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Autore: Roscoe24    31/01/2019    8 recensioni
"Magnus si chiese se il fatto che nel giro di nemmeno un’ora, quella fosse la seconda volta che rimanevano incantati a fissarsi, potesse avere un significato. Forse poteva sperare. Ma in cosa?"
Genere: Commedia, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Altri, Isabelle Lightwood, Jace Wayland, Magnus Bane
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Magnus fissava la facciata dell’Hotel DuMort con un certo timore. Non per l’aspetto dell’edificio in sé, perché quella facciata era un esempio perfetto di architettura antica, tanto che era stato classificato come bene culturale della città di New York – l’unico hotel che, negli anni, non aveva cambiato il suo aspetto ed era rimasto fedele a quello stile arzigogolato tipico delle architetture barocche. Quindi, Magnus non era intimorito dall’imponenza della struttura, no, era intimorito dal proprietario dell’hotel, Raphael Santiago. E il fatto che fosse uno dei suoi più cari e vecchi amici non cambiava assolutamente niente.
Di origini messicane, Raphael aveva trentadue anni all’anagrafe, l’aspetto di un ragazzo di ventitré e il carattere di un uomo di ottanta, scorbutico e scettico. Raphael era il tipo di persona che riesce a far paura  con un solo sguardo e, sebbene la maggior parte delle volte Magnus si diverta a stuzzicarlo solo per provare a sciogliere la maschera impassibile di cera che è in realtà la sua faccia, oggi aveva il timore che l’amico gli sarebbe saltato alla gola con l’intento di succhiargli via tutto il sangue, dopo aver ascoltato – se avesse ascoltato, per essere precisi – la sua richiesta.
“Magnus? Va tutto bene?” domandò Max al suo fianco. Il minore dei Lightwood aveva voluto accompagnarlo, rendendosi utile in qualche modo, dal momento che i suoi fratelli non gli avevano lasciato fare niente per il compleanno di Alec. Izzy si era auto-nominata addetta alla scelta del catering – un modo elegante, se lo si chiede a Max, per dire che si sarebbe occupata del cibo. Il giovane pregò solo che con questo sua sorella non intendesse cucinare lei stessa il cibo, altrimenti il trentesimo compleanno di Alec sarebbe stato anche l’ultimo. Jace, invece, si sarebbe occupato degli invitati e della torta. A Max, quindi, altro non rimaneva da fare che aiutare Magnus nella scelta della location.
“Più o meno. Te lo ridirò non appena incontreremo Raphael.” L’uomo si incamminò verso l’entrata, così Max lo seguì. “Forse doveva venire anzi tua sorella, sai?” sussurrò Magnus, una volta superata la porta d’ingresso, mentre si dirigevano alla reception dell’hotel. “Sembra che abbia un ascendente positivo su Raphael.”
Max ridacchiò. “Izzy ha un ascendente positivo su tutti gli uomini. Simon dice che è sicuramente dotata di un qualche super potere che la rende in grado di piegare gli uomini alla sua volontà.”
Magnus annuì con convinzione. “Solomon ha ragione.”
Simon, Magnus. Simon.” Puntualizzò Max, roteando gli occhi in un modo tipicamente Lightwood.
“E io che ho detto?” domandò Magnus, facendo suonare il campanello sul bancone della reception. Max rinunciò all’impresa di fargli memorizzare il nome di Simon e si appoggiò al bancone. Da una porta che sembrava desse su un ufficio nel retro, uscì un ragazzo dai corti capelli scuri, gli occhi penetranti e la carnagione olivastra. Non era molto alto, ma riusciva comunque a trasmettere una buona dose di inquietudine. Max si chiese se quello fosse lo stesso Raphael di cui parlava sua sorella, quello riservato, ma propenso ad una chiacchierata amichevole. Quello così coraggioso da assaggiare i suoi piatti per poi dirle come poteva fare per migliorarsi. Lezioni inutili, tra l’altro, secondo Max. Isabelle ai fornelli era peggio delle piaghe d’Egitto.
Raphael notò i gomiti di Max appoggiati al suo bancone di marmo nero e gli riservò un’occhiata in tralice che spinse, istintivamente, il ragazzo a toglierli da lì. Ora capiva il timore di Magnus.
“Ciao, Raphael!” esclamò Magnus con un sorriso.
“Dov’è tua figlia?” rispose l’altro, il tono secco.
Ciao anche a te, Magnus. È un piacere vederti, Magnus!” disse teatralmente Magnus.
Raphael lo fissò impassibile, per nulla impressionato da quel teatrino. “Dov’è tua figlia?” Chiese, di nuovo.
Magnus sbuffò e alzò gli occhi al cielo. “Da mia madre.”
“Potevi venire con lei. Preferisco vedere il suo faccino, piuttosto che la tua brutta faccia!”
Magnus gli lanciò un’occhiata omicida. “Erin è l’unica che riesce a sciogliere il tuo cuore granitico!”
Raphael fece spallucce e non negò. “Allora, cosa vuoi?”
“Chiederti un favore.”
Gli occhi neri di Raphael si ridussero a due fessure. “Che genere di favore?”
Magnus decise di giocare bene le sue carte. Raphael non era un tipo espansivo, o che diceva a parole ciò che prova. Anzi, alle volte, negava addirittura di essere in grado di provare dei sentimenti come ogni essere umano normale, ma Magnus sapeva che non è così. Raphael aveva una lealtà fuori dal comune, che lo portava ad aiutare chi ne aveva bisogno – se ovviamente lui lo riteneva parte della sua famiglia. E Magnus, anche se l’altro lo negava una volta sì e l’altra pure, poteva ritenersi parte di quella famiglia.
“Non so più dove sbattere la testa, davvero. Non te lo chiederei, se avessi un’alternativa.”
“Arriva al punto.” Tagliò corto Raphael, che comunque si era già fatto un’idea di quale potesse essere la richiesta.
“Vorremo usare la sala grande per un compleanno.”
Raphael lo fissò per qualche istante in silenzio, come se Magnus si fosse appena bevuto il cervello. “Un cumpleaños? Nel mio hotel? Estas fuera de tu mente! Devo mantenere certi standard, che, sicuramente, non comprendono un compleanno! I miei clienti vengono aqui perché sono sicuri che troveranno solo tranquillità!”
“E l’elevata possibilità di morire di noia.” Aggiunse Magnus.
Max dovette sforzarsi enormemente per non scoppiare a ridere. Non lo fece solo perché aveva un altissimo istinto di autoconservazione. E aveva l’impressione che Raphael l’avrebbe strangolato se solo avesse riso. D’altronde, sembrava che si stesse trattenendo dallo strangolare Magnus, che a detta di quest’ultimo, era un suo grande amico, quindi cosa l’avrebbe trattenuto dallo strozzare uno sconosciuto? Niente.
In ogni caso, decise di intervenire. Di giocare una carta che, secondo lui, poteva essere quella vincente.
“È per il compleanno di mio fratello, Izzy pensava di farlo qui perché è un bel posto.”
Gli occhi neri di Raphael si spostarono da Magnus a Max. “E tu chi saresti?”
“Max, uno dei fratelli di Isabelle.”
Jesús, quanti siete?”
“Quattro.”
Raphael alzò un sopracciglio. “Dios, i vostri genitori non avevano la tivù via cavo?”
Max decise di ignorare quel commento. “Allora, ci aiuterai o no?”
Raphael strinse gli occhi in due fessure strette e fece passare lo sguardo da Max a Magnus e viceversa per due volte, prima di rispondere. “Va bene. Ma non voglio niente di troppo rumoroso.”
“D’accordo.” rispose Magnus.
“E mi devi un favore. Ricordatelo.”
“Se anche dovessi dimenticarlo, ci saresti tu come un avvoltoio sulla mia spalla a ricordarmi costantemente che te debo un favor.” Disse Magnus, imitando l’accento di Raphael.
“Il tuo spagnolo fa schifo.”
“Come il tuo senso dell’umorismo, mio caro, ma mica te lo faccio pesare!”
Raphael lo fulminò con lo sguardo, ma non aggiunse altro. Non era necessario, dal momento che la sua espressione parlava per lui.
“Bene, penso sia giunta l’ora di andare. Ho una lezione da tenere tra meno di un’ora! Grazie, Raphael, ci hai aiutati moltissimo.”
Raphael lo liquidò con un cenno della mano perché tra le altre cose non era nemmeno un fan delle smancerie. E Magnus era pieno di smancerie – e merletti e fronzoli, che Raphael odiava. Li salutò, quindi, solo un gesto della mano.
I due, a quel punto, uscirono dall’hotel e Magnus pensò che doveva informare Steve del fatto che i super poteri di Isabelle funzionavano anche a distanza.


“Non posso rispondere, non con te in macchina!” Esclamò Magnus, l’abitacolo della sua auto che si riempiva della sua suoneria. Il dispositivo bluetooth a cui era connesso il cellulare faceva echeggiare quel suono in modo piuttosto elevato.
“Lui non lo sa che sono in macchina con te!” gli fece notare Max. “Rispondi!”
“Se si accorge che ci sei e chiede cosa stiamo facendo?”
“Gli diciamo che ci siamo incontrati per strada, mi hai offerto un passaggio e mi stai riportando al campus. Non è totalmente una bugia, dopotutto.”
“Dobbiamo solo saltare la parte che prevede l’organizzazione del suo compleanno!” Disse, prima di premere il pulsante con la cornetta verde sul manubrio dell’auto. “Alexander!”
“Ti disturbo?” La voce di Alec uscì metallica dalle casse della macchina e, nonostante tutto, Magnus la trovò bellissima.
“Non dire sciocchezze, tu non disturbi mai.” Sorrise con dolcezza, la voce stessa che trasudava miele.
Max, al suo fianco, sbatté teatralmente le ciglia per prenderlo in giro. Il sorriso di Magnus evaporò, trasformandosi in un’occhiata truce tutta ai danni del ragazzo seduto al suo fianco. Max dovette trattenersi dal ridere e continuò la sua presa in giro arricciando le labbra, come se stesse mimando un bacio. Magnus usò una delle mani per dargli uno scappellotto fulmineo, prima di riportarla sul volante.
“Dovresti venire in ambulatorio, uno di questi giorni. Ho concluso tutte le pratiche che prevedono il passaggio di medico curante, ma ho bisogno di visitare Erin. È l’ultimo passo per ufficializzare la cosa.”
“Ma certo! Domani dovrei avere un’ora libera tra le quattro e le cinque. Va bene?”
“Benissimo. A domani, allora.”
“A domani, tesoro.”
Alec riattaccò e Magnus rimase ad ascoltare il silenzio lasciato dall’assenza della sua voce. Prima di rendersi effettivamente conto di quanto quel pensiero risultasse sdolcinato, Max attirò la sua attenzione.
Alexander,” Lo scimmiottò. “Tu non disturbi mai!” Lo imitò esagerando un tantino con il tono di voce. “Ora, gentilmente, tesoro, potresti sbattermi contro un muro e limonarmi come se non ci fosse un domani?”
Magnus inchiodò, fermandosi al semaforo rosso con più impeto del necessario. Si voltò verso Max, gli occhi sgranati in un’espressione incredula e risentita. “Primo: non parlo in quel modo; secondo: non ho mai pensato niente di simile!”
Max gli rivolse un mezzo sorrisetto malizioso. “Scommetto che i pensieri che hai su mio fratello sono decisamente più porno di una pomiciata, ma ho voluto mantenere la cosa nella fascia riservata ai minori.” Ammiccò, compiaciuto.
Magnus boccheggiò, un tantino offeso e anche un po’ irritato – se non altro perché una parte di sé sapeva che Max aveva ragione. Sarebbe uno sporco bugiardo se negasse di aver immaginato, almeno una volta, di baciare Alexander, o beh… anche altro. Era colpa del suo sedere, ok? Era gloriosamente perfetto. Magnus era solo una vittima innocente, qui!
E come mai nessuno sembrava prestare attenzione al suo autocontrollo? Alla sua scelta, più che matura, di mantenere il rapporto con Alexander su un piano unicamente amichevole?
“Sei fastidiosamente simile a tuo fratello Trace. Lo sai?”
Jace.” Precisò, prima di aggiungere: “Anche Alec lo dice, quando lo faccio arrabbiare. Ciò non toglie che io abbia ragione.”
Magnus gli lanciò un’occhiata tagliente. “Non hai ragione. Io e tuo fratello siamo amici.”
Max annuì senza convinzione. “Ma certo, sì. È ovvio.” Commentò sarcastico.
“Se continui,” cominciò Magnus, gli occhi minacciosamente ridotti a due fessure. “Ti lascio in mezzo alla strada!”
Max scoppiò a ridere. Una risata aperta e genuinamente divertita. Era un suono simile a quello di Isabelle, ma  che ricordava molto anche quella di Jace. “D’accordo, la smetto!”
“Bene.” Annuì Magnus, ripartendo dopo aver visto il semaforo verde. “Sfacciato.” Borbottò a voce nemmeno troppo bassa, facendo ridere di nuovo Max.


*

“Supponiamo che non abbiano ciò che vogliamo, come ce la filiamo?” Sussurrò Simon, rivolgendosi ad Isabelle, al suo fianco. I due si trovavano in piedi nel corridoio d’ingresso di un ristorante suggerito da Raphael che si occupava anche di cose come i compleanni. Il proprietario del DuMort aveva pronunciato quella frase con più stizza di quanto fosse necessario, quando aveva informato Izzy. Lei gli aveva inizialmente chiesto se potevano usare la cucina del suo hotel, ma Raphael aveva risposto che non poteva dare ordinazioni in più ai suoi cuochi, che avevano già una mole di lavoro da svolgere consistente e tempi molto stretti per portarlo a termine. Contro l’aspettativa dell’umanità intera, probabilmente, era davvero dispiaciuto mentre dava la notizia ad Isabelle e ancora più stupefacente era, secondo Simon, che Raphael si fosse prodigato anche per trovare un’alternativa per loro – sebbene disprezzasse i compleanni. E qualsiasi cosa avesse a che fare con l’allegria in generale.
“Con il sorriso, ecco come.” Rispose Isabelle, sicura.
“Puoi sempre sfoderare una delle tue armi segrete!”
“Quali armi segrete?”
“Lascia perdere.” Disse Simon, pensando al messaggio che gli aveva mandato Magnus riguardante i super poteri di Isabelle. “Piuttosto, che cos’hai in mente?”
Izzy arricciò le labbra accuratamente truccate di rosso. “Qualcosa di semplice, una specie di aperitivo. Pensi sia troppo poco?”
“Penso che trattandosi di Alec, più semplice è e meglio è. Ho ancora il dubbio che una volta realizzato che si trova ad una festa per lui, fugga a gambe levate.”
Isabelle ridacchiò, immaginandosi la scena. “Potrei rincorrerlo e braccarlo!”
“Ha le gambe troppo lunghe, fuggirebbe senza problemi!”
“Ma io sono veloce.” ribatté prontamente Isabelle, poggiando le mani sui fianchi come se volesse darsi un tono. Simon pensò che anche un gesto comune come quello la rendesse bellissima. E super tosta, tipo Lara Croft.
“Non posso negarlo. Penso che potresti farcela, in effetti…” Simon si picchiettò il mento con l’indice, facendo ridere Izzy.
“Allora, credi che andrà bene?” chiese Isabelle, di nuovo. Simon sapeva che non lo chiedeva perché era insicura, o perché voleva la conferma da parte di qualcun altro – Izzy era la donna più sicura che conoscesse ed era una caratteristica che aveva contribuito a farlo innamorare di lei – ma lo faceva perché le interessava davvero la sua opinione. Sapeva che Simon era diretto e non le avrebbe mai mentito, o addolcito la pillola. C’era sincerità, tra di loro, sempre e in ogni caso. Se si esclude, ovviamente, la parte di Simon innamorato di lei. In quel caso, Simon non riusciva ad essere completamente sincero. Ma per tutto il resto sì.
Izzy aveva un’idea brillante? Simon glielo diceva.
Izzy aveva un’idea catastrofica? Simon glielo diceva.
Sempre senza mezzi termini – cosa che spesso li portava a litigare, ma non si può dire di avere un’amicizia vera con qualcuno fino a quando non arrivi a litigarci.
“Andrà bene. Cibo e alcol, yee!” esclamò Simon, alzando un pugno in aria come se dovesse esultare per qualcosa che gli piaceva particolarmente.
“E la torta.”
“Giusto. Aspetto da non sottovalutare!”
Isabelle sorrise, gli occhi che le brillavano di divertimento. Simon adorava vederle quell’espressione sul viso, il luccichio nelle sue iridi scure ricordava molto la stella polare piazzata nel mezzo di un cielo notturno.  
“Signori?” li chiamò un cameriere. “Se volete seguirmi, possiamo parlare di ciò che avete in mente e vedere se riusciamo a soddisfare le vostre richieste.”
Isabelle e Simon annuirono. “Grazie.” Dissero all’unisono. Prima di seguire il cameriere, Isabelle prese a braccetto Simon e appoggiò la testa sulla sua spalla. Simon decise di lasciarle un fugace ed impacciato bacio sui capelli.
Isabelle poteva non sapere cosa provasse davvero per lei, ma ciò non toglieva che Simon potesse, di tanto in tanto, concedersi dei minuscoli gesti che aiutassero a chetare il suo cuore innamorato, che inevitabilmente agognava un qualsiasi tipo di contatto con lei.


*

“Cosa vuoi portare alla mamma, principessa?” domandò Jace, tenendo Diana in braccio. Non era un soprannome particolarmente originale. Lui stesso tendeva a roteare gli occhi al cielo quando sentiva qualcuno usarlo, ma aveva scoperto, dopo essere diventato padre, che sebbene fosse un soprannome banale, era quello che, nella sua semplicità, esprimeva al meglio i suoi sentimenti. Diana era la sua principessa, il suo raggio di sole, la sua gioia.
Se quando aveva incontrato Clary pensava di aver capito tutto sull’amore si sbagliava di grosso. L’amore ha varie forme e Jace aveva il cuore straripante di due tipi d’amore ben diversi, ma ugualmente potenti.
L’amore che provava per Clary gli faceva desiderare di fare a pezzi il mondo, se solo lei gliel’avesse chiesto.
Quello che provava per Diana, invece, gli faceva venire voglia di ricostruirlo e renderlo un posto migliore, solo per avere la tranquillità che la sua bambina avrebbe vissuto al meglio, crescendo su questa Terra. Erano due tipi di amori totalmente diversi, ma allo stesso tempo stranamente complementari. Due elementi che lo rendevano un uomo migliore.
“Quello rosa!” esclamò la bambina, indicando con un ditino un cupcake dalla glassa rosa cosparsa di codette al cioccolato. Jace pensò che se l’aspetto di quel dolce dovesse suggerirne la bontà, doveva essere qualcosa di divino, quindi decise di fidarsi della sua bambina, chiedendo gentilmente alla cameriera se poteva metterglielo in una scatola.
La ragazza lo accontentò con più moine del necessario, facendogli gli occhi dolci in maniera così esplicita che se solo si fosse trovato in una situazione del genere circa dieci anni fa, non si sarebbe fatto remore a provarci con lei. Ma Jace Lightwood aveva messo la testa a posto da un pezzo e da altrettanto tempo era innamorato di una certa rossa che, se avesse assistito a questa scena, avrebbe prima schioccato un’occhiataccia alla cameriera e poi, una volta fuori dalla pasticceria, gli avrebbe mollato uno scappellotto, perché smetti di fare il cretino, Jace!
Ah, l’amore.
Comunque, dopo aver afferrato la scatola con il cupcake e aver pagato, Jace uscì dalla pasticceria con Diana in braccio. Non gli piaceva tenerla per mano quando i marciapiedi erano particolarmente affollati come quel pomeriggio. Si sentiva più sicuro se l’aveva in braccio, come se fosse riuscito a proteggerla meglio. Voltò il viso quel tanto da riuscire a lasciare un bacio sulla guancia della bambina e poi si incamminò verso l’Alicante.

Arrivò in negozio dopo circa venti minuti. Quando furono davanti alla porta, appoggiò Diana a terra e si chinò alla sua altezza.
“Vuoi dare tu il dolcetto alla mamma?”
Gli occhi verdi della bambina luccicarono per l’entusiasmo. “Sì!” esclamò, felice. Jace sorrise nel modo più amorevole che potesse esistere e sistemò la scatola nelle mani della piccola, prima di aprire la porta e farla entrare per prima. Furono accolti dal suono di una campanella attaccata alla parte superiore della porta, che portò Clary, seduta al suo banco da lavoro, a sollevare lo sguardo. Il suo viso si illuminò, un sorriso inevitabilmente tirò le sue labbra in un’espressione di pura felicità. Clary si alzò immediatamente dalla sua postazione per andare in contro alla figlia, che stava trotterellando nella sua direzione con un scatola gialla tra le manine.
“Ciao, amorino mio!” esclamò Clary, sollevando Diana da terra e riempiendola di baci. La piccola ridacchiò, felice.
“Guarda, mamma!” disse solamente, porgendole la scatola.
“È per me?”
Diana annuì e si voltò verso il padre. Jace si avvicinò alle due e circondò la vita di Clary con un braccio, prima di lasciarle un bacio sulla fronte. “È per te. Ho la netta sensazione che ti piacerà.”
Clary strinse gli occhi. “Sempre così sicuro di te, Lightwood.”
Jace le rivolse un sorriso smagliante e malandrino. “Dalla nascita, rossa.” Ammiccò, in quel modo un po’ sbruffone che, comunque, a Clary piaceva.
Non che lui dovesse necessariamente saperlo, altrimenti il suo ego si sarebbe gonfiato ulteriormente. “Prendi tua figlia, così posso guardare cosa c’è nella scatola.”
Jace annuì e allungò le braccia per prendere Diana, che automaticamente sistemò un braccio intorno al collo del padre, mentre entrambi fissavano Clary con aspettativa, guardandola aprire la scatola.  
“Un cupcake!” esclamò la rossa. “Amo i cupcake!”
“Lo so.” Affermò Jace, sicuro di sé.
“Grazie!” Clary si avvicinò ai due, lasciando prima un bacio sulla guancia di Diana e poi uno sulle labbra di Jace.
“Hai sentito, principessa?” domandò Jace, tenendo tuttavia gli occhi incatenati a quelli di Clary, “Abbiamo fatto felice la mamma.”
Diana batté le manine con entusiasmo e, a quel punto, sia Clary che Jace portarono la loro attenzione su di lei, sorridendo.

L’Alicante aveva un significato speciale per Jace. Era il posto dove, dieci anni prima, aveva incontrato Clary per la prima volta. Entrambi erano in età da college ed ignari di quello che li aspettava. Lui, di certo, mentre entrava in quel negozio con l’intenzione di comprare un regalo per sua mamma, non aveva immaginato che avrebbe trovato l’amore della sua vita.
La prima volta che l’aveva vista, Clary sedeva in disparte nel negozio, china su un libro di storia dell’arte. Si era avvicinato a lei, chiedendole se poteva aiutarlo e lei gli aveva rivolto il più dolce dei sorrisi, annuendo.
Jace era uscito da quel negozio con una collana per Maryse e il numero di Clary salvato in rubrica.
Dieci anni e una figlia dopo, l’Alicante rimaneva uno dei suoi posti preferiti – se non altro perché poteva guardare Clary fare quello che più le piaceva: creare.
“Ho ordinato la torta.” Disse, seduto di fronte a lei, osservandola infilare delle perline blu in un filo metallico. Stava lavorando ad una collana che assomigliava ad una conchiglia. Clary gli aveva spiegato che voleva coprire lo scheletro metallico con delle semplici perline e riempire i vuoti, tra una spirale e l’altra, incollando dei pezzetti di vetro celesti, cercando in quel modo, di imitare l’effetto che danno le vetrate nelle navate delle chiese.
Clary infilò una perlina, prima di alzare gli occhi. “Quale hai scelto?”
“Sacher. Alec ama la sacher!” Esclamò, vittorioso.
Clary guardò Diana, seduta in braccio al padre. Con Magnus, si erano accordati di non dire niente alle bambine, se non altro perché, nella loro innocenza, avrebbero potuto farsi scappare qualcosa riguardante la festa davanti ad Alec.
Quando la rossa appurò che la figlia era troppo concentrata sul suo disegno (posso fare come te, mamma? aveva chiesto, e Clary aveva annuito, sciogliendosi un po’) per prestare attenzione ai suoi genitori, annuì.
“Scelta saggia. Ci hai fatto scrivere qualcosa?”
Il sorriso di Jace si trasformò nell’espressione più simile a quella di uno squalo che un essere umano potesse concepire. “Certo. Ma è una sorpresa!”
Clary ridusse gli occhi a due fessure, fulminandolo. “Jace!” lo rimproverò, il tono secco.
“Che c’è?”
“Farai arrabbiare Alec!”
“Non è vero!” Mise il broncio, come se le insinuazioni della fidanzata lo offendessero, ma poi si arrese, abbandonando quella recita. “Forse un pochino, sì. Ma niente di esagerato, o grave. Sarà più che altro imbarazzato.”
“Sei sadico.” Tagliò corto la ragazza, rimettendosi al lavoro.
Jace non negò. Più che altro perché c’era una punta di verità in quell’affermazione e perché doveva ancora vendicarsi di Alec per avergli mangiato l’ultimo pezzo di pizza, l’ultima volta che si erano visti per guardare la partita insieme.
La vendetta va servita scritta su una torta sacher al compleanno a sorpresa per il proprio fratello che odia le feste a sorpresa. Se Jace fosse stato un cattivo dei fumetti, adesso si esibirebbe in una risata malvagia, o in una girata di seggiola tattica mentre accarezza un gatto grasso e peloso.
“Appurato che mi ritieni malvagio – grazie amore, sei sempre gentile, a proposito – cosa stai facendo?”
Clary decise di ignorare quell’accusa piena di sarcasmo – perché a volte avere a che fare con Jace era peggio che avere a che fare con Diana a livello di infantilità – e di continuare a concentrarsi sul suo lavoro. Mancavano giusto tre perline e lo scheletro della conchiglia sarebbe stato completo. “Un ciondolo. Diventerà una collana… penso la regalerò a Magnus.”
“A Magnus?”
“Sì, era qui qualche giorno fa, mentre la disegnavo. È lui che mi ha suggerito di farla blu.”
Jace si aprì in un sorriso appuntito. “Oppure puoi approfittare della scia di sadismo e regalarla ad Alec.”
Clary lo incenerì con uno sguardo. “Mi ucciderebbe. E inizio ad avere paura della tua sete vendicativa, si può sapere che ti ha fatto?”
“No, perché mi faresti notare quanto sia infantile e stupido il mio comportamento, ti darei ragione e mi pentirei di ciò che ho chiesto di far scrivere sulla torta.”
Clary sbuffò esasperata, alzando gli occhi al cielo. “Ci rinuncio.”
Jace ridacchiò e facendo attenzione a non schiacciare Diana, si sporse verso l’altro lato del tavolo per lasciare un bacio sulla fronte della fidanzata.
“Anche io, papà! Anche io!” esclamò la bambina, notando il gesto del padre. Jace sorrise e le lasciò un bacio sulla fronte. Poi si rimise a guardare le sue ragazze che lavoravano.



*


Magnus era seduto in sala d’attesa. L’orologio sulla parete segnava le quattro e un quarto del pomeriggio. Al suo fianco, Erin stava seduta composta, facendo ciondolare le gambine nel vuoto. L’uomo aveva coordinato il cerchietto arancione che la bambina aveva nei capelli con il proprio giubbotto di pelle. Un tantino appariscente, avrebbe detto qualcuno (Raphael), ma Magnus era sempre stato dell’idea che bisogna osare nella vita. E per non farsi mancare niente, aveva mantenuto la ciocca arancione tra i capelli. Il mondo doveva sapere quanto Magnus Bane amasse Halloween.
“Papà?”
“Sì, bintang?
“Alec è ancora nostro amico?”
Magnus fu un tantino sorpreso da quella domanda. “Certo, sayang, perché lo chiedi?”
“Perché il dottore di prima era… cattivo. Alec diventerà cattivo, adesso?”
Quel ragionamento non faceva una piega, pensò Magnus. L’ultimo pediatra che avevano avuto oltre ad essere assente per la maggior parte delle volte, quando si presentava alle visite era scontroso e spiacevole. Più di una volta Magnus era stato tentato di rispondergli a tono – alternando a volte in cui, invece, avrebbe proprio voluto dargli una sberla – ma aveva deciso, poi, che almeno uno dei due doveva essere educato, rinunciando a qualsiasi tipo di risposta a quell’odioso comportamento, verbale o fisica che fosse. E dal momento che un comportamento simile, agli occhi di una bambina di quattro anni può essere tradotto come cattivo, non era poi così strano che Erin pensasse che adesso che Alec era diventato il suo medico, si comportasse in quel modo anche lui.
“No, bintang, Alec rimarrà gentile. Ma dovrai ascoltarlo, perché lui vuole solo farti stare bene.”
“Anche quando mi da le medicine?”
“Soprattutto quando ti darà le medicine.”
Erin appoggiò la schiena allo schienale della sedia, un piccolo broncio piegò le sue labbra. “Le medicine sono amare. Non mi piacciono.”
Magnus le accarezzò la testa. “Non sempre possiamo fare cose che ci piacciono, bintang. A volte dobbiamo anche sforzarci di fare quelle che non ci piacciono.”
“Come prendere le medicine?”
Magnus annuì. “Sono amare, ma se le prendiamo poi guariamo. Quindi come vedi è solo un piccolo sacrificio per qualcosa di positivo.”
Erin appoggiò la testa al braccio di Magnus, cercando un contatto. “Positivo vuol dire bello?”
Magnus sorrise. “Sì, bintang.”
“Gli abbracci sono belli. Se prendo le medicine mi dai un abbraccio?”
L’uomo in tutta risposta fece passare un braccio dietro la schiena della bambina e la strinse forte a sé. “Sì, ma non servono necessariamente le medicine per un abbraccio. Ogni scusa è buona.”
Erin ridacchiò e cercò di ricambiare l’abbraccio meglio che poteva. Magnus sorrise. Era tutto quello di cui aveva bisogno, la sua bambina e il loro rapporto. Erano cresciuti insieme, si erano formati attraverso le difficoltà, attraversando quei viali coperti di pregiudizi e di occhiate cariche di diffidenza perché Magnus era un tipo particolare e non l’aveva mai nascosto. Era orgoglioso di quello che era, ma spesso la gente si limitava a guardarlo solo come un clown del circo che si trucca e, dal momento che non rispettava i canoni richiesti dalla società, doveva sicuramente essere un padre orribile ed inadeguato, incapace di crescere una bambina. Ma lui sapeva che non era così. Era in grado di crescere Erin, di darle tutta la stabilità e l’amore di cui aveva bisogno. Esistono così tanti tipi di famiglie, che fermarsi alla sola formata da padre-madre era riduttivo e irrispettoso. Come se, non rientrando nell’ideale perfetto della famiglia formata da un uomo ed una donna, non si fosse veramente una famiglia. Questo Magnus non lo aveva mai accettato.
Famiglia è dove ti senti a casa, dove ti senti amato per quello che sei. Famiglia ha dei significati così ampi che è quasi impossibile ridurla ad un’unica, statica rappresentazione.
“Signor Bane?”
Magnus alzò gli occhi verso la porta della sala d’attesa, trovandoci Alexander in tutta la sua altezza. Il suo viso era attraversato da un’ombra di stanchezza, leggere occhiaie circondavano i suoi bellissimi occhi cervoni. Magnus si chiese da quanto fosse al lavoro e se avesse almeno trovato il tempo per un caffè e si appuntò mentalmente di ricordarsi di portagliene uno, la prossima volta.
“Dottor Lightwood, sembra stanco.”
Alec accennò un sorriso, alzando un solo angolo della bocca. Raggiunse anche i suoi occhi, così Magnus lo reputò un buon segno. “Si sta preoccupando per me, signor Bane?”
“Dovrei?”
“No, affatto.”
Magnus si alzò dalla sedia, seguito da Erin, e si avvicinò ad Alexander. C’erano anche altre persone in sala d’attesa, ma a Magnus poco importava di loro. Studiò il viso di Alec da più vicino, ora che c’era meno distanza tra di loro. Le piccole rughe che si formavano intorno ai suoi occhi quando rideva, adesso erano accennate anche se era serio. Le occhiaie erano più marcate di quanto sembrasse da lontano. Aveva la barba di qualche giorno e i suoi capelli erano più in disordine del solito. Magnus dovette resistere all’impulso di passarci le mani attraverso solo perché era consapevole che altri occhi li stavano guardando e quel gesto avrebbe reso Alexander meno professionale. 
“Ha dormito, dottore?”
“Poco, in effetti.”
Magnus socchiuse un occhio. “Vuole continuare a fare il misterioso?”
“Andiamo nel mio ambulatorio?”
“Sì, certo. La seguo.”
Alec sorrise e poi si rivolse ad Erin, che era rimasta in attesa che i grandi finissero di parlare. “Ciao, piccolina.”
“Ciao, dottor Alec.” disse e il sorriso di Alec si allargò ulteriormente. Magnus ed Erin seguirono Alec fuori dalla sala d’attesa.
Non appena raggiunsero l’ambulatorio, Alec aprì la porta e fece entrare Magnus ed Erin per primi, poi li seguì e si chiuse la porta alle spalle. Alec fece vagare lo sguardo per tutto il suo ambulatorio, come se fosse la prima volta che metteva piede lì dentro. Magnus capì che lo faceva per prendere tempo – lo faceva spesso, quando non sapeva esattamente come cominciare un discorso.  
“Non voglio parlare delle mie cose in quella sala. Le persone ascoltano.”
Magnus sorrise. “L’avevo capito. Ora, rispondimi. Hai dormito?”
Alec decise di non prestare attenzione al tono premuroso e forse anche un tantino preoccupato di Magnus.
“No.” Esalò, sincero. “C’è uno dei miei pazienti che ha una brutta malattia. Sono preoccupato per lui, in più questa situazione mi ricorda un periodo spiacevole della mia vita, quindi non dormo.” Alec si passò una mano sul viso stanco. Magnus si avvicinò e gli appoggiò le proprie mani sulle guance.
“Vuoi parlarne?”
Alec chiuse gli occhi per una frazione di secondo, concedendosi un attimo per assaporare quella sensazione di tranquillità alla bocca dello stomaco, come se avesse appena bevuto un sorso della tisana più rilassante esistente al mondo. Lasciò che la vicinanza di Magnus sortisse il suo effetto, che il suo tocco delicato passasse ad ammorbidire tutto il suo sistema nervoso, sciogliendo lo stress. Permise al proprio naso di essere invaso dal suo profumo. Solo per un minuscolo attimo, prima di riaprire gli occhi e lasciarsi riportare alla realtà.
L’effetto che era in grado di fargli Magnus lo spaventava a morte. Lo attirava, anche, ma Alec era abbastanza pratico da ricordare a se stesso che l’ultima volta che un uomo si era avvicinato a lui in quel modo non era finita bene.
Lui potrebbe essere diverso da Will.
E questo lo diceva perché, inspiegabilmente, già si fidava di Magnus. Ma doveva capire quanta di quella fiducia fosse reale e quanta, invece, fosse dettata dal fatto che il suo cuore voleva a tutti i costi potersi fidare.
“Non adesso. Devo visitare Erin.” Appoggiò le proprie mani sui polsi di Magnus, accarezzando delicatamente con il pollice quella parte di pelle caramellata che non era coperta da braccialetti.
“Ma certo, quando vorrai, tesoro.” Abbassò le mani dal suo viso e gli sorrise con sincerità.
Lui è diverso da Will.
Con quel gesto Alec ne ebbe la certezza. Era un certezza folle, basata solo su un gesto durato cinque secondi. Ma Alec sapeva che era qualcosa di concreto, di vero. Magnus era sincero, Will al contrario avrebbe caricato una frase simile con un tono che faceva intendere tutt’altro. L’avrebbe guardato come se Alec l’avesse appena pugnalato, rimuginando in silenzio fino a che non sarebbe esploso dicendo qualcosa come non parli mai di te stesso o non mi coinvolgi mai nei tuoi pensieri.
Will non si era mai accorto che, in quattro anni di relazione, Alec l’aveva coinvolto nei suoi pensieri più di quanto avesse mai fatto con un essere umano. Il fatto che non lo facesse nel modo in cui Will desiderava, non significava che fosse sbagliato.
Per quanto riguardava il parlare di se stessi, invece… ora che ci pensava, Alec lo trovava un po’ ipocrita, viste poi come sono finite le cose.
“Erin è l’ultima mia paziente. Se non hai da fare… potremmo, sai… parlarne dopo.”
“Sì, certo. Mi andrebbe.”
Magnus non era William.
Magnus avrebbe rispettato Alec: i suoi tempi, il suo modo di relazionarsi con le persone, di parlare di sé – un poco alla volta e con il contagocce. Magnus sapeva già come prenderlo e Alec se n’era accorto, ma non voleva darci troppo peso. Sapeva già che Alec aveva bisogno di tempo per carburare, per sciogliersi e iniziare una conversazione. Rispettava i suoi silenzi e ascoltava, quando invece, Alec era propenso finalmente a parlare. Era successo di persona, succedeva ogni volta che si telefonavano, durante la giornata.
Magnus non era William e mai lo sarebbe stato.
“Grazie.” Sorrise e poi si rivolse ad Erin. “Dobbiamo cominciare.”
La piccola annuì e Magnus approfittò di quel momento per mandare un messaggio a Madelaine per avvertirla che sarebbe arrivato più tardi a casa sua.

> From: Ibu, 16.32
Qualche imprevisto di cui mi devo preoccupare?
> To: Ibu, 16.32
No, devo solo fare una cosa.
>From: Ibu, 16.33
Va bene. Divertiti con Alec, anakku. A dopo ;)

Magnus lesse quel messaggio due volte e l’unica cosa che gli venne in mente era che sua madre doveva necessariamente essere una specie di veggente, poi il suo cervello razionale gli ricordò che l’aveva informata della visita di routine che Alec gli aveva chiesto di fare. Scosse la testa e rimise il telefono in tasca, prima di concentrarsi sulla visita di Erin.


“Sei stata bravissima, Erin. Adesso dobbiamo solo guardare la gola.” Disse Alec con dolcezza. Magnus era già più che soddisfatto della sua scelta di aver cambiato medico. Alexander era professionale, attento ai dettagli, minuzioso e decisamente dolce con Erin. L’aveva messa a suo agio, parlandole delle cose che potevano interessarle mentre procedeva ad una visita scrupolosa. La piccola non aveva pianto nemmeno una volta. Erano progressi, visto che con il pediatra precedente piangeva quasi sempre.
“Devi farmi l’A più grossa che riesci a fare.” Continuò Alec, aprendo a sua volta la bocca più che poteva per far vedere ad Erin come avrebbe dovuto fare. La bambina, seduta sul lettino che Alec aveva in ambulatorio, prima ridacchiò, poi imitò il dottore.
Alec prese un abbassa-lingua e una piccola torcia da un carrellino con le ruote che aveva vicino e si mise al lavoro. Erin rimase buona e calma, facendosi visitare come se niente fosse. Quando Alec ebbe finito, si alzò dal suo sgabello, rimettendosi in piedi e guardando Erin, che a sua volta aveva alzato gli occhi su di lui.
“Finito! Sei stata super brava!”
“Devo prendere le medicine?”
“No, stai bene. Non hai nemmeno la gola rossa.” Sorrise Alec incoraggiante. La bambina, allora, si voltò verso il padre che era rimasto in piedi vicino alla finestra per tutto il tempo e sorrise entusiasta.
“Niente medicine, papà!”
Magnus rise piano. “Ho sentito, bintang.” Si avvicinò ai due e aiutò Erin a scendere dal lettino, poi guardò Alec. “Va tutto bene?”
Il pediatra annuì. “È sanissima, Magnus. Non rischia nemmeno un raffreddore.”
“Tu si che sai come tranquillizzare un padre.”
Alec sorrise, scuotendo affettuosamente la testa, poi si rivolse di nuovo ad Erin. “Sai cosa spetta alle brave bambine?”
Erin fece un cenno di negazione con il capo.
“Vieni con me.” disse Alec e la bambina, prima di seguirlo, alzò lo sguardo sul padre per chiedergli silenziosamente il permesso. Quando Magnus le fece cenno di andare, Erin seguì Alec fino alla sua scrivania. Magnus fece lo stesso, sedendosi di fronte al medico. Padre e figlia osservarono Alec estrarre da un cassetto della propria scrivania una scatola di latta gialla con dei dolcetti stampati sopra. La aprì e la porse ad Erin. La bambina, non appena vide il contenuto di quella scatola, sgranò gli occhi dalla sorpresa.
Caramelle. Quella scatola era piena di caramelle di ogni colore e gusto, incartate singolarmente.
“Posso, papà?” domandò Erin, carica di aspettativa e speranza. Magnus annuì e la bambina scelse una caramella rossa. La porse al padre per farsela scartare. Magnus lo fece e gliela diede, dicendole di fare attenzione a non strozzarsi. Erin annuì e con la caramella in bocca rimase seduta buona buona per non rischiare niente.
“In quanto dottore, non dovresti evitare certe cose?” domandò Magnus, mentre osservava Alec che scriveva qualcosa sul libretto sanitario di Erin.
“Sono un pediatra, mica un dentista. Le caramelle mi aiutano a non essere visto come un mostro a tre teste.” Alzò lo sguardo su Magnus. “E credimi, ci sono un sacco di bambini che hanno paura di me.”
“Non dovrebbero. Sei bravissimo con i bambini.”
Alec arrossì e tornò a scrivere sul libretto. Magnus si chiese se fosse davvero necessario scrivere tutto quello che stava scrivendo o se fosse solo una tattica per evitare di ricevere complimenti. Aveva la sensazione che fosse più per il secondo motivo. Chissà perché Alec dubitava ancora di sé, chissà fino a che punto le insicurezze che aveva avuto da adolescente erano ancora radicate in lui. Si chiese da dove potessero derivare, se ci fosse un motivo specifico per cui non si riteneva mai abbastanza, quando era chiaro persino agli occhi di Magnus, che l’aveva visto in azione solo una volta, che Alexander fosse un bravo medico.
Era una delle cose che avrebbe voluto chiedergli, qualcosa che avrebbe contribuito ad approfondire la loro conoscenza. Ma Magnus aveva la sensazione che ad Alec non piacesse parlare di certe cose. Almeno non subito. Magnus poteva pur dire che lui e Alec erano amici, ma non lo erano ancora tal punto da conoscersi così a fondo. Come potevano, dopotutto? Non era nemmeno passato un mese dal loro primo incontro e sebbene tra di loro ci fosse già un rapporto che poteva essere più profondo di quello che normalmente lega due estranei, l’amicizia che spinge a parlare profondamente di sé non era ancora arrivata totalmente. Si fidavano l’uno dell’altro in maniera inspiegabile, ma la confidenza doveva ancora arrivare. Avevano gettato delle buone basi, secondo Magnus, qualcosa che poteva già essere definito abbastanza solido. Ma erano solo le fondamenta di quello che sarebbe diventato un grattacielo immenso.
“Sei pensieroso.” Disse ad un tratto Alec, la penna poggiata di lato e il libretto chiuso di fronte a sé. Magnus sbatté le palpebre due volte, prima di uscire totalmente dai suoi pensieri.
“È un problema?”
“Solo se c’è qualcosa che ti preoccupa. Erin sta bene, posso assicurartelo.”
Magnus sorrise. La premura nella voce di Alec gli scaldò il cuore, così come l’intensa sincerità nei suoi occhi. “Mi fido, Alexander. Ho l’impressione di avere un bravo medico, sai?”
Alec abbassò immediatamente lo sguardo, ma l’accenno di un sorriso fece comparire le fossette sulle sue guance. Alzò gli occhi dopo qualche istante, come se avesse finalmente trovato il coraggio di reggere un complimento che lo riguardava direttamente.
“Erin è stata una brava paziente. L’hai educata bene.”
“Sai che una frase del genere è tipo l’apoteosi dei complimenti, per un genitore?”
Alec ridacchiò e si appoggiò allo schienale della sedia, guardando Magnus e il modo in cui il suo sorriso illuminava ancora il suo viso. Alec aveva passato abbastanza tempo con Isabelle da sapere che esistono cose come gli illuminanti, trucchi che si danno a viso, e aveva capito che Magnus aveva un debole per i glitter – anche quel giorno il suo ombretto era glitterato – ma nessun cosmetico sarebbe stato in grado di illuminarlo come il suo sorriso.
“Adesso sembri tu quello pensieroso.”
Alec distolse lo sguardo, un leggero rossore colorò le sue guance, quasi come se avesse paura che Magnus fosse in grado di leggergli la mente.
“Vogliamo andare?” domandò il medico, cambiando argomento. “Sempre se tu ne hai voglia…” si affrettò ad aggiungere, un velo di insicurezza fece tremare leggermente la sua voce.
“Non devi nemmeno chiedere, tesoro. Ne ho sempre voglia.” Ammiccò con più malizia di quanta fosse necessaria, visto il contesto. In ogni caso, Alec colse il doppio senso e arrossì di nuovo. Non era un ragazzetto alle prime armi, aveva avuto le sue esperienze – poche, ma c’erano – eppure in qualche modo gestire Magnus e i suoi modi gli risultava difficile. L’uomo che aveva di fronte era diretto in una maniera particolare, per non dire unica. La sua assenza di filtri era una delle cose che piacevano ad Alec, ma erano anche la causa dei suoi rossori una volta sì e l’altra pure. Non era infastidito da Magnus, avrebbe solo voluto saperlo gestire meglio, evitare di fare la figura del docile e ingenuo agnellino.
“Dove andiamo?” si inserì Erin e Alec la nominò sua salvatrice ufficiale. A quanto pareva, la bambina aveva un sesto senso che le faceva aprire bocca nei momenti in cui il cervello di Alec andava in tilt e faceva fatica a trovare le risposte giuste.
“A prendere un caffè.” Rispose Magnus ed Erin guardò il suo papà con curiosità ed interesse, una piccola ruga di espressione si formò tra le sue sopracciglia, quando metabolizzò un pensiero che tramutò in parole.
“Perché Alec ora è il tuo compagno di giochi?”
Se Alec non capì il senso di quella domanda, Magnus impiegò dieci secondi a coglierne il senso. Tempo che, comunque, Erin impiegò per spiegarsi meglio, timorosa, forse, che il padre non ricordasse ciò che le aveva detto.
“L’hai detto tu, papà. Da grandi si smette di giocare e si beve caffè.”
Alec rise, intenerito da quel ragionamento, e guardò Magnus, che ancora non sapeva come rispondere. “Questa devi spiegarmela!”
Magnus annuì. “Mentre camminiamo?”
“Sì.” Alec si alzò dalla sua sedia e si tolse il camice, che appoggiò ad un attaccapanni vicino alla porta – dal quale recuperò anche il suo giubbotto. Era di pelle, come quello di Magnus, ma non poteva essere più diverso: nero e semplice. Un classico giubbotto. Eppure, sulle spalle e sulla schiena di Alexander cadeva così bene, che Magnus l’avrebbe fissato per ore senza ritegno.
“Andiamo?” Domandò Alec sulla porta. Magnus annuì alzandosi e facendo alzare Erin a sua volta. La vestì per bene, risistemandole il giubbottino che le aveva tolto per la visita – era di jeans, con delle piccole ranocchie ricamate ai lati.
Quando furono tutti fuori dall’ambulatorio, Alec chiuse la luce e la porta alle sue spalle, inserendo poi la chiave nella toppa, facendo scattare la serratura. Si diressero all’ascensore, uno di fianco all’altro, mentre Erin trotterellava vicino al suo papà.
Quando le porte metalliche dell’ascensore si aprirono, i tre entrarono ed Erin domandò a Magnus se poteva premere lei il pulsante per scendere. L’uomo annuì e le indicò cosa premere. Quando la bambina lo fece, rimasero in attesa, i pulsantini che si illuminavano mano a mano che scendevano ad ogni piano.
“Sto aspettando, compagno di giochi.” Disse Alec, un sorrisetto sornione che tirava le sue belle labbra. Magnus assottigliò gli occhi. “Ho l’impressione che questa cosa ti diverta più del necessario.”
Alec contrasse le labbra all’interno della bocca per trattenere un sorriso, facendo tornare le fossette sulle guance. “Può darsi. Diciamo che stuzzica la mia curiosità.”
“La tua curiosità è così facile da stuzzicare?”
“In genere, no.”
“Stai dicendo che mi trovi particolarmente interessante, Alexander?”
Alec si passò una mano sul mento coperto di barba. Lo faceva spesso quando qualcosa lo imbarazzava un po’ e non voleva darlo a vedere. Magnus lo trovava adorabile.
“Come se non lo sapessi già.” Esalò tutto d’un fiato, parlando forse un po’ troppo velocemente.
“No, non lo sapevo. E non lo so nemmeno ora, perché non hai esplicitamente risposto alla mia domanda.”
Alec scosse la testa, ma resse lo sguardo furbo di Magnus. Gli occhi del maggiore, magnetici e truccati in modo impeccabile, erano fissi in quelli di Alec – che sentì improvvisamente le gambe molli. Non sapeva bene perché, ma il suo autocontrollo con Magnus veniva meno. Alec non era mai stato un tipo a cui bastano un paio di occhi belli per perdere la testa, ma aveva davanti la prova vivente che una cosa simile era possibile anche per uno stoico come lui. Era la sensazione che gli facevano provare, al di là della loro peculiare bellezza. Magnus aveva dei lineamenti bellissimi: gli occhi a mandorla, di quel colore che tanto ricordava l’ambra liquida, la pelle caramellata, a tratti bronzea; la sua mascella, squadrata in un modo perfetto. Magnus era bellissimo, Alec non era certo cieco. Ma c’era qualcosa in lui, nel modo che aveva di rapportarsi, che incuriosiva Alec più di quanto si sarebbe aspettato. Ad una prima occhiata, Magnus si mostrava carismatico e sicuro di sé, egocentrico quasi. Era consapevole dell’effetto che aveva sulle persone – aveva notato, quel pomeriggio che avevano passato insieme, che aveva destato l’attenzione di molti, mentre camminavano fianco a fianco. Se nessuno di loro aveva notato Alec, per una volta, non dipendeva dal fatto che lui fosse anonimo. Dipendeva, piuttosto, dal fatto che Magnus fosse impossibile da non guardare. Come chiunque si ferma a guardare un bel tramonto, interrompendo qualsiasi attività per lasciarsi abbagliare dai suoi colori caldi e vivi, allo stesso modo le persone – e Alec in particolare – si fermavano a guardare Magnus.
Ma c’era molto più di questo. Ad una seconda occhiata, infatti, Magnus appariva solare, attento ai dettagli, paziente e premuroso. Magnus nascondeva una dolcezza particolare, dietro le prime impressioni.
Era questo che spaventava Alec. La consapevolezza che si sentisse già così legato a lui, nonostante lo conoscesse da pochissimo. La certezza che una parte di sé voleva che la fiducia che sentiva nascere dentro al suo cuore non fosse solo una sensazione, ma la vera e propria realtà. E il fatto che, nonostante avesse tutti questi pensieri che lo spaventavano, non sentiva il desiderio di allontanarlo per provare a tutelarsi.
L’idea di poterlo allontanare, mostrandosi scontroso e schivo come faceva la maggior parte delle volte, lo spaventava più dell’idea di averlo vicino e lasciare che si conoscessero.
La cosa che lo terrorizzava, in definitiva, era che in presenza di Magnus non sentisse la minima necessità di provare a proteggersi da lui o da quello che avrebbe potuto portare il loro rapporto.
“Zuccherino?” Magnus attirò la sua attenzione, destandolo dai suoi ragionamenti. “Siamo arrivati.”
Alec arrossì. Si era perso nei suoi pensieri a tal punto da non rendersi conto che erano già arrivati al piano terra. Le porte dell’ascensore erano aperte, ma Alec non aveva fatto il minimo cenno ad uscire. Si sentì un po’ un allocco.
“S-sì, usciamo.”
Varcarono la soglia dell’ascensore, dirigendosi verso il bancone del pronto soccorso, dove un gran trambusto attirò la loro attenzione. Più quella di Magnus, in realtà, meno abituato alla confusione che poteva regnare in quel particolare reparto dell’ospedale. Alec, al contrario, avvezzo a quel genere di marasma non prestò subito attenzione a ciò che stava succedendo. Per questo, fu Magnus a rendersi conto per primo dell’uomo che stava marciando verso di loro, con un’espressione dura in volto. Il suo primo istinto fu quello di mettersi davanti ad Erin e informare poi Alec dell’uomo che minacciosamente si stava avvicinando. Quando anche Alec lo notò, si sistemò davanti a Magnus e alla bambina, come se avesse voluto fare da scudo ad entrambi.
Di fronte ad Alec, in quel momento, stava Victor Aldertree, un uomo dalla pelle scura, folti ricci castani e una personalità sgradevole.
“Spero tu sia contento del tuo operato, Lightwood.” Sputò con risentimento. Magnus notò che l’uomo dovette alzare lo sguardo per arrivare a guardare Alec.
“Di cosa stai parlando, Aldertree?”
Victor lo fissò come se avesse davanti l’essere più fastidioso del pianeta. “Lo sai di cosa sto parlando. Mi hai portato via un altro paziente.” E a quel punto i suoi occhi neri si soffermarono, carichi di astio, su Magnus, alle spalle di Alec.
“Non guardarlo.” Ordinò, ma l’altro non lo ascoltò. Continuò a guardare Magnus come se fosse uno scarafaggio, percorrendo tutta la sua figura con lo sguardo, come se provasse un profondo disprezzo per lui.  “Aldertree.” A quel punto, Alec quasi ringhiò. “Non guardare lui, guarda me.” La sua mascella  si contrasse.
“Va bene, guardo te. La tua odiosa faccia da spia. Ho la commissione disciplinare che mi sta addosso, per colpa tua!”
Alec reagì a quell’affermazione con un verso di scherno. “Per colpa mia?” La voce grondava sarcasmo. “Sei il più incompetente dei pediatri, Aldertree. Tieni i pazienti solo per avere una parvenza di legalità, quando lo sanno tutti che la cosa che preferisci fare è vendere farmaci al mercato nero.” Alec si abbassò quel tanto necessario affinché Aldertree riuscisse a guardarlo negli occhi. “Se la commissione disciplinare ti sta addosso, è solo perché sei uno spacciatore. Dovresti essere radiato dall’albo.”
Gli occhi di Aldertree saettarono inquieti e nervosi, carichi di una rabbia quasi cieca. Alec per un attimo ebbe la sensazione che l’avrebbe colpito, ma poi Aldertree fece un passo indietro, allontanandosi. “Smetti di rubarmi i pazienti.”
“Dovrebbe essere una minaccia? Dovrei avere paura di te? E non rubo niente a nessuno, sono i pazienti che scelgono di cambiare medico.”
Il tono di Alec era saldo, sicuro di sé, così come la sua postura. A Magnus ricordò tanto una quercia solida ed imponente. E pensò al fatto che Aldertree, a confronto, sembrava una piccola insignificante folata di vento che, senza successo, prova ad abbatterla.
“Vattene, Aldertree. Non voglio fare scenate in ospedale.”
L’uomo lo guardò ancora con rabbia, ponderando se reagire o meno, ma sapeva bene che un comportamento poco etico come una rissa in pronto soccorso avrebbe solo peggiorato la sua situazione. Di conseguenza girò i tacchi e si allontanò senza aggiungere altro, dirigendosi verso l’uscita dell’ospedale.
Sia Magnus che Alec rimasero a guardarlo mentre si allontanava sempre di più, fino a che non sparì. Solo a quel punto, Alec si rilassò e si voltò verso Magnus.
“Mi dispiace.” Esalò, prima di guardare Erin. La bambina non sembrava troppo turbata da quello a cui aveva appena assistito, ma Alec provò comunque l’impulso di chiederle se stava bene.
“Sì,” rispose Erin. “Anche se lui rimane cattivo.”
Alec le sorrise e le lasciò una delicata carezza sulla testa – un gesto che fece istintivamente, con la stessa spontaneità con cui si comportava con Diana. Magnus lo notò e sentì il cuore accelerare. “Hai ragione, Erin. Quell’uomo è parecchio sgradevole.” Affermò Alec.
“Che vuol dire sgradevole, papà?”
Magnus era ancora concentrato su Alec, colpito dal suo comportamento. Si era messo davanti a lui e ad Erin come se avesse voluto proteggerli. L’aveva fatto senza pensarci. Era stato il suo primo istinto. Un gesto puramente altruista. Qualcosa che Magnus non vedeva da tempo.
“Vuol dire che non è simpatico, bintang.”
“Oh. Allora sì.” Continuò la bambina, rivolgendosi ad Alec. “È sgradevole!”
 Alec le sorrise ancora e poi si rivolse a Magnus. “Mi dispiace.” Disse di nuovo. “Non volevo comportarmi in quel modo, ma Aldertree irrita il mio sistema nervoso.”
Magnus gli posò una mano sulla guancia, accarezzandogli uno zigomo con il pollice. “Alexander, non devi scusarti di niente. Quell’uomo è irritante e ti sei comportato nello stesso modo in cui si sarebbe comportato chiunque.” Magnus socchiuse gli occhi, come se stesse riflettendo su qualcosa. “Forse hai reso il tutto un po’ più sexy, ma solo perché sei tu.”
Alec avvampò e i suoi occhi guardarono immediatamente verso il basso. Magnus avvertì il calore della sua pelle arrivargli al palmo della mano, ma nessuno dei due fece niente per interrompere il contatto.
Solo dopo qualche istante, Alec alzò di nuovo lo sguardo su Magnus. “Vogliamo uscire di qui?”
Magnus abbassò la mano e gli sorrise. “Sì. Direi di sì.” Prese per mano Erin e si diressero tutti e tre verso l’uscita, dopo aver salutato una Catarina immersa nelle scartoffie.



“Sei sicuro che la caffeina sia la risposta giusta?”
“Non ho dormito, Magnus. E ho fatto un turno di nove ore. Mi merito litri e litri di caffeina!”
“Bere caffè in pieno pomeriggio porterà il tuo organismo ad avere ancora la caffeina in circolo, durante la notte, e a tenerti sveglio.” Cosa che preferirei fare io. In molti modi. In tante posizioni. Ma questo Magnus lo tenne per sé, se non altro perché gli sembrava inopportuno e, sebbene Raphael avrebbe detto il contrario, anche lui aveva dei limiti alla decenza.
Alec, seduto di fronte a lui ad un tavolo in una caffetteria vicina all’ospedale, lo guardò con un sorrisetto. “Devo cominciare a chiamarti dottore?”
Magnus gli diede uno schiaffetto sul polso, allungandosi un poco sul tavolo. “Devi cominciare a darmi retta e bere meno caffè.”
“La teina pensi sia meglio? È un eccitante tanto quanto lo è la caffeina.”
Magnus decise in quel momento che la peccaminosa bocca di Alexander che pronunciava eccitante doveva essere dichiarato un gesto illegale. Nessuno pensava ai suoi poveri ormoni?
“Non pensavo alla teina. Pensavo a qualcosa più tipo una tisana, o una camomilla. Ti rilasseresti di più.”
Alec abbracciò con le mani la sua tazza fumante colma di caffè fino all’orlo. “Spegnere il cervello mi aiuterebbe a rilassarmi.” Gli occhi di Alec catturarono il liquido nero e rimasero intrappolati dentro di esso per un po’, come se stesse cercando delle risposte nei fondi del caffè che ancora doveva bere.
Magnus pulì una briciolina dalla bocca di Erin, seduta al suo fianco e intenta a mangiare un biscotto, mentre giocava con due piccoli pony, prima di allungare una mano verso Alec. Gli afferrò un polso e tracciò movimenti circolari con il pollice.
“È per il bambino che mi dicevi prima?”
Alec annuì e poi alzò lo sguardo su Magnus. “Ma non dobbiamo parlare di questo. Non voglio rattristarti.”
“Siamo venuti qui apposta per parlare, Alexander.”
“Ma non necessariamente di questo. Avevo solo bisogno di…distrarmi.”
“È questo che sono, quindi?” Domandò Magnus, usando la mano che aveva libera per portarla teatralmente al cuore. “Una mera distrazione? E io che pensavo di essere qualcosa di più!”
“Tipo il mio finto fidanzato?” Stette al gioco Alec, l’ombra di un sorriso che scacciava la preoccupazione.
“Esatto! Mi vuoi dire che sono retroceduto così in fretta?”
Alec liberò una risata vera, sebbene fosse trattenuta, come era suo solito fare. “Ti preoccupi che io beva troppa caffeina. Niente urla più al finto fidanzato di questo.”
Magnus parve soddisfatto di sé. “Giusto, hai ragione. Sono felice di avere ancora il mio posto sul podio.”
Alec gli sorrise in quel modo particolare che faceva brillare anche i suoi occhi e Magnus la reputò una bellissima vittoria.
“Puoi parlare con me, Alexander. Di qualsiasi cosa ti turbi.”
Alec parlò ancora prima che se ne rendesse conto, la risposta gli scivolò fuori dalle labbra come se fosse stata la cosa più naturale da dire. “Lo so.”   
“Allora fallo.” Gli disse Magnus.
Alec non era mai stato un tipo troppo espansivo. Evitava di raccontare i propri problemi, tendendo a tenersi tutto dentro la maggior parte delle volte.
L’argomento in questione lo tormentava parecchio perché gli ricordava un periodo della sua vita che aveva fatto soffrire tutta la sua famiglia e Max in particolare, ovviamente.
I Lightwood si erano riuniti in quella disgrazia – persino suo padre si era riavvicinato a loro, sebbene vivesse con Annamarie già da due anni. Maryse l’aveva trattato con praticità. Aveva reputato giusto informarlo della malattia di Max in quanto padre biologico, ma il tradimento che aveva subito le faceva ancora male – se non altro, perché si era sentita presa in giro da un uomo che non aveva nemmeno avuto il coraggio di lasciarla, ma aveva scelto la via dei codardi: il tradimento, condurre due vite parallele per un po’. Come se Annamarie fosse stata in prova e, nel caso con lei non avesse funzionato, Robert avrebbe potuto rimanere con loro a giocare alla famiglia felice. Quando, in realtà, Maryse e Robert non erano più felici insieme da un pezzo, ma questo è un altro discorso.   
Alec in quel momento desiderava davvero parlare con qualcuno di quello che stava vivendo, dei ricordi dolorosi che quella situazione gli riportava alla mente. Ma non vedeva perché doveva far gravare questo peso su Magnus. Per quanto questa situazione gli desse pensiero, non ne aveva nemmeno parlato con Jace od Izzy perché sapeva che entrambi avrebbero rivissuto quel periodo e non voleva provocare in loro nessuna sofferenza legata al ricordo di quei mesi.
“Non voglio rattristarti.” Ripeté, quindi, Alec. E quella frase gli sembrò tanto banale quanto, tuttavia, vera.
Magnus lo guardò con sincera determinazione. “Alexander.” La presa sul suo polso si fece più salda. “Parlami. Le preoccupazioni possono arrivare a consumarci. E in questo momento ho la sensazione che se non ne parli con qualcuno, potresti esplodere.”
Alec strinse le labbra all’interno della bocca, i suoi occhi erano fissi in quelli di Magnus. La mano dell’uomo era ancora appoggiata al suo polso e Alec pensò che tra di loro c’era sempre una serie di piccoli contatti – che partivano tutti da Magnus – che l’aiutavano a sciogliersi, come se fosse stato argilla malleabile e Magnus sapesse perfettamente come fare per riuscire a modellarlo.
Alec, inspiegabilmente, riusciva a rilassarsi sotto ad ogni tocco. E a trovare il coraggio di aprirsi.
“Non scenderò nei dettagli perché il segreto professionale me lo impedisce. Mi limiterò a dire che c’è uno dei miei pazienti che è malato e questa cosa mi ricorda quando c’era Max, al suo posto.”
Magnus, che non sapeva nulla riguardo ad un periodo in cui Max era stato malato, sentì stringersi il cuore e poté solo immaginare il grado di sofferenza che Alexander e la sua famiglia erano arrivati a toccare. Gli strinse un polso, ma inspiegabilmente Alec fece ruotare una delle mani verso l’alto, abbandonando la tazza per cercare Magnus. L’uomo appoggiò la propria mano sopra a quella dell’altro. Le loro dita non si intrecciarono. I loro palmi, semplicemente, rimasero in contatto. Uno sopra all’altro, Magnus a coprire Alec. Le loro pelli che si sfioravano, il bronzo che faceva da scudo all’avorio.
“Aveva undici anni. Aveva passato due settimane con la febbre altissima, non-stop. Non gli passava. Così il suo dottore ha deciso di fargli degli esami in più e ha scoperto che aveva una massa scura su un rene. Un tumore.” La voce di Alec tremò. “Ha fatto la chemio. Era giovane e quindi i dottori volevano vedere come avrebbe reagito alla terapia, prima di pensare all’estrazione dell’organo.”
Alec ricordava con esattezza le parole del medico.
Cerchiamo di salvaguardare l’organo. Ma Alec ogni volta che andava a trovare Max, sdraiato sopra ad un letto d’ospedale, con la flebo in vena, gli occhi cerchiati di blu e il viso smunto, la pelle grigia e i capelli sempre più sfibrati, pensava che quella soluzione fosse solo deleteria. Sarebbe stato più semplice togliere il rene malato e risparmiare a Max quella sofferenza. O così voleva credere un ragazzo di vent’anni che detestava vedere il suo fratellino ridotto in quelle condizioni.
“Facevamo i turni, sai? Non potevamo andarlo a trovare tutti insieme perché avremmo portato con noi una quantità troppo rischiosa di germi e ridotto com’era anche un semplice raffreddore avrebbe aggravato la sua situazione.”
Alec ricordava anche il procedimento a cui era sottoposto ogni volta che toccava a lui passare la giornata con Max. Lo facevano spogliare dei suoi vestiti in una saletta sterilizzata e gli passavano una divisa dell’ospedale, una tuta verdognola che gli faceva prudere tutto il corpo. Ma non gli interessava, finché era sterile e gli permetteva di vedere Max senza danneggiarlo.
«Dimmi un tuo segreto,» gli aveva chiesto una volta. Max aveva sorriso debolmente, come se avesse voluto dare una parvenza di normalità a tutta quella situazione. Era tipico del suo fratellino –  aveva pensato Alec – che aveva sempre avuto una forza d’animo invidiabile.
Il suo più grande segreto, all’epoca, era essere gay. Nessuno lo sapeva, o almeno Alec pensava fosse così.
«Non saprei, Max.»
«Avanti, Alec. Fammi distrarre un po’. Dimmi qualcosa che non sa nessuno.»

Alec ci aveva pensato su, dubbioso e timoroso che fosse il momento sbagliato – temeva di risultare egoista, confessando una cosa così intima, quando Max stava così male. Ma lo fece perché era quella l’unica cosa che i suoi fratelli non sapevano di lui. «Sono gay.»
Max aveva sorriso. «Sono il primo a cui lo dici?»
«Sì. Ed è stranamente liberatorio.»
«Pensa a quando lo dirai a Jace. La prima cosa a cui penserà è che, senza te sul mercato, avrà più ragazze per sé. Quell’ingordo.»

Alec era riuscito persino a sorridere. Sia perché Max sembrava tranquillo dopo la sua confessione, sia perché era riuscito a fare dell’ironia. Era ancora lui, si era ritrovato a pensare il maggiore. Finché riusciva ancora ad essere ironico, Alec sapeva che Max c’era ancora, che la malattia non era ancora riuscita ad abbatterlo. «Non è detto. Se anche a te piacciono le ragazze, avrà un degno avversario.»
«Mi piacciono. Abbiamo due età diverse, però. Quindi per adesso se le becca tutte lui. Sto aspettando l’adolescenza per sbocciare e diventare più bello di lui. Le premesse ci sono già.»
Max aveva tossito, Alec l’aveva aiutato a mettersi seduto e poi gli aveva dato un bicchiere d’acqua. Erano rimasti in silenzio qualche istante, prima che Max portasse i suoi occhi, così simili a quelli di Alec, sul fratello e gli domandasse: «Ci arriverò, Alec? All’adolescenza?»
Alec aveva chiaramente sentito il suo cuore fermarsi e sprofondare in un abisso. «Certo che ci arriverai.»
Max si era incupito. «È questo il mio segreto. Ho paura. Tutti i giorni. Ho paura che entri un dottore e mi dica che non c’è più niente da fare.» La sua voce aveva tremato e i suoi occhi si erano velati di lacrime.
Alec aveva stretto la mano del fratello nella sua. «Non succederà. Se la massa non dovesse restringersi, hanno già deciso che toglieranno il rene.»
«E se dovesse essere troppo tardi?»
Max aveva cominciato a piangere. «Se più aspettano, più si ingrossa e va a contagiare anche le mie parti sane?»
«Non succederà, Max. Fidati di me.»

Max aveva annuito e Alec aveva stretto la presa sulla sua mano. Una volta arrivato a casa, tuttavia, aveva pianto, sperando con tutto se stesso di avere ragione.
“Sono stati mesi difficili. Mesi in cui la situazione è rimasta stabile. Era positivo, ci dicevano, significava che la massa non si ingrossava. Ma noi non potevamo fare a meno di pensare che non diminuiva nemmeno.” Alec usò la mano che non era in contatto con quella di Magnus per passarsela sul viso. “È successo tutto molto lentamente. Ad ogni ciclo, alla fine, la massa tumorale si restringeva, fino a che un giorno non ci hanno detto che era sparita del tutto. Max aveva perso quasi dieci chili ed era pelato, ma era vivo.” Gli occhi di Alec divennero inevitabilmente lucidi. “Era vivo.” Disse di nuovo, come se per un attimo avesse sentito la necessità di ricordare a se stesso che quella storia aveva avuto un lieto fine.
Rimase in silenzio per qualche istante e Magnus rispettò quella scelta, aspettando. Alec avrebbe potuto continuare a parlare, se avesse voluto, oppure no.
“Lo so che dovrei essere in grado di separare il mio lavoro dalla vita privata, ma… quel bambino ha undici anni, è un maschio e… inevitabilmente penso a Max. E non riesco a fare a meno di pensare a quale sarà il destino di quel ragazzino. Le terapie funzioneranno? La sua famiglia avrà abbastanza aiuto psicologico per affrontare tutto ciò che li aspetta?” Alec sospirò, come se fosse stato prosciugato della maggior parte delle sue energie. Magnus strinse la presa sulla sua mano nel tentativo di trasmettergli un po’ delle proprie – come se davvero una cosa simile fosse possibile.
“Il fatto che tu sia un medico non ti rende invulnerabile, Alexander. È la tua umanità che ti rende più bravo di tanti altri. Hai un’empatia in grado di tranquillizzare chiunque e sono sicuro che la famiglia di questo bambino l’ha percepito. Sapranno gestire la cosa perché hanno te. Ho la certezza che li manderai dai medici migliori che sapranno occuparsi di loro e del ragazzino.” Magnus abbozzò un sorriso per cercare di tranquillizzare Alec. “Ed è normale che tutto questo ti ricordi Max. Ma, ringraziando chiunque sia l’entità celeste lassù, per Max quel periodo è finito. Sta bene. Ed è qui, con voi.” 
Alec annuì, deglutendo come se avesse voluto mandare giù il groppo che si era formato nella sua gola. “Grazie, Magnus.” Sussurrò.
“Non devi ringraziarmi, tesoro. Puoi parlarmi di qualsiasi cosa, quando ne hai bisogno.”
Alec accennò un sorriso a labbra chiuse, un singolo angolo della bocca alzato. I suoi occhi erano ancora velati di tristezza e preoccupazione, ma si sentiva un po’ più leggero adesso.
Il vociare intorno a loro riempì il silenzio che era calato tra i due. Alec e Magnus rimasero con le mani una sopra all’altra senza dire una parola per un po’, lasciando che tutto tornasse piano piano al suo posto – esattamente com’era successo quella sera a casa di Magnus. Il silenzio era il loro aiutante. Un’entità invisibile che li aiutava ad assestarsi.
Fu Erin a rompere quel silenzio, tuttavia, e a riportare leggerezza in quel pomeriggio. “Alec, lo vuoi un biscotto?” domandò, porgendo uno dei suoi Plasmon in direzione di Alec. Il ragazzo si trovò a sorridere, sentendo il cuore alleggerirsi un po’ di più davanti a quel gesto tanto spontaneo. Accettò il biscotto e poi rivolgendosi a Magnus, gli chiese di spiegargli la questione dei compagni di giochi.
Magnus sorrise, bevve un sorso del suo thè e cominciò a raccontare.

*

I compleanni a sorpresa tendevano sempre ad agitare Isabelle. Se non altro perché non poteva mettere bocca su troppe cose senza rischiare di essere scoperta. Andava contro la sua natura basilare di tendere troppo spesso al controllo della situazione, ma se si impegnava, riusciva a tenersi a bada.
L’unica persona che era in grado di mandare – quasi – a monte il suo autocontrollo era il maggiore dei suoi fratelli e il suo guardaroba.
A quanto pareva, nel vocabolario di Alec la nozione mettersi in tiro era inesistente ed Isabelle, che sapeva benissimo dove stavano andando, soffriva dentro a livelli atomici, mentre lo guardava infilarsi un maglione nero sformato, un paio di jeans chiari, e degli anfibi neri così consumati che sembrava fossero stati usati per combattere una guerra.
“Sei sicuro di voler uscire così?” Si lasciò scappare, non appena vide Alec infilarsi un cappellino di lana in testa. D’accordo che con l’arrivo di ottobre le temperature si erano abbassate, ma la soglia di sopportazione di Isabelle era arrivata al massimo: il suo senso del fashion stava gridando all’abominio.
Alec si volò verso di lei con un’espressione che ne aveva dell’annoiato, come se conoscesse quella ramanzina a memoria. “Ti stancherai mai di farmi notare quanto non ti piaccia il mio modo di vestire?”
“Mai. Ho una missione. Sono stata nominata dalla Santa Trinità in persona affinché il mio ineguagliabile senso del fashion salvi i miscredenti come te dalla sciatteria cronica.”
Alec la guardò malissimo, gli occhi ridotti a due fessure. “Sono sicuro che al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo non interessi un bel niente di come mi vesto io!”
“Io parlavo di Yves Saint Lauren, Elie Saab e Christian Dior.” Isabelle, seduta sul letto di Alec, accavallò le gambe fasciate dentro ad un paio di aderentissimi pantaloni neri, abbinati ad una camicetta di seta rossa. Ai piedi, portava delle Louboutin lucide con un tacco altissimo. I suoi fratelli la prendevano sempre in giro, dicendole che comprava scarpe così alte per non sentirsi la Lillipuziana della famiglia. Nemmeno le minacce di Isabelle di usare quelle scarpe come arma, avevano portato quei tre disgraziati che Izzy chiamava fratelli a farla finita. Si credevano tanto simpatici, a quanto pareva.
Alec roteò gli occhi al cielo con così tanta veemenza da rischiare di farli entrare nel retro del cranio. “Sei così melodrammatica, Izzy. Piantala di dire fesserie!”
La ragazza strinse le labbra dipinte di uno scuro color vinaccia in una linea sottile di disapprovazione. “D’accordo. Vestiti come ti pare, basta che ci muoviamo!”
“Perché tutta questa fretta? Di solito impieghi ore solo per truccarti.”
“Smetti di fare il puntiglioso e sbrigati!” Lo liquidò lei con un gesto della mano.
Alec, che era convinto che il comportamento di sua sorella derivasse dal fatto che se la fosse presa perché le aveva dato della melodrammatica, non si insospettì più di tanto e finì di prepararsi.


Isabelle sapeva fare moltissime cose, tra le quali guidare con i tacchi. Alec era stato più volte vittima di svariati mal di stomaco in tutto il periodo che Isabelle aveva impiegato per imparare a farlo, ma circa venticinque mancati rigurgiti dopo, Alec poteva dire che Izzy aveva finalmente imparato.
“Dove stiamo andando?”
“A bere qualcosa.”
“Sì, ma questa non è la strada per l’Hunter’s Moon.”
“No, perché dobbiamo passare prima dal DuMort.”
Alec corrugò la fronte, ma Isabelle non poté vederlo, essendo concentrata sulla strada. “E cosa ci andiamo a fare di sabato sera al DuMort?”
“Raphael sta ristrutturando una sala del suo hotel e vorrebbe un consiglio. Mi ha chiesto se potevo passare per dare un’occhiata a come stanno venendo i lavori e mi dispiaceva dirgli di no.”
“Oh, d’accordo.”
“Come vedi, l’unico che si rifiuta di seguire i miei consigli sei te.”
Alec alzò gli occhi al cielo. “Guida, Isabelle. E falla finita!”
Izzy si voltò velocemente verso di lui giusto il tempo per fargli una linguaccia e poi tornò a concentrarsi sulla strada. Un sorriso le tendeva le labbra, consapevole che fino ad adesso il piano stava funzionando e Alec non sospettava assolutamente nulla.



Arrivarono al DuMort dopo mezz’ora. Dopo aver trovato parcheggio, scesero dalla macchina e si diressero verso l’entrata dell’hotel, dove Alec tenne la porta aperta per la sorella, in modo da farla passare per prima. Non era mai stato dentro a quell’hotel. Sapeva della sua esistenza, perché era il più rinomato di New York, ma non ci era mai entrato. Isabelle, a quanto pareva, sì. Se non altro perché lei e Raphael erano molto amici.
Alec non l’aveva mai conosciuto, ma sapeva che se lui e Izzy erano amici era perché si erano conosciuti tramite Magnus, che conosceva Raphael da tutta la vita, in pratica.
Doveva ammettere, comunque, che quell’hotel era davvero bellissimo. L’interno era bello tanto quanto l’esterno. I pavimenti erano di marmo bianco, con delle venature scure che riprendevano il colore totalmente nero del bancone della reception. Le pareti erano di un lucido legno color mogano e davano un aspetto caldo e confortevole. Un grosso lampadario di cristallo, situato al centro del soffitto, faceva si che lo spazio venisse illuminato a sufficienza, senza dare troppo fastidio agli occhi.
Se quella era la hall, Alec poteva solo immaginare come fosse il resto dell’hotel.
Isabelle suonò il campanello che stava sul bancone della reception e rimase in attesa. Da una porta, che dava su un ufficio sul retro, comparve un ragazzo dalla postura rigida. I suoi occhi scuri, tuttavia, si addolcirono un poco quando videro Isabelle.
“Ciao, Raphael!” Izzy sorrise ampiamente, mentre il ragazzo rispose a quel sorriso con uno un po’ più discreto. “Lui è mio fratello Alec!”
Alec, a quel punto, gli fece un cenno del capo e allungò un mano. Raphael la strinse e si presentò. “Piacere.” Dissero all’unisono.
Rimasero in silenzio per un po’, come se non sapessero cosa fare, o se dovessero dirsi altro, così Isabelle che era una maestra nell’evitare silenzi imbarazzanti, decise di intervenire.
“Mi fai vedere la stanza, Raphael?”
Il direttore annuì e fece cenno ad entrambi di seguirlo. Si diressero verso un ascensore che stava in fondo ad un corridoio che costeggiava la reception. Aspettarono che le porte si aprissero e poi salirono. Una volta dentro, Raphael pigiò il pulsante dell’ultimo piano.
“Ho provato a fare le empanadas, ieri sera!” disse Izzy, rivolta a Raphael, che abbozzò un sorriso. Alec, invece, rabbrividì al solo pensiero. La sera prima, Isabelle l’aveva invitato a casa sua e le aveva assaggiate, quelle piccole ingannatrici. Fagottini dall’aspetto meraviglioso che contenevano un cuore amaro di ingredienti mischiati a caso e immersi in troppo sale. Isabelle non aveva il senso della misura, in cucina, e sembrava non se ne rendesse nemmeno conto.
“E come sono venute?” domandò Raphael.
Orribilmente male, pensò Alec, ma se lo tenne per sé.
“Forse un po’ salate.” Concesse Isabelle. “Appena hai un po’ di tempo, possiamo farle insieme? Almeno mi dici dove sbaglio.”
Raphael annuì. “A patto che posso comprare io gli ingredienti.”
“Che hanno i miei che non vanno?”
“Niente, solo che conosco un posto che vende gli ingredienti migliori.”
“E io non posso sapere dov’è questo posto?” domandò Izzy, un sorrisetto le tirava le labbra.
Erano così diversi, si trovò a pensare Alec. Raphael era stoico, serioso, la postura era rigida e si guardava attorno, studiando sempre l’ambiente che lo circondava, come se avesse il sospetto di poter essere attaccato da un momento all’altro. Isabelle, invece, era sorridente e solare, sprizzava energia positiva da ogni poro. Ed era più che evidente che, in sua compagnia, Raphael tendesse a farsi contagiare un po’ dal buon umore di Izzy.
“Lo saprai quando le tue empanadas saranno perfette.”
“Mi sembra giusto. Verrò a conoscenza di uno dei segreti dello chef quando a mia volta sarò una chef?”
Raphael accennò persino una risata, un suono sommesso e discreto che durò solo pochi secondi. “Esatto. È una tradizione dei Santiago. Svelare segreti culinari solo ai più degni.”
Alec non sapeva dire se Raphael stesse scherzando o fosse serio, ma quando vide Isabelle ridere capì che era uno scherzo.
Isabelle e Raphael erano totalmente all’opposto, ma in qualche modo funzionavano.
“Siamo arrivati.” Fece notare Izzy dopo qualche istante in silenzio. Le porte dell’ascensore di aprirono e, quando uscirono, Alec notò l’assenza di luce. Si stava giusto chiedendo il motivo per cui una stanza in ristrutturazione fosse immersa nel buio, quando la luce si accese improvvisamente e delle voci si soprapposero tra di loro, mentre gridavano sorpresa!!
Alec ebbe giusto il tempo di riconoscere i suoi fratelli, Clary, Simon, Magnus e Maia, prima di sentire chiaramente di star arrossendo. Si voltò verso Isabelle, che sorrideva, al suo fianco. “Sorpresa, fratellone! Non c’è nessuna stanza da ristrutturare, solo il tuo compleanno da festeggiare!”
“Ti sei preparata la rima?”
“Sì. E non puoi fare commenti pungenti al riguardo!” Lo ammonì, prima di saltargli al collo per abbracciarlo. Alec si chinò quel tanto necessario a ricambiare l’abbraccio.
“Pensavo ti fossi arresa all’idea che non avrei festeggiato.” Le disse, una volta che si separarono.
“L’idea non è stata mia.”
Alec corrugò la fronte. “E allora di chi?”
Isabelle sorrise sorniona ed indicò Magnus che era rimasto in attesa con gli altri. L’uomo gli fece uno dei sorrisi più luminosi che Alec avesse mai visto, prima di fargli un cenno di saluto con la mano.
A quel punto Alec si avvicinò a lui, non sapendo bene cosa fare. Era un imbranato cronico in queste situazioni, soprattutto quando era al centro dell’attenzione. Così rimase davanti a Magnus, immobile come una statua di sale, senza sapere esattamente cosa dire. “Io, ehm, grazie.” Furono le parole intelligenti che il suo cervello nel panico gli suggerì. Gran bel lavoro, cervello!
Ma Magnus sorrise lo stesso e si alzò leggermente sulle punte per dargli un bacio sulla guancia. “Buon trentesimo, tesoro!”
Alec arrossì ulteriormente – anche se pensava fosse impossibile – e per un attimo, che non seppe quantificare se fosse fugace od eterno, non percepì altro che Magnus e i suoi meravigliosi occhi su di sé.



Magnus non era mai stato nella sala grande, prima di quella sera. Raphael gliel’aveva fortemente impedito e Magnus ogni volta si sentiva come Belle nell’Ala Ovest del castello della Bestia. Avere una figlia di quattro anni aveva decisamente condizionato il suo modo di pensare.
Ad ogni modo, quella sala era davvero bella. Era la più spaziosa dell’hotel, con i pavimenti di marmo rosa e venature grigie, ampie colonne che stavano ad ogni angolo della stanza e pareti in legno lucido, sulle quali rimbalzava la luce artificiale del grosso lampadario che stava al centro del soffitto. Sul fondo della sala, una parete era interamente fatta a finestra e dava su una terrazza ampia da cui si poteva vedere tutta New York – o quasi.
“Sai, ora capisco tutto questo interesse.”
Magnus, in piedi con un drink in mano, sussultò udendo quella voce alle sue spalle. Era così concentrato a guardarsi intorno e a controllare Erin – che stava giocando con Diana e Alec – che non si era reso conto che Raphael l’aveva raggiunto.
Alle spalle, come un inquietantissimo predatore.
“Non so di cosa tu stia parlando.” Affermò Magnus con convinzione, bevendo un sorso del suo Martini. C’era un piano bar, al centro della sala, gestito da un’adorabile cameriera che faceva dei drink ottimi, secondo Magnus.
Raphael roteò gli occhi al cielo. “Vuoi fartelo. Si vede lontano un miglio. Appena l’ho visto, stasera, ho capito il perché di tanto interesse a festeggiare il suo compleanno!”
Magnus, a quel punto, si voltò verso l’amico. “Primo: sei scurrile; secondo: tu e Catarina parlate di me alle mie spalle, per caso?”
“Lo facciamo solo davanti a te, perché da buon debosciato quale sei non hai una coscienza razionale e hai bisogno di noi per non fare delle stupidaggini.” Raphael lo guardò con una serietà mortale. “In ogni caso, non ho parlato con Cat di niente. Non ci vuole un genio a capire che ti interessa, comunque. Lo guardi come se altro non pensassi a come starebbe senza maglietta.”
“Divinamente bene. Ne sono convinto per un buon 80%.”
Raphael mimò un conato di vomito. “Vacci piano, d’accordo?” Guardò a sua volta Alec, che adesso era stato raggiunto da Jace. I due erano chinati all’altezza delle bambine e stavano parlando di qualcosa. “Ricordarti com’è andata con Camille, Magnus. Eri distrutto.”
“Ti stai preoccupando per me, Raphael? Mi vuoi dire che hai un cuore sotto a quella corazza di impassibilità?”
Raphael alzò gli occhi al cielo, facendo ricorso a tutta la sua pazienza. “Che Dios mi aiuti, ma sì. Mi preoccupo per te, brutto idiota. Non voglio vederti di nuovo ridotto in quel modo.”
L’espressione sul viso di Magnus si addolcì, il suo tono si fece più serio una volta percepita la preoccupazione nel tono dell’amico. “Stai tranquillo. Ci andrò piano. Per ora siamo solo amici.”
“Certo, prima vi siete guardati come se riusciste a leggere le risposte ai misteri della vita l’uno negli occhi dell’altro, ma ehi siete amici!”
“Raphi, Raphi, Raphi… adoro il tuo sarcasmo, ma adesso sei inopportuno e malfidato!”
“Non chiamarmi in quel modo.” Sibilò. “E lo dico solo per te. Se non vuoi darmi ascolto sono affari tuoi.”
“Ti darò ascolto. Rilassati, d’accordo?”
Raphael si limitò a fargli un cenno del capo, le labbra ridotte in una linea sottile e bianca. “Devo tornare di sotto. Non voglio lasciare Rosa sola alla reception per troppo tempo.”
Magnus annuì. “Ma certo, vai. E salutami la piccola Rosa!”
Raphael borbottò qualcosa riguardo al fatto che Rosa non fosse più tanto piccola e fece un cenno sbrigativo con il capo, prima di uscire dalla sala e dirigersi verso l’ascensore. Quando sparì dietro alle porte, Magnus tornò a guardare Alec. Erin e Diana avevano ripreso a rincorrersi e Alec era intento in una conversazione con Jace.
A Magnus, tuttavia, non sfuggì che ogni tanto, lanciava un’occhiata alle piccole per controllarle.
Che fosse tanto sbagliato sperare che fosse diverso da Camille?
Che fosse errato sperare di poter avere qualcosa da lui, qualcosa di speciale, di solido?
I suoi pensieri vennero interrotti dallo stesso Alec, che notandolo da solo gli fece un cenno con la mano per fare in modo che lo raggiungesse. Magnus obbedì.



Era bellissimo, pensò mentre lo osservava attraversare la sala e avvicinarsi a lui.
Quella consapevolezza non poteva più combatterla, ormai. Alec si era arreso alla bellezza di Magnus, che riusciva a stare bene anche con un colore come l’arancione addosso. Quella sera indossava pantaloni scuri, eleganti, con delle scarpe lucide; aveva una camicia nera, di un tessuto semi-trasparente (che dava una vaga idea di come fosse ben fatto il ballerino) costellata di brillantini, alla quale aveva aggiunto un papillon arancione. Tra i capelli, aveva una ciocca dello stesso colore che Alec aveva già notato quando qualche giorno prima si era presentato nel suo ambulatorio. Magnus era bello anche in arancione.
E, soprattutto, aveva pensato di fargli una festa.
Ad Alec, che era restio ai festeggiamenti per natura, ma che davanti ad un gesto così dolce e genuino non poteva far altro che sciogliersi.
Ad Alec, che conosceva da pochissimo. Un mese, ormai, ma Magnus aveva pensato a lui in ogni caso, organizzandogli una festa a sorpresa per non far passare inosservati i suoi trent’anni.
Sentì il cuore accelerare, a quella consapevolezza, e ancora di più lo sentì correre quando Magnus lo raggiunse e Alec avvertì il suo profumo, a cui si era abituato velocemente, ma del quale – aveva la certezza – non si sarebbe mai stancato. E non gli interessava granché se era un pensiero sdolcinato.
“Non penso di averti ringraziato a dovere.” Iniziò Alec. Jace li aveva lasciati soli per andare da Clary che aveva bisogno di lui per qualcosa.
“Non devi, zuccherino.”
Alec fece roteare il bicchiere con suo drink, smuovendo il liquido ambrato al suo interno come se volesse provocare un piccolo tsunami di bourbon.
“Invece sì. Izzy mi ha detto che è stata una tua idea e che li hai aiutati ad organizzare tutto. Quindi, grazie.”
Magnus sorrise e Alec istintivamente ricambiò.
“È stato un piacere.”
“E un altro grosso dito medio al tempo, scommetto.”
Magnus rise, piccole rughe si formarono intorno ai suoi occhi a mandorla. “Esatto. In attesa del mio compleanno, festeggiamo il tuo per beffeggiare il tempo.”
Alec sorrise e finì il suo drink. “Sul serio, grazie.”
“Sul serio, zuccherino, smetti di ringraziarmi. Mi ha fatto piacere.”
Alec lo guardò – ancora – ed era sicuro di avere un’espressione ebete sul viso, qualcosa che rendeva palese la sua attrazione nei confronti di quell’uomo. Una piccola parte di lui desiderò chinarsi quel tanto sufficiente ad appoggiare le proprie labbra sulle sue. Un grazie per aver pensato a me tacito, ma inequivocabile. Qualcosa che riuscisse a rendere più delle parole.
Ma qualcosa dentro di lui lo bloccò. Paura, avrebbe detto. Paura di essere respinto, di aver frainteso ogni cosa, di correre troppo. Paura di mettere di nuovo il suo cuore in mano a qualcuno – e dal momento che l’ultima volta non era andata bene, Alec reputò saggio accantonare ogni tipo di pensiero riguardo a dei possibili baci.
“Vieni un attimo con me?” domandò Magnus e Alec, uscendo dai suoi pensieri, annuì. L’uomo gli fece cenno di seguirlo e Alec lo fece. Attraversarono tutta la sala, Magnus chiese a Clary se poteva controllare un attimo Erin e quando la rossa annuì, l’uomo proseguì. Arrivarono quasi all’ascensore, alla porta sulla destra che celava il guardaroba.
“Vuoi uccidermi, Magnus?”
Magnus liquidò la cosa con un gesto incurante della mano. “Non dire idiozie, Alexander.” Aprì la porta ed entrò. Alec rimase sulla soglia mentre guardava Magnus che rovistava tra i vari cappotti per trovare il suo. Solo quando Alec lo vide sollevare una borsa a tracolla si rese conto che non stava cercando nessun cappotto. Era la borsa di Erin, Alec l’aveva riconosciuta, per cui rimase parecchio sorpreso quando Magnus gliela porse.
“Aprila.” Disse soltanto.
Alec lo guardò con un sopracciglio alzato. “Devo aprire la borsa di Erin?”
Magnus annuì solamente, quindi Alec fece come gli era stato chiesto. Si era aspettato di trovare vestiti di ricambio, nel caso in cui Erin si fosse sporcata, ma l’unica cosa che trovò fu un pacchetto, avvolto in una carta argentata e con un fiocco rosso. Alec lo fissò qualche istante – sentendosi anche un po’ uno sciocco, perché era ovvio che quello fosse un regalo, ma era così sorpreso da quel gesto che non sapeva come reagire.
Sentì il calore arrivargli alle guance prima che qualsiasi sillaba riuscisse ad uscirgli dalle labbra.
Un regalo.
Magnus non solo aveva pensato di fargli una festa, ma gli aveva fatto anche un regalo.
“Grazie.” Sussurrò, alzando lo sguardo su Magnus, che sembrava in trepida attesa.
“Aprilo, prima di ringraziarmi. Magari non ti piace.”
Alec afferrò il pacchetto dall’interno della borsa, che richiuse e porse di nuovo a Magnus. Tolse il fiocco rosso e iniziò a scartare delicatamente la carta, come se avesse voluto evitare di fare eventuali danni al contenuto. Quando anche l’ultimo frammento della confezione fu tolto, Alec aveva tra le mani una bellissima camicia. Sorrise quando notò il colore. “È blu.” Disse, piano. “Ti sei ricordato che è il mio colore preferito.”
Magnus annuì.  “Ti piace davvero?”
“Tantissimo.”
“Mi ha fatto pensare a te, quando l’ho vista, dopo che il povero Mark mi aveva mostrato tutte le camicie che aveva in negozio. Ho rischiato di farmi uccidere.” Ma ne è valsa la pena, solo perché adesso ti vedo sorridere. Pensò Magnus, ma si trattenne. Se non altro perché a Raphael sarebbe venuto un infarto se avesse saputo che si era spinto a tanto. Ed era sicuro come la morte che Raphael sarebbe venuto a saperlo. Lui vedeva tutto, sentiva tutto e sapeva tutto – come una specie di Pizia al maschile, vestita totalmente di nero (anche d’estate).  
Alec ridacchiò, le guance roventi. Sapeva benissimo di essere rosso, soprattutto perché frasi come mi ha fatto pensare a te avevano sempre un forte potere su di lui, le sue guance e la sua colonna vertebrale, che diventava automaticamente di burro. “Lo stesso Mark che esce con Izzy?”
“Proprio lui.”
Alec fece una smorfia di disappunto. “Non mi piace quel tizio. È appiccicoso.”
“Io le avevo detto che era uno sciattone e poteva avere di meglio, ma non mi ha dato ascolto!”
“Izzy fa sempre di testa sua. È incredibilmente testarda.”
“Sarà una caratteristica di famiglia, Mr. Voglio Lavare Per Forza Le Padelle.”
Alec alzò gli occhi al cielo, ma non era infastidito da quel commento, quanto piuttosto divertito. “Era necessario che lo facessi, Magnus. Non mi hai fatto fare niente, quella sera. Mi sentivo inutile.”
“Oh, tesoro, ma solo la tua statuaria presenza ha contribuito a migliorare il mio umore!”
Alec arrossì di nuovo e abbassò lo sguardo, imbarazzato. Stava pensando a come ribattere, cercando un commento appropriato, ma tutti i suoi tentativi vennero interrotti dalla voce di Isabelle, che chiamava il suo nome a gran voce dalla sala.
“Aleeeeeec!”
“Credo dovremmo tornare di là.” Affermò e Magnus annuì. Era bello, ripeté Alec a se stesso. Era gentile, premuroso e aveva pensato a lui nel modo più genuino che potesse esistere. Aveva fatto dei gesti per lui solo perché voleva farli e non perché si aspettasse qualcosa in cambio. Era stato spontaneo, e la spontaneità aveva sempre avuto il potere di colpire Alec nel modo più positivo che potesse esistere. E sebbene il suo compleanno fosse passato da un mese, e lui era ancora pieno di paure riguardo all’avvicinarsi ad un altro uomo, quella sera volle comunque fare un piccolo regalo a se stesso.
Prima di avviarsi di nuovo verso la sala, si chinò verso Magnus e gli lasciò un bacio sulla guancia.
Non esattamente il gesto che avrebbe voluto compiere, ma sempre qualcosa che poteva aiutarlo a far capire a Magnus quanto apprezzava tutto quello che aveva fatto per lui.


Se c’era una cosa che Alec detestava era stare al centro dell’attenzione.
Più di questo, odiava sentirsi cantare tanti auguri a te a squarciagola. Ancora di più non gli piaceva rimanere in attesa della fine della canzone per dover spegnere le candeline su una torta che lo raffigurava a dieci anni, con l’apparecchio ai denti, i capelli sugli occhi e un’orrenda salopette a costine marrone con i bottoni verdi.
Sotto alla foto, scritto con la glassa azzurra, svettava a caratteri cubitali un vendetta! con tanto di punto esclamativo. Alec era sicuro che l’unico miscredente in grado di rovinare una sacher fosse Jace – in più, non ci voleva un genio a capire che quel messaggio fosse riferito a quella volta che Alec si era sgraffignato l’ultimo pezzo di pizza. Conosceva troppo bene suo fratello e sapeva che una delle cose che accendevano il suo senso vendicativo era il cibo.
Alec si coprì il viso con una mano, mentre il vociare aumentava sempre di più. Era sicuro che il suo viso stesse andando a fuoco ed era più che consapevole che Max stesse riprendendo tutta la scena con il cellulare.
Quando la canzoncina finì, Alec soffiò sulle candeline, provocando una serie di applausi. Quello che faceva più casino era Jace, così come fu il primo ad inglobarlo in un abbraccio.
“Hai rovinato una sacher!” gli sussurrò Alec all’orecchio, mentre ricambiava l’abbraccio. Jace rise forte, tanto che Alec riuscì a percepire le vibrazioni della sua cassa toracica contro di sé.
“Ho attuato una vendetta perfetta! Buon non-compleanno, fratello!” Jace sciolse l’abbraccio e gli prese il viso tra le mani, stringendogli le guance. Alec lo scacciò via e Jace rise. A turno, Isabelle e Max abbracciarono Alec a loro volta. Poi ci furono Simon e Maia e infine Clary e Diana. La piccolina passò dalle braccia della madre a quelle dello zio e schioccò un bacetto sulla guancia di Alec, che sorrise ampiamente, scordandosi immediatamente il disagio provocato da tutta quell’attenzione rivolta a lui. “Buon compleanno, zio Alec!”
“Grazie, D.”
La bambina rimase in braccio allo zio e mentre Jace si affrettava per occuparsi del taglio della torta – monitorato da Clary, che temeva il fidanzato rovinasse tutto – Magnus, con Erin in braccio, si avvicinò ad Alec.
“Per quel che vale, eri un bambino adorabile.”
Alec scosse la testa. “Non è vero, ma grazie per il tentativo.”
“Non dico mai le cose giusto per dirle, Alexander. Dico solo quello che penso. Eri un bambino adorabile.”
Alec arrossì e non disse niente. Non sapeva come rispondere ai complimenti. A volte – per non dire sempre – invidiava la capacità che aveva Isabelle di saperli gestire. Alec aveva l’impressione che sua sorella sapesse farlo così bene perché, in realtà, i ragazzi le dicevano cose che lei sapeva già. Sapeva di essere bella.
Alec, invece, non aveva mai speso troppo tempo a guardare se stesso. Non gli piaceva farlo. Per cui quando capitava che qualcuno lo facesse al posto suo, lui non sapeva mai come reagire.
“E sei un uomo adorabile. E mi fermo a questo, perché ci sono due paia di orecchie innocenti e non voglio scandalizzarle.”
Alec si strozzò con la sua stessa saliva, le guance che presero colore per la centesima volta, quella sera. “La tua assenza di freni è spiazzante, Magnus.” Ammise, perché non sapeva come altro rispondere se non con la verità.
Magnus accennò un sorriso. “Forse lo faccio di proposito. Magari mi piace vederti arrossire.”
“Sei così sadico?”
“No. Come ho detto: sei adorabile – e quando arrossisci lo sei anche di più.”
Alec si chiese, mentre sentiva il viso andare in fiamme, se fosse normale che si sentisse attratto anche dalla voce di Magnus. Si sentiva come un marinaio che viene attratto dal canto di una sirena - o un sireno, anche se Alec non era sicuro esistesse il termine, ma chi se ne importa? Il suo cervello era partito per una dimensione dove la razionalità o la grammatica non esistevano. Una dimensione dove la voce di Magnus, morbida come il velluto, risuonava indisturbata – come se fosse l’unico suono esistente.
Ed Alec, in quel preciso istante, un po’ i marinai che si gettavano dalle barche per raggiungere il canto delle sirene li capiva.
Che venga pure la morte, se l’ultimo suono udito è qualcosa di così meraviglioso.
“Ehm, ragazzi?” La voce titubante di Simon frantumò i pensieri di Alec. “Non sono sicuro se interrompo qualcosa o meno. Vi stavate fissando, senza dire nulla. Interrompo qualcosa? Una conversazione telepatica, un gioco del silenzio, o magari una gara a chi sbatte prima le ciglia? O a chi ride per primo?”
Simon parlava. Troppo. E quando era in imbarazzo diceva fesserie senza senso.
Alec lasciò la figura di Magnus per concentrarsi su di lui. “Che c’è, Simon?”
“Izzy vuole fare un brindisi.”
“Va bene, arriviamo.”
Simon annuì e si diresse di nuovo da Isabelle, che stava versando lo champagne nei flûte. Magnus e Alec lo seguirono. Le bambine – rimaste in silenzio fino a quel momento, senza capire cosa stava avvenendo tra i due adulti (i grandi sono strani) – chiesero se potevano scendere per giocare un po’. I due uomini annuirono e posarono le bambine a terra, che presero immediatamente a rincorrersi. Non dissero niente, rimasero semplicemente uno di fianco all’altro. Le loro braccia che si sfioravano appena. La mente di Alec affollata di pensieri. Tra i tanti, la consapevolezza che quel compleanno gli aveva fatto rivalutare le feste a sorpresa e l’impressione che avrebbe ricordato i suoi trent’anni nel più piacevole dei modi.




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Ciao a tutti e ben ritrovati! Con un po’ di ritardo causa mancanza tempo – e ispirazione. Questo capitolo è stato tipo un parto e alcuni pezzi ancora non mi convincono. Primo tra tutti: il compleanno di Alec. L’ho immaginato così tante volte e in modi così diversi, ma poi quando mi ritrovavo a scriverlo le idee venivano a mancare e ciò che scrivevo mi sembrava fiacco e un tantino noioso. Alla fine, ho pensato di gestirlo così – in quella che a me sembra semplicità, se invece a voi ha fatto schifo ditemelo. Nel modo più diretto possibile.
Senza contare che ho realizzato che scrivere una slow-burn è più difficile di quanto pensassi perché durante questo capitolo sono stata tentata di far baciare Alec e Magnus almeno dieci volte. Ma, se lo facessi, l’idea iniziale di questa storia andrebbe a farsi friggere, mandando a monte anche l’intera trama, che per quanto sia semplice in generale, mi serve comunque da linea guida.
Queste note sono più inutili della data di scadenza sulla nutella e vi chiedo scusa.
Passando alla parte un po’ più seria del capitolo: si parla di ciò che ha avuto Max ed essendo un argomento delicato, spero di averlo gestito in modo abbastanza rispettoso, se non altro perché sono cose che generano sofferenza vera e lungi da me il voler banalizzare una malattia così. Ad ogni modo, Alec ne riparlerà con Magnus.
Venendo ad Aldertree… cosa c’entra, direte voi? Compare tipo per tre secondi e basta. Non penso tornerà ed in effetti potrebbe sembrare anche una scena inutile, ma nella 2x09 quando Alec gli dice di non minacciare più la sua famiglia mi piace troppo e quindi volevo un po’ riprendere quella scena.
Credo di aver detto tutto, se vi va fatemi sapere cosa ne pensate. Ringrazio chiunque legga, abbia messo tra le seguite/preferite/ricordate e chi trova il tempo per recensire questa storia. Mi fa un immenso piacere, quindi grazie!
Un abbraccio, alla prossima! <3

 
   
 
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