» replicò la donna, con un
sospiro «Mi creda, Jager, non lo so e
vorrei poterla aiutare, ma...».
«Mi dia ancora qualche giorno, commissario. Poi
tornerò in pieno servizio,
glielo prometto.».
Quando
pochi minuti dopo Ben uscì
dall’ufficio, camminò a testa bassa e in fretta
verso l’uscita del
commissariato, fino a quando non scontrò qualcuno che si
stava dirigendo nella
direzione opposta, facendogli cadere il bastone con cui
l’uomo si aiutava per
camminare.
Il giovane ispettore si chinò a raccoglierlo. Solo quando
sollevò lo sguardo
per porgere il bastone al suo proprietario si accorse di conoscere quel
viso.
«Grazie, giovanotto.» fece il signore, cordiale.
Quei baffi bianchi, quell’accento inglese e quel
“giovanotto” erano decisamente
inconfondibili.
«Signor Smith, che cosa ci fa qui in
commissariato?».
Quello che aveva davanti era l’anziano signore che per primo
aveva asserito di
aver notato una donna bionda vicino alla casa dove era stata rapita la
famiglia
Gerkhan, venti giorni prima, e Ben era sorpreso di incontrarlo di nuovo.
Tuttavia, sorrise. Quel vecchietto possedeva lo strano potere di farlo
sorridere.
«Cercavo lei in verità, giovanotto. Ha tempo per
una tazza di tè?».
Ben
portò il signore nel piccolo
locale che da qualche settimana aveva aperto a pochi passi dal
commissariato e
gli offrì un tè caldo.
Lo ordinò anche per sé. Non sapeva esattamente
come mai quell’uomo lo fosse
venuto a cercare, ma vederlo gli aveva fatto stranamente piacere e,
nonostante
tutto, una tazza di tè non gli avrebbe portato via molto
tempo.
«Che cosa succede signor Smith? Problemi nel suo
quartiere?» domandò, con un
sorriso gentile, dopo che si furono sistemati attorno a un tavolino in
legno scuro,
accanto alla vetrata.
Faceva freddo e il cielo bianco minacciava neve.
L’anziano signore non sembrò nemmeno ascoltarlo,
in un primo momento. Guardò
con un folto sopracciglio alzato la tazza di acqua calda che aveva
davanti e vi
immerse con una certa diffidenza una bustina di tè
aromatizzato alla mela
verde.
«Tè inglese, c’è scritto.
Strani, voi tedeschi.» bofonchiò tra i baffi,
scuotendo
la bustina dentro alla tazza, con l’incomprensione dipinta
sul viso.
Ben sorrise, schiacciando con un cucchiaino la propria bustina dentro
all’acqua
bollente perché questa si colorasse più in fretta.
«Non le piace?».
«Oh no giovanotto, va bene. Sono una persona moderna, cosa
crede. Mi abituo a
tutto, io.».
Questa volta il poliziotto non riuscì a trattenersi e si
mise a ridere.
I folti baffi bianchi, il naso arrossato e l’enorme sciarpa
di lana a quadri
avvolta attorno al collo e alle spalle, l’ultima impressione
che quell’uomo
potesse dare era quella di essere moderno.
«Lei ride, giovanotto, ma sappia che il sottoscritto possiede
un esemplare
senso di adattamento.» commentò il vecchio,
fingendosi offeso «Comunque, le
dicevo, volevo trovare proprio lei.».
«È successo qualcosa nel suo quartiere?»
ripeté Ben, ricordando che l’uomo si
fosse lamentato delle frequentazioni della sua via.
Il signore scosse il capo, poi si prese il tempo per sorseggiare
lentamente il
proprio tè.
«No, giovanotto, no. Volevo sapere come sta lei.».
Il ragazzo lo guardò senza capire.
«Sa, ormai sono vecchio e solo, i miei parenti sono sparsi
per il mondo. Ma
quando avevo accanto i miei nipoti capivo immediatamente quando
qualcosa non
andava. Lei assomiglia proprio a mio nipote Jonathan.».
Ben sorrise. Avrà avuto una settantina d’anni, o
forse poco più, ed era solo.
Quell’uomo gli fece un’immensa tenerezza,
nonostante sostanzialmente non lo
conoscesse affatto.
«Venti giorni fa l’ho vista molto preoccupato,
giovanotto.» continuò lui, con
voce pacata, passando le mani sopra alla tazza fumante
perché si scaldassero «Ora
come sta?».
E Ben gli raccontò tutto.
Senza nemmeno comprenderne bene il motivo, gli raccontò ogni
cosa.
Di Keller, di Semir e della sua famiglia, di Lily. Di lui e di
Margaret. Della
Kruger. Del suo lavoro.
Qualunque cosa.
Si sorprese addirittura nel rendersi conto di avere così
tanto da dire.
L’anziano signore si limitò ad ascoltarlo,
annuendo e scuotendo il capo ogni
tanto, commentando con qualche semplice “Oh”
esclamativo, lasciando che fosse
lui a condurre il discorso.
Ben sapeva perfettamente che quell’uomo non potesse conoscere
tutto ciò che lo
riguardava e che gli era capitato in quelle ultime settimane, ma
parlare con
lui gli sembrò straordinariamente normale, come se da tempo
aspettasse di poter
raccontare a qualcuno ogni cosa. Aveva semplicemente bisogno che
qualcuno lo
ascoltasse, ma non se ne era reso conto fino a quando non aveva
cominciato a
parlare.
Era passata più di mezz’ora quando si accorse di
non aver mai chiuso bocca e si
interruppe improvvisamente.
«Oddio... non mi ero reso conto di aver parlato
così tanto, mi scusi signor
Smith.».
«Santo Cielo, giovanotto.» commentò
l’uomo, leggermente sbigottito «Per quanto
tempo ancora aveva intenzione di tenere per sé tutto questo?
Sarebbe esploso
prima o poi, mi creda. Boom.» fece, facendo schioccare tra
loro i palmi delle
mani per dare maggiore enfasi a quella frase.
Ben rise divertito «Ha ragione, ma non pensavo...».
«Non pensava di avere così tanto da dire?
Giovanotto, è proprio quando stiamo
troppo in silenzio che abbiamo più cose da dire.».
L’ispettore annuì, chiedendosi da dove
quell’uomo gli fosse stato mandato e se
fosse stato mandato da qualcuno apposta per lui.
«Comunque, sono contento di averla ascoltata.»
continuò l’uomo, con una flemma
decisamente inglese, sistemando la tazza ormai vuota sopra al piattino
che
aveva di fronte «Chissà perché,
immaginavo che venendo qua oggi avrei avuto
tanto da ascoltare. Amo ascoltare, sa giovanotto?».
«Mi dica che ama anche dare consigli, la prego...»
supplicò Ben, sperando
davvero che quell’uomo piovuto dal cielo o spedito nel
ventunesimo secolo
direttamente da un’altra epoca potesse aiutarlo.
«Solo uno, giovanotto.» disse il vecchio, dopo
essere rimasto soprappensiero
appena qualche secondo «Impari a danzare sotto alla
pioggia.».
Il ragazzo corrugò la fronte, sorpreso.
«Che cosa?».
«Impari a danzare sotto la pioggia, ragazzo. È
così che si sopravvive. Non
cercando di superare una tempesta, ma imparando a danzarvi in mezzo.
Non glielo
hanno mai detto, giovanotto?».
Ben distese la fronte.
Sorrise.
«Dovrebbe dirlo anche al suo amico.» aggiunse
l’uomo, alzandosi e avvolgendosi
meticolosamente nella propria sciarpa a quadri «Grazie per il
tè, giovanotto. E
buona fortuna.».
Il giovane poliziotto non ebbe il tempo di replicare che
l’anziano signore,
lentamente, picchiettando con il proprio bastone sul pavimento in
legno, aveva
già iniziato ad avviarsi verso l’uscita.
Lo seguì con lo sguardo fino a quando non ebbe superato la
soglia del locale e
continuò a osservarlo da dietro la vetrata, mentre il
vecchio, sempre
lentamente, attraversava la strada e poi spariva
all’orizzonte, come
inghiottito da quella massa bianca di nubi che si distendeva sopra di
lui.
Un angelo custode, si
ritrovò a
pensare Ben, ancora seduto al tavolino del bar.
Un angelo custode con i baffi, questo doveva essere
quell’uomo.
Sorrise, e dopo aver pagato si diresse a sua volta verso
l’uscita.
Margaret puntò il cursore alla sinistra del foglio virtuale
e ricominciò a
scrivere.
Era nel suo studio, in attesa del paziente successivo, che
però sarebbe
arrivato con mezz’ora di ritardo. Avrebbe occupato quel tempo
scrivendo, come
sempre.
Non aveva raccontato a nessuno di che cosa trattasse il suo libro,
nemmeno a
Ben. Un po’ per vergogna, un po’ perché
temeva che lui non avrebbe approvato.
D’altra parte, sapeva che non avrebbe mai e poi mai
pubblicato quel libro. Lo
scriveva semplicemente perché sentiva di doverlo fare.
Sentiva di dover
raccontare quella storia. Anche se
nessuno l’avesse mai letta, avrebbe dovuto scriverla.
Se non altro, per il finale. Perché avrebbe potuto
sceglierlo, ed era questo
che le era sempre piaciuto delle storie.
Avrebbe scelto un finale felice, nonostante tutto.
Avrebbe scelto quel finale,
perché
sentiva che dovesse andare così, almeno nella finzione della
sua pagina bianca.
Perché la realtà, quella era imprevedibile.
Continuò a digitare freneticamente le dita sulla tastiera,
mentre quei
personaggi che conosceva così bene prendevano forma sotto
alle proprie mani e
si muovevano diligentemente ad ogni suo comando.
Era semplice ottenere un finale felice, così. Bastava
imprimere i propri
desideri su carta.
Freddo.
Qualche rumore ovattato, ritmico, poi silenzio, ancora. E freddo, tanto
freddo.
Non c’era nessuno.
Spesso era venuto qualcuno, spesso qualcuno aveva parlato.
Ma ora non c’era nessuno e faceva freddo.
E quel buio, quel buio non si diradava.
Stava cercando la fine di un tunnel senza sapere se effettivamente quel
tunnel
avesse una fine.
Un’uscita, una luce.
Odore di disinfettante?
Buio, di nuovo, sempre buio...
N.d.A.
Spero
vi ricordiate chi è il signore che ha incontrato Ben, lo
stesso signore
che aveva provato a fare l’identikit della complice di
Keller, lo stesso
presente anche nel prologo... un angelo custode?
Grazie
sempre, a presto,
Sophie