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Autore: Malefix    01/02/2019    2 recensioni
In armeria hanno provato a convincerlo di accettare un’arma simile alla sua, ma non terrà più in mano una freccia nella sua vita. Ormai ha deciso.
Le sue battaglie sono finite quel giorno, in quel magazzino.
***
Alec ha lasciato New York, il suo senso di colpa lo stava consumando. Lo sta consumando.
Magnus viene a salvare la situazione.
[Angst con Happy Ending]
Genere: Angst, Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Alec Lightwood, Magnus Bane
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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Ciao! Visto che da un po' stavo pensando di pubblicare qualcos'altro, ho pensato di condividere con voi uno dei miei ultimi works, che ho provveduto a tradurre. Il link al lavoro originale lo troverete in fondo al capitolo. Il titolo è inspirato - poiché io sono la solita pippa coi titoli - da una canzone davvero bella degli Of Monsters and Men "Winter Sound" appunto, che secondo me suona bene con questa storia...
Spero vi piaccia, ci vediamo alle note in fondo alla pagina :D















efp

Winter Sound

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Credeva di aver conosciuto il freddo, nella sua letterale definizione, a New York in quell’inverno impossibile in cui i termometri fuori Manhattan segnavano -16 °C, in quelle notti in cui aveva dovuto fare le ronde a cercare demoni, e viene fuori che anche per i demoni faceva troppo freddo. Un freddo della carne, della pelle, quello che si attacca con forza ai vestiti e non se ne va via neanche con un bagno caldo.

Il freddo che l’ha accolto a Idris è ben peggiore. Stretta tra le cime innevate, un vento gelido che sferza lungo il corso del fiume e che spacca in due il bosco quando arriva al lago. La neve arriva alle sue ginocchia e anche con tutte le rune del calore attivate possibili, il freddo, quello vero è una combinazione di fattori. Non è solo del corpo, della carne, della pelle, ma è anche nel suo cuore.

I messaggi di fuoco hanno smesso di arrivare. Avevano cominciato qualche giorno dopo il suo arrivo, quando la sua assenza è diventata lampante, ma lui li ha ignorati tassonomicamente. E anche se sua sorella è cocciuta, tenace, e ha perseguito la sua causa, il tentativo di farlo tornare a New York, per giorni ininterrottamente, ha smesso dopo tre settimane intere. L’ultimo messaggio risale a due settimane fa e gli chiedeva di non sparire come lo zio Max.

Buffo che abbia nominato suo zio, in quella sua ultima lettera. Buffo perché ora la casa di Alec è stata la roccaforte dello zio Max per una manciata di giorni prima che decidesse di lasciare il mondo delle ombre e sparire. Buffo, perché anche lui è in esilio volontario, ma invece di lasciare Alicante ha deciso di andare a vivere lì. Anche lui è sparito dai radar, per quanto sia lì, in piena vista.

La casa è piccola, oltre la piana di Brocelind, immersa nella fitta vegetazione della foresta, vicino al versante di una montagna. C’è un piccolo corso d’acqua che ci passa vicino, che scivola a una manciata di metri dalla piccola baita, e si getta dopo un tortuoso ma breve corso nel lago. C’è di buono che il bosco, così fitto, non permette alla neve di sedimentare oltre una decina di centimetri, e quindi la strada, un po’ aspra per arrivare a casa, non è poi così pericolosa.

La casa è piccola, sì, una specie di cabina da caccia, uno stanzotto al pian terreno con un grosso focolare e un angolo cottura, un bagno e una piccola scala a otto gradini che porta al soppalco dove è piazzato un materasso malconcio, un po’ vecchio e bitorzoluto. Certo, non è accogliente come l’appartamento che ha lasciato alle sue spalle a New York, insieme alla sua vecchia vita, ma certamente è più accogliente della sua stanza all’Istituto.

La strada per arrivare alla foresta però, è lunga da Alicante. Va attraversata tutta la piana che raccoglie il vento ghiacciato dalle montagne che circondano e proteggono Idris, e la spirale altrettanto gelida di aria che viene dal lago e dal fiume.

I pugnali tintinnano contro il suo gear, mentre trascina dietro di sé quella specie di slittino che ha trovato nella baita, su cui ha sistemato un po’ di legna e delle provviste per i prossimi giorni, le temperature scenderanno ancora di più, meglio rimanere in casa. Usa il suo brandistock come un bastone da passeggio, per aiutarsi ad attraversare la piana. Non è certo la sua arma prediletta, ma asservisce al suo compito. L’arco è rimasto a New York, insieme alle sue frecce e a tutta la sua vita.

In armeria hanno provato a convincerlo di accettare un’arma simile alla sua, ma non terrà più in mano una freccia nella sua vita. Ormai ha deciso.

Le sue battaglie sono finite quel giorno, in quel magazzino.

Ciò di cui si occupa adesso è burocrazia, i pugnali e il bastone servono solo a fare scena, a tenersi pronto semmai gli daranno un incarico improvviso.

Anche prima non era un grande assassino di demoni, il primo demone l’ha ammazzato all’inizio della Dark War, può vivere benissimo anche senza ammazzarne ancora.

Le sue battaglie sono finite quando Magnus si stava dissanguando nel magazzino. Tutto è finito in quel momento.

E ogni volta, ogni volta che rimane solo a casa, in quella casa che era di suo zio e in cui lui vive un esilio così simile eppure completamente diverso, quel giorno gli crolla addosso ogni volta. I ricordi sfocati, ma le sensazioni pressanti sulla sua pelle, nel suo cuore ghiacciato.

Non ricorda come è cominciata, ricorda solo come è finita.

Il fantasma della sua colpa ha le fattezze di Magnus, che lo osserva nella periferia del suo campo visivo. E forse sta perdendo il senno.

I messaggi di fuoco di Isabelle hanno cercato di farlo ritornare indietro. Ogni tanto gli parlava di Magnus in quelle brevi righe.

Magnus, che è vivo.

Magnus, che lo aspetta.

Magnus, che ancora non lo odia.

Magnus, che si dissanguava in quel magazzino.

Magnus, che aveva le sue frecce nel petto.

Magnus, che gli ha detto che andava tutto bene.

Magnus, che ancora non lo odia.

Perché non lo odia?

Ha ordinato a Jace di farli sparire, il suo arco e le sue frecce. Insieme alle cose che ha tirato via dall’appartamento e che non poteva portarsi appresso, qualcosa l’ha portato con sé, ma è poca roba, solo per rendere più accogliente quella casa. Nessuno deve trovarlo. Solo Jace, della sua vecchia vita, ha una vaga idea di dove si trova grazie al legame parabatai. E ha coperto di rune la casa di suo zio per non farsi trovare da nessun altro. L’unica che forse ha più aggiornamenti sulla sua esistenza è sua madre, a cui scrive regolarmente una volta ogni due settimane e che si tiene aggiornata nei suoi progressi per diventare un membro del consiglio.

Burocrazia. Ecco a cosa si è ridotta la sua vita. Burocrazia e tagliare la legna per il camino.

Certo, forse è la vita che i suoi genitori avrebbero voluto per lui, ma non gli dà poi tante soddisfazioni. E va bene così. Combattere per i diritti dei Nascosti anche senza più avere nulla a che fare con nessuno di loro, gli va bene.

E invecchierà e avvizzirà e Magnus a un certo punto comincerà a odiarlo, per essere sparito dalla sua vita, per avergli spezzato il cuore, per averlo quasi ammazzato.

Perché per poco in quel magazzino non l’ammazzava.

E quando sparirà non ne soffrirà poi così tanto.

Quella sera, quella sera dovevano parlare di qualcosa. Ma poi è successo, poi per poco non l’ha ucciso.

La confusione che regna nel suo cuore, nella sua testa è sempre lì da quel giorno. Tamburella insistentemente nelle sue tempie, contro la scatola cranica. Rimbomba nel silenzio di quell’inverno. E il freddo gli attanaglia il cuore, gli gela le mani. Il letto è freddo e vuoto.

La notte, perché è la notte il momento peggiore, perché in quel momento è più solo e vulnerabile, gli manca il respiro.

La scena, la scena se la ricorda perfettamente. Anche se la confusione aveva il sopravvento sui suoi sensi anche in quel momento, perché aveva battuto la testa e non riusciva a reggersi in piedi. Perché non si ricorda quando è cominciato, come è cominciato, ma certamente il risultato di quell’attacco gli resterà impresso nella memoria fino al suo ultimo respiro.

Di solito, prima che quella scena gli si pari davanti agli occhi lo vede più chiaramente Magnus, affacciarsi nel suo campo visivo, il fantasma della sua colpa. Si affaccia pallido, quasi irriconoscibile, e lo guarda con quell’aria algida, altèra. Muove le labbra e non ci vuole molto a capire cosa gli stia dicendo. Perché anche se quelle parole non le ha mai dette, Magnus, sono quelle che lui vuole sentirsi dire. Sparisci. Sparisci.

E questo gli fa protrarre il suo esilio volontario, questo è ciò per cui è lì, per cui ha scelto di sparire.

Sente il pizzicore delle rune che gli bruciano la pelle, come quel giorno, sente l’odore di umidità, icore, sangue, sudore che riempiva quel labirinto di cunicoli che l’hanno portato lì in quel magazzino abbandonato. Sente ancora la voce di Jace vibrargli nel petto, stentorea. Non ti agitare, non ti agitare. È diventato un mantra, quando il respiro gli si spezza in gola e diventa più palpabile il vuoto, la follia, la rabbia.

Si ricorda di averlo chiamato, di averlo cercato subito, appena ha avuto più proprietà sul suo corpo. Ripete il movimento, la testa che si muove a cercare qualcosa oltre le spalle di Jace. E lui, Jace, che gli ripete pianissimo di stare calmo, di non agitarsi. Simon sta chiamando Catarina. Gli dice. Ci sono Isabelle e Clary con lui.

Ed è tutto confuso, come quel giorno, forse non sente di nuovo proprio tutto tutto il suo corpo, nella sua interezza neanche adesso, come allora. Ma si era accorto subito, allora, che non necessitava un guaritore, e gli bastava la magia di Magnus.

Magnus. Che era con loro e non doveva esserci.

L’ha chiamato di nuovo, e forse lo chiama ogni notte con la voce che trema eppure impera al suo corpo di cercarlo, alla sua testa di fare chiarezza.

E oltre le spalle di Jace, ogni notte, come quella notte, vede le suole rosse delle scarpe di Magnus, al limitare di quei pantaloni attillati neri, le gambe larghe abbandonate a terra in una posizione vagamente innaturale. E poi mette a fuoco Clary e Isabelle che si muovono freneticamente intorno a lui.

La scena è bruciata nelle volute cerebrali, le sinapsi che fanno contatto e lo rimandano indietro, a quel magazzino buio. Lo spettro della sua colpa che lo osserva, lo giudica gelido.

Isabelle e Clary sono con lui. Che cretino, pensava stessero con Simon. Con lui, con Magnus. E questa realizzazione gli arriva ogni volta come uno schiaffo in faccia, come un pugno nello stomaco. E ogni volta si stupisce di come Jace sia stato delicato, di come abbia cercato di non faro agitare non dicendo il suo nome.

Ecco a cosa serviva Catarina. Non era lui a necessitare un guaritore ma-

E si sente muovere, anche se è immobile nel letto e guarda il soffitto, si sente muovere come in quel magazzino, cerca di alzarsi e si sente frenare da Jace che non vuole proprio collaborare. E Alec ringhia, ringhia ogni notte qualcosa, ma non ricorda proprio cosa.

E come quella notte la testa gli gira e le ginocchia tremano, e fortuna che è su quel materasso bitorzoluto, perché sennò si troverebbe faccia in avanti, come in quel magazzino, a trascinarsi bocconi fino a Magnus. Che ha bisogno di lui, che magari non è così grave. E magari ha solo bisogno della sua forza

E cerca di ignorare lo schiaffo di nostalgia che gli rammenta che quella notte, loro due erano a cena insieme, e ridevano e Magnus faceva allusioni e gli raccontava avvenimenti forse mai accaduti solo per farlo ridere.

Ridere.

Da quant’è che non ride? Certo Alec non è proprio la definizione di un tipo ridacchione, ma con Magnus aveva imparato ad allentare la presa. Ha perso anche questa abitudine.

Hai battuto la testa, dovresti davvero- continua a dire l’eco della voce di Jace che gli vibra nel petto ogni notte.

Ma lui ripete il suo nome, e forse ha detto dell’altro di davvero somigliante a “devo stare con lui devo andare da lui”, ma le parole sono uscite tutte arricciate sulla sua lingua, impastate da quella confusione che aveva in testa.

E poi si ricorda di essersi alzato, lui che torreggia nella sua altezza oltre il suo parabatai che lo trattiene, sopra le due giovani donne. E si ricorda di aver scostato Jace senza troppi complimenti. E forse dovrebbe chiedergli scusa, ci pensa ogni volta.

Poi il suo respiro si spezza in fondo alla gola, ogni notte, come quella volta. Perché lo vede, ed è come lo spettro della sua colpa, quello che gli ripete di sparire.

Ci ha messo un istante per metterlo a fuoco, e quel lasso di tempo rimane impresso nei suoi ricordi. Non somiglia per niente al suo Magnus. Favoloso. Colorato. Allegro. È un cerchio di pallore quasi lunare il suo viso, le labbra sono macchiate di sangue, gli incavi sotto gli occhi sono lividi. No. Non è lui.

È irreale. È qualcos’altro. E tutto così diverso che tutto il suo corpo trema. Trema ogni volta.

Era così concentrato a guardarlo, a cercare di ricordare come fosse in origine, mentre quella enorme differenza gli si bruciava nella memoria, a fissare quelle spalle tremare e la sua bocca rantolare con questo suono sordo alla ricerca di aria, che neanche si è accorto subito del sangue.

Il sangue era dappertutto. È dappertutto. Su di lui. Intorno a lui. Sulla parete alle sue spalle. A terra. La sua camicia è diventata nera, la seta appiccicata al suo petto. Se Alec guardasse le sue mani, adesso, lo vedrebbe ancora, il suo sangue, nei letti sotto le sue unghie, incrostato sulle sue dita, nei piccoli tagli che hanno lasciato minuscole cicatrici sui suoi polpastrelli.

E non li ha visti subito, o forse il suo cervello ha negato l’evidenza, si è rifiutato di vederli. Ma c’erano, erano lì, i due fusti neri spezzati delle sue frecce, l’inconfondibile impennaggio rosso. Le metà con l’impennaggio sono a terra, abbandonate nel sangue, vicino alla punta dei suoi scarponi.

E ogni volta il respiro gli sparisce in gola, in un’apnea dolorosa e assurda. La realizzazione gli pesa sul petto. Il suo cuore è stato il primo a cedere.

Perché il resto delle frecce, la parte mortale delle sue armi, le punte fatte appositamente per attraversare la carne, per arrecare il maggior danno possibile con quell’adamas tagliato e incurvato da renderne l’estrazione ancora più tortuosa, dolorosa e letale, sbucava dal suo petto. Sbuca dal petto di quello spettro che lo osserva, col suo pallore cadaverico e gli ripete di sparire.

Che ho fatto? chiede la sua testa e forse ogni volta lo ripete a voce alta. Che cosa ho fatto?

Nessuno ha mai risposto a queste domande. E forse è stato un bene. Anche se non necessitava risposte, perché lo sa, e lo sapeva in quel momento, che era stato lui a scoccare quelle frecce, a mirare al suo petto.

È il caos. Fuori e dentro di lui.

È sicuro che l’unica cosa che sentirà chiaramente per il resto della sua vita è il rumore sordo che esce dalla bocca di Magnus, in quel silenzio impossibile che li circondava in quel momento.  

Stai bene? la voce è rauca, impossibile, stanca, sconosciuta.

E ogni volta è un tuffo al cuore, un nodo alla gola. E abbassa lo sguardo e li vede, i suoi occhi, lucidi, semiaperti e stanchi.

Ti ho fatto male? gli chiede ancora.

E se non l’avesse vista la sua bocca, le sue labbra screpolate che scoprono appena, nel loro movimento i denti insanguinati, giurerebbe di essersi sognato tutto.

È tutto impresso nella sua mente. A fuoco come un marchio sul bestiame.

Non ha avuto il coraggio di rispondere, e non si ricorda niente dopo. È tutto così confuso. Magari gli ha detto qualcosa, magari gli ha fatto una mezza battuta con la voce strozzata in gola rispetto alle sue priorità perché non era Alec che stava lì a terra a dissanguarsi, a soffocare nel suo stesso sangue.

E non dorme.

No, non riesce a dormire. Perché era così abituato al calore che Magnus sprigiona, al profumo dei suoi capelli, della sua pelle; allo scintillio frizzante della sua magia sotto la pelle, al suo respiro tiepido contro il collo, che è passato troppo poco tempo. E può continuare ad andare avanti a rune del vigore ancora un po’.

E comunque non dormirebbe. Perché i ricordi gli bruciano i lobi frontali e si annidano in fondo ai suoi lobi occipitali. Gli bruciano le scissure, le fessure e i ventricoli cerebrali. Ogni notte, ogni notte non riesce a smettere di guardare nel pozzo buio dei suoi ricordi, quella terribile scena.

Si ricorda l’attesa, trepidante di sentire qualche notizia, di vedere Catarina o uno dei Fratelli Silenti riemergere dall’infermeria. Ogni volta, sentire che è vivo, gli dà sollievo un solo istante, perché il veleno che Alec ha scelto per impregnare le sue frecce, come se l’adamas non bastasse a fare danni nel demone che stavano cercando, sta rapidamente divorando la magia, la poca magia che gli è rimasta, che guarirà, ma forse non sarà mai come prima. Non sarà mai come prima.

E forse la sua decisione l’ha presa in quel momento. Il suo esilio ha assunto connotati certi in quell’istante, quando gli occhi di Catarina l’hanno guardato, scrutando nella sua anima.

Quel poco che restava della notte l’ha passato rinchiuso nella stanza di Jace, che strimpellava al pianoforte qualche cosa di molto simile a una ninnananna.

E quando finalmente Jace si è messo a letto, Alec ha vagato per i corridoi dell’Istituto. Fino ad arrivare all’Infermeria per vederlo, sapeva già sarebbe stata l’ultima volta. E prima di entrare ha sentito Catarina che parlava con sua sorella del demone, della possessione e dei danni residui che quell’attacco avrebbe avuto su Alec, della possibilità che neanche lui sarebbe tornato normale, libero da quel demone. Della magia di Magnus che ormai non era che una fiammella che andava spegnendosi.

E poi è entrato. È passato vicino a tutte quelle lettighe vuote. E poi l’ha visto. Lui, pallido, livido abbandonato in quel letto. Le vene gonfie e bluastre al di sotto della pelle quasi trasparente sul dorso delle mani ghiacciate e immobili. L’odore di sangue e sudore che copriva quello di sandalo.

Si è chinato a sfiorargli le labbra un’ultima volta in un addio silenzioso.

E non se lo dimenticherà mai più.

Forse è stato quello il momento in cui ha scelto. Ha scelto di sparire. Di spezzargli il cuore nella speranza di farsi odiare.

Quel demone che si è impossessato di lui, ne sente ancora gli effetti, a distanza di tutte quelle settimane, sente ancora la polvere che gli attraversa i tendini e le ossa. Sente ancora il fragore incessante di quella rabbia, che l’ha portato a colpire l’amore della sua vita.

L’amore della sua vita.

Alla fine, è un bene che i Nephilim amino una volta sola.

Il cuore si spezza una volta sola.

Una volta per tutte.

 

 

La neve gli arriva al ginocchio. E forse è perché sta andando avanti a forza di rune del vigore che l’effetto delle rune del calore sparisce più rapidamente. È stanco, e lo slittino che trascina alle sue spalle arranca dietro di lui e lo rallenta. Le rune impresse nel brandistock sono contornate da fiocchi di neve. Ha ripreso a nevicare mentre era a metà strada, il sole è pallido dietro le nuvole bianche.

La foresta è silenziosa, l’odore dei tronchi degli alti alberi sempreverdi e l’umidità del sottobosco di licheni gli dà uno strano senso di appartenenza. Come se ormai fosse connaturata in lui, la sua nuova esistenza. Il bastone che gli apre la strada, i pugnali che tintinnano ai suoi fianchi, la legna e le sue provviste sullo slittino che scivola dietro di lui.

La casa è sperduta. Forse neanche Jace ha chiaramente idea di dove si trovi con precisione. Oltre ad essere a Idris, dove la tracciatura è più ardua, è vicino a due corsi d’acqua, è coperta di rune e anche lui ha sempre la runa deflect attivata.

Per cui il terreno gli manca sotto i piedi quando arriva al limitare della foresta, a pochi passi dai tre scalini di legno che portano all’ingresso e vede qualcuno, seduto sull’ultimo scalino, quello più vicino alla porta i capelli sono un po’ opachi e coperti di neve. I vestiti forse sono troppo leggeri per quella stagione e la sciarpa gli copre quasi del tutto il viso. Ma quando quel qualcuno alza lo sguardo, riconosce quegli occhi immediatamente. Li riconoscerebbe ovunque. E gli sono mancati da morire.

Forse è solo lo spettro della sua colpa. Il fantasma che vive con lui da settimane e che lo giudica silenziosamente e muove le labbra e l’invita a sparire.

Ma quegli occhi non sono pugnali, non sono arcigni, arrabbiati sembrano allargarsi le sue pupille quando le posa su di lui.

Non dice niente, neanche si muove, sta ancora lì rannicchiato col viso nascosto nella sciarpa. I capelli neri come le ali dei corvi sembrano le cime innevate delle montagne che circondano Idris.

E Alec pondera l’idea di sparire. Di nuovo. Di seguire quello che la voce del fantasma della sua colpa continua a ripetere. Sparisci. Sparisci.

E le sue ginocchia tremano, e forse è la deprivazione del sonno, forse è la stanchezza, forse sono le rune che ormai hanno bruciato del tutto il loro effetto. E forse è tutto nella sua testa.

O forse è il suo cuore che cede ancora una volta, per primo. Cuore traditore.

Lì. Seduto davanti la porta di casa sua, c’è Magnus. Ed è lì da tempo visto ha un certo quantitativo di neve addosso e non ci sono orme intorno alla casa e sugli scalini ha raggiunto un paio di dita di spessore.

Perché ancora non lo odia?

Decide allora di muovere un passo e poi un altro e un altro ancora. Finché non raggiunge le scale e non le sale. Cercando di ignorare quella presenza, quella specie di fantasma che solitamente aleggia in quell’angolo del suo campo visivo.

I passi sono pesanti, come nel tentativo di coprire il rumore del suo cuore che si spezza un po’ di più.

Perché quello non è un fantasma, e non può fare a meno di sentire il suo cuore in frantumi tamburellargli nel petto con una stancante irriverenza, come se fosse tutto normale, come se quella notte in quel magazzino non fosse mai accaduta. Perché è uno spiraglio di speranza, quello che ora ulula nei suoni dell’inverno, è la possibilità di tornare a essere come prima, con lui, a casa. Felice.

Magnus è a neanche due palmi di distanza da lui e sembra assorto nel bosco, nei rami che si muovono nel vento, nella neve che continua a cadere e ormai sta riempiendo le orme che Alec ha lasciato, la scia dello slittino.

Alec cerca di comportarsi come sempre. A testa bassa. Apre la porta e comincia a scaricare la legna all’entrata, nel baule tra la porta d’ingresso a vetri da cui scorge che il caminetto è fortunatamente ancora acceso e la porta di legno massiccio che tiene fuori il freddo e dà sul bosco. Si muove meccanicamente anche a riporre le provviste sopra il baule, e Magnus ancora non lo guarda, gli occhi fissi sulla foresta che mormora nel vento. Sta facendo buio, fa sempre buio in fretta tra le montagne.

Forse Alec lo guarda, un’ultima volta prima di riporre lo slittino fuori dalla porta. E forse neanche si accorge di dirle quelle parole. “Dovresti andare a New York. Tornare a casa”.

C’è ancora silenzio. Un silenzio soffocante, scandito dal vento. Forse non le ha dette davvero quelle parole, forse sono rimaste incagliate nel nodo che gli si è stretto in gola.

Magnus sospira, rumorosamente, l’aria che sembra graffiargli il palato quando esce. Scrolla le spalle e un po’ di neve scivola dal suo cappotto, dai suoi capelli. “Io sono a casa” risponde, e il tono è tranquillo, senza alcun’inflessione che faccia pensare a rabbia, a sconcerto, a dolore.

Sembra stia semplicemente costatando un fatto.

E la testa di Alec gira, improvvisamente. È un capogiro impossibile, perché sta immobile, eppure eccolo qua. È un senso di vuoto, la terra che gli manca sotto i piedi. È la consapevolezza di averlo ferito, di averlo abbandonato, eppure di non essere riuscito a farsi odiare.

“Casa mia è dove sei tu. Non amo la vita tra le montagne, ma posso abituarmi se ci sei tu. E poi magari ci viene d’aiuto essere così isolati, così posso farti gridare di piacere senza neanche bisogno di incantesimi insonorizzanti…” aggiunge, senza neanche guardarlo, dal tono sembra divertito.

Il respiro gli si rompe nel petto. Gli occhi gli bruciano dannatamente. Scuote la testa, anche se Magnus è rivolto verso il bosco e non può vederlo. “Non posso più darti niente, Magnus” dice poi. Ed è vero, lui l’amerà sempre ma non può dimenticare quello che è successo. Non può dimenticare che per poco non l’ha ammazzato. Che quel demone si è preso il suo corpo e ha scoccato due frecce contro di lui. Due frecce fatte per annientare quelli come lui, per di più imbevute di un veleno in grado di fagocitare la magia demoniaca. Non gli può dare niente se non pericoli e dolore. Perché anche se avranno una vita lunga e felice, un giorno Alec sparirà, sparirà dalla sua vita e diventerà polvere, e sarà solo un altro doloroso ricordo nell’eternità di Magnus.

Magnus si alza, reggendosi al corrimano sgangherato della scala. Sembra un gesto doloroso, faticoso non troppo fluido. Gli esce fuori un suono strozzato. Si scuote la neve dalle spalle e scende gli scalini. Lo guarda, di taglio, senza voltarsi del tutto. “Non devi darmi niente” risponde. “Non sono qui per questo, sono qui per riportare te a casa”.

Alec sospira, le dita che tremano sulla maniglia della porta a vetri. Le ginocchia sono diventate di burro. “Potevi morire.” dice, e la sua voce soffoca nell’ululato di quel vento invernale.

“Beh, non è successo” risponde, quella di Magnus invece è una voce leggera e melodiosa, vellutata.

E il cuore di Alec fa quel salto, quel salto che fa male e gli toglie il respiro. “Potevo ucciderti” aggiunge, il nodo alla gola che minaccia di trattenere tutte le sue parole.

Magnus sta in silenzio. Guarda di nuovo il bosco le spalle dritte. “È stato un demone. Non tu” replica.

“Ma si è impossessato di me” ribadisce Alec. “Possibile che tu non capisca… sono un-”.

“Non osare.” sibila e si volta, forse lo sta guardando con ferocia, o forse è solo stanco. Forse è solo stanco anche lui.

“Sono un debole” dice, cocciuto. “Sono un debole, lo capisci?”.

“No.” dice, semplicemente e torna a volgergli le spalle. “Non lo sei affatto” aggiunge. “Ti ho visto in battaglia, Alec. Eravamo talmente vicini che non avresti mancato il mio cuore, la mia gola. Sei riuscito a governare il tuo corpo impossessato da un demone. Questo non lo sanno fare tutti. Sei riuscito ad evitare che mi uccidesse”.

No, sta mentendo. Non è possibile. Gli dice quella parte di lui, quella che gli ripete sempre quanto è debole. Sei un debole. “Ma…” comincia a dire, ma Magnus si volta del tutto, stavolta, e lo guarda.

Gli occhi sono i suoi occhi, le pupille da gatto vibrano per un momento su Alec. Sono gentili, non sembra arrabbiato. “Il demone si è sentito minacciato, per questo ha preso possesso del tuo corpo, per eliminare due minacce in un colpo solo. Sapeva che non avrei fatto niente per farti del male… sbagliava, visto che ti ho scagliato contro un muro quando mi hai colpito…” continua lui gli occhi si fanno più severi. “Non puoi ricordarlo, ma per un momento, per un solo momento, prima di scoccare le frecce tu hai ripreso il controllo del tuo corpo. Avrebbero potuto colpirmi al cuore. Ma non è successo perché tu le hai deviate. Quel tanto che bastava per non colpire nulla di vitale”.

Alec sbuffa. E le parole che gli risuonano nella testa raggiungono la sua bocca. “Menti”.

“No. È andata così davvero. Non lasciarti logorare dal senso di colpa. Ascoltami,” sussurra e Alec potrebbe giurare di vederlo sorridere dietro alla sciarpa. “Ti ho perdonato nel momento stesso in cui è successo, Alexander”.

Queste sono le parole che voleva sentire, forse, ma che non ha mai avuto il coraggio di cercare. Magnus non ha più la sua magia, questo gli ha scritto Isabelle in una delle sue ultime lettere, l’ha persa con quelle ferite che Alec gli ha provocato, con quel veleno che lui ha scelto. Eppure, è lì, che lo perdona, che lo assolve e cerca di riallacciare quei rapporti che Alec sperava di aver logorato del tutto. E per quanto non voglia ammetterlo, il suo cuore si sente più leggero anche se solo per poco. Quell’assoluzione è necessaria ma non sufficiente per curare il suo vuoto.

Magnus sospira poi, e chiude gli occhi. “Non sono mai stato arrabbiato con te. Ferito sì, non tanto fisicamente quanto sentimentalmente…” aggiunge la voce bassa che è simile a un sussurro. “Andartene via, senza una spiegazione… era il tuo vano tentativo di farti odiare da me, no?”.

Alec deglutisce. Ed è un’ammissione.

Una pessima idea, del resto. Ma lui non pensa mai lucidamente quando ci sono in gioco i sentimenti, quando c’è di mezzo Magnus.

E Magnus lo guarda, di nuovo, gli occhi limpidi. “Ti ho aspettato” dice. “Ho aspettato con calma. Sono bravo ad aspettare, gli immortali hanno un sacco di tempo, imparano ad aspettare… lo sai che ho anche collezionato francobolli per un certo periodo? Sono bravo con queste cose.” farfuglia. “Aspettare non mi piace, ma posso farlo… soprattutto se c’è qualcosa per cui valga la pena aspettare”.

Hanno poco tempo, però resta sospeso nel silenzio che segue quelle parole. Hanno poco tempo perché Alec è a tempo determinato e riesce solo a fare cazzate ultimamente. Hanno poco tempo e lui lo sta sprecando nel vano tentativo di farsi odiare, di farsi dimenticare. Di trovare la forza per non amare Magnus. Alla fine, se sparisce dalla sua vita, Magnus ne soffrirà di meno, no?

Ma Magnus continua a parlare. “Non è possibile farti odiare da me. Né adesso, né mai…”.

Alec abbassa lo sguardo. “Vai via” soffia pianissimo.

E sente i passi di Magnus affondare nella neve. E quando alza lo sguardo, forse una piccola parte di lui sperava di vederlo già tra gli alberi a risalire la valle per tornare a un portale ad Alicante. E invece è lì, a neanche un palmo da lui, la sciarpa allentata ora mostra il suo viso nella sua interezza, è rasato, a differenza di Alec, il suo viso è liscio. “Dimmelo ancora,” gli dice poi, alitandogli sulla faccia. Ha un sorriso leggerissimo e gentile che gli le labbra. “Dimmelo guardandomi negli occhi. Dammi una buona motivazione per andarmene via”.

Alec rimane immobile, davanti a lui. I flash continui di quella notte, nel magazzino sono soppiantati da qualcos’altro adesso: i ricordi di quella loro felicità che non tornano amari nella sua bocca, o forse è il futuro che li attende, roseo, gioioso, colorato quello che si distende davanti ai suoi occhi.

Una piccola parte di lui prova a convincerlo che forse, forse è tutto nella sua testa, magari è caduto a faccia in avanti nella neve e sta morendo assiderato, forse è l’assoluzione che voleva il suo cuore prima di sparire del tutto.

Ma Magnus si muove ancora un po’ verso di lui, e allunga la mano a raccogliergli il viso. Le dita sui capelli corti dietro alla nuca, il pollice che gli disegna piccole volute sulla sua guancia proprio al limitare del lieve velo di barba che ha lasciato crescere senza prestarci alcuna cura.

Non dice niente, lo guarda e basta, come in attesa.

“Il demone. Quel demone…” farfuglia Alec. Il demone è un pericolo, è ancora qui, è ancora qui certe volte lo sento vibrarmi nelle vene. ma questo non riesce a dirglielo.

Magnus arriccia un sopracciglio, gli occhi sono serissimi, sembra stia soppesando la sua sanità mentale mentre gli scruta l’anima. E poi sbuffa una mezza risata sollevata. “Ho provveduto a ucciderlo quando è uscito dal tuo corpo, quel giorno. Ho usato tanta di quella magia che ancora devo recuperare del tutto” aggiunge. “Inoltre, coi nuovi protocolli di sicurezza delle torri antidemone non saresti mai potuto arrivare a Idris se fosse ancora qui”.

Alec tira un sospiro. No, non può capire. “No. Catarina ha detto…”.

“Diamine” brontola. “Alla fine devo davvero cinquanta dollari a Jace!”.

E lui guarda Magnus confuso.

“Jace ha detto che sicuramente hai frainteso, ci ha scommesso addirittura. Avrai ascoltato metà della conversazione e hai tirato le somme…” sussurra. “Sia in merito alla mia magia, sia in merito al demone… Catarina voleva controllarti perché io ti ho tirato un’onda d’urto addosso e ti ho fatto sbattere forte la testa contro la parete per far uscire il demone”.

“La tua magia però…” farfuglia.

“Davvero stiamo parlando di un demone morto, peraltro, e della mia magia che sta tornando? Sei andato via per questo?” borbotta le sopracciglia aggrottate, e ora sembra infastidito, ma le dita, la sua mano ghiacciata non lasciano il suo viso. Poi sorride ancora chinando la testa di lato. “Sei venuto a fare il tagliaboschi a Idris perché non origli bene? Seriamente Alec…” sbuffa, e ora sembra divertito “Voialtri avete le rune dell’udito”.

Alec è senza parole. Forse il freddo gli ha gelato quei tre neuroni che non si è fritto a forza di attivare le rune del vigore. E vorrebbe dire qualcosa ma, ma forse è solo sollevato.

“Abbiamo del tempo per guarire,” ricomincia a dire Magnus. “Io almeno ho bisogno di un po’ di riposo… e anche tu non hai una bella cera… ma abbiamo tempo a sufficienza per ritrovarci del tutto, anche se non ci siamo mai persi davvero”, farfuglia la sua è mano ghiacciata, ma c’è quel baluginio delicatissimo della sua magia che viene sprigionato dai suoi polpastrelli ed è come una carezza dolcissima.

La sua magia è lì. Magnus è lì. E lo rivuole indietro. Come se non fosse successo niente.

Alec non riesce a non allungare la mano a raccogliere la sua e portarsela alla bocca per baciarla. “Io mi sono perso” farfuglia.

E Magnus si guarda intorno, con una finta aria smarrita. “Davvero? Sai non me n’ero accorto…” dice facendogli l’occhiolino “Fortunatamente sono bravo a orientarmi io…”.

Alec tira un sospiro che esce soffocato, soffocato da quel groppo in gola, dai suoni dell’inverno, dalla neve che cade. Ha gli occhi che gli bruciano. Ma poi sente le spalle, le sue spalle sempre tese da quella notte, finalmente rilassarsi. “Ho davvero fatto una cazzata, eh?”.

“Per quanto tu sia angelico, Alexander,” risponde scuotendo la testa e riducendo il poco spazio che li divide con mezzo passo. “Sei anche umano. Può succedere di fare cazzate. È normale avere paura. Sei venuto qui per espiare una colpa che non è neanche tua…” aggiunge.

“Magnus…” comincia a dire.

E lui sospira e scrolla le spalle. “Lo so, anche io ne ho fatte di cazzate… errori di valutazione… tipo a un certo momento mi aspettavo di vederti con la camicia di flanella a quadrettoni a tagliare la legna…” continua a dire, con quest’aria divertita, mentre lascia scendere una mano a stringere la presa sul suo fianco mentre l’altra si ferma all’altezza del cuore. “Ecco, questo mi avrebbe fatto un attimo rivalutare il nostro rapporto. Di certo avrei rivalutato il tuo guardaroba”.

E ad Alec sfugge una risata, una risata. Diamine da quant’è che non rideva.

E Magnus ride di rimando. “A ripensarci saresti un sacco sexy con la camicia di flanella, ora che hai questa barbetta incolta” aggiunge facendogli l’occhiolino. “Ma se rimango un minuto di più qui fuori, certe mie appendici andranno in cancrena dal freddo e non ci sarà più una certa parte di me che ti piace tanto”.

Alec succhia un respiro e si strozza. “Immagino dovrò trovare un modo per riscaldarti, allora” dice mentre soffoca un’altra risata e si avvicina di più a lui, e col braccio stringe la presa su di lui.

“Oh, signor Lightwood che sfacciato!” bofonchia Magnus, finto sorpreso.

“Ti chiedo-” comincia a dire poi, cercando di formulare le migliori scuse che possano venirgli in mente. Anche se… scusami ti ho quasi ammazzato potrebbe non essere la scelta giusta.

Ma Magnus è più rapido di lui.

È un momento. È un battito di ciglia, un vento improvviso quel bacio. E Alec, che non è mai riuscito a rifiutare niente a Magnus, non lo spinge via, e d’altronde è un dolce piacere che non può negarsi. E mentirebbe se non ammettesse che quel bacio era ciò che anelava dal momento che l’ha visto arrivare. Il suo cuore è finalmente al posto giusto, anche se tutto malconcio. Non si permette di pensare a niente, non cerca di capire i motivi di quel bacio, anche perché ormai ha capito come ragiona Magnus, che prima ancora di sentire le sue scuse l’ha già perdonato, che prima ancora di farlo parlare gli dà la sua risposta e la suggella con un bacio. E si sente finalmente bene, finalmente a posto.

Quando si staccano, tiene gli occhi chiusi ancora per un momento. E ne vorrebbe ancora. E la testa gli gira ancora, e forse è solo stanco o forse è qualcos’altro. Certamente è qualcos’altro.

Poi, recuperato quel poco di compostezza che gli serve, si muove per fargli strada dentro la piccola casa. È confortevole, un po’ rustica.

Mentre osserva Magnus guardarsi intorno, e forse un po’ giudicare qualcuna delle sue più recenti scelte di vita, il cuore di Alec continua a tamburellargli insistentemente nelle orecchie, ed è una delle sensazioni più piacevoli che gli possano venire in mente. Ma il nodo alla gola è ancora lì. “Davvero mi perdoni?” la domanda gli sfugge dalle labbra e si aspetta una gomitata, un buffetto, qualcosa.

Ma Magnus sospira e gli lascia la mano per avvicinarsi al caminetto. “A patto che mi cucinerai la colazione per tutto il resto della mia vita…”.

“Magnus…” fa per intervenire, per interromperlo.

“Abbiamo un discorso in sospeso io e te… che concerne le mie colazioni future. Per tutta l’eternità” dice, pianissimo e gli lancia un sorrisetto a metà tra l’adorabile e il divertito, e poi si gira sospira a lungo e poi soffia nelle mani prima di strusciarle per riscaldarle davanti al fuoco. “Diamine che freddo. Certo l’Angelo poteva apparire a Jonathan Shadowhunter ai tropici… ne avremmo giovato tutti”.

E la cosa gli arriva come uno schiaffo in faccia. L’immortalità è ora qualcosa di possibile anche per lui? No, no, si sta sicuramente assiderando in giro per la foresta, e questo è tutto un sogno a occhi aperti prima di morire. “Che hai detto?”.

“Dovreste trasferirvi ai tropici” risponde scrollando le spalle, e forse è più un brivido che altro. “Se entri nel Consiglio dovresti suggerirlo. È una buona idea, sono certo che io e alcuni Stregoni fidati potremmo spostare Alicante in giro senza problemi… per il lago forse è più difficile, ma ci si può lavorare” continua a dire.

“Magnus” lo chiama.

E Magnus sorride e lo guarda. Ed è così limpido il suo sorriso che illumina tutta la stanza, forse quel sorriso farebbe sciogliere la neve, farebbe anche arrivare la primavera. “Vuoi stare con me per sempre?”.

Alec rimane immobile. Fermo, perfettamente fermo lì dov’è a una manciata di passi da Magnus. Impossibile. Impossibile uno non può essere così fortunato nella vita. È impossibile. Quel continuo brusio nella sua testa annichilisce improvvisamente, il fantasma della sua colpa è ancora lì nel suo campo visivo, ma sembra diventare sempre più debole, sta sparendo.

E forse è perché si aspettava qualcosa di più drammatico, di più colorato, di più rumoroso, invece quelle parole escono così semplicemente dalle sue labbra, sembrano quasi il verso di una canzone, una melodia inimmaginabile.

“Ci sono molte cose di cui dobbiamo parlare,” aggiunge poi. “ma se vuoi fare questo passo c’è un modo… puoi stare con me per sempre e prepararmi la mia colazione ogni mattina, per il resto della mia vita, della nostra vita insieme.” sorride e poi si rivolge di nuovo con la faccia al caminetto.

Alec non riesce a rispondergli, c’è da dire che è stupito anche solo del fatto che è ancora in grado di stare in piedi.

Il fuoco è debole, ma fa il suo lavoro. Tanto che dopo appena un minuto si sfila del tutto la sciarpa e il cappotto e si siede a terra.

Alec ancora non gli ha risposto. E sebbene si dica che chi tace acconsente, probabilmente una risposta a parole Magnus la merita, soprattutto dopo tutte quelle settimane di silenzio. “Per sempre è un sacco di tempo” risponde Alec avvicinandosi piano piano, coi passi felpati. “Hai davvero trovato un modo?”.

“Beh sì, dobbiamo parlarne più approfonditamente ed è qualcosa di estremamente complicato, ma…” è rivolto ancora al camino, ma sente che sorride dal suo tono. “Magari in un centinaio di anni di pratica riuscirai ad azzeccare il tuo stufato…”.

“Oh, ma sei una persona orribile, Bane” farfuglia fintamente offeso e gli abbraccia i fianchi, struscia il naso nell’incavo del suo collo e inspira profondamente. E sembra che il suo corpo sia stato modellato per tenersi Magnus così addosso, e il suo profumo gli scalda il cuore.

“Finalmente l’hai capito!” replica con lo stesso tono, e copre le mani di Alec con le sue. “Fammi vedere le tue doti da montanaro e ravviva questo fuoco, Shadowhunter” aggiunge.

Alec gli lascia i fianchi sbuffando appena, lo guarda per niente impressionato e si inchina a prendere un paio di ciocchi di legno dal piccolo baule accanto al camino. Con lo stilo disegna due rune del calore sopra la corteccia e li sistema poi sotto l’altra legna che si sta consumando tra le fiamme.

“Non vale così, eh” gli dice Magnus alle sue spalle, è tutto intento a sciogliere gli intricati lacci delle sue scarpe, per riscaldarsi per bene anche i piedi.

“Oh, beh… non siamo proprio angeli del tutto. Soprattutto non siamo scout. Certe volte è consentito barare” replica mentre recupera una grossa coperta non particolarmente morbida ma sufficientemente calda. “Vieni, fatti riscaldare”.

“Ammetto che mi ero fatto una idea diversa… su te che mi riscaldi…” sussurra e gli fa cenno di sedersi vicino a lui, a terra.

Alec rimane ancora un po’ fermo a guardarlo. Non sa cosa stia mostrando la sua faccia, se una certa soddisfazione o una piccola confusione, ma di certo non può farselo ripetere due volte, si siede vicino a Magnus e gli circonda le spalle con un lato della coperta.

“Dovremmo lavorare sulla nostra comunicazione” dice Magnus, poi. “E sul tuo stufato. Soprattutto sullo stufato se non voglio trovarmi in infermeria per le ragioni sbagliate…”, aggiunge e lo guarda con questo sogghigno a labbra strette, le sopracciglia arricciate.

Alec deglutisce rumorosamente. “Io non volevo abbandonarti, Mags…”.

“Lo so. Volevi solo farti odiare.” risponde sbuffando e avvicinandosi per poggiare la testa sulla sua spalla, gli passa un braccio dietro la schiena, per stringerlo in un abbraccio leggero. “All’inizio mi sono arrabbiato con Jace e Isabelle. Poi un po’ con te…” aggiunge. “Ma poi ho capito che era tutto un grande fraintendimento… così intelligente, eppure…”.

“Così idiota” sbuffa. “La tua magia?”.

“Sta tornando. Sono stato emotivamente abbattuto per un po’… l’effetto di quel veleno è passato nel giro di una settimana…” risponde. “Ma la magia è collegata ai miei sentimenti quindi…”.

Un sospiro sollevato gli sfugge dalle labbra socchiuse. E cerca di ignorare il capogiro di dolore di aver rallentato la sua ripresa con questo suo esilio volontario. “Come hai fatto a trovarmi?”.

Magnus sorride. “Ho dovuto chiedere un sacco di favori per venire qui. Prima ti ho fatto tracciare da Jace, ma non solo sei vicino all’acqua ma hai attivato tutte le rune possibili, sia sulla casa che su di te… quindi era chiaro fossi a Idris, dove è più difficile tracciarti anche tramite il tuo parabatai. Così ho contattato tua madre che mi ha dato le coordinate di questo posto… poi ho domandato a Isabelle di scrivere al Console per avere l’autorizzazione ad apparire qui… quindi ho chiesto a Clary di aprirmi un portale che però mi ha reindirizzato ad Alicante… così me la sono fatta a piedi, a metà strada ha cominciato a nevicare…” sospira e poi si guarda intorno. “Mi hanno detto di venirti a prendere… ma tua sorella non ce la fa più ad aspettarti e saranno qui domani… potremmo prenderci un paio di giorni di ferie e vedere quanto siamo solo qui intorno se riesco a far partire gli allarmi delle torri antidemone facendoti gridare di piacere”.

Alec sbuffa una risata strozzata e poi sta in silenzio, ma non perché voglia stare zitto, ma perché è proprio senza parole. E vorrebbe trovarle, fare delle domande, ma si limita a guardarlo.

“Non sono arrabbiati con te. Ti conoscono, ti vogliono bene. Per questo vogliono venire qui a vederti…” aggiunge, leggendo esattamente cosa gli voleva chiedere con gli occhi. “Hai avuto un momento di debolezza. Come hai detto tu, ti sei perso. Per questo sono venuto qua, e poi… questo posto può diventare qualcosa di buono, per voi… non deve essere solo legato alla memoria di tuo zio,”.

Apre la bocca, ma si limita a sospirare prima di dire semplicemente “Mi sono perso”.

“È una cosa buona che tu sia la mia stella polare” risponde. “Ti troverei ovunque, con o senza magia”.

Sente un leggerissimo sorriso spingerglisi sulle labbra. “Ah sì?”.

Magnus sbuffa, il suo respiro tiepido sul collo. “Dovrai riportare tutta la tua roba a casa. E per favore riprendi il tuo arco. È coperto di sigilli protettivi, è uno spreco lasciarlo ad ammuffire nell’armeria dell’Istituto”.

Alec tira un sospiro lungo, a pieni polmoni “Mi dispiace”.

“Te l’ho detto, devi imparare a comunicare, Alexander. Io ci sono sempre qui, per ascoltarti…” ribadisce Magnus, sbuffando ancora una volta più fiaccamente di prima e si fa ancora più vicino a lui se possibile. “E ora prestami le tue ginocchia che voglio dormire un po’. Hai reso il mio ciclo circadiano terribilmente assoggettato alla tua presenza”.

“Io ho lo stesso problema” mormora Alec. “Non riesco a dormire”.

“Sai, non si notava. Avrai perso come minimo cinque chili, e sei pallido come uno straccio…” replica Magnus sbuffando contro di lui. “Sempre bellissimo, non fraintendermi, ma davvero deperito…”.

“Sopra. C’è un letto.” dice Alec. “Non è un è un gran materasso, ma fa il suo dovere…” farfuglia. “Andiamo a ricaricare le batterie”.

“Ottimo” annuisce spostandosi appena e lasciando alzare Alec per primo. “Ma dovrò rubarti una delle tue camicie di flanella, non ho portato niente. E non posso far apparire niente… ”.

“Magnus. Non. Ho. Camicie. Di. Flanella.” borbotta lui porgendogli la mano.

Magnus si imbroncia un pochino e scuote la testa, mentre si tira su. “Questi montanari moderni”.

“Vivo in mezzo alle montagne, non sono un montanaro” replica.

“Tecnicamente è proprio quella la definizione di montanaro…” borbotta Magnus.

Alec sbuffa e lo precede sulla scaletta, tenendogli ancora la mano. Forse, stanotte riuscirà a dormire senza ricordare quel magazzino, quel sangue.

Si siede sul materasso e si tira addosso Magnus, di nuovo. Il bacio è più profondo, stavolta, mentre stringe la presa sui suoi fianchi.

Magnus ridacchia appena si stacca da lui, le dita sulle labbra di Alec e gli occhi trasognanti che lo guardano. “Ti ho ritrovato” dice poi pianissimo.

“Grazie” e quelle parole escono fuori come un sospiro. “Grazie di tutto”.

Magnus sorride, questo sorriso chiaramente affascinato, perso. “Non dire sciocchezze,” risponde. “Ne va della mia sanità mentale… ho bisogno di te nella mia vita” aggiunge. “Dormiamo un po’, che dici?” farfuglia. “Poi ti aiuto a preparare la cena, così evitiamo di dare fuoco a tutta la foresta…”.

Alec sbuffa una risata. “Non ho dato fuoco a niente fino ad ora”.

Per ora” risponde Magnus, come a correggerlo.

Era questo che voleva, era questo di cui il suo cuore aveva bisogno.

Magnus si stacca da lui. La piccola finestra che si staglia sul soffitto, col vetro tutto ghiacciato e coperto nella metà bassa di neve fa entrare la luce dorata del tramonto, che sta scolorando a ovest, oltre le montagne. La pelle di Magnus, mentre si spoglia molto lentamente sembra sfavillare d’oro.

Alec non riesce a spostare lo sguardo, non riesce a non tenere gli occhi su di lui. Ci sono ancora i segni sul suo petto di quel furioso incontro con la morte, e un po’ gli viene il voltastomaco.

Magnus gli taglia un sorriso chinando la testa di lato. “C’è solo un cuscino, e il materasso è un po’ piccolo. Se volevi avermi addosso così tanto bastava dirlo” farfuglia “Non che mi stia lamentando, sia ben chiaro”.

Alec tira un lungo sospiro.

“Il segno sparirà, Alexander. Appena la mia magia tornerà a piena potenza” sorride e sposta la coperta e il lenzuolo spesso per infilarsi a letto. “Dai, vieni a riscaldarmi, coi tuoi piedoni roventi, Shadowhunter”.

Alec si tira su, si sbottona la camicia e tira via la maglietta termica, si slaccia i pantaloni e si avvicina in punta di piedi al letto.

“Dici che questo soppalco ci regge a tutti e due?” domanda Magnus mentre gli fa spazio sul cuscino. “Dico anche facendo certe cose un po’ movimentate…”.

Alec ride, e si avvicina di più a lui, prendendosi quasi tutto lo spazio disponibile sul cuscino e schiacciandosi Magnus contro il petto. “Ci toccherà metterlo alla prova, prima o poi” dice e cerca di frenare le sue dita che invece arrivano su quei segni, sul suo petto.

“Mi danno un’aria da duro, ma… tranquillo, passeranno.” ribadisce Magnus, il tono tranquillo, mentre con una mano comincia a lasciar correre le dita tra i suoi capelli. “Pensiamo a dormire per ora”.

Qualcosa tamburella nel cuore di Alec e lo fa muovere un tantino in più vicino a Magnus. “Ti amo” gli dice, e solo quando quelle parole gli escono dalla bocca, sente quanto è rotta la sua voce.

Magnus sogghigna. E si muove a baciarlo, con tanta di quella disperazione che tutto il suo corpo si curva contro Alec. Le mani sulle sue spalle a disegnargli cerchi gentili sulle cicatrici che sono le rune.

Alec si stacca dal bacio con un sospiro spezzato, arcuando il suo corpo per far spazio a lui.

Magnus lo bacia ancora, dolcemente. Un piccolo bacio e si allontana abbastanza solo per sussurrare contro le labbra di Alec “Ti amo”, e poi getta le braccia intorno a lui, stringendolo forte, riducendo quella già insignificante distanza tra loro.

Alec si allontana di nuovo solo per guardarlo in faccia.

“Sai…” gli dice Magnus, la voce roca e gutturale che sembra un bisbiglio. “Mi sa che ho bisogno di più calore”.

E forse dovrebbero davvero provare quel soppalco, ora.

 

 

 

 

Forse è stato Alec il primo ad addormentarsi.

Certamente è stato il primo a svegliarsi, ora che una luce fioca, come quella del mattino si affaccia alla finestra sopra il letto. La luce che filtra attraverso la trama arricciata del ghiaccio che si è formato nel corso della notte, disegna sulla coperta e sulle loro pelli un ghirigoro incomprensibile eppure affascinante.

Ha dormito tutta la notte, e anche se è ben lontano da essere del tutto in forma completamente riposato, la voce interiore che l’ammoniva continuamente sembra ormai un ricordo lontano. Ci metterà ancora molto per superare tutta questa faccenda, ma c’è qualcosa che l’aiuterà.

Guarda Magnus, che ronfa ancora, dei piccoli sbuffi un po’ rumorosi gli sfuggono dalle labbra, sul petto i segni stanno sbiadendo rapidamente.

È mattina. E la magia è ritornata.

Forse vuole svegliarlo, forse vuole dargli la buona notizia di persona, forse vuole parlare ancora e ancora con lui. Dell’infinità di tempo, di possibilità che ora hanno davanti. Forse vuole spiegargli le ragioni di quel suo esilio. E forse, sì, devono parlare, lavorare di più sulla loro comunicazione.

E certamente deve dirgli che Magnus è la sua di casa, di stella polare. E che non succederà mai più, mai più. Che lui non andrà da nessuna parte, mai più.

Si limita però a soffiargli un bacio tra i capelli e a riprendere posto, sotto le coperte, stringendo di più la presa su di lui. Magnus sbuffa e mugugna qualcosa mentre si accomoda meglio, contro di lui. “Ricordati che i tuoi fratelli vengono qui a trovarti oggi… non possiamo farci vedere impegnati in certe faccende”.

E Alec vorrebbe protestare, ma ride.

Il freddo che lo stava consumando coi suoi suoni cupi e vuoti è sparito, annichilito in quell’abbraccio.















Grazie di aver letto, ogni feedback è ben accetto!
Come detto, questa è la traduzione di un mio lavoro che trovate qui.
Spero vivamente che vi sia piaciuta!

  
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